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Ott 10, 2018 - gente che scrive, teatro    Commenti disabilitati su Lacca Carminio e Blu di Prussia

Lacca Carminio e Blu di Prussia

SkeltIn un incantevole saggio intitolato “Penny plain, twopence coloured“, R.L. Stevenson racconta della sua passione infantile per i teatri giocattolo. Erano teatrini di carta colorata e legno, talvolta provvisti di un sistema di illuminazione a candeline.

Il primo editore britannico* di questo genere di giocattoli, quello a cui Stevenson fa riferimento, fu Skelt, e quello che vedete quassù a sinistra è il contenuto di una di quelle buste “per teatrini” che i cartolai vendevano: scene, personaggi e testo per commedie, tragedie, drammi e pantomime, disponibili in due versioni, come da titolo: in bianco e nero al costo di un penny, o già colorate per due pence.

Toy_Theatre.jpg

Questo invece è un teatrino di Pollock

A quanto pare, il piccolo Louis ogni tanto comprava uno di questi plays, e la cosa, che avveniva sempre di sabato, di ritorno da un’escursione al porto per vedere le navi, comportava tutta una liturgia particolare. Intanto la scelta non era per nulla facile: Louis esitava talmente tanto da far spazientire i cartolai, perennemente incerto tra titoli come “Il Pirata”, o “La Foresta di Bondy”, oppure “Il Principe Cieco”.

A decisione avvenuta, si pagava il penny dovuto: la scelta cadeva sempre sulla versione in bianco e nero, perché metà del piacere consisteva nel colorare le figure sui fogli. Si mescolavano lacca carminio e blu di prussia per il viola dei mantelli, si usavano verdi diversi per la foresta…

E poi il gioco era finito.

Stevenson confessa di non avere mai ritagliato una volta le figure, mai messo in scena una singola commedia o dramma. La deliziosa incertezza della scelta, il trionfale ritorno a casa, col premio stretto sotto il braccio e la mente a pregustarne l’apertura e il possesso, la gioia di preparare e stendere i colori erano tutte le soddisfazioni che il piccolo Louis chiedeva ai suoi plays. In realtà, l’intrigo descritto dalle istruzioni lo deludeva sempre, e non vedeva davvero necessità di metterlo in scena.** Piuttosto, s’immaginava nei panni dei protagonisti per qualche giorno, e poi ricominciava a fantasticare dell’acquisto successivo, leggendo i titoli del catalogo di Skelt sul retro della busta.

TreasureIsland3Chissà quanto gli sarebbe piaciuto vedere la sua Isola del Tesoro in versione Toy Theatre, come nel  teatrino (moderno) qui di fianco… Chissà se lo sognava mai, mentre colorava le storie altrui e ci ricamava sopra -senza mai ritargliarle né metterle in scena? I genitori rimproveravano Louis di volubilità, perché si disinteressava troppo presto del giocattolo appena comprato, senza accorgersi come quel modo di procedere prefigurasse già il sognatore e, più ancora e peggio, l’uomo che, per tutta la vita, avrebbe cercato di costruirsi una realtà di suo gusto, scontrandosi sempre con i crudi e poco poetici fatti.

Fin da bambino, Stevenson non era fatto per la realtà: si era già accorto di preferire la vigilia, l’attesa e la preparazione all’atto. Aspettare, ricordare, immaginare, e poi aspettare qualcos’altro, senza mai soffermarsi sull’attimo presente. E come altro avrebbe potuto vivere, quest’uomo che era un narratore e nient’altro?

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* Non ho il coraggio di scrivere “inglese”, per una volta. Credo che noi Continentali ci dimentichiamo un po’ di quanto la Scozia sia un altro posto rispetto all’Inghilterra (e viceversa) fino a quando non rileggiamo qualche autore scozzese…

** Anzi, secondo lui, una rappresentazione sarebbe stata una noia infinita per qualsiasi bambino… Non mi capita spesso di dissentire da Stevenson – ma in questo caso devo proprio.

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La Sindrome Del Nome Ricorrente

NamesJAAncora nomi. La Sindrome Del Nome Ricorrente in realtà non è una malattia specifica – è un sintomo che capita agli scrittori per le ragioni più diverse.

Pare che Jane Austen spendesse un sacco di tempo nello scegliere i nomi dei suoi personaggi maschili, cambiandoli più volte mentre scriveva – salvo poi riutilizzare spesso gli stessi: Charles, Henry, Frederick, John, William, James e George ritornano in quasi tutti i romanzi. E non è che la upper-middle class e landed gentry inglesi dell’epoca fosse incline a usare nomi eccentrici, ma bisogna supporre che quella manciata di nomi alla Zia Jane piacessero davvero. Incidentalmente erano tutti nomi appartenenti ai suoi numerosi fratelli… E non contenta di questo, nell’incompiuto The Watsons si era scelta una seconda eroina di nome Emma.

Anche Stevenson doveva avere una fantasia limitata in fatto di nomi: la popolazione di Treasure Island contiente ben quattro John (Silver, Trelawney e due marinai) e due Richard. Per cui interrogarsi sulla presenza di due Christina nell’incompiuto Weir of Hermiston diventa quasi buffo. E i due James in due libri diversi (Jim Hawkins e il Master of Ballantrae) passano quasi sotto l’uscio, no?

NamesAlexiosNaturalmente tutto ciò avveniva prima che i manuali di scrittura prosperassero consigliando di evitare come la peste nomi troppo simili tra loro. Questa è una faccenda su cui tendo ad essere of two minds: da un lato voglio dar credito ai miei simili di saper distinguere fra due personaggi nonostante un’iniziale in comune – dall’altro… be’, non si sa mai, vero? E in linea generale, better be safe than sorry, e nel mio eterno lavoro in corso sulla caduta di Costantinopoli sto ancora cercando un nome per un ufficiale bizantino che non può più chiamarsi Alexios, essendo il coprotagonista veneziano nomato Alvise.

Tuttavia, quando si scrivono romanzi storici, capita di non poterci fare molto: pensate a Vingt Ans Après, in cui compaiono il Principe di Condé, suo fratello il Principe di Conti e poi il Coadiutore Gondi… Ammetto che un nonnulla di confusione può sorgere, ma non è come se Dumas avesse avuto scelta.

Un caso peggiore se l’è trovato davanti Peter Wheelan, con il suo dramma storico The School of Night. Trovandosi NamesWhelannella necessità documentata di avere due Thomas in scena, ha scelto la soluzione spudorata: ne ha aggiunto un terzo fittizio – in realtà Shakespeare sotto falso nome – ha affidato a Marlowe un commento infastidito in proposito (What, is all the world named Tom, these days?) e una sbrigativa suddivisione in Tom, Tam e Thomas. Non sono certa di trovare l’insieme convincentissimo, ma ammetto che era interamente necessario, visto che a teatro non si può nemmeno tornare indietro di qualche pagina per ricapitolare chi è chi.

Poi ci sono casi in cui si può solo immaginare un’antipatia da parte dell’autore, come i Simon di Josephine Tey. Di Josephine Tey/Gordon Daviot ho letto, tra romanzi e lavori teatrali, una decina di titoli, e mi sono imbattuta in tre Simon. Il Simon del semigiallo (con agnizioni e controagnizioni) Brat Farrar, rampollo della landed gentry, è un affascinante manipolatore, parimenti privo di carattere, backbone e senso morale. Il Simon del dramma storico riccardiano Dickon è un paggio avido e voltagabbana, con un gusto per i risvolti più crudeli delle politiche di corte. E il Simon dell’atto unico Barnharrow è un essere velleitario, ansioso e petulante – che si lascia trascinare dal fanatismo altrui, con conseguenze fatali. Personaggi abbastanza diversi, nel complesso, accomunati dal senso morale di una traversina ferroviaria e dal fatto di essere prole degenere di ottime famiglie che non hanno fatto nulla per meritarli. Difficile non pensare a un’incoercibile avversione per il nome. Non ho mai letto una biografia della Tey abbastanza dettagliata da sapere se ci fosse nella sua vita un Simon a giustificare la faccenda, ma sarei curiosa.

Così come sarei curiosa a proposito di Agatha Christie, i cui (non numerosissimi) Michael tendono a essere vittime o assassini. Anche gli aviatori della zia Agatha tendono a morire presto, e quello, si sa, è in tenero omaggio al primo e fedifrago marito Archie Christie. E quindi una certa tendenza alla vendetta per iscritto c’è: chi sarà mai stato il Michael in questione?

E comunque va a sapere. Battezzare un personaggio è una faccenda complicata e laboriosa, e a volte c’è gente che si rifiuta di avere una voce o di essere scritta come si deve finché non si ritrova con il nome giusto. Suono, associazioni mentali, plausibilità storica, geografica e sociale, simpatie e antipatie, precedenti letterari – ci sono treni merci di motivi per scegliere o non scegliere un nome. E magari può capitare che, dopo averne trovato uno che va proprio bene, sembri uno spreco usarlo una volta soltanto?

Nov 8, 2017 - gente che scrive, grillopensante, pessima gente, Vitarelle e Rotelle    Commenti disabilitati su Perfidi, Cattivi, Malvagi E Delinquenti

Perfidi, Cattivi, Malvagi E Delinquenti

Questo sarà un post un tantino sconclusionato. Abbiate pazienza e fate conto che abbia dormito poco e che stia rimuginando per iscritto.Villains

Il fatto è che abbastanza spesso, parlando di libri e personaggi, salta fuori il discorso dei malvagi, questa essenziale popolazione letteraria, questa collezione di gente di assoluta indispensabilità narrativa e, spesso e volentieri, di notevole fascino.

Perché in realtà, se per avere una storia abbiamo bisogno di gente che vuole qualcosa e non riesce ad averla, che ne sarebbe delle storie, a chi interesserebbe degli eroi, se non ci fossero gli antagonisti a rendere tutto complicato e avventuroso?

E non so se sia una deformazione molto allarmante, ma non so fare a meno di pensare che sarebbe possibile raccontare a lungo di un Innominato non convertito – mentre Renzo&Lucia, senza l’Innominato &. C. a metter loro i bastoni tra le ruote, sarebbero interessanti come il piano di un tavolo di formica.

Per contro, quando è promosso a protagonista, il Villain tende ad occupare la scena con irresistibile prepotenza. Avanti, così al volo, ditemi chi sono i “buoni” in Riccardo III o ne L’Ebreo di Malta o nel Filippo… Nella migliore delle ipotesi dovete pensarci su – e forse non siete nemmeno certi che i “buoni” ci siano affatto.

Bisogna dire che, occupati ad essere magnanimi, candidi come ermellini e di gran cuore, per secoli i Buoni si sono trovati preclusi tutti quegli interessanti sentieri come ambizione, vendetta*, omicidio, arroganza, propensione all’intrigo, sete di potere, avidità o pura e semplice malevolenza – con tutti i tormenti annessi.

QuilpAncora a metà Ottocento, un relativamente inesperto e affannato Dickens se la cavava creando distribuzioni manichee che nemmeno all’opera, e non è che i lettori lo rincorressero nelle strade per riavere i loro soldi. Il nano Quilp è di una malvagità quasi barocca nella sua gratuità, nerezza e magniloquenza, ma ai nostri cinici occhi d’oggidì c’è un che di redeeming quality nel suo accanimento contro l’angelica, mite e moritura Little Nell. E non riusciamo biasimare del tutto Fagin e Sikes perché vogliono disfarsi dell’impenetrabilmente candido Oliver Twist, vero?

Or at least, I can’t. E quando dico queste cose alle conferenze le anziane signore in prima fila cominciano a guardarmi male, ma resta il fatto che Quilp e Fagin, pur non essendo il genere di malvagi con cui si simpatizza, sono personaggi più vividi, più interessanti e di molte spanne più divertenti dei rispettivi piccoli protagonisti. Il gusto con cui Dickens li ha scritti è evidente in ogni parola, a dispetto della semi-burattinesca bidimensionalità di un Quilp.

Nel caso di Fagin magari la faccenda è un po’ più complessa, ma di sicuro Dickens non stava facendo nessuno sforzo per rendere simpatico il personaggio – di certo non più di quanto Shakespeare volesse fare lo stesso con Riccardo III (che pure ha un suo notevole fascino), o Daphne Du Maurier con la terribile Mrs. Danvers. felipeii

Lo sforzo di comprendere il punto di vista del Villain è tutta un’altra faccenda. Mi verrebbe da citare il passaggio di Filippo II dal nigerrimo tiranno filicida e sadico di Alfieri al sovrano tormentato di Schiller, ma si potrebbe legittimamente sostenere che, se a Filippo cresce un’anima, è perché per Schiller (e ancora di più per Verdi all’opera) la vera malvagità va cercato all’indirizzo della Santa Inquisizione.

Comunque Filippo è tecnicamente un antagonista per il quale siamo autorizzati – se non addirittura invitati – a dispiacerci: un Atlante triste che porta sulle spalle il peso della Spagna tutta, un padre e marito con molte ragioni di dolersi, e guardate come va a finire la prima volta che si concede un affetto… Sarà anche un riprovevole e cieco tiranno, ma è un riprovevole e cieco tiranno in buona fede.

E c’è il fatto che narratori e lettori si smaliziano: da un lato si affermano gli eroi imperfetti e gli antieroi, al centro le distinzioni morali si fanno nebulose e dall’altro lato il Malvagio Perché Sì non basta più. Averla a morte con l’eroe e/o voler conquistare il mondo diventano manifestazioni di motivi più a monte e nuovi clichés si cristallizzano attorno all’antagonista. Trauma infantile, tragica vedovanza, guerra nel Vietnam, famiglia sterminata, rivalsa sociale, a volte anche le migliori intenzioni…

BarabasMurrayAbrahamQualche tempo fa, in un articolo sul Telegraph, Philip Hensher lamentava la scomparsa del buon vecchio Villain tradizionale, quello che trovava un gran gusto nell’essere malvagio, quello per il quale nuocere all’eroe era uno scopo sufficiente in sé stesso, quello cui la nobiltà d’animo del protagonista dava travasi di bile e/o crisi di cachinni.

Oh dove, si domandava Hensher, dove sono finiti i Richard, i Barabbas, gli Jago, i Quilp, le Mme de Merteuil? E si rispondeva che la genia è estinta, sepolta sotto valanghe di umana comprensione e political correctness…

Mah, non saprei.

Dopo tutto, il really villain Villain resiste e prospera nella narrativa per ragazzi e in svariati generi. E considerando i torti che subiscono Barabbas e Shylock, considerando la lealtà feroce e mal ripagata di Redgauntlet, o considerando il fratello e la sorella di Mme Defarge, mi sembra difficile vedere nel Malvagio Con Un Buon Motivo qualcosa di diverso dal discendente di una lunga stirpe.

E comunque state leggendo il blog della donna che ha un debole per Richard, per Jago, per Rupert von Hentzau, per il Conte di Luna, per Steerforth, per Silver, per il Satana di Milton – e ha sempre trovato che avessero tutti delle ottime ragioni per quel che facevano. O quanto meno, del tutto plausibili. O, se non sono del tutto plausibili, fa lo stesso. Che diamine, stiamo parlando di letteratura, e i Malvagi, diciamocelo, si dividono in due categorie: gli altri, e quelli con tanto fascino da chiuderci il buco nell’ozono.

E talvolta dirottarci un libro.

E voi? Come vi ritrovate, in fatto di Villains?

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* Be’, quella magari non sempre – ma per secoli i vendicatori non sono andati a finire particolarmente bene, nemmeno quando si supponeva che avessero tutte le ragioni. Amleto, per dire…

Ago 2, 2017 - anglomaniac, gente che scrive, Spigolando nella rete    Commenti disabilitati su Emily

Emily

emily brontë, cime tempestose, gondalDomenica sarebbe stato il centonovantanovesimo compleanno di Emily Brontë.

Nata d’estate – non si direbbe, vero? Ci si aspetterebbero stagioni più cupe per l’autrice di Cime Tempestose… O magari sono solo io, ma allora la colpa è in parte di D’Annunzio che, ne Il Ferro, descrive una delle sue protagoniste come “nata di notte”, per spiegare una certa dose di buio interiore della signora in questione. But never mind.

Centonovantanovesimo compleanno, si diceva, e quindi un po’ di link rilevanti.

Tanto per cambiare, non è che in Italiano si trovi tantissimo – ma è anche vero che tantissimo non c’è…

Qui c’è una versione pdf di Cime Tempestose in Italiano* – e per una volta non si tratta di LiberLiber che, devo annotare, ha un singolo titolo di Charlotte e ignora completamente Anne ed Emily…

Inutile dire che in Inglese va meglio: Wuthering Heights, Poems (di tutte e tre le sorelle – e forse Emily era la migliore poetessa fra le tre), e la biografia di Mary Robinson.

Qui si trovano alcune lettere e diary papers, pagine isolate che le sorelle avevano l’abitudine di scrivere in occasione di compleanni, viaggi et similia. Badate a quella del 30 luglio 1845, con il resoconto del viaggio a York trasformato in un lungo make-believe.

Poi vi segnalo questo sito dedicato a Wuthering Heights, pieno di saggi, immagini, citazioni, link e cose generalmente interessanti – compresa una collezione di certi e possibili ritratti di Emily.

Qui invece ci sono le immagini della brughiera sul sito di Brontë Country, mentre qui trovate indicazioni per il caso in cui voleste replicare di persona qualcuna delle interminabili camminate che Emily Jane era solita fare su e giù per le brughiere, con le sorelle e il fratello, o sola con il fedele cane Keeper.

Qui, invece, a titolo di curiosità, trovate una mappa dei luoghi di Wuthering Heights.

Un sacco di cose – e non solo su Emily, si trovano su BrontëBlog, dal titolo piuttosto esplicativo: romanzi, poesie, racconti, juvenilia, biografie, memorie… di e su tutta la famiglia. Da leccarsi i baffi.

E per finire, questa è la pagina di Wikipedia dedicata Gondal, lo stato immaginario creato da Emily e Anne mentre Charlotte e Branwell inventavano Angria.

Non c’è moltissimo, perché (oltre a non essere particolarmente prolifica) prima di morire giovane Emily bruciò parecchi quaderni di poesie e – forse, forse – il romanzo cui stava lavorando. Però, se volete un ritratto letterario inconsueto di Emily, nonché un’idea del genere di adorazione che Charlotte nutriva per sua sorella, potete leggere Shirley, la cui eroina eponima è intesa come un ritratto di Emily, immaginata in circostanze sociali ed economiche migliori…

Poetessa riluttante, immaginatrice compulsiva, romanziera scandalosa, zitella scorbutica e ostinata, wild child of genius, sorella adorata, camminatrice indefessa, sognatrice incapace di staccarsi dai suoi personaggi – singolare personaggio a sua volta, Emily Jane, nevvero?

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* Sul fatto che CT sia qualificato come “letteratura per ragazzi”, per ora, stendiamo un tulle misericorde.

 

Gen 4, 2017 - considerazioni sparse, gente che scrive    Commenti disabilitati su L’Anno di…

L’Anno di…

endsy“E come te la caverai, Clarina, adesso che l’Anno Shakespeariano è finito?”

Ed è vagamente possibile che la domanda in questione mi sia stata rivolta con un nonnulla di sollievo… Dopo due anni Shakespeariani (di cui uno anche Marloviano) in rapida successione, you know…

Well, che devo dire? Se proprio volessi, potrei dire che nel Diciassette cade il 430° anniversario del Tamerlano (probabilmente di entrambi i Tamerlani) di Marlowe. E il 420° delle shakespeariane Allegre Comari di Windsor – nonché del primo ritiro dalle scene di Edward Alleyn…

Insomma, se volessi, potrei andare allegramente avanti per la mia strada. E badate, probabilmente ci andrò – almeno un pochino. Però…

Però non sarà tutto e solo Shakespeare&Marlowe. Si dà il caso che il Diciassette sia il 350° anniversario della nascita di Jonathan Swift – del quale, devo confessare, non sono certa di avere tantissimo da dire, ma magari sarà l’occasione per qualche rilettura.

janeE, più significativamente, si dà il caso che sia anche un anno decisamente austeniano: il bicentenario della morte della Zia Jane, nonché della pubblicazione di Nothanger Abbey e di Persuasion, per cui aspettatevi una certa quantità di Jane Austen.

Che altro? Ancora un paio di bicentenari riguardano il Rob Roy di Scott e il Manfred di Byron – ma non è come se stessi promettendo alcunché in proposito.

Per il resto, continueremo a occuparci di teatro, di libri, di storia e di storie, di scrittura . Ci occuperemo ancora del Palcoscenico di Carta. Ci saranno debutti e piccoli bollettini, ed esperimenti ogni tanto, e cose così – con occasionali digressioni in direzioni non necessariamente prevedibili.

E detto questo, salpiamo, volete? La rotta tracciata non sembrerà particolarmente audace, ma andiamo a vedere se, dopo tutto, non possiamo trovare qualche sorpresa su e giù per queste rotte dall’aria consueta.

Vento in poppa, calma di mare (o forse non proprio), e felice traversata!

Set 30, 2016 - gente che scrive, grilloleggente    Commenti disabilitati su Prismi Narrativi

Prismi Narrativi

dilemmaCi sono storie, periodi o personaggi a cui ci si appassiona al punto che raccontarli una volta sola non basta. Ci sono casi in cui la scelta delle forme narrative è quasi un’amputazione. Adottare un taglio, un punto di vista, un tipo di finale esclude necessariamente una quantità di altre possibilità alternative.

Qualche volta ci sono solide ragioni narrative che rendono scelte ed esclusioni quasi necessarie, altre volte si riescono a salvare punti di vista alternativi complicando la struttura della narrazione – altre volte ancora la scelta deve essere netta per l’economia del racconto, ma le alternative sono tutte ugualmente solide o quanto meno ugualmente attraenti.

Che cosa si fa allora? Nella maggior parte dei casi si rimpiange un pochino e si passa oltre; qualche volta si rielaborano le possibilità scartate in altri contesti e altre storie; e infine, caso più raro, si racconta la stessa storia più di una volta.

Non sto parlando dell’avere individuato una nicchia di successo e riscrivere lo stesso libro ancora e ancora finché il pubblico divora – intere carriere letterarie sono state costruite così, ma quello che intendo è diverso. Ci sono scrittori che non riescono a staccarsi da una storia, e dopo averla scritta una volta, magari a distanza di anni, la riprendono in mano ed esplorano i lati che hanno dovuto scartare in precedenza.Reunion

Un caso celebre e viscerale è la Trilogia del Ritorno di Fred Uhlman, composta di tre volumi che, a distanza di anni l’uno dall’altro, raccontano tre volte la stessa storia – con variazioni.

1971 – L’Amico Ritrovato: Hans Schwarz, Ebreo tedesco e alter ego dell’autore, trova e perde il grande amico della sua giovinezza, in una vicenda di affinità elettive, pregiudizi e storia che marcia senza badare a chi e cosa calpesta. L’epilogo è dolceamaro: a distanza di anni Hans scopre che Konradin, che si era allontanato da lui per simpatie naziste, è stato condannato a morte per avere partecipato a una congiura contro Hitler.

1979 – Niente Resurrezioni, Per Favore: anche Simon Elsas, come Hans (e come Fred) torna in Germania dopo un lungo esilio negli Stati Uniti e ritrova i compagni di classe e persino il suo antico amore, l’aristocratica Charlotte. Ma con nessuno di loro Simon riesce a superare il risentimento generato dai ricordi delle umiliazioni che avevano segnato la sua adolescenza. Simon è un Hans più disincantato e il finale non offre consolazioni di sorta.

1987 – Un’Anima Non Vile: è la volta di Konradin von Hohenfels, l’amico perduto, che, prima di salire al patibolo, scrive una lunga lettera a Hans, ricordando con rimpianto la loro amicizia e con rimorso il fatto di non averla saputa difendere. Prima di morire, Konradin cerca di riconciliarsi con Hans, non per giustificarsi, ma per chiedere di essere perdonato delle sue debolezze di ragazzo. Sembrerebbe di essere tornati alla parabola consolante del primo romanzo, se non fosse che il padre di Konradin contravviene alla richiesta del figlio e non recapita la lettera ad Hans.

Non ho mai letto una biografia vera e propria di Uhlman – nulla di più approfondito delle note biografiche sulla mia edizione Guanda (prestata e mai più rivista *sigh*), per cui ne so giusto abbastanza da essere certa che la vicenda esplorata nella trilogia è autobiografica.

Uhlman2Se dovessi azzardare un’ipotesi, tuttavia, direi che Uhlman ha scritto L’Amico Ritrovato per esorcizzare e risanare. La storia è dolorosa, la ferita aperta, ma la scoperta del fato di Konradin cambia tutto, perché l’amico perduto si è riscattato. Per scrivere questo piccolo romanzo, Uhlman ha dovuto scegliere tra il desiderio di redenzione e compimento e le vecchie amarezze non cicatrizzate – perché non tutto “si aggiusta”, non dopo un dramma devastante come la perdita di tutto un mondo. Niente Resurrezioni raccoglie le domande che non sono destinate a trovare risposta, l’irreparabilità e l’imperdonabilità, e offre un contraltare desolato all’atto di speranza dell’Amico Ritrovato. E Un’Anima Non Vile? Ho l’impressione di vederci due cose: da un lato, il punto di vista di Konradin meritava di essere esposto – dal punto di vista narrativo e in una forma tutta particolare di perdono. Dall’altro, la trilogia aveva bisogno di una chiusura, e non è così amara come potrebbe sembrare. Preso da solo, il terzo romanzo ha tutta l’aria di una sconfitta: il padre di Konradin, che aveva sempre disapprovato l’amicizia del figlio con un Ebreo, riesce ad esercitare l’interferenza definitiva trattenendo la lettera e negando a Konradin la sua redenzione. Ma noi sappiamo che la lettera non è necessaria: Hans saprà per altre vie come è morto il suo amico. Forse non arriverà a capire tutto, ma potrà perdonare, ben al di là del livore del vecchio von Hohenfels. E alla fine, ci dice Uhlman, è questo che conta.

On the other hand, nella maggior parte delle edizioni, la Trilogia viene presentata in un altro ordine: L’Amico Ritrovato, Un’Anima Non Vile e poi Niente Resurrezioni, ciò che cambia significativamente la luce che ciascun volume getta sugli altri… Mi domando – e cercherò di scoprire – se questo ordine fosse un’idea di Uhlman o no.

Morale? Non abbiamo a che fare con tre romanzi brevi – non davvero: Uhlman continua ad esplorare la stessa storia sotto angolazioni diverse, e attraverso scelte narrative complementari, in una serie di variazioni che si combinano in un’unica chiave di lettura. La Trilogia Del Ritorno non è l’ossessione di un sopravvissuto, né un’apertura di cuore spontanea e ripetuta: è una raffinata e intensa dimostrazione del fatto che, parlando di scrittura, la forma è sostanza.

Set 23, 2016 - gente che scrive, pennivendolerie    Commenti disabilitati su Le Grand Alexandre E Il Senso Degli Affari

Le Grand Alexandre E Il Senso Degli Affari

Mail:

Certo che Dumas, a cinquanta parole per riga e con i “negri” in ufficio, suona più un affarista che uno scrittore. Mi sa che forse non rileggerò più i moschettieri con lo stesso spirito.

Dumas4A dire il vero, non saprei. Da un lato, il senso degli affari dell’autore non mi sembra un buon criterio nella scelta delle letture, e poi, a voler vedere, forse Dumas apparteneva a quel genere di gente che questo “senso”, una specie di Conoscenza in Astratto, per dirla à la Conrad, a volte dà l’impressione di possederlo in occhiuta e creativa abbondanza – e poi all’atto pratico bisogna dire che non sia affatto così.

Per dire, ne I Quattro Moschettieri, di Nizza & Morbelli si scopre che Dumas aveva con Le Constitutionnel un contratto per 100.000 righe l’anno, a 1,50 Franchi la riga.

N&M proseguono citando il seguente meraviglioso dialogo fra Athos e il servo Grimaud:

– Ebbene?
– Nulla.
– Nulla?
– Nulla.
– Come?
– Nulla, vi dico.
– È impossibile.
– Ne sono certo.
– Ne sei proprio sicuro?
– Eh, diavolo!
– Ah, è troppo.
– È così.

Dodici righe x 1,50 fa un totale di 18 Franchi. Diviso per 24 parole, fa esattamente 0,75 Franchi a parola. Mica male. E pur un pochino estremo, questo è tutt’altro che un esempio isolato del metodo Dumas.
Per farci un idea delle proporzioni, sempre ne I Quattro Moschettieri, si riporta questo lancio pubblicitario apparso su Le Mousquetaire (periodico fondato e diretto da Dumas), per il romanzo (di Dumas) Les Bleus et les Blancs:chapeaux

Per l’abbonamento trimestrale al prezzo di 15 franchi offro alle mie gentili lettrici un cappellino da ballo, da teatro o da serata. Non si tratta già di cappellini fatti in serie, di vecchi saldi di magazzino, accciabattati da mani inabili. Sono graziosissime acconciature che ogni parigina può provare e ordinare dalla modista più in voga, Madame Céline Lambert, 17 Boulevard de la Madeleine. Le abbonate di provincia le scrivano franco di porto, inviandole un campione del loro abito e indicando il loro fiore favorito. Riceveranno senza spesa alcuna un cappellino che permetterà loro di brillare alle feste della sottoprefettura.

15 Franchi = abbonamento trimestrale (compresa spedizione) + cappellino omaggio.

Dal che si constatano un paio di cose. Primo, che l’aspirapolvere in regalo con i punti del latte non è un’invenzione particolarmente nuova; e poi il britannico buon senso nel pagare gli scrittori a parole, anziché a righe…E si considera anche che i contemporanei del Grand Alexandre lo ritenevano un mostro di spirito imprenditoriale ai limiti della sgradevolezza, e si facevano beffe dei suoi metodi (come la pratica di affidare al già citato Maquet ricerche storiche e prime stesure) soprannominandolo Dumas & C.ie – in non proprio benevolo riferimento alla natura, diciamo così, manifatturiera della sua produzione.

OLdDUmasE in effetti Dumas guadagnò moltissimo in vita sua, e sperperò ancora di più in teatri, produzioni faraoniche, amanti capricciose, cantine scavate nella sabbia, padiglioni neogotici in giardino, tentativi di carriera politica, velleità sociali, divorzi costosi, voli pindarici assortiti…

E alla fine morì povero in canna, dichiarandosi padrone di un luigi d’oro – la stessa somma con cui era arrivato a Parigi diciottenne. Un’esagerazione, si capisce, o non sarebbe stato Dumas, ma di sicuro non era poi lo squalo mercantile che i suoi detrattori dipingevano.

Era solo un creatore di mondi, sogni, gente e avventure, cui non pareva abbastanza vedere le sue creature e creazioni confinate in carta e inchiostro. Apparentemente non il tipo di calling che conduce alla prosperità. Se poi questo (ri)faccia di lui uno scrittore e un artista migliore, proprio non so dire – ma francamente ne dubito alquanto.

 

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Set 19, 2016 - gente che scrive, romanzo storico    Commenti disabilitati su Dumas Al Lavoro

Dumas Al Lavoro

alexandre dumas, auguste maquet, romanzo storico, chateau d'ifQuando, a partire dal 1844, Alexandre Dumas si convertì sul serio dal teatro ai romanzi storici, si accorse che la cosa funzionava diversamente.

Prima di tutto, c’era la questione della documentazione: pur avendo ambientato la maggior parte del suo teatro in altri secoli, si accorse che le dimensioni, i tempi e la densità del romanzo consentivano meno scorciatoie. A teatro, i tempi si scorciano in prospettiva a favore dell’unità di azione, il secolo si suggerisce e sottintende, l’incredulità, in generale, si sospende più in alto. Un romanzo si muove a velocità diversa – e lascia molto più tempo per i dettagli della trama e, diciamo così, del décor.

Ma Dumas era già una di quelle persone di cui vien da chiedersi come facciano a far tutto: il teatro (che non abbandonò affatto dopo il ’44), i giornali, un’intensissima vita sociale fatta di salotti, legioni di amici e una quantità e varietà di amanti, le ricorrenti ambizioni politiche, i viaggi, l’occasionale rivoluzioncella… E poi, diciamocelo: anche salexandre dumas, auguste maquet, romanzo storico, chateau d'ife ne avesse avuto il tempo, e pur amando appassionatamente la storia, Dumas non era uomo da seminar diottrie andando a caccia di dettagli, date e minuzie varie. Così si procurò Maquet, un giovane professore di liceo con ambizioni letterarie. Maquet in realtà era arido come la segatura, ma aveva il dono della precisione, della sintesi e dell’attenzione per i particolari. Perfetto, no? Be’, col tempo la cosa si sarebbe rivelata un po’ meno ideale di quanto sembrasse – ma al momento lo era: Maquet faceva le ricerche, i due mettevano insieme una trama, poi Dumas scriveva, e Maquet faceva editing…

Scriveva, per l’appunto – e scriveva davvero un sacco. E se per il teatro e il giornalismo era sempre riuscito a fare quel che doveva in mezzo al caos domestico e sociale, non tardò a rendersi conto che un romanzo era un’impresa più lunga e complicata, che richiedeva concentrazione – e la concentrazione richiedeva solitudine.

alexandre dumas, auguste maquet, romanzo storico, chateau d'ifPer cui sviluppò l’abitudine di ritirarsi in campagna – ma non così isolato da non poter scambiare pacchi di fogli con il fido Maquet – e possibilmente in logge e padiglioni piccoli, pittoreschi e relativamente spartani – quasi a scoraggiare le distrazioni, le visite e gl’inviti. Non a caso, quando si farà costruire il sontuoso castello di Montecristo, ci farà aggiungere il padiglioncino neogotico dal nome di Chateau d’If – due stanzette, piccine ma col soffitto azzurro a stelle d’oro, guglie in abbondanza, una torretta col terrazzino sopra e un laghetto attorno. Ci si arrivava solo via ponticello, in un ottocentesco e stravagante equivalente di quelle tazzone “Go Away, I’m Writing.”

Ad ogni modo, che faceva una volta ritirato nel padiglione di turno? Si alzava presto e si vestiva comodo, e si metteva alla scrivania. Scriveva a penna (d’oca), in inchiostro bruno su fogli azzurri di largo formato, che si faceva produrre appositamente. E scriveva, scriveva, scriveva per tutto il giorno, fino all’ora di cena, fermandosi per un pochino soltanto a mezzogiorno, pagina dopo pagina, cancellando pochissimo. alexandre dumas, auguste maquet, romanzo storico, chateau d'if

A vederli, quei fogli celestini di quarantaquattro centimetri per ventotto, non hanno l’aria di conciliarsi con quello che sappiamo di Dumas. Il rumoroso, esuberante, sentimentale e disordinato Alexandre scriveva come una macchina: le righe si susseguono sciolte e ordinatissime – estremamente facili da leggere, se non fosse per la punteggiatura. Pare che tutta questa cura e chiarezza (probabilmente la migliore eredità dei suoi anni da giovane di studio notarile) fosse a beneficio dei tipografi… Ma non posso fare a meno di domandarmi quanti accidenti tirassero i tipografi alla punteggiatura mancante – soppressa per guadagnare tempo.

Perché, ed ecco che dietro il semi-asceta rispunta il compulsivo, tutto era calcolato per guadagnare tempo. Una pagina ogni quarto d’ora. Ogni pagina 40 righe. Ogni riga 50 lettere. A duemila lettere (oggi diremmo battute) al quarto d’ora, e anche considerando che ogni tanto dovesse pur fermarsi per pensare, otto dieci ore al giorno di quarti d’ora ammontano a una produzione impressionante…

E d’altronde, per i suoi ritmi editoriali non ci voleva nulla di meno.

Poi cenava, si prendeva la sera libera, dormiva come un ghiro e ricominciava al mattino. Un andare forsennato, che ogni tanto pagava con qualche giorno di febbre. Allora dormiva per un paio di giorni, ed era pronto a ricominciare.

Col che non voglio dire che dal 1844 Dumas perdesse la capacità di scrivere in altra maniera. Rimase capace di interrompersi, fare tutt’altro e riprendere dove aveva lasciato, e di scrivere in luoghi affollati e rumorosi. Però questo andava bene per gli articoli e per i drammi, e quasi tutti i suoi romanzi li scrisse asserragliato nella quiete dell’uno o dell’altro padiglione pittoresco.

alexandre dumas, auguste maquet, romanzo storico, chateau d'ifCosicché, Alexandre Dumas Père: romanziere prolificissimo, playwright, giornalista, uomo d’affari con vicende alterne, costruttore di castelli, buongustaio, senatore e accademico mancato, aspirante rivoluzionario, storico dilettante, viaggiatore, collezionista di amanti e, badate bene, sistematizzatore del writer’s retreat.

 

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Set 14, 2016 - bizzarrie letterarie, gente che scrive    Commenti disabilitati su Dylan Thomas

Dylan Thomas

dylan-thumb.jpgDylan Thomas era un poeta e drammaturgo gallese che si potrebbe definire eccentrico senz’alcun timore di esagerare.

Tra le altre cose, era ossessionato dal significato delle sue poesie: ogni singolo verso, diceva, era destinato ad essere compreso. Peccato che il suo stile fosse talmente criptico che mettere davanti a uno studente una poesia di Thomas e stare a vedere mentre il poveretto cercava inutilmente d’interpretarla era uno scherzo corrente tra i docenti universitari britannici e americani. Immagino che molta gente levasse un sopracciglio quando Thomas diceva (e lo ripeteva spesso assai) che all’inferno certi peccatori per contrappasso “leggeranno per tutta l’eternità i canti di Ezra Pound a un gruppo di diavoli furibondi”.

D’altro canto, Thomas era spesso in preda ai fumi dell’alcool, e aveva la cattiva abitudine di promettere a tutti (agenti, editori, redattori di riviste, la BBC…) opere che non aveva scritto e nemmeno aveva intenzione di scrivere. Alcuni erano progetti notevolmente squadrellati, come il “poema di massa” Wales. Ve lo immaginate un poema ottenuto mescolando casualmente i versi delle descrizioni poetiche di vari angoli del Galles prodotti da tutti i giornalisti di una rivista? Dylan Thomas se lo immaginava benissimo, e scrisse ad un amico per coinvolgerlo nella faccenda, sostenendo di avere già l’appoggio del direttore della rivista. La comunicazione doveva essersi inceppata a qualche punto, tuttavia, perché il direttore in questione non aveva mai sentito parlare di Wales in vita sua…Per_gynt_i_dovregubbens_hall

Un altro interessante episodio consiste nella traduzione del Peer Gynt di Ibsen, commissionata al nostro poeta dalla BBC. Non avete anche voi l’impressione che per tradurre Ibsen qualche conoscenza del Norvegese potrebbe essere d’aiuto? Dove e come Thomas l’avesse imparato is anyone’s guess, visto che non era mai stato in Norvegia e i suoi studi di qualsiasi tipo si erano interrotti quando aveva 16 anni. Apparentemente qualcuno si accorse della lacuna, o forse Thomas aveva soltanto il compito di mettere in bella forma la traduzione di qualcun altro, ma fatto sta che il Peer Gynt non andò mai in porto…

Nonostante tutto questo, era un poeta acclamato e un conferenziere di grande fascino e successo su entrambe le sponde dell’Atlantico, nonché un autore radiofonico. Forse la sua opera più nota è Under Milk Wood, un dramma radiofonico con abbastanza personaggi da equipaggiarci un sottomarino, nato sotto forma di poesie, poi riarrangiato e riscritto per la radio inglese e le scene americane. La BBC – che probabilmente aveva imparato la lezione con il Peer Gynt, mise alle costole dell’autore l’energica produttrice Stella Hillier, la Mary Poppins dei casi difficili che, a quanto pare, più di una volta trascinò via da un pub o dall’altro un Thomas allegro anzichenò, per metterlo a lavorare. Nonostante gli sforzi di Stella, la stesura di Under Milk Wood durò diversi anni – ma poco male, apparentemente, visto che Thomas aveva preso l’abitudine di leggerne stralci di qua e di là, alla radio, nelle università, in Inghilterra e in America.

Non pare che fosse attentissimo a quello che faceva dell’unica copia del suo manoscritto. C’è questa lettera del 1953, scritta a un amico dopo una lettura allo University College di Cardiff*, di cui riporto lo stralcio citato da Stuart Kelly:

Ricordi che avevo con me una valigia e una cartella e che, nel corso della serata, ho trasferito parte del contenuto della cartella nella valigia? Be’, a ogni modo, ho lasciato la cartella da qualche parte. Penso che sia al Park Hotel. Ho scritto al direttore – ma potresti, quando e se ci passi davanti, fare un salto dentro e vedere se è lì? È una questione molto urgente; l’unica copia al mondo di quella sorta di dramma, di cui leggo dei frammenti, si trova in quella cartella malconcia e senza cinghia, il cui manico è tenuto assieme da un pezzo di spago. Se la cartella non è lì, credi che potresti scoprire dove diavolo l’ho lasciata?**

under_800Non lasciatevi commuovere dal tono di falsa noncuranza misto a disperazione: perdere un manoscritto una volta è umano, ma la perseveranza che serve per smarrirlo un’altra volta in America e poi una terza a Londra è decisamente diabolica – oppure intenzionale a qualche livello di coscienza. Come il caso volle, Under Milk Wood fu ritrovato tutte e tre le volte e – cosa forse ancora più incredibile – completato. Chissà che cosa avrebbe visto Freud in tanta pervicace distrazione, ma chiaramente UMW non aveva intenzione di andare smarrito.

Dopo tutto questo, Dylan Thomas morì di polmonite a nemmeno quarant’anni. Prima di morire, però, aveva fatto in tempo a partecipare alla prima lettura teatrale americana di Under Wood Milk, in cui sostenne due ruoli. La rappresentazione venne registrata – quasi per caso. È per un colpo di fortuna, o per un’altra di quelle bizzarrie di cui abbonda la storia di questo dramma, se c’è un’incisione che conserva la voce di Thomas, impegnato a leggere il suo ultimo lavoro con leggero accento gallese.

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* Ci ho studiato anch’io, lì. E tutto sommato, dopo avere vissuto un anno intero in Galles, una non si stupisce poi troppo di Dylan Thomas.

** Stuart Kelly, Il Libro dei Libri Perduti, Rizzoli, 2006. Una delizia.

Set 2, 2016 - anglomaniac, gente che scrive, romanzo storico    Commenti disabilitati su Sulla Via di Oxford

Sulla Via di Oxford

HNSOxford16bSignori, vado alla mia prima writer’s conference.

Tra dieci minuti parto per l’aeroporto, con destinazione Oxford per il convegno annuale della mia beneamata Historical Novel Society. Si tratta di tre intensi giorni di conferenze, lezioni, workshop, incontri, una cena di gala con musica d’epoca e sfilata in costume, e la possibilità di sottoporre un proprio lavoro a due agenti letterari – il tutto dedicato al romanzo storico.

Non è favoloso?

Non so se questo genere di cose esista davvero in Italia, su questa scala e così specializzato. Nel mondo anglosassone la writer’s conference è abitudine diffusa, e ce ne sono di generali o specifiche per genere. Ho sempre pensato di trovarmene una cui andare, prima o poi – quando avessi avuto un romanzo pronto. Adesso ci siamo: il romanzo è pronto, e Oxford16 mi aspetta.

Confesso che la faccenda degli agenti letterari mi agita un pochino. Avrò a disposizione sette minuti – sette! – con ciascuno dei due – ma questo lo sapevo già. Quel che è successo è che di recente ho cominciato a leggere articoli e post in proposito, e ho scoperto che più di un agente detesta questo genere di sessioni. Ouch. Se già il pensiero di convincere un estraneo che ho scritto un gran bel libro – in sette minuti e in una lingua che non è la mia – mi agita alquanto, se l’estraneo in questione deve anche essere annoiato/seccato/desideroso solo di veder finire le benedette sessioni… ecco, al sol pensiero voglio iperventilare.

Forse, se avessi saputo tutto ciò l’anno scorso in ottobre, quando ho prenotato il mio posto alla Conference, avrei lasciato perdere le pitch sessions. E sarebbe stato un peccato, perché ci devono essere agenti che non odiano incontrare gli autori in questo modo (altrimenti, perché continuare a farlo?) e in ogni caso sarà interessante e istruttivo. Il mio primo contatto diretto con questa curiosa specie – agens literarius, della varietà inglese.*

E così parto, armata del mio romanzo, di un Moleskine con gli appunti sugli agenti, sui workshop e sugli autori, e di un vestitino per la cena di gala. Non mi aspetto che la Conference mi cambi la vita e mi catapulti nelle elette schiere degli autori pubblicati sull’Isoletta. Però mi aspetto di imparare parecchio, d’incontrare gente della mia stessa tribù. Mi aspetto che sia interessante, istruttivo, stimolante e anche divertente.

Oxford, arrivo!

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* Non in assoluto, perché un’agente italiana l’ho avuta, a suo tempo – ma… per ora stendiamo un tulle misericorde. Magari una volta o l’altra ne parleremo.

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