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Romanzi Rosa e Romance

scarlet_pimpernel.pngRicordo che una decina di anni fa, un’agenzia di analisi del mercato editoriale stabilì che l’avvento dell’e-reader stava modificando in modo consistente le vendite di romanzi rosa: probabilmente non si trattava solo di quello, probabilmente c’entravano anche le mutate politiche editoriali – ma resta il fatto che l’e-reader, privo di copertine comprometttenti, consentiva di leggere romanzi rosa in sicuro anonimato anche in pubblico. Che gli Anglosassoni si vergognassero a leggere romanzi rosa in pubblico non era troppo sorprendente – generale libertà e indifferenza, sì, ma la mentalità protestante è diversa dalla nostra… A un decennietto scarso di distanza mi devo domandare se, quanto, come e dove sia funzioni ancora così. A rendere lievemente buffa la faccenda era ed è, semmai, il fatto che a Ovest della Manica non è così scontato che il romanzo rosa sia al di sotto di ogni possibile livello di decenza narrativa – per non dire letteraria.

Chiariamo: il genere va sotto il nome di Romance e comprende una vasta gamma di sottogeneri, a partire dal casto Inspirational Romance di orientamento cristiano, all’Erotic Romance*, passando per lo Young Adult Romance, lo Historical Romance, il Paranormal Romance, la Romantic Suspence e chi più ne ha più ne metta, fino a livelli di segmentazione del mercato che noi, nel nostro candore continentale, fatichiamo a immaginare. Per dire, a giudicare dalle raccomandazioni su siti come BookLemur, di questi tempi vanno fortissimo sotto-sottogeneri che coinvolgono specificamente vampiri, lupi/orsi/draghi/whatnot mannari, mogli su ordinazione, motociclisti, milionari, madri o padri single… georgette-heyer.jpg

Detto questo, la classificazione Romance finisce col coprire, insieme a… er, tutto il resto, anche narrativa che, seppur di genere, per qualità di scrittura e bontà della ricostruzione storica sfugge decisamente all’idea continentale di “romanzo rosa”. Quando ciò avviene lo stesso, ne escono classificazioni editoriali del tutto fuorvianti.

georgetteheyer.jpgÈ il caso, per esempio, di Georgette Heyer, prolificissima autrice inglese di Historical Romance e gialli tra gli Anni Venti e Quaranta. I romanzi della Heyer sono ambientati per lo più durante la Reggenza, con occasionali escursioni nel Cinque, Sei e primo Settecento, e sono pieni di magioni avite, debutti in società, fortune da recuperare, matrimoni da combinare, testamenti irragionevoli, misteri di famiglia, duelli, scambi di persona e improbabili corteggiamenti. Aggiungete una scrittura di qualità altissima, dialoghi sfavillanti, uno humour delizioso, personaggi pieni di personalità, trame varie e complesse e, soprattutto, un’ambientazione storica superlativa e una cura del dettaglio ai limiti dell’incredibile. Questi romanzi sono una miniera di informazioni su costume, società, abitudini, mentalità, espressioni gergali… Oh, il gergo dei ladri londinesi, oh i diversi livelli di accento dello Yorkshire, oh la moda in fatto di nodi alla cravatta e le rivalità tra i valletti personali dei dandies… La pura e semplice ricchezza di dettagli la perfetta naturalezza con cui ogni singolo dettaglio è inserito nella narrazione o nel dialogo sono oggetto d’incanto, di studio e di meraviglia per ogni romanziere storico che si rispetti. E non sto parlando soltanto di acconciature e cerimonie di fidanzamento: la descrizione della battaglia di Waterloo in An Infamous Army è talmente perfetta, nella sua vivida accuratezza, da essere citata con ammirazione dagli storici militari! troops.jpg

E a questo punto capirete che relegare l’incomparabile Georgette nel ghetto di genere della narrativa rosa sarebbe un delitto. La signora è una romanziera storica di prim’ordine (nonché un’umorista finissima), indipendentemente dal fatto che in tutti i suoi romanzi ci siano una o più fanciulle da maritare, e che i finali vedano sempre una richiesta di matrimonio accettata e sigillata con un casto bacio…
Ecco, poi in Italia gli Heyer sono tradotti e pubblicati nella sezione “storica” delle collane Harmony – tradizionalmente associati a scrittura abissale e narrazione atroce** – con conseguenze facili da intuire.

Posso suggerire di azzardare un tentativo? Tenendo presente il fatto che in traduzione si perde molto e che sarebbe meglio leggerli in originale, ignorate lo stigma del genere e leggete almeno un Heyer. In fondo, potete sempre comprarlo su Amazon e poi leggerlo in privato, o scaricarlo sul vostro ereader, o rivestire la copertina imbarazzante… oppure potreste esibire deliberatamente il tutto, e divertirvi a veder sobbalzare il vostro libraio, la famiglia e gli Sbirciatori in treno.

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* Da non confondersi con l’Erotica – tutt’altra faccenda.

** Non è per fare del bieco snobismo di genere – ma siamo onesti: sentiamo “Harmony” o “romanzo rosa” e qual è mai la prima cosa che ci balza in mente? La qualità letteraria? Eh…

 

Ott 19, 2018 - considerazioni sparse, libri, libri e libri, scrittura    Commenti disabilitati su Di Zelo e di Passione

Di Zelo e di Passione

SchoolgirlE. pare aver trovato da divertirsi con il mio post a proposito di emozioni.

Il divertimento viene da anni di precedenti – in privato e in pubblico – a proposito della mia… anemozionalità narrativa? Sì, immagino che sia una definizione passabile: una certa qualità freddina della mia scrittura, una tendenza a far sobbalzare la gente sostenendo che scrivere non è questione di aprirsi le coronarie e versarne il contenuto sulla carta…

“Hai una mentalità da non-fiction,” dice E. “Anche quando scrivi narrativa.”

“Ah, ma in realtà io credo che un eccessio di emozione&passione sia deleterio anche in fatto di non-fiction,” ho detto io. “Ci farò un post.” E questo è il post. E abbia pazienza, E. – ma dobbiamo prenderla da lontano.

Allora, avevo dodici anni e il tema era “Un posto che ami particolarmente”. Oh letizia, oh contento! Avendo appena avuto il permesso di usare come studio una stanza vuota a casa di mia nonna – e di sistemarla come volevo – non mi pareva vero di poter scrivere un po’ in proposito. Mi dilungai per una quantità invereconda di fogli protocollo, descrivendo amorevolmente ogni libro sugli scaffali, ogni disegno e quadretto che avevo appeso alle pareti, ogni ninnolo su ogni mobile… Non avete idea di quanto ci rimasi male quando questo labour of love mi fruttò il voto più basso che avessi mai preso in un tema.

Fu il mio primo scontro con il fatto che troppo coinvolgimento nuoce gravemente alla salute della scrittura…school-book-swscan07510-copy-2

L’anno successivo, all’esame di terza media, tutti gli insegnanti si aspettavano da me un peana sulla Cavalleria Rusticana in playback in cui avevo interpretato Santuzza con un trasporto degno di miglior causa, e invece scelsi il tema sul significato delle Olimpiadi. Tutto si poteva dire di me, ma non che non imparassi dai miei errori: a un quarto di secolo di distanza, ricordo precisamente la Clarina tredicenne che vorrebbe proprio tanto scrivere dell’opera, ma decide di non giocarsi il tema d’esame per eccesso di passione.

Qualcuno a questo punto sghignazzerà concludendo che, a un quarto di secolo di distanza, con quella che qualcuno definisce la mia scrittura un tantino asettica, sto ancora pagando lo scotto di quel trauma infantile. Sghignazzi pure, questa gente, ma mi lasci illustrare ulteriormente il mio argomento.

Nel corso degli anni mi è capitato, per varie ragioni, di riprendere in mano due letture ginnasiali: i Promessi Sposi, che mi avevano lasciata indifferente, e l’Eneide che avevo proprio detestato. In entrambi i casi ho rivisto il mio giudizio, adorando Manzoni (mostly) e rivalutando – seppur con minore entusiasmo – Virgilio. E sì, bisogna considerare i vent’anni intercorsi e la mia mutata prospettiva, ma in entrambi i casi la mia giovanile insofferenza si può attribuire in parte ai commentatori troppo… appassionati.

eneide.jpgRenato Bacchielli, aulico traduttore in endecasillabi dell’Eneide, con le sue infinite effusioni liriche sull’elevatissimo carattere morale di Enea, sulla nobiltà del sacrificio di tante giovani vite e sulla luminosa sensibilità precristiana* di Virgilio, era un tantino insopportabile. Da adulta riconosco la sua passione per il poema e il fallimento dei suoi eroici sforzi di obiettività e li trovo solo un po’ irritanti. A quattordici anni detestavo di cuore, e probabilmente detesterei ancora se nel frattempo non avessi sperimentato di persona quel genere di ossessione.promessi%20sposi.jpg

Leone Gessi, poi, bellicoso e condiscendente insieme, con la lancia sempre in resta contro ogni pur timida critica nei confronti del Manzoni, è il tipo di commentatore che provoca travasi di bile. Come il re d’Inghilterra, Don Lisander can do no wrong agli occhi del buon Leone, che diventa specialmente acido con quei critici che si sognino d’ipotizzare un qualche eccesso di angelicità&soavità in Lucia o un filo di soverchia pietà religiosa. Considerando che Lucia Pefettissima Mondella e le dosi da cavallo di Provvidenza&Carità sono i due singoli aspetti dei PS che proprio non digerisco**, ancora oggi Leone Gessi riesce ad inquinare il mio apprezzamento del romanzo. Vedo bene (come non vedevo a quindici anni) che a trascinarlo sono lo zelo cristiano e la passione letteraria in parti uguali, ma ciò non mi rende più simpatico lui e a tratti, cosa più grave, rischia di mandarmi di traverso i PS.

In entrambi i casi, non posso fare a meno di pensare che un pizzico di distacco in più, un filo di emozione&passione in meno e qualche parvenza di obiettività avrebbero permesso alla giovanissima Clarina di farsi un’idea personale senza sollevare il suo spirito di contraddizione. E non importa che scrivere sia scrivere e commentare sia commentare. Sometimes less is more è un adagio molto, molto saggio in più di un senso.

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* His words, not mine.

** Merita menzione anche la conversione dell’Innominato, ma consideriamola compresa nel capitolo Provvidenza&Carità.

Ago 8, 2018 - Arte Varia, considerazioni sparse    Commenti disabilitati su E Altri Specchi Convessi

E Altri Specchi Convessi

massysQuando, in un commento a questo post, Artiglio mi ha fatto scoprire il quadro di Quentin Massys “L’Usuraio e Sua Moglie”, mi è venuta voglia di andarmene a caccia di specchi convessi dipinti.

E così ho scoperto che Van Eyck è solo il capostipite di una lunga, lunga discendenza di pittori di specchi convessi. Considerando quello che era riuscito a fare, non è sorprendente. Le potenzialità stilistiche e simboliche di un arnese del genere ne fanno un elemento molto interessante da inserire in un quadro, la specularità affascina da sempre artisti e bambini, gatti e osservatori casuali alike, e la prospettiva incurvata nella superficie di vetro è quel genere di virtuosismo che non può non attrarre un pittore…-campin

E così avevo pensato di dedicare questo post a una galleriola di specchi convessi attraverso i secoli… poi ho scoperto che qualcuno l’ha già fatto – e molto bene. E allora, perdonate la pigrizia agostana,* credo che vi metterò un link a questo bellissimo ed esauriente post su Didatticarte. All’inizio, in realtà, troverete un po’ di teoria, le sculture riflettenti di Anish Kapoor e qualche anamorfosi e poi, a partire dal nostro Jan Van Eyck, una lunga, magnifica cavalcata attraverso la storia dell’arte, inseguendo gli specchi convessi.

Troverete un sacco di meraviglie. Personalmente ho un debole per gli specchi fiamminghi (Campin!) ma non dico che, se me lo permettessero, non porterei a casa anche cose come lo specchio rotondo di George Lambert o Lo Specchio di Orpen…

FurtenagelE a questo punto ho ben poco da aggiungere, se non questo quadro qui a sinistra: Il Pittore Hans Burgkmair e Sua Moglie Anna, di Lukas Furtenagel – anno 1525.

 

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* In realtà è per modo di dire, perché qui si lavoralavoralavora senza sosta, perché Glasgow incombe, e non sono affatto pronta. Non vi ho detto di Glasgow? Oh, ve ne dirò… Adesso, se volete, potete sospirare: “Oh, povera Clarina…”

Pintereston Pinterestoni…

PinterestPinterest, sì… oh dear.

Sono entrata in Pinterest ai tempi in cui ci si entrava su invito. Non è più così, vero? In realtà non lo so – perché, appunto, ci sono entrata anni e anni fa, su invito di un amico, e con un certo divertito scetticismo.  No, perché davvero: mi si era detto che era terribilmente addictive, ma che poteva esserci mai di così interessante nel raccogliere figurine digitali? Così creai una piccola bacheca chiamata History, Stories, Books and Theatre, ed ero convinta che non sarei mai andata oltre, perché davvero: figurine digitali…?

Pinterest1Un paio di giorni e svariate centinaia di figurine più tardi, Pinterest era diventato il mio nuovo Pozzo delle Ore Perdute. Il giusto contrappasso per il mio divertito scetticismo, immagino.

Ma quando me ne resi conto, era troppo tardi. Cominciai a creare bacheche per libri prediletti, velieri, nevicate cinema muto e altre ossessioni, e poi per cose che ossessioni non erano – dal piccolo artigianato alle combinazioni di colori ai rapaci notturni… E mi sentivo in colpa da matti per tutto il tempo che dedicavo alla cosa – ma nondimeno…

Poi arrivarono le bacheche dedicate al teatro: una per le mie cose rappresentate, una per le luci, una per i costumi, una per le scenografie – e questo cominciava ad avere un’aria un pochino più seria e utile, abbastanza per acquietare un nonnulla la mia coscienza. E intanto il conto delle Ore Perdute lievitava. Pinterest2

E poi fu la volta delle bacheche dedicate alla scrittura: il disastro, la beresina procrastinativa… pincrastinazione? Alas, mi piace avviare una bacheca per ogni nuovo progetto, e mi piace avere un posto dove raccogliere immagini rilevanti, idee visive, suggestioni, links e atmosfere – e tanto più perché, lasciata a me stessa, non sono una persona terribilmente visiva. Il problema è che mi piace un po’ troppo. È terribilmente facile convincersi di star facendo qualcosa di utile writing-wise – e tutti sappiamo dove conduce questa strada, vero?

Quindi sì, lo confesso: mi chiamo Chiara, e ho una dipendenza da Pinterest. Lo trovo tanto utile quanto dilettevole, ed è persino diventato parte del mio processo di scrittura – ma non è di nessun aiuto nella mia costante lotta alla procrastinazione.

Ogni tanto ho l’impressione di disintossicarmi, e poi ci ricado. Una nuova bacheca per un motivo o per l’altro, qualche immagine di qua e di là, un’idea cui associare un’immagine… ed ecco che sono ricaduta giù per la tanta del Pinconiglio. È successo di nuovo ieri, per dire – hence questo post.

Non so che dire. Passerà. O non molto. E… non per volervi trascinare lungo sentieri pericolosi – ma, in caso vi siate incuriositi, le mie bacheche sono qui.

Mar 2, 2018 - considerazioni sparse, Ossessioni, Poesia, Spigolando nella rete    Commenti disabilitati su Nevica!

Nevica!

nevicata.jpgE no, in realtà non nevica più – e anzi, sta piovendo – ma ieri… ah, ieri è nevicato per tutto il giorno, ed è stata una di quelle giornate magiche e sospese…

Quindi sì, ho avuto la mia nevicata. La prima vera e propria nevicata da anni a questa parte – e mi ritengo soddisfatta.

Magari lo sarei ancora un nonnulla di più se non ci piovesse subito sopra… ma non cavilliamo, volete? Sono soddisfatta*.

E per dimostrarlo, ecco qui uno scampoletto rilevante di Maxence Fermine:

La neve è una poesia. Una poesia che cade dalle nuvole in fiocchi bianchi e leggeri. Questa poesia arriva dalle labbra del cielo, dalla mano di Dio. Ha un nome. Un nome di un candore smagliante. Neve.

>E, giacché ci siamo, anche una di quelle cose un pochino nonsense che si pescano girando qua e là per la Rete (o SNFSedSquando qualcuno, conoscendo la vostra ossessione per la neve, ve le segnala)…

Qui trovate un generatore di fiocchi di neve personalizzati. Dovete soltanto inserire un nome, una citazione – o, in realtà, qualsiasi cosa che si scriva in lettere, numeri e simboli – e vedrete comporsi il vostro fiocco di neve… Quello qui di fianco, per esempio, dice “Senza Errori di Stumpa”. And yes, I know – ma non vi fate idea di quanto sia grazioso. E addictive…

Ah well, niente. Così.

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* E in realtà c’è qualcosa nell’impermanenza delle nevicate… Prima o poi dovrò scriverci su qualcosa.

Feb 9, 2018 - considerazioni sparse    Commenti disabilitati su Segni di Felinità

Segni di Felinità

Questo post è, in buona parte, per M. – cui ho accennato all’esistenza di Solange qualche giorno fa, nel corso di una conversazione che poi ha finito col virare in tutt’altre direzioni… Ma adesso mi è tornato in mente, e per varie ragioni mi pare brutto che M. resti senza Solange più a lungo di così. Per cui, ecco qui.

In generale non vado pazza per i fumetti – ma ci sono eccezioni. Una è questa deliziosa strip americana, 9 Chickweed Lane, di Brooke McEldowney.

New York e dintorni, madre ex insegnante universitaria (ha lasciato la carriera accademica per gestire una fattoria), figlia ballerina classica e pianista, nonna terribile, corteggiatori, amici e parenti… ma il personaggio più favoloso è appunto Solange, la gatta siamese. Anzi, pardon: La Gatta. Tanto da essersi guadagnata una specie di sottoserie tutta sua, Hallmarks of Felinity – vale a dire, più o meno, “Segni di Felinità”.

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E ho detto che questo (rapidissimo) post è per M. – ma in realtà è per chiunque abbia (o abbia mai avuto) un gatto, per chi adora i gatti, per chi detesta i gatti, o un gatto in particolare, e per chiunque si sia mai soffermato a domandarsi che cosa mai stesse passando per la testa di un gatto. Perché, in qualche magico modo, Solange è Tutti i Gatti…
Gen 3, 2018 - considerazioni sparse, tradizioni    Commenti disabilitati su Diciotto!

Diciotto!

2018Ossignore… ri-gennaio!

Sì, sì – un’altra volta, e non ci si può fare assolutamente nulla, se non iniziare l’agenda nuova e… ballare? Non la migliore delle metafore, nel mio maldestro caso – but never mind. Tutto sommato, suona ragionevolmente bene, soprattutto dopo avere contemplato quella meraviglia che è Roberto Bolle l’altra sera.

E allora, o Diciotto, apriamo le danze.

No, wait: prima ricapitoliamo un attimo. Com’è andata con il Diciassette? Non del tutto male, direi.

Volevo condurre il romanzo in qualche genere di porto isolano e, come dicevasi, non è precisamente approdato, ma ha ricevuto promettenti rassicurazioni sulla rotta.

Jan18Volevo darmi da fare in fatto di teatro, e… well. Il Fantasma di Canterville, il Pasticciaccio Brutto, l’Edipo, l’ingresso da socia nell’Accademia Campogalliani, il corso di scrittura teatrale, la prima stesura di un altro play nuovo che non ha nemmeno un titolo… Sì, credo che il Diciassette conti decisamente come un buon anno, theatre-wise.

E volevo uscire un pochino dai sentieri battuti (i miei sentieri battuti, per cominciare), e anche qui non posso dirmi del tutto insoddisfatta, considerando tutto quanto: ho cominciato a scrivere in un campo interamente nuovo – il che è stato complicato, stimolante ed estremamente istruttivo; ho seguito un e-corso di tecnica poetica del CalArt, e vale la descrizione al punto precedente; ho sceneggiato un piccolo cortometraggio sulla lotta allo spreco alimentare; ho lavorato alla riduzione teatrale di un romanzo che non mi è mai piaciuto granché, e l’ho guardato trasformarsi nel più intenso workshop della mia vita; mi sono riaccostata dopo più di vent’anni alla tragedia greca – e ci ho trovato gusto… Sì, direi che anche qui ci siamo.

E questo significa due e mezzo su tre. Non male, direi.

E adesso, Diciotto. Che fare di quest’anno tutto nuovo e intonso?

  • 2018Dance

Oh dear. Ma sapete che in definitiva le intenzioni sono ancora quelle dell’anno passato? Il romanzo, il teatro, i sentieri meno battuti… Ha funzionato bene, e sono tutte cose su cui vale la pena di lavorare ancora e far di meglio. Quindi, perché no?

Non sono sicura che valga del tutto, ma tant’è. Aggiungiamoci la ferma intenzione di non trascurare gli amici come ho vergognosamente fatto per tutto il Diciassette, presa com’ero ad occuparmi del romanzo e del teatro e a trotterellare per sentieri inusuali. E anche l’intenzione di occuparmi un po’ di più di faccende pratiche e quotidiane. Oh – e combinare qualcosa qualcosa con SEdS, una buona volta. Suona come un anno, che dite?

E allora ci siamo. Diciotto, a noi due: danziamo!

E voi, o Lettori? Che intenzioni avete?

 

Bugiarda, Ipocrita – e Impaziente

JaneLiarSi era a lezione e si discuteva dei motivi che spingono un autore a scrivere una specifica storia. A un certo punto…

Allieva – Per raccontare la propria esperienza umana, per comunicare ciò che si ha dentro.

Io (che sono cinica) – Sì, anche questo. Soprattutto qui da noi, dove impera l’autobiografismo narrativo.

Un’altra Allieva – All’estero non è così?

Io – Nel mondo anglosassone, per esempio, da meno a molto meno.

Allieva – Ah, ma questo è perché gli Inglesi sono ipocriti!

Ecco che ci risiamo

Ho levato un sopracciglio e chiesto se allora solo l’autobiografia è sincera e tutta la narrativa non autobiografica è per sua natura menzognera e ipocrita. L’allieva cui non piacciono gli Inglesi non è stata molto chiara in proposito, e degli altri, qualcuno era decisamente contrario all’idea, qualcuno dubbioso. Poi purtroppo la discussione ha virato in altra direzione, e siamo passati oltre.

Però, reitero: ecco che ci risiamo, con l’idea che scrivere consista nell’aprirsi le coronarie e versare il contenuto sulla pagina. E quando non è così, allora si scrivono bubbole irrilevanti nella migliore delle ipotesi, e deliberate menzogne nella peggiore.

Qui, a dire il vero, eravamo a mezza strada: lo scrittore che “inventa” le sue storie è (britannicamente) ipocrita. Non so se riuscirò ad approfondire la faccenda – e potrei sbagliarmi – ma per ora sono costretta ad assumere che l’ipocrisia consista nel nascondere la propria vera natura dietro uno schermo di finzione non autobiografica…?

Il che, in teoria, non incide sulla qualità della narrativa in questione. Ora, di nuovo, non ho indagato – ma dubito che la signora in questione voglia sostenere che tutta la narrativa anglosassone (e/o non autobiografica) sia inferiore a quella italiana (e/o autobiografica). O almeno lo spero vivamente. E, una volta chiarito questo, riecco la sciaguratamente radicata idea che l’autobiografia goda di qualche genere di superiorità morale, di un grado di sincerità preclusa all’invenzione narrativa.

JaneEyreConfessione (autobiografica!): questo piccolo scambio mi ha riportata indietro di qualche decennio, all’asilo – dove, nelle rare occasioni in cui mi azzardavo a coinvolgere qualche altro implumino nei miei make-believe o a raccontare qualcuna delle storie che immaginavo, le suore mi punivano perché ero bugiarda. E sì, ricordo almeno un’occasione alla Jane Eyre, in cui fui piazzata in piedi in mezzo alla stanza. “La vedete? Lei dice le bugie!”

Inutile dire che in quell’asilo non rimasi a lungo – e che ne dite? magari sono i postumi di questo trauma infantile a rendermi così spinosetta e reattiva sull’argomento?

Perché devo confessare: in realtà, se la discussione che dicevo si è arenata è stato per colpa mia. “Spero di non sconvolgere nessuno dicendo che gli scrittori inventano,” ho detto, con più sarcasmo di quanto fosse il caso. Il che ha divertito la maggior parte della classe, ma non è stato dialetticamente carino da parte mia. Avrei dovuto invece argomentare che in realtà nessuno scrive a prescindere da se stesso e che, specularmente, la sincerità assoluta non esiste da nessuna parte, men che meno in narrativa – ma non l’ho fatto.  E ho sbagliato.

Cercherò di riparare alla prima occasione, riprendendo la discussione se appena sarà possibile e se i tempi ristretti del corso lo permetteranno – perché è giusto e perché l’argomento merita di essere discusso sul serio, non risolto con una battuta.

 

 

Tre Sorelle sul Balcon

GrandmammaCircola dalle mie parti (o almeno vi circolava qualche decennio fa, quand’ero un’implumina), questa piccola filastrocca:

Din Don, campanon,
Tre sorelle sul balcon:
Una che fila, una che taglia,
Una che fa i cappellini di paglia.

Me la cantava la mia meravigliosa nonna e, per qualche motivo, quest’immagine di tre sorelle sedute una accanto all’altra, perennemente occupate nei loro compiti specifici, mi dava un’impressione men che domestica. Le immaginavo severe – nonostante il dettaglio civettuolo dei cappellini…

ParcheE non posso dire di avere speso molti pensieri sulla filastrocca, crescendo – fino a quando, decenni più tardi, mi sono resa conto di chi (o che cosa) siano queste tre sorelle. Andiamo: tre figure femminili, una fila, una taglia – ed è chiaro che i cappellini di paglia sono lì per rima… Non sono le Moire, nella mia filastrocchetta d’infanzia? O le Parche. O forse le Norne – anche se quelle, più che filare, tessono il destino (o talvolta lo incidono).

Favoloso, non trovate? Il mito –  e non un mito qualsiasi, ma quello del fato e del suo funzionamento) – che scende lungo i millenni, si semplifica, si traveste, diventa quasi irriconoscible, ma non del tutto, e seguita ad essere tramandato, in rima e ritmo, come si faceva intorno al fuoco tutti quei millenni orsono. Sono assolutamente affascinata.

E spigolando per la Reticella ho trovato* quest’altra versione:

Din don campanon,
quattro vecchie sul balcon:
una che fila, una che taglia,
una che fa i cappelli di paglia,
una che fa i coltelli d’argento
per tagliar la testa al vento.

Strudwick_-_A_Golden_ThreadQui le filatrici sono vecchie e in numero di quattro – ma, sospetto, più che altro per ragioni eufoniche. Badate, tuttavia, al particolare dei coltelli d’argento: nel mito l’inflessibile Atropo si descrive munita di “lucide cesoie”… Ci siamo di nuovo, non trovate?

Lo ripeto un’altra volta: è magnifico. C’è in una poesia di Seamus Heaney il brivido di scoprire che un vecchio oggetto di uso comune, o una curiosità lasciata a impolverarsi su uno scaffale è in realtà qualcosa di antico, carico di storia e di significato… Ebbene, non è così per questa storia? Un mito antichissimo e potente, nascosto sotto i colori di una filastrocca per bambini?

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* Su un sito chiamato Filastrocche.it.

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Contenere I Danni

Mail:

Conosci i Consigli a un giovane conferenziere, di Paolo Rossi?

angellis-pieter-1685-1734-fran-a-market-square-with-a-man-add-1532524No, non li conosco – e dunque seguo il link contenuto nella mail, e raggiungo un vecchio articolo sul sito del Sole 24 Ore, e leggo… e, ad essere del tutto franchi, inorridisco un pochino. O quanto meno mi chino a recuperare il mio mento da terra. O se volete – e potreste volere, ed avreste anche ragione, perché mi piace pensare di essere the un-dramatic type – levo un sopracciglio.

Perché, vedete, questo Decalogo scritto da un attempato studioso per il giovane studioso che va a fare una conferenza o a leggere una relazione a un congresso, insegna proprio questo: a leggere una conferenza.

A leggerla.

A sedersi davanti a una platea con un rigoroso massimo di quindici cartelle da 2000 battute ciascuna, e leggere. A leggere lentamente, a voce alta, senza false civetterie nei confronti del microfono, senza mangiarsi le citazioni e impegando pause sapienti – così che la platea non si addormenti indipendentemente dalla qualità del contenuto.

Se poi si riesce a leggere dando l’impressione di non leggere affatto, tanto meglio – ma questo è qualcosa che solo pochi grandi sanno fare.

Insomma, capite, il distillato della saggezza italiana in fatto di arte di parlare in pubblico, sfornato da uno storico delle idee e proposto quasi con reverenza dall’inserto culturare del Sole, non è altro che un solido, sensato, equanime, garbato e ragionevolissimo esercizio di contenimento dei danni.

Nemmeno un accenno al fatto che in realtà leggere una conferenza dovrebbe essere proprio l’extrema ratio, se per disgrazia non si può fare altrimenti. Che in realtà sarebbe meglio provare, ripetere, sperimentare ed esercitarsi fino ad essere in grado di dirla, la conferenza – e non leggerla.  Perché nulla riesce a dare l’impressione di non leggere come… be’, come non leggere affatto. speaker

E adesso non vorrei sembrare la solita anglomane, ma non so bene come evitarlo: provate a cercare su google qualcosa di equivalente – in Inglese.* Vedrete che ogni singolo decalogo per conferenzieri vi raccomanderà di non leggere, di ripetere e provare finché non riuscite a gestire il vostro materiale come se fosse una conversazione, di sentire la reazione del pubblico e comportarvi di conseguenza – e soprattutto, ancora, di non, non, non leggere.  Perché  siamo sinceri: provate a ripensare all’ultima conferenza cui avete assistito. Odds are che, se il relatore leggeva, vi siate annoiati a morte anche se l’argomento vi interessava.

Sì, vero?

Lo immaginavo.

E poi non è che un relatore che non legge sia garanzia assoluta di una conferenza stellare – quella è tutta un’altra faccenda – e di certo preparare una conferenza così è faticoso, richiede un sacco di lavoro e di tempo in più e un pizzico di senso del teatro… Però tende ad essere infinitamente più interessante sia per chi parla che per chi ascolta, e non avete idea di quanto diminuisca il rischio di incrociare l’occhio vitreo della signora in prima fila e sapere con raggelante certezza che, mentre finge di ascoltare, sta compilando a mente la lista del supermercato.

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* Oppure qui trovate una traduzione dei TED Commandments – spediti a chiunque venga invitato a tenere una conferenza TED. E no, “Non Leggere” non c’è – perché davvero, a nessuno salterebbe in mente di leggere una conferenza TED…

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