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Ott 3, 2012 - libri, libri e libri    4 Comments

Il Narratore Antipatico

Un po’ di tempo fa si parlava di narrazioni in prima persona, ricordate?

Nel post in questione dicevo che…

Mi piace condividere lo sguardo del narratore. Mi piacciono le voci narrative individuali che si creano, con i quirks espressivi, le considerazioni personali, gli errori di valutazione e le menzogne.

Ebbene, proprio in questi giorni, E. mi diceva che proprio tutto ciò tende a respingerla anzichenò. Perché, a parte tutto, una voce narrante antipatica è capace di rovinarle anche un libro che altrimenti potrebbe piacerle… 

E. sostiene che il rischio d’insopportabilità scende a livelli minimi con le voci narranti in III – sul che si può discutere – e che un narratore in I, che gliela conta direttamente e lo fa con tutti i suoi quirks e ammenicoli individuali, ha più possibilità di starle sull’anima…

Suppongo che non abbia tutti i torti, perché la forte caratterizzazione può tagliare da entrambi i lati – e devo ammettere che, pur nella mia risaputa debolezza nei confronti delle storie raccontate in I, ho avuto la mia dose di difficoltà con i singoli narratori. Ne ho avute in diversa forma, a ben pensarci. Vediamo un po’ – una piccola fenomenologia del Narratore Antipatico*. lawrence d'arabia

1) Il Guastafeste. Questo è il caso che cita E.: un libro che di suo mi piacerebbe, ma a pagina 10 ho già una tale voglia di strangolare il narratore che la lettura diventa faticosa. Passo troppo tempo a sospirare un narratore e/o protagonista diverso per apprezzare davvero il libro. A me è capitato con La Rivolta nel Deserto. Voglio dire, un Inglese che raccoglie queste tribù litigiose e inefficaci e le conduce attraverso il deserto, da una follia all’altra fino a Damasco – e intanto perde il senso della realtà… È il mio genere di storia. Peccato per Lawrence. Dimenticatevi il Peter O’Toole ingenuo e viepiù allucinato del film: l’originale è puntiglioso, compiaciuto di sé ed egocentrico oltre ogni dire. “Auda disse, Ali suggerì, e il Principe Feisal riteneva, ma poi si fece come volevo io.” In tutto il libro, nessun altro che abbia mai uno straccio di buona idea… Il libro l’ho letto – e più di una volta** – ma mai con il gusto che avrei potuto trovarci, grazie al buon Lawrence. l'eleganza del riccio, muriel barbery

2) La Pioggia Sul Bagnato. Il libro non mi piace affatto, e il narratore in I è solo uno degli aspetti che mi rendono infelice, acida o idrofoba. Come ne L’Eleganza del Riccio. Non so immaginare una voce narrante capace di farmelo piacere, ma di sicuro né la piccola Paloma, finta bambina supponente e finto-ingenua,  né la portinaia Renée, perla di donna mascherata di finto rude candore, hanno fatto alcunché per ammorbidire la mia avversione. Cribbio, son passati più di due anni e detesto ancora libro e narratrici con un livore che sconsola… david balfour, r.l. stevenson, kidnapped

3) Il Guastafeste Apparente. Il narratore non mi piace, ma non è tanto odioso da eclissare i meriti del libro. Come il povero David, che di Kidnapped sarà anche il protagonista nominale, ma è talmente blando, ottuso e benpensante, da indurre nel lettore un forte desiderio di amministrargli un paio di scrolloni per capitolo. E però fa nulla, perché l’avventura in sé, la sgambata attraverso le Highlands e, soprattutto, l’impagabile Alan compensano tutto quanto. D’altra parte qui stiamo parlando di Stevenson, e possiamo tranquillamente assumere che l’effetto sia voluto. O Fanciulli, guardate David, the nice lad che, ci si dice, tutti dobbiamo aspirare ad essere. E poi guardate l’affascinante, pittoresco, temerario, irragionevole, squadrellato Alan…

Dopodiché è chiaro che nessun personaggio può essere simpatico a tutti, e nessun libro può piacere a tutti i lettori, e avversioni e amicizie di carta sono parte integrante del gusto di leggere.

Però è difficile negare che il narratore in I, metaforicamente seduto di fronte al lettore, sia più esposto al rischio di essere a serious nuisance.

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* Involontariamente Antipatico – quello la cui antipatia non è un device narrativo a sé. Quello è un altro discorso.

** Non per autolesionismo, vorrei precisare. Seminario di filosofia della guerra, tesina sul rapporto tra tattica e strategia nella Rivolta…


 

Amare Et Bene Velle

lord jim, alan breck stewart, sydney carton, isabel archerCon F. & L. si commentava questo post e ci s’interrogava sull’idea di amare un personaggio letterario.

E si giungeva alla conclusione che il quesito non era formulato nella più felice delle maniere, perché a prenderlo in senso stretto, non è facile trovare 30 personaggi che si sono amati, mentre se bisogna intendere “amare” con elasticità franco-inglese, possiamo sperare che ce ne siano piaciuti un po’ più di trenta…

In effetti, non è come se nella mia lista non avessi finito con il combinare i due criteri – e una manciata di altri. Ripercorrendola, ci trovo gente scelta in base a ogni genere di ragione. Ma, considerando che la formulazione dello hashtag galeotto dipendeva più che altro dal fatto che cheamo occupa meno caratteri di chemipiacciono, e qui non soffriamo di queste costrizioni, riformuliamo la domanda – o meglio poniamone un’altra: 

Che cosa è che ci lega a un personaggio letterario?

Come dicevamo, ogni genere di ragioni.

Non ricordo se ho già raccontato della discussione sui brontëani fratelli Moore, durata per molte settimane di email tra me e un’altra F.* I fratelli Moore sono due: a F. piace Louis e a me piace Robert, e col tempo siamo giunte alla conclusione che we’ll have to agree to disagree on that. E in realtà ci saremmo potute arrivare prima di subito, perché le rispettive preferenze hanno ragioni tanto diverse che di più non si potrebbe. F. predilige l’orgoglioso e severo Louis perché non vuole accettare nulla da nessuno – men che meno da suo fratello o dalla donna che ama ricambiato – e a F. ammira questo atteggiamento molto più del disperato opportunismo di Robert. Io trovo che Robert, che sacrifica affetti e principii a necessità e responsabilità, sia un personaggio molto più complesso ed efficace del perfetto, bidimensionale Louis. Ed è ovvio che Robert non sarà mai ammirevole come Louis, né Louis sarà mai ben scritto come Robert.

Criteri diversi.

Il che non significa nemmeno che i lettori si dividano rigorosamente tra tecnici ed emotivi, tra etici ed estetici. Tendo a credere che quasi tutti, in circostanze diverse, scegliamo, preferiamo, ci affezioniamo e amiamo per motivi diversi.

Dovessi basarmi sulla mia lista, c’è gente come Robert Moore, Javert, Julien Sorel o Heinrich Muoth che mi piace per la finezza, tridimensionalità e unsentimentality con cui è scritta**.

Poi c’è gente con cui mi identifico (o mi sono identificata in passato), come Scout, Emma o… ‘cipicchia, mi accorgo di avere lasciato fuori Angelo, l’Ussaro sul Tetto di Jean Giono: anche lui è stato una questione di identificazione.

Poi ho citato Charlotte Bartlett, e qui la faccenda è leggermente più obliqua, perché in Camera con Vista quella con cui mi identifico è Lucy, ma Cousin Charlotte è un ritratto così perfetto di una mia anziana cugina che parte dell’identificazione con Lucy dipende proprio da questo. Lucy è deliziosa, ma è Charlotte a trascinarmi nella storia – ed è lei che adoro.

Poi c’è la gente che incarna questioni che mi stanno a cuore – come James Sands, l’attore elisabettiano cui crolla intorno un mondo, i giovani Turbin, idem nella Kiev postrivoluzionaria, Konradin von Hohenfels in cerca di redenzione o Dick Heldar che crolla nel crepaccio tra arte e affetti.

Ci sono i villains per cui ho un debole, quelli che brillano nel loro romanzo, quelli che hanno tanto fascino e tanta personalità da seppellirci i rispettivi protagonisti, come l’Innominato, Richelieu e Rupert.

E ci sono anche i personaggi che sarebbero adorabili anche in carne e ossa, come la Regina Elisabetta, il Sergente Dodd, Sarah Thane, la Principessa Arjumand (che è una gatta***), Larry Durrell…

Ci dovrebbero essere anche (ma mi accorgo di non averne elencato nemmeno uno) quei personaggi che non perdonerò mai ai rispettivi autori di avere trascurato, maltrattato o killed off – salvo poi rendermi conto che forse non mi sarei affezionata altrettanto a Lord Evandale, Dain Waris o Francis Stewart se non facessero la fine che fanno…

E poi ci sono quelli che hanno proprio tutto – e quelli sono i miei fidanzati di carta. Lord Jim, naturalmente, con la sua storia di riscatto negato e di aspettative disattese, con le sue debolezze dolorose e ingigantite, con la sua caratterizzazione così vivida che mi è più familiare di tanta gente  “vera”, con la sua fine tragica che tutte le volte mi strappa il cuore. E Alan Breck Stewart, alfiere spavaldo di una causa perduta in partenza, ingenuo, irragionevole e alla fin fine così malinconico. E Sydney Carton, destinato ad annegare tra self-disgust, delusioni e promesse sprecate, innamorato, più che di Lucie, della redenzione che lei rappresenta. E si direbbe che io abbia anche una fidanzata di carta in Isabel Archer, troppo impegnata a inseguire ideali per vedere davvero ciò che ha davanti – e punita per questo, ma non senza speranza. Ecco, questi sono quelli che amo davvero. E probabilmente in giro ce n’è qualche altro – ma di sicuro non sono trenta. 

Dopodiché mi piacerebbe ricordare dove ho letto la recensione di una lettrice che si dichiarava incapace di simpatizzare con un personaggio che commette uno stupido errore dopo l’altro come fa Jim – a riprova del fatto che quel che fa innamorare una persona ne respingerà un’altra,  e che innamorarsi per davvero o in carta e inchiostro resta la più personale, soggettiva e imponderabile delle faccende.

 

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* Non so che farci: la mia vita è piena di F. con cui discuto di libri… Ad ogni modo, questa è un’altra – and you know who you are.

** Si maligna che Muoth mi piaccia soprattutto perché è un baritono e, fosse stato un tenore, non sarebbe nemmeno entrato nella lista – ma non è vero. Non del tutto. Non troppo. Non molto. Non… Ok, il fatto che sia un baritono aiuta.

*** E comunque il suo libro è affollato di gente adorabile – a due e quattro zampe.

Giu 10, 2012 - cinema    9 Comments

Bonnie Prince Charlie

Scopro, senza esserne particolarmente sorpresa, che esiste una versione televisiva di The Master of Ballantrae. Se dicessi che mi piace molto, mentirei – tra l’altro, ho sempre immaginato James Durie come una persona dall’aria più pericolosa di Michael York. Però badate ai primi due minuti e mezzo, con lo sbarco di Charles Edward Stewart sulle coste scozzesi nel 1745.

Fuochi, mare mosso, cornamuse, stendardi al vento, benedizioni, folla osannante e armata, cavalli che caracollano… tutto molto avventuroso e pittoresco, tutto molto stevensoniano, in quella maniera che ci fa simpatizzare per i Giacobiti a dispetto di tutto – non foss’altro che per il fatto di sapere come andrà a finire. Magari ne parleremo, una volta o l’altra.

E buona domenica.

Costruttori Di Ponti

C’è stata una vita precedente in cui la mia ambizione lavorativa era quella di costruire un ponte.

D’accordo, anche un teatro mi avrebbe resa molto felice, ma un ponte era un’altra cosa – ed era tutta colpa di Kipling, per questo racconto che si chiama, appunto, The Bridge Builders.

A dire la verità non credo che sia il migliore racconto di Kipling in assoluto, e la chiusa mi ha sempre lasciata un po’ così. Un po’ un anticlimax, dopo la sovrannaturale discussione del ponte. Ma soprattutto c’è l’epico lavoro di costruzione del ponte stesso, “brutto come il peccato e solido come una roccia”, con questi due ingegneri inglesi e il loro capomastro indiano che domano il Gange a furia di duro lavoro e determinazione…

ponte, teufelsbruecke, ponte in letteraturaOh, d’accordo: oggidì e alle nostre latitudini c’è ben poco da domare, ma la costruzione di ponti rimane, in letteratura e in leggenda, una faccenda ai limiti dell’eroico e carica di significati simbolici, perché per tanta parte della storia è stata tanto difficile quanto fondamentale, e per tutte le connotazioni di superamento, ravvicinamento e trionfo sulla natura che si porta dietro. 

Forse per noi è difficile apprezzare l’importanza e difficoltà di un ponte nei secoli in cui un fiume poteva essere una barriera invalicabile al passaggio, ai commerci, a ogni genere di contatto. I ponti erano fondamentali, i ponti allargavano gli orizzonti, i ponti si difendevano a ogni costo, i ponti facevano la fortuna e la ragion d’essere di un centro abitato, i ponti erano un elemento di civilizzazione… Però prima bisognava costruirli.

E non era detto che fosse facile. Al punto che certi ponti particolarmente audaci e/o belli non sembravano potersi spiegare altro che con qualche intervento sovrannaturale. E nemmeno un intervento qualsiasi, visto che per secoli il pontiere privilegiato nell’immaginazione popolare è stato il diavolo in persona. tufelsbruecke, ponte del diavolo

L’Europa è disseminata di Ponti del Diavolo, in genere archi di pietra a schiena d’asino che scavalcano orridi profondissimi in campate stupefacenti, oppure enormi arnesi fortificati e possenti. E se le guide locali tendono a raccontarli come reliquie romane spiegate con l’intervento diabolico negli ingenui e timorosi secoli bui, in realtà si tratta per lo più di opere medievali o più tarde. Il che è ancora più affascinante, se ci pensate: non si trattava di spiegare col diavolo qualcosa d’incomprensibile, quanto di attribuire all’intervento diabolico qualcosa di utile e bello che però aveva richiesto sforzi sovrumani e, probabilmente, più di una morte sul campo.

james joyce, ponte del diavoloEd ecco fiorire le leggende – così numerose e così diversificate che la Classificazione Aarne-Thompson ne fa una categoria a sé, con un certo numero di varianti: c’è la sfida tra il diavolo e i costruttori di ponti, c’è la sfida tra diversi costruttori – uno dei quali aiutato dal diavolo – c’è il patto con il diavolo tout court… A ricorrere in tutti i casi sono due elementi: il ponte è così importante che si è disposti a far patti col diavolo, e il diavolo vuole essere pagato in anime. Dopodiché, in genere, qualcuno di astuto trova il modo di ingannare il diavolo, che sa fare i ponti ma non è bravo ad esigere i pagamenti e, nella maggior parte dei casi, deve tornarsene all’averno con le pive nel sacco e qualche animale per tutta ricompensa*. E il ponte resta lì, in tutta la sua gloria, audacia e utilità. 

Esiste anche un altro tipo di ponte leggendario – ponti sovrannaturali che, se debitamente attraversati, conducono in altri mondi dove l’eroe ha accesso a una vasta gamma di rivelazioni, prove iniziatiche, incontri e svolte climatiche della trama. Molto conveniente, ma meno diffuso. ponte sul fiume kwai

E poi entrambi sono passati in letteratura. Provate a pensare a Il Ponte sul Fiume Kwai (e sì: prima di David Lean c’era anche un romanzo del francese Pierre Boulle), dove per il Colonnello Nicholson il ponte è una questione di principio, e per il Colonnello Saito una questione di necessità: entrambi vengono a patto con qualche tipo di diavolo – Nicholson di fatto aiuta il nemico e Saito deve cedere di fronte all’inflessibilità dei suoi prigionieri. On the other hand, Il Ponte per Therabithia, di Katherine Paterson, ricade nella seconda categoria, con un ponte “magico” che conduce in un regno immaginario inventato da due ragazzini solitari. Ma la costruzione del ponte vero e proprio arriva solo alla fine, ed è parte del processo di maturazione del piccolo protagonista, che attraverso il lutto impara a connettere il suo mondo immaginario alla realtà.

ivo andriç, visegrad, il ponte sulla drinaIl Ponte sulla Drina, di Ivo Andriç è un po’ l’uno e un po’ l’altro: costruito per volere di un vizir di origine serba per unire la Serbia all’Impero, nasce tarato per la ribellione dei costruttori maltrattati, e per secoli sarà via di passaggio nel bene e nel male: amicizia e guerra, idee e sradicamento, progresso e decadenza – tutto passerà per il ponte.

Il Ponte di Waterloo che dà il titolo al dramma di Robert Sherwood** non si costruisce in scena, però è significativo: simboleggia la perdizione di Myra – da ballerina a prostituta – ma anche la sua possibile redenzione, quando Roy la ritrova e le chiede di sposarlo nonostante tutto.

All’inizio di We, the Living, l’eroina di Ayn Rand, la giovane borghese Kira, si iscrive alla facoltà d’ingegneria – scelta eterodossa per una ragazza – decisa a costruire ponti. Il sogno di un ponte di alluminio “leggerissimo, tutto bianco”, per Kira rappresenta la liberazione dalle chiusure e meschinità del sistema sovietico.  ponti, robin hood

E ci sono i ponti iniziatici: Robin Hood deve provare il suo valore agli Allegri Compagni aprendosi il passaggio sul ponte – in singolar tenzone con Little John, e adesso non trovo assolutamente il riferimento, ma mi par di ricordare qualcosa di equivalente nel ciclo arturiano.

E poi c’è il già citato Kipling, il cui ponte sul Gange rappresenta un trionfo della volontà umana sulla natura (e sull’ottusità della burocrazia) – non senza il passaggio iniziatico dell’ingegnere inglese, che doma il Gange solo dopo avere capito con che cosa ha a che fare, e sviluppato il debito rispetto.

E comunque i ponti in realtà abbondano in tutta la letteratura, come postazioni da difendere fino all’ultimo uomo, come strutture da minare, come luoghi per le imboscate e gli omicidi, come ostacoli e passaggi obbligati, come passerelle di corda che bruciano e cedono al momento giusto per creare suspense, come arnesi che crollano sotto gli zoccoli del destriero al galoppo, come trappole e come difficili vie di salvezza – e citerò soltanto il sorvegliatissimo, impassabile ponte di Stirling, l’ultimo ostacolo che David Balfour e Alan Breck devono attraversare prima di raggiungere le sospirate Lowlands… E ci vorrà tutta l’astuzia di Alan, perché un ponte non è mai una conquista facile o un elemento decorativo. Un ponte, varcato o costruito, ha sempre un prezzo.

E sì, alla fine il ponte l’ho costruito. Magari ponte è una parola grossa, e passerella pedonale sarebbe più appropriato – ma non sottilizziamo: era (è) una struttura ad arco destinata all’attraversamento di un corso d’acqua. A tutti gli effetti pratici, sono una costruttrice di ponti anch’io.

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* Mi sono sempre domandata una cosa: di solito i termini del contratto prevedono l’anima della prima creatura che attraversa il ponte stesso. L’inganno tende a consistere nel far passare un cane o un altro animale. E il diavolo se ne va scornato. Questo implica una credenza nell’anima degli animali, o un buco logico di considerevoli dimensioni? No, perché qualsiasi buon avvocato potrebbe rinfacciare alla gente del ponte il mancato rispetto delle clausole contrattuali, giusto? Il compenso pattuito non è stato versato.

** forse avrete visto il film con Vivien Leigh e… chi? credo Robert Taylor.

Apr 11, 2011 - lostintranslation    Commenti disabilitati su La Giusta Parola – ovvero Piccole Gioie Del Traduttore Occasionale

La Giusta Parola – ovvero Piccole Gioie Del Traduttore Occasionale

Alan.jpgVi ricordate di Alan Breck Stewart?

Forse sì, visto che ogni tanto vi infliggo qualche rapsodia in materia. E’ più improbabile che vi ricordiate del mio prurito linguistico a proposito della strepitosa battuta in cui, dopo avere sconfitto da solo una mezza dozzina di avversari, Alan si rivolge al narratore David così:

And tell me: am I no’ a bonny fighter?”

Da traduttrice occasionale, come dice lo header qua sopra, non mi sono mai cimentata davvero con la traduzione letteraria – questa eterna caccia al giusto equilibrio tra coscienza ed efficacia – però ho una passione per le espressioni apparentemente intraducibili a cui strologare una versione convincente. E’ un giochino utile e dilettevole per le lunghe attese, quando si sia dimenticato di portarsi un libro, e può durare anni, perché leggendo altro si trovano sempre altre sfumature, altri contesti, altre connotazioni, altre possibili corrispondenze, altri colori…

Ecco, quel Bonny Fighter è uno dei pezzi della mia collezione, forse il mio preferito fin dal giorno in cui l’ho letto per la prima volta, diciotto o diciannove anni fa, seduta in una sala da tè di Edinburgo, mentre aspettavo che spiovesse almeno un pochino.

Qui trovate le premesse della faccenda in dettaglio – compresa una piccola disquisizione letteraria in proposito – ma il sugo è che l’aggettivo bonny raccoglie una serie di connotazioni di ammirazione quasi affettuosa che “un buon spadaccino”* non rende, e cose semanticamente più affini come “una delizia di spadaccino” fanno suonare più leziose di quanto sia il caso.

Ebbene, rejoice with me. Col tempo e con la paglia, i miei rimuginamenti hanno fatto maturare una nespola di cui non sono insoddisfatta:

“E dimmi: non sono un fior di spadaccino?”

Din, don, dan. Siccome non conosco tutte le traduzioni italiane di Kidnapped, non è impossibile che altri ci siano arrivati – magari decenni prima di me. E se devo dirla tutta, nemmeno spadaccino mi convince fino in fondo: ha la giusta intonazione guasconcella, ma forse non è come Alan definirebbe sé stesso… Magari “un fior di duellatore”?

Ci penserò. In quasi vent’anni ho sistemato a mio piacimento bonny – adesso posso procedere con fighter. Ne riparliamo attorno al 2030. Che posso dire? Ciascuno è malato alla sua maniera.

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* Piero Gadda Conti, traduzione Anni Cinquanta per Rizzoli.

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