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Set 30, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: I Vespri Siciliani (Parte Prima)

Librettitudini Verdiane: I Vespri Siciliani (Parte Prima)

E già dal titolo capiamo che questa faccenda non fu scritta per l’Italia – almeno in origine. Una storia di Siciliani che insorgono contro gli oppressori stranieri e gliele suonano? Ma figuriamoci.

anno verdiano, les vêpres siciliennes, eugène scribeSemmai, la cosa strana è che l’opera nacque francese per l’Opéra di Parigi, e gli oppressori in questione sono… be’, Francesi. Bizzarro, vero? E in realtà Verdi stesso aveva i suoi dubbi, perché gli pareva che tutti ne uscissero male – i Francesi tonfati e gli Italiani cospiratori col coltello tra i denti – e chiese al librettista Eugène Scribe di eliminare quanto meno tutto quel che offendeva l’Italia…

Ma in realtà a Scribe non è che interessasse molto. Figuratevi che – e questo Verdi non lo sapeva né l’avrebbe saputo fino a molti anni più tardi – era persino un libretto riciclato. C’era questo Le Duc d’Albe, vicendona ispano-fiamminga che, se fosse stata un film Anni Sessanta, si sarebbe chiamata La Figlia di Egmont. Era una classica faccenda di amore, agnizioni, vendetta e morte (preterintenzionale), scritta per Donizetti, che però la cominciò e piantò lì. Ma perché mai buttar via un libretto già pronto? Quando una quindicina di anni più tardi Verdi si presentò a chiedere qualcosa di grandioso, appassionato e originale, Scribe riciclò Albe in Monfort, e le Fiandre spagnole nella Sicilia del tardo Duecento.

Vogliamo vedere? Vediamo.

Atto Primo.

Si comincia in piazza a Palermo, con gli Angioini che gongolano nonostante la anno verdiano, les vêpres siciliennes, eugène scribenostalgia di casa, inneggiano al loro amato comandante Guido di Monforte e alla bellezza delle pur riottose Siciliane… Ma chi è la bella dama in nero che attraversa la scena velata e triste? È la duchessa Elena, in lutto per il fratello, quel duca Federico d’Austria che Monforte ha fatto decollare come traditore.

Ed Elena, soprano della varietà più tosta, cova vendetta. L’arrogante Francese ubriaco che, tanto per fare il gradasso, le impone di cantare, non sa che cosa lo aspetta. Elena canta. Canta di mare, dapprincipio, e di tempesta, e della forza di chi sfida destino e catastrofe…

E può darsi che ai Francesi alticci sfugga il sottotesto, ma i Siciliani sono un’altra faccenda. Pugnali alla mano, la folla è sul punto di sollevarsi in quello che ha tutta l’aria di dover essere un bagno di sangue quando compare un uomo. Solo e senza guardie, si affretta a spiegare Scribe.

Sensazione.

anno verdiano, les vêpres siciliennes, eugène scribeA uno sguardo del nuovo arrivato, la folla si disperde, e persino Elena rimane un po’ scossa: il disperditore di folle è Monforte – Guido di Monforte, e quando arriva lui non ce n’è più per nessuno.

A meno, ovviamente, di essere tenori. Perché chi ti caracolla in scena proprio adesso – e senza accorgersi di Monforte? Ma il nostro Primo Amoroso: Arrigo, giovane siciliano. Voglio dire: tutto un bellicosissimo e furibondo coro si è liquefatto sotto lo sguardo di Monforte – e Arrigo manco si accorge che è lì?

Peggio: Arrigo, che dovrebbe essere prigioniero e invece non lo è, si vanta con Elena di come i giudici lo abbiano lasciato andare – per pura e semplice giustizia, combinata alla debolezza dei Francesi, e di Monforte in particolare…

Monforte si è avvicinato e sente tutto, e invano Elena tenta di zittire il giovanotto…

E perché? – così il recasse
Innanzi a me fortuna
E a mia vendetta!

strepita Arrigo, senza sapere che fortuna l’ha preso assai sul serio. Elena parrebbe giustificata nell’aspettarsi che vada a finir male, ma si vede che oggi Monforte è d’umor clemente. Non solo prende con sense of humour la tenorile spavalderia di Arrigo ma, dopo avere congedato (un nonnulla bruscamente) Elena, lo tiene lì a far conversazione.anno verdiano, les vêpres siciliennes, eugène scribe

E così scopriamo che Arrigo non ha cognome, essendo figlio di padre ignoto*, non ha più madre, ed era devoto scudiero o giù di lì del defunto fratello di Elena. Per cui, se adesso Monforte lo vuol decapitare come ha fatto con il suo signore e capitano, si accomodi pure. E nemmeno adesso Monforte esce dai gangheri. Anzi: il ragazzo gli piace, ne ammira la temerarietà e gli offre un posto nelle sue schiere. Cosa che naturalmente Arrigo rifiuta con patriottico sdegno – e a Monforte piace anche questo, così lo lascia andare con consiglio omaggio: si guardi bene dal fare la corte ad Elena. Perché? vuol sapere il perplesso Arrigo. Eh, son cose che non vanno a finire bene…

E figurarsi Arrigo, innamorato cotto e allergico alle proibizioni: Monforte lo proibisce? E allora lui si precipita verso il palazzo di Elena – e Monforte lo guarda andare con commozione, ma senza sdegno.

Qui gatta ci cova – e sipario ci cala.

Atto Secondo

anno verdiano, les vêpres siciliennes, eugène scribeCi siamo spostati sulla spiaggia in una ridente vallata fuori Palermo, dove approda di nascosto il nobile Giovanni da Procida, esule, basso, cospiratore e zelota della causa. Anche lui e il suo coro son pieni di propositi di vendetta – ma il fatto è, come apprendiamo quando Elena ed Arrigo arrivano a titolo di comitato di benvenuto, che degli aiuti che sperava di raccogliere ne ha visti pochini. Pietro d’Aragona potrebbe appoggiare una rivolta, una volta che fosse scoppiata… Già, mugugna Arrigo, peccato che la Sicilia intera dubiti e tentenni.

Ma Procida è un consumato rimestatore di torbidi: perché non indurre i Francesi a farne una grossa? Lasciamo che all’ormai prossima festa dei fidanzati insultino qualche ragazza da marito – e allora la popolazione insorgerà, e a noi servirà qualcuno che colga il destro per accoltellare Monforte… uno a caso, per dire… Arrigo! Ed essendo anche un consumato manipolatore del prossimo, Procida se ne esce di scena, lasciando Arrigo ed Elena da soli a tubare.

E i due tubano – pur con qualche paturnia di ordine sociale da parte di Arrigo, perché insomma, lui è un umile soldato figlio di NN che solo e deserto e misero su questa terra sta, e lei è una duchessa… E indovinate che cosa gli dice Elena?

Il mio fratel deh! vendica,
E tu sarai per me
Più nobile d’un re!

E di nuovo, figurarsi Arrigo.

Peccato che proprio sul più bello arrivi una pattuglia francese con un invito al ballo per Arrigo. Essì, da parte di Monforte – un invito al ballo of all things. E per di più, Monforte sapeva dove mandarlo a cercare, proprio mentre era in missione segretissima… Ma non c’è tempo per le domande: quando Arrigo rifiuta, i Francesi risolvono prontamente l’impasse arrestandolo e portandolo via, per la costernazione di Elena. E se, povera ragazza, sperava in Procida per liberare il suo moroso, sperava male, perché Procida non è nulla se non pragmatico: contavamo su di lui; non è più disponibile? Faremo senza.

Anche perché il popolo festoso è già in arrivo, insieme a un certo numero di Francesi. Si dà inizio alle danze, e Procida, in versione agent provocateur, incita i Francesi a darsi da fare con le belle fanciulle. I Francesi, probabilmente i cattivi più cretini della storia del melodramma**, se lo fanno ripetere solo un paio di volte prima di gettarsi sulle Sicilianine e portarsele via – tranne Elena, che vedono protetta, spada alla mano, dal loro “buon amico” Procida.anno verdiano, les vêpres siciliennes, eugène scribe

E ci credereste? I Siciliani oltraggiati ancora mugugnano e tentennano… Almeno finché Procida ed Elena non fanno loro notare che la Duchessa non è stata toccata perché c’era qualcuno di deciso a proteggerla. E in realtà noi sappiamo che non è proprio così – ma che volete mai? Il popolo va diretto, e in effetti si sta scaldando…

Odesi gaia musica dal fondo – e guardate un po’ che cosa passa in lontananza: una nave impavesata a festa, su cui fanno baldoria gli ufficiali francesi e le dame locali collaborazioniste, tutti diretti al palazzo del governatore per il ballo.

Ecco dove andiamo a fare strage&vendetta, incita Procida.

Er… e le ragazze rapite? Non capiterà qualcosa di brutto mentre gli uomini vanno a fare strage&vendetta altrove? Verrebbe da chiederselo, ma si vede che non è importante.

Troppo ormai – favellò – il dolor – nel lor sen! –
L’onta ria – che patir – vendicar – or convien –
Agli acciar – corron già; – poté omai – nel lor cor –
D’un lion – più fatal – ribollir – il furor.

E qui l’atto finiam e il sipario caliam.

E qui, signore e signori, ci fermiamo per un intervallo – chè l’opera è lunga, e ci sta bene un calicetto di vin bianco alla buvette. Ci rivediamo lunedì prossimo, al suono del terzo campanello.

________________________________________

* Sentite odor d’agnizione? Non avete tutti i torti.

** Si stenta quasi a credere che l’autore del libretto sia un Francese, n’est-ce pas?

Ago 19, 2013 - Anno Verdiano    3 Comments

librettitudini Verdiane: Stiffelio

Chiedo perdono, o Lettori: per una serie di simpatici inconvenienti tecnici, oggi le Librettitudini arrivano in ritardo, in versione ridotta e senza granché in fatto di illustrazioni. Abbiate pazienza. Ci faremo perdonare.

Intanto, Stiffelio.

 

giuseppe verdi, anno verdiano, francesco maria piave, stiffelioCredo che Stiffelio sia l’unica opera di Verdi di cui non ho mai sentito nemmeno una nota.

E a dire la verità, non è nemmeno tutta colpa mia, perché non è che la si rappresenti proprio tutte le settimane. A quanto pare, anzi, non la si rappresentò affatto tra il 1857 e il 1968 – con una manciatina di possibili eccezioni spagnole, cosa di cui però nessuno è troppo sicuro.

Comunque, centoundici anni senza una singola rappresentazione vorranno pur dire qualcosa…

Nel caso di Stiffelio, paiono volerne dire più di una. Per cominciare, che Verdi e Piave (povero Piave!) avevano scelto un soggetto perfettamente adatto a far storcere il naso a pubblico e censura. Perché il fatto si è che, e già lo si era visto con la Luisa Miller, Verdi cominciava a non poterne più di castelli, guerre, teste coronate e tutti gli orpelli classici del melodramma. A lui, all’epoca, sarebbe piaciuto occuparsi di piccole storie individuali e “borghesi” e raccontarle con un occhio alla verosimiglianza.

Tanta verosimiglianza quanta se ne può praticare all’opera, s’intende – ma ci siamo capiti. E così scelse con Piave un dramma teatrale francese in cui si parlava di (gasp!) adulterio. E non solo, ma di (gasp!) adulterio ai danni di un (gasp!) pastore protestante.

E voi capite che questo significava andarsi a cercare dei guai, vero?

Piave (povero Piave!) da quel buon gatto che era tentò di sfrondare gli aspetti più scandalosi semplificando il dramma, ma riuscì soltanto a mettere (gasp!) l’adulterio in bella vista tra i rami nudi…

E vediamo un po’.

Atto Primo

Cominciamo col chiarire che non siamo più in Francia come nel dramma, ma in castello in Germania.

“Oh…” odesi dal loggione. “Ma non si era detto niente castelli?”

E che vi devo dire? Anche le rivoluzioni si fanno per gradi.

E comunque di essere in territorio inesplorato lo capiamo subito: saremo pur in un castello ma, anziché con un coro, per una volta, cominciamo con un vecchio pastore assasveriano che legge e mugugna e spera che il matrimonio con la figlia del nobile padrone di casa non abbia smussato lo zelo del suo giovane amico e collega Stiffelio…

Ed eccolo qui, Stiffelio, che torna… da dove? Non lo sappiamo – né lo sapremo mai, però una cosa è certa: dovunque fosse, si è fatto onore. E mentre suocero, cugini e amici lo festeggiano, e la moglie Lina lo festeggia un po’ meno, per primissima cosa il Nostro eroe racconta che un barcaiolo lo ha accolto sottoponendogli un rovello: nottetempo ha visto (il barcaiolo, non Stiffelio) un giovanotto e una donna a una finestra. La donna era agitata, e il giovanotto si è gettato dalla finestra nel fiume… e ha perso delle carte.

Si vede che non si sono bagnate troppo, perché il barcaiolo le ha raccolte e le ha affidate a Stiffelio.

Ora, dite la verità: non vi chiedereste per prima cosa dove di preciso il barcaiolo ha visto questa scena? Ma Stiffelio e compagnia no – né notano particolarmente l’aria colpevol di Lina e del nobile Raffaele di Leuthold. Ed è ovvio che se lo notassero, l’opera sarebbe già finita – però chi ha dei sospetti è il vecchio colonnello-conte Stankar, padre di Lina e, come la maggior parte dei padri d’opera, gelosissimo dell’onor famigliare.

Gli altri vogliono solo sapere che mai intenda fare Stiffelio delle carte misteriose. Stiffelio, anima candida, le carte decide di bruciarle, perché non ha l’abitudine di leggere missive altrui e comunque i falli vanno perdonati.

Sollievo di Lina (decisa a non peccare più) e Raffaele (disposto a peccare almeno un’ultima volta), masticazione amara di Stankar, ammirazione degli altri per la magnanimità di Stiffelio.

Ma ecco il coro. Cominciavamo a preoccuparci, vero? E invece il coro è qui e viene a festeggiare il ritorno di Stiffelio e a dirgli…

Sei di Lamagna vanto,
Del vizio fugatore.
Giustizia, amor fraterno
Diffondi sulla terra,
Pel santo Vero eterno
Combatti l’aspra guerra.

Non dev’essere il più gaio dei mariti da avere attorno, vero? Però, quanto Stankar conduce tutti quanti a festeggiare fuori scena (dove presumibilmente è pronto il buffet) e i due coniugi restano soli, scopriamo che, se è un po’ dull, però Stiffelio è innamoratissimo.

Scopriamo anche che in realtà Stiffelio si chiama Rodolfo Mueller. Forse che gli Assasveriani usano nomi d’arte? Anche questo non lo sapremo mai – ma non è molto importante. O almeno non crediamo. Quel che è importante è che, quando il discorso cade per caso sull’adulterio e Lina si turba, Stiffelio dapprima la crede troppo candida e pura per l’argomento – salvo poi, accorgendosi che lei non ha l’anello nuziale, infuriarsi all’istante e sulla fiducia.

Sì, be’, forse sulla fiducia e sulla base dell’aria terribilmente colpevole con cui Lina scoppia a piangere…

Ma che ne è stato, ci domandiamo noi un nonnulla sbigottiti, dell’uomo che bruciava le carte e predicava il perdono? E si direbbe che, Assasveriano o no, Stiffelio non razzoli tanto bene quanto predica. Abbiamo la netta impressione che soltanto l’arrivo di Stankar impedisca al nostro tenore di allungare un manrovescio persuasivo al soprano…

Gli amici aspettano di là, e Stiffelio si ricompone e li raggiunge insieme a Stankar, promettendo però di ritornare. 

Lina resta da sola e si torce un po’ le mani in tutta contrizione, e comincia a scrivere una confessione per lettera… ma ecco che ritorna Stankar, cui non pare davvero bello che Lina spiattelli tutto. In una serie di versi non terribilmente chiari, il vecchio conte informa la figlia che proprio non sta bene, senza contare che di certo il dolore ucciderebbe Stiffelio…

Anche a voi era parso più furibondo che addolorato da morirne? Anche a me, ma Lina cede – e tanto più che il padre la maledice un pochino. Sì, insomma: verosimiglianza, storie individuali e tutto, ma una maledizione, così come un castello, non ce la si poteva far mancare, giusto?

Ad ogni modo, padre e figlia escono lasciando il campo a Raffaele di Leuthold, il nostro adultero, che nasconde in un libro provvisto di chiave la lettera in cui chiede a Lina un colloquio segreto. E lui magari crede di essere solo e inosservato, ma chi lo spia di tra le quinte? Jorg, il vecchio e lugubre pastore dell’inizio, ricordate? E perché, nel vedere poi il cugino di Lina che prende il libro e se lo porta via, Jorg debba giungere alla conclusione che l’amante clandestino debba essere proprio lui, è un altro degl’impenetrabili misteri di questo libretto – ma tant’è.

E infatti, al riapparire del coro (che ancora non la pianta di festeggiare il ritorno di Stiffelio) e dei solisti, Jorg si affretta ad informare il suo giovane amico di quello che crede di aver visto… Col non incomprensibile risultato che Stiffelio farnetica di tradimento e di Giuda, strappa il libro al povero e innocente cugino Federico, ingiunge a Lina di aprire, strappa il fermaglio quando lei rifiuta, e… 

Oh! una lettera!

Stankar non è terribilmente stupito, ed è rapido ad impossessarsi della lettera e farla a pezzettini – per poi rovinare sfidare a duello Raffaele in gran segreto.

“Lasciando che Stiffelio creda colpevole il povero cugino Federico?” odesi dimandare dal loggione…

Essì – dal che capiamo che a) il povero cugino Federico è in tutta probabilità spendibile; b) potevamo credere che la pace d’animo del genero fosse la prima preoccupazione di Stankar – ma ci sbagliavamo. E… sipario.

E per oggi, perdonate, ci fermiamo qui.

Che ne sarà di tutti questi Assasveriani? Capirà Stiffelio come stanno le cose? Tacerà Lina? Agirà Stankar? Che farà Raffaele?

Non perdete gli atti secondo e terzo di… Stiffelio – lunedì 26 agosto su Senza Errori di Stumpa.


Ago 5, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: La Battaglia Di Legnano

Librettitudini Verdiane: La Battaglia Di Legnano

giuseppe verdi, la battaglia di legnano, anno verdiano, salvadore cammaranoEra il 1848, e tutti sappiamo che razza di tempi fossero.

Verdi, l’uomo che aveva già infiammato i cuori dell’Italia patriottica con cose come il Nabucco, i Lombardi e il Macbeth e l’Attila, decise che ci stava bene qualcosa di proprio incendiario, thank you very much.

Probabilmente si sarebbe rivolto al solito Piave – povero Piave! – se a quello non fosse saltato per il capo di arruolarsi a Venezia. Ma con Piave in armi, Solera in Spagna e Maffei mai più per carità, chi restava se non Cammarano?

In un primo momento ci provarono con il Cola di Rienzo di Bulwer-Lytton*, ma proprio non funzionava, e allora misero insieme una storia napoleonica di Mery con L’Assedio di Firenze del buon Guerrazzi, e quel che ne uscì fu La Battaglia di Legnano – in cui, capite, gli Italiani le danno di santa ragione ai “barbari” del Barbarossa e, per di più, i Teutoni in campo son gente malvagia e spregevole.

Ma vediamo un po’.

L’Atto Primo (intitolato, secondo la maniera di Cammarano, Egli Vive!), si svolge a Milano nel 1176.

All’aprirsi del sipario, sono in arrivo i rinforzi da Verona, Vercelli, Novara, Brescia e Piacenza, e il coro milanese fa loro tutte le festevoli accoglienze del caso.giuseppe verdi, la battaglia di legnano, anno verdiano, salvadore cammarano

Viva Italia! un sacro patto
Tutti stringe i figli suoi:
Esso alfin di tanti ha fatto
Un sol popolo d’Eroi!
[…]
Viva Italia forte ed una
Colla spada e col pensier!
Questo suol che a noi fu cuna,
Tomba sia dello stranier!

Canta fra l’altro questo festevole coro – e immaginatevi l’effetto che versi del genere potevano avere nell’Italia del Quarantotto…

Ma non distraiamoci, e notiamo invece che tra i Veronesi marcia Arrigo, il nostro tenore. Per prima cosa, egli c’informa che, dopo la lunga convalescenza di una ferita di guerra, è ben contento di essere tornato a Milano, dove spera di ricongiungersi con la sua amata.

Intanto però si ricongiunge con il suo grande amico Rolando (duce milanese) che, come tutti, l’aveva creduto morto in battaglia, e a cui non par vero di ritrovarlo vivo. Gran commozione reciproca, ma badateci: Rolando, ahilui, è un baritono, e all’opera le amicizie tenore-baritono non sono mai destinate bene.

giuseppe verdi, la battaglia di legnano, anno verdiano, salvadore cammaranoPoi arrivano i Consoli di Milano a dare il benvenuto ai nuovi arrivati, e tutti cantano ancora un po’ di roba incendiaria come:

S’appressa un dì che all’Austro
Funesto sorgerà,
In cui di tante ingiurie
A noi ragion darà!

E poi noi ci spostiamo in un loco ombreggiato, dove la bella e nobile Lida, sola tra tutti i Milanesi, se ne sta solinga e pensosa invece di esultare. Le sue dame se ne stupiscono. Lei risponde che, dopo avere perduto in guerra genitori e fratelli, non è più capace di esultare – e a noi pare che le sue dame potrebbero anche saperlo, ma si sa che i cori sono né più né meno che espositori prezzolati, giusto?

E mentre Lida lamenta tra sé di non potersi più nemmeno augurare di morire presto perché adesso ha un bambino, entra Marcovaldo**, che è un prigioniero alemanno – nonché un baritono della varietà peggiore. Costui, veniamo a scoprire, è prigioniero di Rolando, della cui generosità approfitta per corteggiare la di lui consorte Lida. Lei lo respinge indignatissima, e lui è occupato a masticare amaro quando arriva Rolando con la stupefacente novella che Arrigo è qui!! 

Sensazione.

Lida avvampa, Arrigo per poco non sviene e si salva in corner con la scusa dell’imperfetta guarigione – e Marcovaldo vede e capisce tutto. Perché, vedete, è proprio Lida la bella con cui Arrigo era così ansioso di ricongiungersi – e lei è… come dire? Un nonnulla maritata a Rolando.

Rolando invece non capisce nulla e, alla notizia che gli Imperiali avanzano, commette il Peccato Capitale Operistico: se ne va lasciando insieme un tenore e un soprano.

Arrigo, si capisce, non è contento. È così occupato a maledire la fedifraga Lida, che a quanto pare gli aveva promesso di amarlo per sempre, aspettarlo se fosse vissuto e seguirlo nella tomba se fosse morto… così occupato a maledirla, dicevo, che nemmeno ascolta alle sue proteste d’innocenza: lei lo credeva morto, che diamine, e il padre moribondo le aveva imposto di sposare Rolando! Che cosa può fare una povera ragazza?

Ma Arrigo non la considera una giustificazione e, dopo avere maledetto ancora un po’, se ne va annunciando l’intenzione di morire in battaglia. Sipario.

Atto Secondo – Barbarossa! giuseppe verdi, la battaglia di legnano, anno verdiano, salvadore cammarano

Per questo atterello fulmineo ci spostiamo a Como, dove Rolando e Arrigo arrivano in qualità di messaggeri per chiedere l’aiuto dei Comaschi contro il Barbarossa. Ma i Comaschi l’hanno a morte con Milano per vecchie rivalità e poi hanno un patto in essere col Barbarossa… del che, ritorcono i Nostri, dovrebbero vergognarsi con tutto il cuore, ma possono ancora riscattarsi unendo le loro spade a quelle della Lega Lombarda… Mentre son lì che battibeccano, entra un misterioso uomo ammantellato che, nel giro di tre secondi, si rivela essere il Barbarossa in persona, giunto con quell’esercito che i Milanesi credevano da qualche parte tra l’Adige e Pavia…

Ops.

E non è chiaro se i Comaschi siano più sgomenti per essere stati beccati a colloquio con i ribelli o più gongolanti per l’iradiddio che sta per abbattersi sui rivali storici, ma tant’è. Barbarossa tuona minacce con voce di basso, Rolando e Arrigo replicano sdegnosamente che non gli rispondono nemmeno e si rivedranno sul campo di battaglia.

TUTTI:
Guerra dunque!… terribile!… a morte!…
(Con grido ferocissimo)
Senza un’ombra di stolta pietà!

E… sipario!***

Atto Terzo – L’Infamia!****

Abbiamo approfittato dell’intervallo per tornare a Milano, nella cripta di Sant’Ambrogio, dove…

I Cavalieri della Morte scendono a poco a poco, ed in silenzio: ognun d’essi porta una ciarpa ad armacollo, su cui avvi effigiato il capo d’uno scheletro umano.

A questa gaia compagnia intende aggregarsi Arrigo, che viene accettato al volo. Rapida cerimonia d’iniziazione…

[I]l più anziano fra essi, che pone Arrigo in ginocchio a piè d’una tomba, e lo fregia della propria ciarpa: allora tutti i cavalieri incrocicchiano i brandi sul capo di Arrigo, quindi lo sollevano e gli porgono l’amplesso fraterno.

Incrocicchiano… credete che ci possa umanamente chiamare un gatto? Ma non divaghiamo. La cerimonia si conclude con un giuramento che vi riporto per intero:

giuseppe verdi,la battaglia di legnano,anno verdiano,salvadore cammaranoGiuriam d’Italia por fine ai danni,
Cacciando oltr’Alpe i suoi tiranni.
Pria che ritrarci, pria ch’esser vinti,
Cader giuriamo nel campo estinti.
Se alcun fra noi, codardo in guerra,
Mostrarsi al voto potrà rubello,
Al mancatore nieghi la terra
Vivo un asilo, spento un avello:
Siccome gli uomini Dio l’abbandoni,
Quando l’estremo suo dì verrà:
Il vil suo nome infamia suoni
Ad ogni gente, ad ogni età.

E di nuovo, immaginatevi l’effetto. Non è in fondo commovente pensare che un libretto del genere potesse passare indenne la censura?

Oh well, spostiamoci a casa di Rolando, dove Lida si aggira come una forsennata e, quando l’ancella Imelda le chiede a chi scrivesse poco prima, prorompe in una delle più convincenti scene di coda di paglia della storia del teatro musicale. E che Imelda la denunci pure, se crede – alla peggio la condanneranno a morte, e lei non brama altro, bla, bla…

Imelda non ha la minima intenzione di denunciare nessuno, ma ci mette meno di nulla a capire che si tratta di Arrigo. E infatti, Lida è angosciatissima all’idea che il giovanotto vada a cercare la morte tra la gente col teschio sulla sciarpa e così – of all stupid things – gli ha scritto una lettera.

Imelda andrebbe a consegnare, se non arrivasse Rolando che, alla vigilia della battaglia, arriva per congedarsi dalla moglie e dal frutto del loro imene.

Commosso e d’umor cupo, benedice il bambino che Imelda gli porta, e lo affida alle molteplici virtù della madre se lui dovesse morire in battaglia. Lida comincia a sentirsi una bestiaccia e se ne va col bambino. giuseppe verdi,la battaglia di legnano,anno verdiano,salvadore cammarano

Non contento, Rolando fa chiamare Arrigo e gli chiede, in nome della loro amicizia, di vegliare su Lida e sul bambino se lui dovesse morire. Naturalmente non sa che Arrigo si è appena arruolato tra quei morituri che in battaglia difendono la bandiera sul Carroccio – ma non è questo il punto. Anche Arrigo comincia a sentirsi una bestiaccia. Commosso e pieno di sensi di colpa, giura e suggella il giuramento abbracciando (pur con qualche riluttanza, bisogna ammetterlo) il povero Rolando. E poi se ne va singhiozzando.

E qui, signori della corte, vi prego di spendere un pensiero su quanto bravo, buono, leale, fiducioso e degno sia il baritono Rolando.

E ve ne prego adesso perché nella scena successiva arriva Marcovaldo ad annunciargli che tradito, offeso fu, vilipeso nell’onore…

Rolando inorridisce.

Lida e Arrigo…

Rolando rifiuta di credere.

Lettera…

E Rolando legge – e questa è una scena classica. Il baritono scopre che l’adorata moglie e l’amico fraterno lo hanno tradito e, col cuore spezzato, giura vendetta. La vedremo ancora in futuro. Ma francamente, potete biasimarlo, pover’uomo?

E Marcovaldo gongola…

Noi ci spostiamo nelle stanze di Arrigo, in cima ad una torre. Arrigo sta scrivendo alla mamma quando Lida arriva per dirgli che, proprio per riguardo alla mamma, non deve e non può andare a morte certa. Be’, protesta Arrigo in un esempio del più bieco ricatto morale, ma se lei non lo ama più, che vive a fare? Oh, ma lei lo ama, lo ama ancora. Non che a questo amore possano dar corso, ma…

E in quella si bussa. Ed è Rolando. E Arrigo nasconde Lida sul balcone. E Rolando è venuto a dire ad Arrigo che sa del giuramento e della Compagnia della Morte, ed è ora di andare, e apre la porta sul balcone per mostrargli le schiere in partenza e, come in una pochade francese, chi c’è sul balcone?

Lida e Arrigo, scoperti nel peggiore dei modi, supplicano Rolando di ucciderli, ma Rolando ha un’idea migliore. Li chiude dentro, così che Arrigo non possa raggiungere i suoi compagni e, mancando alla battaglia, sia disonorato.

Orrore orror! Questa sì che è una vendetta – o lo sarebbe, se Arrigo non si gettasse dal balcone pur di non rimanere indietro. Essì, in una scena che, francamente, sembra uscita da Braccobaldo Bau, Arrigo si butta dal balcone gridando “Viva Italia!” e Lida gli grida dietro “Arresta!” e poi cade tramortita. E il sipario cade.

Atto Quarto – Morire per la Patria!

Altro atto breve. In un tempio***** milanese, dove le imbelli donne, i tremuli vecchi, e gl’innocenti fanciulli aspettano nuove da Legnano, dove si è combattuto lo scontro decisivo tra la Lega e gli Imperiali. Ci sono anche Lida e Imelda, che discutono sottovoce di come Arrigo sia stato visto uscire dal fiume e raggiungere i suoi in tempo per la battaglia. Lida è tanto grata che si sente in colpa, e allora prega per Rolando, e anche per Arrigo, perché ehi! sono i due migliori capitani dell’esercito: supplicare il cielo di risparmiarli entrambi è altamente patriottico, giusto?

Ma odonsi grida di vittoria.

giuseppe verdi,la battaglia di legnano,anno verdiano,salvadore cammaranoArrivano i Consoli ad annunciare che il Barbarossa le ha prese di santa ragione in senso lato e in senso stretto, visto che il veronese Arrigo lo ha anche disarcionato…

Dall’Alpi a Cariddi echeggi vittoria!
Vittoria risponda l’Adriaco al Tirreno!
Italia risorge vestita di gloria!…
Invitta e regina qual era sarà!

esulta il coro, ma… che è quel corteo semifunebre che giunge? Ma che diamine! Sono i Cavalieri della Morte, che riportano uno dei loro ferito. Indovinate chi?

E Arrigo morente usa il suo ultimo respiro per chiedere a Rolando di perdonarlo e di credergli se dice che Lida è pura siccome un angelo. E perché Rolando dovrebbe credergli? Perché…

Non mente… error nefando
Saria mentir… spirando…
Chi muore per la patria
Alma sì rea non ha.

Anche Lida supplica, e Rolando si commuove e cede, e abbraccia entrambi e perdona.giuseppe verdi,la battaglia di legnano,anno verdiano,salvadore cammarano

Per rendere ancora più strappalacrime il momento, al suono del Te Deum entra trionfalmente il Carroccio. Il nostro giovanotto chiede di toccare un’ultima volta lo stendardo che ha difeso così bene e, accontentato, muore tra le braccia di Lida e Rolando.

Il coro costata il decesso, le campane squillano e il sipario cala.

Ora, prima ho detto che questo libretto, che per l’epoca era incendiario indeed, passò lo sbarramento della censura… Ma forse dovrei specificare che la passò nella Roma fuggevolmente repubblicana dell’inizio del ’49, dove La Battaglia debuttò al Teatro Argentina. E dove comunque, al successone di pubblico dovuto in buona parte all’argomento iperpatriottico, corrisposero gli strali della critica delusa da un lavoro musicalmente così così…

Nei mesi e negli anni successivi quest’opera circolò pochissimo, nonostante tutta una serie di tentativi di addomesticare l’argomento spostandolo a Calais, ad Arlem (Harleem, presumo…) ed altri luoghi più o meno improbabili.

Ma non servì a granché. A Verdi piaceva, a dire il vero, ma nessun altro ci si appassionò mai per davvero, e in conseguenza La Battaglia rimane uno di quei titoli semidimenticati.

 

________________________________________________

* Yes, yes: Edward Era-una-notte-buia-e-tempestosa Bulwer-Lytton.

** E così adesso sappiamo dove è andato a pescarlo Calvino.

*** Sì, col punto esclamativo! Mi sono lasciata trascinare da Cammarano, che semina punti esclamativi come se piovesse!

**** See? Che cosa vi avevo detto?

***** Ricordate? Parlare di “chiesa” nei libretti era proibito. 

Lug 1, 2013 - Anno Verdiano, musica    2 Comments

Librettitudini Verdiane: Alzira

Se mai opera nacque sotto i migliori auspici, probabilmente fu l’Alzira. giuseppe verdi, anno verdiano, salvatore cammarano, alzira, voltaire, teatro san carlo

Insomma, il San Carlo di Napoli era un teatro difficile da accontentare. Venirci chiamati – come capitò a Verdi nel ’44, e vedersi offrire la collaborazione con un principe dei librettisti come l’esperto, celebre e notevole Salvadore Cammarano, era un’opportunità non da poco.

Verdi accettò di slancio e diede a Cammarano carta bianca – bianchissima: qualsiasi cosa il librettista avesse in mente, lui l’avrebbe musicata con entusiasmo.

giuseppe verdi,anno verdiano,salvatore cammarano,alzira,voltaire,teatro san carloE Cammarano aveva in mente Voltaire. Ma non un Voltaire qualunque: Alzire, Ou Les Américains – tragediona in cinque atti con gli Incas e i Conquistadores, il Buon Selvaggio e il Cristianesimo, l’Amore e la Vendetta – tutto in maiuscole. E, giusto per non farsi mancare nulla, il tutto si svolgeva in Perù! Che si poteva volere di più in fatto di esotismo?

Per un po’, Verdi e Cammarano si danzarono intorno in reciproco entusiasmo come due uccelli-lira nella stagione del corteggiamento, sotto lo sguardo benevolo di Vincenzo Flauto, impresario del San Carlo. Poi…

Be’, poi cominciarono i guai.

Cammarano si rivelò verseggiatore lento.

Verdi si ammalò.

L’Eugenia Tadolini, il supersoprano su cui Verdi aveva messo gli occhi per il ruolo eponimo, si rivelò incinta.

Di Anna Bishop, la possibile Alzira inglese caldeggiata da Flauto, Verdi non voleva nemmeno sentir parlare.

Cammarano diceva sempre di sì a tutte le modifiche richieste da Verdi – e poi faceva sempre di testa sua.

Verdi seguitava in cattiva salute.

Flauto cominciò a credere (forse non del tutto a torto) che Verdi stesse tergiversando.

Il libretto dopo tutto era molto meno meraviglioso di quanto fosse parso in un primo momento.

Anna Bishop sobillò melomani e stampa contro il compositore forestiero…

Alla fine fine, tanto si procrastinò che la Tadolini rientrò in servizio e Verdi, col libretto finalmente completo, si mise al lavoro. Leggenda vuole che musicasse tutto quanto in venti giorni – per poi precipitarsi a Napoli per le prove. giuseppe verdi,anno verdiano,salvatore cammarano,alzira,voltaire,teatro san carlo

Con Flauto seccato, la Tadolini convalescente, Verdi convalescente e seccato, Cammarano freddino, la città ostile e la Bishop che soffiava sul fuoco, potete immaginare che il clima non fosse dei migliori.

E per di più il libretto era… yes, well.

Ma vediamo.

Per cominciare, immaginatevi una vasta pianura, irrigata dal Rima: l’oriente è ingombro di maestose nubi, imporporate dai raggi del sole nascente. Quando il sipario si apre sul prologo, una tribù di Americani è intenta a pregustare in coro le brutte cose da farsi al prigioniero spagnolo – nientemeno che il vecchio e canuto governatore del Perù.

E vi riporto, perché ne vale la pena…

Muoja, muoja coverto d’insulti,
I martiri sien crudi, ma lenti,
(Con accento ferocissimo)
Strappi ad esso codardi singulti

Il tormento di mille tormenti. –
O fratelli, caduti pugnando,
Dalle tombe sorgete ululando…
L’inno insieme del trionfo s’intuoni,
Mentr’ei sparge l’estremo respir.

Ecco, appunto. Ma mentre già levano dardi (!), picche e tizzi ardenti per grigliare Don Alvaro, piomba tra loro in canòa il tenore – accolto con gran gioia da tutti senza che, cosa rilevante, nessuno lo chiami per nome.

A dimostrazione del fatto che non è poi così selvaggio, il giovanotto fa grazia a Don Alvaro e lo rimanda per la sua strada. Solo a questo punto si rivela essere il capo locale Zamoro, che tutti credevano morto, e ci racconta come a) le voci sulla sua morte fossero decisamente premature; b) non abbia altra brama al mondo se non quella di vendicarsi di Gusmano, figlio di Don Alvaro; c) sia ansioso di riunirsi alla sua bella Alzira.

giuseppe verdi,anno verdiano,salvatore cammarano,alzira,voltaire,teatro san carloAh, ma il fatto si è che Alzira, insieme al babbo capo Ataliba, è prigioniera degli Spagnoli a Lima… Ebbene, ragione di più per raccogliersi attorno tutte le tribù furibonde, marciare su Lima e dare agli Spagnoli quel che spetta loro, giusto? E così, galvanizzati dalla prospettiva, i nostri Americani si avviano tumultuosi, agitando all’aura vivamente e dardi, e clavi, ed aste.

Sipario – e Atto Primo, che, alla maniera di Cammarano, ha un suo titolo: Vita per vita.

Siamo a Lima, adesso, dove è appena arrivata una nave recante dispaccio reale.

Alvaro comunica a soldati, ufficiali e popolo che Madrid gli ha concesso il sospirato pensionamento. Il nuovo governatore è suo figlio Gusmano – che è, badate bene, baritono.

E Gusmano comincia il suo governatorato stringendo la pace con Ataliba, re Inca – pace da suggellarsi con il matrimonio tra Gusmano stesso e Alzira, la bella figlia di Ataliba.

Ataliba chiede un po’ di tempo: Zamoro, il precedente fidanzato della fanciulla, è morto in battaglia e lei è ancora un tantino scossa… Gusmano capisce, ma è innamorato e non ha nessuna particolare voglia di aspettare. Vorrebbe, per favore, Ataliba esercitare la sua autorità paterna?

Perché insomma, va bene essere capitani vittoriosi, va bene essere governatori del Perù – ma senza il cor d’Alzira/un mondo è poco a lui…

Ataliba vorrebbe, e tutto il coro spagnolo simpatizza.

Chi non vorrebbe affatto è Alzira che, dicono le sue donzelle americane, di giorno e di notte, nel sonno e nella veglia, non fa altro che invocare Zamoro – che, ricordatevi, crede morto. E qui a noi balza vagamente l’idea che Alzira sia una tremenda rompiscatole, ma fingiamo di nulla e stiamo ad ascoltarla mentre si sveglia, racconta di avere sognato un’altra volta il defunto Zamoro, cui intende essere fedele, morte o non morte.giuseppe verdi,anno verdiano,salvatore cammarano,alzira,voltaire,teatro san carlo

Per cui, quando Ataliba arriva e le comunica che non c’è più trippa per gatti ed è gioco forza sposare Gusmano, la fanciulla non è per nulla contenta. Ma come, e Zamoro?

Ataliba le fa notare che: 1) Zamoro è, you know, morto; 2) solo sposando Gusmano può restituire la pace al suo popolo; 3) poteva andarle peggio, visto che Gusmano è sinceramente innamorato di lei; 4) e comunque glielo ordina suo padre: poche storie e agl’imenei si proceda.

E mentre Alzira fa sopraneschi propositi di morte, l’ancella Zuma le annuncia che… Be’, di fatto le annuncia che secondo una sentinella c’è un Americano che chiede udienza – ma qui siamo all’opera, per cui Zuma dice che:

Alcun fra loro, cui vegliar le porte
S’ingiunge, annunzia che venirne implora
Un de’ nostri al tuo piede.

Chi fia? E indovinate un po’?

Ma Zamoro, naturalmente – che dapprima Alzira scambia per un fantasma. Ma no, è lui in carne, ossa e sete di vendetta, per non parlare di un’ombra di sospettosa indignazione: ma come, davvero è pronta a sposare uno Spagnolo? Quello specifico Spagnolo fra tutti? Alzira, con notevole sottigliezza, risponde che non era pronta affatto: doveva farlo e basta. Al che Zamoro si scioglie, e i due cinguettano un diluvio di teneri e appassionati emistichi…

…Fino all’ingresso di Gusmano con Ataliba e coro al seguito!

Gusmano, non incomprensibilmente, non è colmo di letizia nello scoprire che Zamoro è ancora vivo, e lo condanna a morte.

Alzira strilla, Ataliba è perplesso, il coro si divide in pro e contro e, nel mezzo del pandemonio, entra Alvaro, che riconosce in Zamoro il nobile selvaggio che gli ha salvato la vita nel prologo.

Segue confusione: incalzato da Alzira, Ataliba e parte del coro, Alvaro supplica il figlio di essere clemente; Zamoro pensa di migliorare la sua situazione insultando Gusmano; il resto del coro chiede misure drastiche; Gusmano comincia inflessibile, poi è scosso quando il babbo gli s’inginocchia davanti, poi spiega di non poter cedere perché c’è di mezzo Alzira…

giuseppe verdi,anno verdiano,salvatore cammarano,alzira,voltaire,teatro san carloMa all’improvviso, odesi un murmure lontano. Vi eravate dimenticati delle tribù furibonde, vero? Be’, eccole qui, le tribù furibondo, che vengono a riprendersi Zamoro, Alzira, Ataliba e, già che ci sono, Lima tutta e il maggior numero possibile di teste spagnole.

Questo sì che decide Gusmano – e, badate bene, non perché speri di placare gli attacanti. Scosso dalle preci del genitore, punto sul punto d’onore e ansioso di battaglia, rimanda Zamoro da dove è venuto (vita per vita!), con la promessa d’incontrarlo sul campo.

Il coro accoglie variamente la prospettiva di altro spargimento di sangue, Gusmano e i suoi escono da una parte, Zamoro dall’altra e Alzira, trattenuta dal padre e dalle donzelle americane, vaneggia di scudi umani.

Sipario.

L’Atto Secondo, che s’intitola La vendetta di una selvaggio, si apre sull’inequivocabile costatazione che gli Spagnoli sono più tosti degli autoctoni. Gli autoctoni le hanno prese di santa ragione (again), Zamoro è prigioniero (again) e Gusmano si appresta a firmare la sua condanna a morte (again). Arriva Alzira a supplicare la grazia per Zamoro (again), con il ricattatorio argomento che, se muore lui, muore anche lei.

Ma in fatto di ricatti, anche Guzmano non scherza: non c’è nessun bisogno che Zamoro muoia. Basta che Alzira ceda e il selvaggio è salvo.

Contro-contro-ricatto: ma non capisce Gusmano che tradire il suo giuramento ucciderebbe Alzira non meno della morte di Zamoro?

Ed è qui che Gusmano scopre il bluff di Alzira: sì, tutto molto poetico, ma la scelta resta tra le nozze e l’esecuzione.

E che deve fare un povero soprano? Alzira cede e Gusmano, nel suo entusiasmo, convoca il suo SIC per impartirgli queste affascinanti istruzioni:

Il pronubo
Rito solenne appresta…
E sia di tede innumeri
Splendente la città…

E quello corre. E Alzira si lancia nei consueti propositi di morte a’ pie’ dell’ara – cosa che potrebbe allarmare un nonnulla Gusmano, se non fosse troppo occupato a effondere sulla sua immensa gioia e sulla natura del suo amore…

Butta male, non pare anche a voi?

Ma spostiamoci per un momento in un’orrida caverna. Non potevamo assolutamente farci mancare un’orrida caverna. E in questa specifica orrida caverna si riuniscono i rimasugli della malconcia orda peruviana, a lamentare la batosta e a rallegrarsi della marginale consolazione di essere riusciti a liberare Zamoro corrompendo i suoi custodi.

Ed eccolo, Zamoro, cui secca maledettamente di essere giuseppe verdi,anno verdiano,salvatore cammarano,alzira,voltaire,teatro san carlostato sconfitto da Gusmano, e non è ancor nulla. Quando i suoi gli fanno notare le luci di Lima in lontananza e gli svelano le nozze imminenti, Zamoro perde la testa, maledice la fedifraga (again), giura vendetta e allarma i suoi correndo via nell’intento di imbucarsi al matrimonio – e non per scroccare i canapé.

Torniamo a Lima anche noi, e troviamo Gusmano che gongola, Alzira che si strugge e il coro che fa quel che i cori sono pagati per fare almeno una volta in ogni opera: compiacersi di un imene.

Ma proprio mentre Gusmano tende la destra alla sua riluttante e lacrimosa sposina, ecco Zamoro che, con balzo felino, esce di tra le quinte e pugnala lo sposo. A morte.

Orrore! Orror!!

Le sezioni armate del coro inorridito si avventano sull’omicida – ma aspettate… Colpo di scena! Con l’equivalente operistico di una conversione a U, Gusmano ferma tutti. Se non dispiace a nessuno, lui, che selvaggio non è, preferirebbe perdonare l’accoltellatore selvaggissimo e adoratore di dei crudeli.

Sensazione.

Il coro è perso in lacrimosa ammirazione. Zamoro è attonito (e forse anche un po’ seccato: che figura si fa a pugnalare un uomo che ti perdona?). Alzira, folgorata da tanta generosità, si converte all’istante. Don Alvaro è distrutto.

Gusmano non fa le cose a mezzo: ricongiunge i due innamorati, ingiunge loro di vivere felici e scagiona Alzira da qualunque intento matrimoniale. Sta a vedere che dopo tutto l’aveva ascoltata più di quanto sembrasse?

Il coro tutto è ammirato e commosso.

Gusmano barcolla, cade ai piedi del padre, gli chiede e ottiene una benedizione in extremis e manda l’estremo anelito per la disperazione del povero Don Alvaro e la commozione generale.

Spirò!…

commentano utilmente Gli Altri – caso mai il particolare ci fosse sfuggito.

Doppio accordo conclusivo regolamentare. Sipario.

E siamo alle solite, vero? Che un baritono possa vivere felice e/o amare ricambiato è proibito dalle leggi del Fato Operistico. Figurarsi. Oh well.*

giuseppe verdi,anno verdiano,salvatore cammarano,alzira,voltaire,teatro san carloAd ogni modo, quando alla fine andò in scena nell’agosto del ’45, l’Alzira non piacque. Il pubblico la trovò cortina, frettolosa, bruttarella di musica e parole…

La prima fu accolta freddamente, le tre repliche furono fischiate. Peggio ancora andarono le riprese di Roma e Milano. Dopo avere difeso senza troppa convinzione il suo lavoro per un po’, Verdi stesso giunse alla celebre conclusione che l’Alzira fosse proprio brutta.

Quanto questo giudizio del suo stesso autore abbia pesato sulla fortuna successiva di questa escursione peruviana, è difficile a dirsi. Di certo, quasi nessuno la mette in scena – e che vi devo dire? Di solito, se un’opera non viene rappresentata per decenni e decenni e decenni… be’, un motivo c’è.

 

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* E sì: ho un debole per i baritoni. So sue me. E vi avverto: rants come questo – e peggiori di questo – ne leggerete ancora.

 

 

Giu 17, 2013 - Anno Verdiano, Storia&storie    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: I Due Foscari

Librettitudini Verdiane: I Due Foscari

giuseppe verdi, anno verdiano, francesco maria piave, i due foscari, byronEra un po’ di tempo che Verdi aveva in mente di tentare Byron, e in particolare The Two Foscari, una di quelle cupe storiellone veneziane, ispirata alle vicende del doge Francesco Foscari e del suo sfortunato figlio.

Solo che a Venezia la censura non aveva voluto saperne – e non del tutto incomprensibilmente, perché non è che Byron faccia fare una gran figura alla Serenissima, implacabile fino alla crudeltà, a tutto beneficio delle vendette private…

Insomma, per la Fenice non se ne parlava, ma Roma era tutt’altra faccenda e, forte del suo nuovo contratto con il teatro Argentina, Verdi mise il buon Piave a verseggiare prim’ancora che le autorità avessero approvato la selva. La selva, per capirci, era una specie di sinossi dettagliata del libretto, su cui la censura esercitava un controllo preventivo.

La selva dei Foscari passò lo scrutinio in trionfo, e Verdi e Piave ci si misero di buzzo buono. E non dovete pensare che, dato il successo dell’Ernani, Verdi si fosse messo quieto nei confronti di Piave – anzi. Presa confidenza e passato al tu, il compositore è ancor più draconiano nelle sue richieste. È chiaro che Piave doveva essere un buon verseggiatore senza troppa idea di come funzionasse il teatro dell’opera, perché le lettere che abbiamo in fatto di Foscari sono un susseguirsi ininterrotto di istruzioni e desiderata di notevole perentorietà. 

Fai questo e fai quello, caro il mio poeta-gatto, e non fare quell’altro – per carità! E quell’altro ancora è bellissima poesia, ma in teatro non si fa così… giuseppe verdi, anno verdiano, francesco maria piave, i due foscari, byron

Piave, brav’uomo, pare essere stato assai cedevole in questo principio di carriera. Non ho mai letto le sue lettere in risposta, ma vien da sospettare che a cose fatte, nel vedere il suo nome stampato sul libretto, dovesse abbandonarsi a qualche risatella amara…

Ad ogni modo, Verdi era molto soddisfatto. Il libretto gli piaceva molto – e ciò benché, tutto sommato, nei Due Foscari in scena succeda ben poco.

Per dire, al principio dell’Atto Primo, incontriamo il coro d’ordinanza nel ruolo del Consiglio dei Dieci che, a notte alta, in gran silenzio e mistero, si riunisce a Palazzo Ducale per deliberare su che si debba fare di Jacopo Foscari, il figlio del Doge, richiamato a bella posta dall’esilio cretese.

Che cosa Jacopo abbia combinato, al momento non è chiaro, ma di certo è ben felice di respirare di nuovo l’aria della sua amatissima Venezia. Un po’ meno di simpatia il giovanotto riserva per i Dieci: quando il comprensivo fante di scorta lo incoraggia ad aspettarsi pietà e misericordia, Jacopo inveisce contro la sete di sangue dei suoi nemici annidati in consiglio.  Apparentemente, non è comodissimo essere un Foscari nella Venezia del 1457 – e che l’innocenza serva a qualcosa è più materia di speranza che altro… Notate che questa tirade l’aveva voluta Verdi, cui pareva che lo Jacopo di Piave fosse deboluccio. Diamogli più carattere, insiste il compositore più e più volte. Diamogli più fuoco! Ed ha tutt’altro che torto – ma vedremo in futuro che per i suoi tenori non avrà sempre tutto questo riguardo.

Ma lasciamo passare qualche ora e spostiamoci a Palazzo Foscari, dove Lucrezia Contarini, la bella sposa di Jacopo, apprende con notevole furia che i Dieci hanno condannato Jacopo all’esilio a vita. Perché, nel modo che è tipico di quest’opera, tutto si è deciso fuori scena. Ma Lucrezia non è un soprano-mammoletta. Tuona contro la falsa misericordia dei patrizi, invoca la vendetta divina sulle loro teste – e non dà gran retta al coro che l’esorta alla pia rassegnazione.

Nel frattempo, alla fattoria… er, no: nel frattempo, a Palazzo Ducale, i Dieci e la Giunta sciamano fuori dall’aula, commentando quel che sappiamo già. Di Jacopo bisogna fare un caso esemplare… ma che diamine ha fatto lo sciagurato ragazzo? Ebbene, ha tenuto corrispondenza con l’arcinemico: lo Sforza di Milano. Vero è che lui nega, ma che vogliamo farci?

giuseppe verdi, anno verdiano, francesco maria piave, i due foscari, byronPersino il Doge, nelle sue stanze private, ammette a se stesso di non poterci fare nulla: tutto sembra condannare Jacopo, e il tribunale ha deciso. Come padre lamenta il tutto, ma come Doge deve sostenere con imparzialità la giustizia.

Di tutt’altra opinione è Lucrezia, che irrompe al grido di:

L’amato sposo rendimi,
Barbaro genitor!

Al che il povero Doge risponde quel che ha già cantato a noi: un conto è quel che pensa il padre, e un conto quel che deve fare il Doge. Il vecchio Francesco vorrebbe tanto credere all’innocenza di Jacopo, ma che può fare di fronte alle lettere che lo incriminano? Perdonare, incalza Lucrezia – e tanto più che si è trattato solo di un’imprudenza commessa al fine di rivedere Venezia…

Il Doge rifiuta ancora, ma piange – ciò che induce la nuora alla speranza. Vuoi vedere che ce la caviamo? E su questa palliduccia alba, il sipario cala.

L’Atto Secondo ci porta alle prigioni, dove il povero Jacopo non si sente affatto bene. Torturato e febbricitante, delira per un po’, crede di vedersi davanti il fantasma minaccioso del defunto Carmagnola in cerca di vendetta, e sviene.

E qui apro una parentesi per un aneddoto: quest’opera l’ho vista una volta soltanto, all’Arcimboldi, un certo numero di anni fa. Il vecchio Foscari era Leo Nucci, il direttore d’orchestra era Muti. Chi fossero gli altri, francamente, l’ho dimenticato. Quel che non dimenticherò facilmente è che il tenore che interpretava Jacopo era troppo sferico per poter cantare altro che in piedi – o forse necessitava di un argano per essere rialzato da terra una volta che ci si fosse steso. Fatto sta che, al momento giusto, una comparsa entrò recando una sedia, in modo che Jacopo potesse “svenirci” sopra. A svenimento concluso, la comparsa ritornò, recuperò la sedia e la portò via. Eh…

Ma torniamo a noi giusto in tempo per vedere Lucrezia che entra nella cella e vede il marito svenuto. Il primo e non del tutto incomprensibile pensiero è che sia morto – ma siamo solo al principio dell’atto secondo, e Jacopo rinviene. Vero è che scambia la moglie per il defunto Carmagnola – ma sono dettagli. Quando è lucido a sufficienza scopre di doversene tornare in esilio e, mentre cerca di trovare qualche consolazione nella promessa di Lucrezia di seguirlo a Creta con i figlioletti, odonsi in lontananza delle voci festanti. giuseppe verdi, anno verdiano, francesco maria piave, i due foscari, byron

È il gondoliero
Che pel liquido sentiero
Provar debbe il suo valor,

spiega Lucrezia.

Jacopo sforna qualche maledizione – ma attenti, chi arriva avvolto in ampio e nero mantello? È il vecchio Francesco, venuto a consolare ed abbracciare un’ultima volta il figlio innocente. Ecco, Jacopo forse si sentirebbe più consolato se il padre non fosse così ansioso di andarsene – perché c’è un limite alla debolezza che il Doge può mostrare…

Ma a tagliar corto il congedo arriva Loredano, membro del Consiglio dei Dieci e nemico giurato dei Foscari, con la notizia che la galea per Creta è ferma in attesa sul primo binario, che Lucrezia ha il più assoluto divieto di seguire il marito, e vogliamo darci una mossa, per favore?

Jacopo e Lucrezia tirano accidenti a Loredano e il Doge li ammonisce severamente: la giustizia di Venezia va rispettata e non ci piove. Loredano gongola – fade to: la sala del Consiglio dei Dieci.

Anche qui c’è un gran parlare della giustizia di Venezia, e una certa impazienza per la partenza di Jacopo che, apprendiamo qui, ha anche ucciso un uomo. Jacopo, portato al cospetto del Doge, si dichiara innocente una volta di più e supplica misericordia…

Segue uno di quei meravigliosi passaggi in ottonari a rima baciata – che vi riporto:

CORO:
Non s’inganna qui la legge,
qui giustizia tutto regge.

DOGE:
Il Consiglio ha giudicato;
parti, o figlio, rassegnato.
(S’alza, tutti lo imitano)

JACOPO:
Mai più dunque ti vedrò?

DOGE:
Forse in cielo, in terra no.

JACOPO:
Ah, che di’? Morir mi sento.

LOREDANO: (ai custodi che gli si pongono al fianco, e si avviano)
Da qui parta sul momento.

giuseppe verdi, anno verdiano, francesco maria piave, i due foscari, byronA interrompere la tempesta di ottonari arriva Lucrezia – irrompitrice di professione – con i due pargoletti al seguito. Suppliche, lacrime, abbracci e, a dirla tutta, persino qualche senatore della Giunta si commuove. Ma non i Dieci e di certo non Loredano. Jacopo viene trascinato via mentre ancora supplica il padre di badare ai figli* – orfanelli a tutti gli effetti pratici – ed è il turno di Lucrezia per svenire.

Sipario.

giuseppe verdi, anno verdiano, francesco maria piave, i due foscari, byronE l’Atto Terzo si apre nell’antica piazzetta di San Marco, in vista di un subisso di gondole che vanno e vengono per il canale, mentre il sole volge all’occaso. Per la cronaca, il sole che volge all’occaso era uno dei tanti e tanti cambiamenti che Verdi aveva chiesto al povero Piave, perché il tramonto del sole è così bello…

E suppongo che avesse in mente le luci, perché al tramonto non accenna nemmeno per sbaglio il coro, gaio, ridanciano e barcarolante fino al momento in cui arriva la giustizia del leon, nella forma del corteo armato che scorta il povero Jacopo alla galea. E allora il coro si zittisce e ritira in buon ordine…

Questo volgo ardir non ha,

commenta sprezzante Loredano. E, considerando come fa esercitare la giustizia, forse non dovrebbe stupirsene… Segue ancora un po’ di mesto congedo fra Lucrezia e il povero Jacopo, che comincia ad accarezzare pensieri luttuosi. Ma Loredano è proprio malvagio oltre ogni dire: nell’ansia del suo odio per i Foscari, sente persino l’esigenza di far tagliare corto l’addio tra i due poveri innamorati che non si vedranno mai più…

Eh. Diciamo che non tutti gli antagonisti verdiani con voce di basso sono pieni di sfumature e di tormenti.

Anyway, Jacopo parte e noi ci trasferiamo nella stanze del Doge, a vederlo tormentarsi. Perché il povero Francesco, dovete sapere, ha già perso quattro figli giovani, e al quinto, superstite e amatissimo, abbiamo visto quel che capita. Il povero padre è intento a maledire il suo dogado quando un senatore non ostile entra con la prova dell’innocenza di Jacopo – quantomeno in fatto di omicidio**. Il tradimento a quanto pare diventa all’improvviso secondario, perché Francesco esulta: il cielo pietoso ha voluto rendergli un figlio! 

O forse no, dopo tutto: Lucrezia arriva a puntino per annunciare che, appena salito sulla galea, Jacopo è morto – presumibilmente di crepacuore.

Basta? No, non basta: Francesco Foscari non la prende troppo bene, ma non ha nemmeno il tempo di abbandonarsi al suo dolore, perché i Dieci vogliono parlargli.

E sapete che cosa vogliono i Dieci, guidati dall’esecrabile Loredano? Nientemeno che l’abdicazione, perché hanno il dubbio che il povero Foscari, rammollito colpito dall’età e dalla morte del figlio, non sia più all’altezza meriti pace e riposo.

Foscari, che in precedenza per ben due volte aveva chiesto invano di abdicare, ed era stato costretto a giurare di morir Doge, rifiuta fieramente dapprima, poi accondiscende in feroce amarezza.

Ma mentre si spoglia dei simboli del potere, odonsi le campane di San Marco.

Ops. Si direbbe proprio che Venezia si sia data un nuovo Doge – senza nemmeno aspettare l’abdicazione del precedente…

È davvero troppo. Senza più figli, senza trono, umiliato e vilipeso, tra la commozione di tutti – tranne uno – Francesco Foscari si abbatte per terra morto.

Pagato ora sono,

esulta l’implacabile Loredano, in mezzo all’inorridito sconcerto generale.

Sipario.

E insomma ecco qui. Verdi era riuscito ad avere il soggetto che voleva, il libretto che voleva, aveva passato il setaccio della censura ed era soddisfatto della musica che aveva composto. Gli piacevano proprio, questi Due Foscari…

E a questo punto sarebbe bello dire che all’Argentina fu un successo, ma… no. I cantanti stonarono, le aspettative del pubblico erano astronomiche, in teatro non si lavorò così bene come si sarebbe potuto.

Se i Foscari non sono del tutto caduti poco è mancato.

Scriveva Verdi all’indomani della prima.

Il fatto si è che l’opera ha fatto mezzo fiasco.

Del che si dispiaceva molto. Poi le cose andarono meglio, e i Foscari, pur non raggiungendo mai la popolarità di un Ernani o di un Nabucco, restarono ragionevolmente apprezzati e rappresentati per tutto l’Ottocento. Poi sparirono un po’ dalle scene, con l’occasionale ripresa e qualche incisione – ad onta della molta predilezione di Verdi, e di tutta la sua puntigliosa preoccupazione per il libretto.

 

 

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* Per la cronaca, è qui che si parla della celebre illagrimata polvere destinata di li a poco a scendere all’avello.

** In realtà, lo Jacopo storico uccise davvero quell’Ermolao Donà – apparentemente in una rissa di strada. Una di quelle cose che va’ a sapere. In compenso aveva davvero corrisposto con il Visconti e, non bastandogli, col Gran Turco. Se poi fosse davvero un traditore o solo uno scervellato, è difficile a dirsi. Di sicuro, qualunque cosa avesse fatto, la pagò cara, con la tortura e la morte in carcere a Creta. Il Francesco storico, meno intransigente di quello letterario, tentò di proteggere il figlio e lo fece anche fuggire una volta, ma non bastò – e mal gliene incolse. Dopo un anno di braccio di ferro con i Dieci, che tra l’altro gli rimprovaravano la debolezza nei confronti del figlio, fu davvero esautorato, e morì pochi giorni dopo.