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Gen 12, 2018 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su L’Autore e il suo Personaggio

L’Autore e il suo Personaggio

CharactersIn linea teorica, non è strettamente necessario che all’autore piaccia il proprio protagonista. A volte, anzi, troppo entusiasmo autoriale nuoce alla causa dell’eroe/eroina, e quindi è sano mantenere un briciolo di distacco. Però la teoria è teoria e i cavoli son cavoli, come diceva gente più saggia di me, e i lettori hanno bisogno di identificarsi con qualcuno all’interno di un libro. Ancora una volta, non è detto che questo qualcuno debba essere il protagonista, ma siamo sinceri: abbiamo veramente voglia di leggere tutto un libro su qualcuno di veramente sgradevole? Non sto parlando degli spettacolari malvagi a grandezza più che naturale, tipo Riccardo III, Tamerlano il Grande o il Re Filippo di Alfieri, e nemmeno degli antagonisti irriducibili (o quasi) come l’Ispettore Javert, il nano Quilp o Scarpia nella Tosca.

Parlo proprio di protagonisti, le figure centrali di un romanzo – solo che l’autore non riesce a simpatizzare con loro. Oppure non ne ha la minima intenzione, e la faccenda finisce fuoribordo, perché in realtà, gli atteggiamenti degli autori verso i loro eroi sono estremamente vari, così com’è vario il grado di obnubilamento che gli atteggiamenti in questione producono.

Little NellNon vi è mai capitato di detestare un protagonista perché il suo malguidato autore era troppo ansioso di farvelo piacere? È uno dei miei seri problemi con il Piccolo Principe, Jonathan Livingstone, la Piccola Nell, Frodo Baggins e altra gente troppo buona per vivere – oppure troppo perfetta, tipo il Crichton di W.H. Ainsworth… Sono sempre tentata di attribuire questo genere di reazione alla cattiva caratterizzazione, ma ho difficoltà a cavarmela così con Dickens. Diciamo che all’epoca di The Old Curiosity Shop Dickens stesse corteggiando (con notevole successo) un certo mercato, scrivendo in fretta e divertendosi molto di più con Quilp, Dick Swiveller, la Marchesa e il resto della compagnia. Otherwise, quando l’autore passa più tempo a magnificarmi le doti del protagonista che a mostrarmelo all’opera, oppure quando lo caratterizza senza il minimo difetto, è più forte di me: detesto. Potrei anche rilevare che questo genere di magagna si riscontra più facilmente nei romanzi per fanciulli (chi non ha mai desiderato affogare il Piccolo Lord Fauntleroy nella vasca dei pesci rossi alzi la mano; e non iniziamo nemmeno a parlare di Sophie, Madame Céline e, in generale, tutti i buoni de La Bambinaia Francese della Pitzorno) e nelle biografie con propensioni agiografiche. Le fanciulle dei romanzi ottocenteschi à la Ginevra di Monreale e Lucy Davenne – così insipide e perfette – non contano, perché non sono nemmeno personaggi propriamente detti.

IsabelEppure si può adorare il proprio protagonista senza renderlo insopportabile, e Ritratto di Signora ne è la prova. Che Henry James abbia una speciale simpatia e tenerezza per Isabel Archer è evidente fin dal momento in cui l’Americanina appare per la prima volta, nel parco di una grande magione inglese, nella luce dorata e radente dell’ora del tè… Isabel è immediatamente adorabile, con la sua sete di bellezza, le sue ingenuità, la sua testardaggine, la sua franchezza americana e le sue maniere leggermente eccentriche. Dopodiché James ci renderà conto di ogni moto della sua mente e del suo animo con una finezza crudele, tutta luce e niente zucchero. Di Isabel vediamo tutto, slanci ed errori, difetti e maturazione, delusioni e sogni, e simpatizziamo con lei anche quando fa sciocchezze colossali – proprio perché le fa e poi ne affronta le conseguenze.

Stendhal è meno tenero con i suoi eroi. Oh, non che Henry James risparmi particolarmente la povera Isabel, ma quando leggiamo tra le pieghe dell’animo di Julien Sorel e di Fabrizio del Dongo sentiamo molta meno indulgenza da parte dell’autore. Stendhal simpatizza con i suoi giovanotti, in parte ne condivide o ricorda ambizioni, vanità, irrequietezze e aspirazioni, ma c’è una freddezza clinica nel modo in cui li offre allo sguardo del lettore che Henry James (pur facendo sostanzialmente la stessa cosa) non saprebbe mai riservare a Isabel.

Un distacco ancora maggiore è quello che Melville assume nei confronti del Capitano Ahab. Ahab è il protagonista del romanzo, e la sua ossessione ne è l’argomento, ma non è un caso che la storia sia narrata da Ishmael. È attraverso lo sguardo di Ishmael che il lettore e Melville osservano Achab e ne esplorano le azioni e la follia. A Melville non piace Ahab – gli piace la sua storia, cosa molto diversa. E noi ci identifichiamo con Ishmael, e guardiamo in rapito orrore mentre storia e personaggio si combinano in una faccenda di tragica, irragionevole grandiosità.

CookE poi invece ci sono cose come The Slicing Edge of Death, di Judith Cook – uno degli innumerevoli romanzi su Marlowe usciti nel 1993, a quattrocento anni dalla fatale rissa di Deptford… Cook, giornalista investigativa inglese, aveva una passione per il teatro elisabettiano, e ad anniversario incombente combinò (o, sospetto io, qualcuno le suggerì di combinare) le due cose in questo romanzo, il cui sottotitolo è, significativamente, Who killed Kit Marlowe? Ora, non so che cosa vi aspettiate voi da un romanzo intitolato con una citazione da un autore, (con tanto di sottotitolo esplicativo, metti mai che sfugga il riferimento) e con il supposto ritratto dell’autore stesso in copertina… Well, yes – ammetto che il modo in cui il ritratto in questione è riprodotto potrebbe dar da pensare – ma nel complesso io mi aspetto che l’autore stesso sia il protagonista. Ebbene, nel caso di TSEOD è difficile a dirsi. Il Marlowe di Cook è un uomo sgradevole, insensibile fino alla crudeltà, preoccupato soltanto dei suoi piaceri e della sua fama, livoroso, avido, meschino, vendicativo e sempre ubriaco. In tutto il libro,non mostra mai un singolo tratto che lo riscatti, le sue opinioni sembrano più tasso alcolico che coraggio intellettuale, e della sua vena poetica tutti gli altri personaggi hanno l’aria di non pensare granché. E non è nemmeno un villain, non foss’altro che per mancanza della più pallida ombra di grandezza.

È chiaro che alla Cook Marlowe non piace nemmeno un po’, nemmeno abbastanza da renderlo davvero malvagio, o notevole in qualche modo. Qualcun altro accenna sporadicamente alla sua intelligenza, ma dobbiamo fidarci sulla parola, perché non lo si vede comportarsi mai altro che stupidamente. Se leggessi questo libro senza sapere nient’altro di Christopher Marlowe, sarei disposta ad applaudire l’assassino promesso dal sottotitolo. A parte questo, tuttavia, con chi si suppone che m’identifichi in questo romanzo? Tutti (con l’eccezione di Robin Greene, che però si redime parzialmente prima di morire, e Lord Cecil, che ha l’attenuante della ragion di stato) vengono descritti come brave persone, ma gente di contorno. C’è un giovane attore fittizio che sembrerebbe dovere o poter essere il protagonista osservatore ma, quand’anche non fosse così sbiadito e bidimensionale com’è, i tre quarti della storia si svolgono fuori dal suo punto di vista…

Insomma, la signora Cook ha scritto un romanzo, ma si ha l’impressione che si sia dimenticata di equipaggiarlo di vari elementi fondamentali, come un punto di vista preciso, un personaggio con cui il lettore possa identificarsi e qualche redeeming quality per il protagonista nominale. Chiaramente, lei per prima non può soffrire il suo odioso Marlowe, e non sono davvero in grado di biasimarla, ma allora non posso fare a meno di domandarmi: perché disturbarsi* a scrivere un libro su un personaggio del quale si ha una pessima opinione che rasenta il disprezzo – e senza l’ombra di un meccanismo che consenta al lettore di digerire la storia?

Ironicamente, quasi tutti i protagonisti di Marlowe – Tamerlano il Grande, Faust, Barabas, il Duca di Guisa – sono mostri di ambizione, crudeltà e arroganza, ma sono ritratti con caratteri di grandezza che, se non li giustificano, ce li fanno tuttavia ammirare per pura sovrabbondanza vitale. Direi che il Marlowe della Cook è una specie di negazione di questo meccanismo, se non sospettassi piuttosto un’attitudine men che brillante* per la narrazione romanzesca, quarto centenario o meno – il cui risultato è, alas, una lettura sgradevole senza particolari redenzioni oblique o dirette.

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* Yes, well: “Judy, c’è il quarto centenario, e tu sai tutto in materia. Perché non scrivi un romanzo?”

** E sia ben chiaro: ottima saggista – ma…

 

Feb 26, 2011 - grillopensante    Commenti disabilitati su Troppo Zelo E Altri Tronchi Sui Binari

Troppo Zelo E Altri Tronchi Sui Binari

Non vorrei mai azzardare paragoni tra Virgilio e Anthony Hope – lèse majesté!! – e poi, se non fosse morto prima di poter rifinire l’Eneide a suo piacimento, forse Virgilio avrebbe modificato qualcosa, ma resta il fatto che Enea/Turno ha tutta l’aria di un caso massiccio di deragliamento delle intenzioni autoriali. A livello di Rassendyl/Rupert nel Prigioniero di Zenda, anzi peggio.

Bd-Aeneas.jpgPeggio, perché nell’Eneide Virgilio racconta il mito della nascita di Roma, ed è logico che Enea incarni programmaticamente tutte le virtù più romane (pietas in prima fila). Per di più, il nostro eroe eredita anche le personali convinzioni filosofiche del suo autore, praticando il sereno distacco e il rifiuto delle passioni violente predicati da Epicuro. Virgilio si è impegnato molto nel rendere Enea un paradigma di obbedienza agli dei, un campione di tutte le più nobili virtù e un esecutore delle magnifiche sorti e progressive di Roma…

Si è impegnato tanto che il risultato è proprio questo: un paradigma. Nella sua gelida e virtuosa perfezione, Enea manca di un tratto fondamentale per un personaggio: la personalità. Che cosa vuole personalmente? Che cosa è diposto a fare per averlo? Che cosa fa davvero? Che cosa impara prima della fine? Come cambia? Tutte domande senza risposta, perché Enea non possiede esigenze drammatiche – è trascinato dal volere del fato e basta.Turno.jpg

Per contro, l’antagonista Turno, il giovane re dei Rutuli cui Enea toglie la fidanzata Lavinia – per poi ucciderlo in duello (con la collaborazione di mezzo Olimpo) alla fine del Libro XII, è una figura a tutto tondo. Turno è pieno di difetti: impulsivo, sfrenato, arrogante – ma Virgilio esce di strada continuamente per mostrarci che non ha tutti i torti neanche lui, che è tanto giovane, innamorato di Lavinia, pieno di risentimento, e tutt’altro che indegno a sua volta. Turno ci viene presentato come un giovanotto di nobili istinti, coraggiosissimo e abile, amato dai suoi sudditi, fiero, onorevole, eloquente quando serve, leale. E’ anche violento e occasionalmente crudele, ma poi la sua sicurezza si frantuma alla fine, davanti all’evidenza che Enea, con tutto l’aiuto divino di cui può disporre, non può essere sconfitto in nessun modo. Nondimeno, Turno non si sottrae al suo destino e affronta il duello fatale con la malinconica certezza di non uscirne vivo.

A_5th_Century_Portrait_of_Virgil.jpgInsomma, si ha l’impressione che Virgilio si sia lasciato prendere la mano. Lo zelo programmatico nei confronti della perfezione di Enea forse lo ha tradito, e l’eroe eponimo, fatale e filosofico, gli è riuscito un tantino bidimensionale. L’antagonista – che incarna il disordine e la dissennata ribellione contro il destino (di Roma in particolare) – gli è riuscito meglio, più sfaccettato, più complesso, più… non c’è niente da fare: più simpatico. Chi ha letto l’Eneide senza dispiacersi per Turno alzi la mano.

Il che ci conduce a una conclusione: è pericoloso fare di un personaggio una figura simbolica di una causa o di un credo che ci stanno a cuore. Presi dall’ansia dimostrativa, non osiamo aggiungere ombre per timore di appannare la nostra tesi, ma un personaggio senza ombre, senza dubbi e senza difetti diventa uno zelota. E’ difficile affezionarsi agli zeloti – anche agli zeloti rassegnati, come nel caso di Enea. E la storia ne soffre.

Apparentemente, il sereno distacco non è facile da praticare in poesia. Nemmeno quando ci si chiama Virgilio.