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Ott 12, 2016 - teatro    Commenti disabilitati su Campogalliani70 – Intervista a Maria Grazia Bettini

Campogalliani70 – Intervista a Maria Grazia Bettini

Rieccoci qui con la serie di interviste in celebrazione del settantesimo anniversario dell’Accademia Campogalliani, e alla scoperta di storia, avventure e meraviglie della più longeva e premiata compagnia amatoriale d’Italia. Oggi si parla di regia.

GraziaMaria Grazia Bettini, regista e direttore artistico, come sei approdata all’Accademia Campogalliani?

Ho iniziato a fare teatro come attrice in una piccola compagnia del paese dove sono cresciuta. Sognavo di fare l’attrice ma, come tanti, avevo i miei genitori che disapprovavano e mi chiedevano di rinviare a dopo gli studi classici. Terminata l’Università e prese altre strade, ho deciso di provare in una compagnia importante di Mantova e quindi ho chiesto al Direttore artistico della Campogalliani. Aldo Signoretti mi aveva visto recitare e aveva apprezzato una mia regia (Aspettando Godot di Becket), e dopo un’esperienza come attrice mi ha proposto di affiancarlo nella regia. La visione e l’entusiasmo sono schizzati alle stelle e non ho mai smesso in questa attività.

Il tuo spettacolo preferito in questi anni?

Ne ho molti, ma Gli Occhiali d’Oro, che Alberto Cattini ha ridotto dal romanzo di Giorgio Bassani, rimane nel mio cuore come il preferito. Avevo letto il romanzo e visto il film. La sceneggiatura era stata pubblicata proprio grazie al Professor Alberto Cattini, critico cinematografico, al quale ho proposto questa avventura teatrale. I temi di grande attualità (omosessualità, razzismo, prevaricazione, dittatura, etc.) potevano essere riproposti al pubblico con una nuova scrittura. Avevo gli attori perfetti (Mario Zolin, Diego Fusari, Andrea Flora, Rossella Avanzi e tutti gli altri), che mi hanno seguito nella costruzione di uno spettacolo fatto a flash, come lampi di vita e di memoria. Ho sentito più di altre volte di avere ottenuto un risultato che arrivava diretto al cuore e alla mente degli spettatori. Quello che desidera di più un regista!

 E il titolo che prima o poi vorresti proprio dirigere?

Ogni regista ha nel cassetto dei testi  “desiderati”, tra cui un Dracula , Rumori Fuori Scena, e Il Giardino Dei Ciliegi, ma con la Campogalliani molti sogno li ho realizzati.

Che cosa spinge un attore verso la regia?

Il controllo di tutti gli elementi dello spettacolo, perché ha una visione globale. Il regista interpreta il testo oppure ne fa una lettura fedele e quindi dirige gli attori e tutti i collaboratori verso la propria idea. Io tendo per carattere a provare soddisfazione proprio nell’esprimermi attraverso tutto lo spettacolo e non solo attraverso il personaggio. Leggere un testo e capire che lo si vuole veder vivere sulla scena come se prendesse vita nuova, rappresenta per un regista la realizzazione della propria immaginazione e fantasia artistica. Naturalmente il regista deve scegliere un testo se ha gli attori e le possibilità tecniche e di spazio, e non solo per il desiderio di farlo.

Tra le tante compagnie amatoriali italiane, che cosa rende la Campogalliani speciale – e così longeva?

La continuità, la longevità, la crescita dipendono solo dalle persone che compongono la compagnia e che mettono da parte le antipatie, gli asti, le invidie e anche solo i diversi modi di vedere le cose per l’obiettivo principale, che è fare teatro di qualità.

E adesso? Che cosa vi proponete per i prossimi settant’anni?

Sicuramente altri 70 anni, e questo significa far crescere nuovi artisti in tutti i campi. La Scuola che dirigiamo è pensata proprio per questo motivo: trovare attori, tecnici e anche semplici innamorati della Campogalliani, per farla continuare nel tempo.

In bocca al lupo per i prossimi settant’anni, allora – e grazie. Campogalliani70 torna la settimana prossima, e sarà la volta di un attore…

Ago 1, 2016 - teatro    Commenti disabilitati su Il Potere del Cappello

Il Potere del Cappello

anitagaribaldi3Provavasi Aninha, secoli orsono…

No, d’accordo – non secoli, but still un’invereconda quantità di anni orsono. Ad ogni modo, la si provava in vista del debutto, ed eravamo a quella fase delle prove in cui nulla ha ancora una forma precisa, e si scava faticosamente alla ricerca delle altre dimensioni dei personaggi, al di sotto e dietro le parole… Se tutto ciò vi sembra a mezza strada tra il criptico e l’eccentrico, è perché lo è. Bisogna esserci stati in mezzo, ma immaginate di nuotare nel caramello alla ricerca di pezzettini luccicanti.

Nello specifico, c’era Manuel Duarte, il primo marito di Aninha, che di pezzetti luccicanti non ne aveva ancora nemmeno uno. Era lì, diceva quel che doveva dire, assolveva alla sua funzione drammatica (povero Manuel!) e basta. E a teatro, diciamolo subito, assolvere alla propria funzione drammatica è necessario ma non, non, non sufficiente. A Manuel mancava una personalità. E continuava a mancare, prova dopo prova… C’era questa scena in particolare, in cui il pover’uomo chiede in moglie la giovanissima Aninha. È una piccola scena rivelatrice, una delle due che stabiliscono il carattere di Manuel – e tutto sommato faceva il suo mestiere, ma mancava sempre qualcosa. Era chiaro che poteva esserci molto di più – ma non c’era. Il bravo attore che interpretava Manuel cominciava a irritarsi, e io cominciavo a dubitare di avere sbagliato qualcosa nella scrittura della scena…

Finché G. la Regista se ne saltò fuori con l’ordine di trovare a Manuel un oggetto di scena. Manuel

“Un oggetto, un elemento, un qualcosa…”

Dopo un po’ di discussione, giungemmo alla conclusione che ci voleva un cappello. Ora, un cappello non sembra terribilmente caratterizzante, eppure…

Alla prova successiva, Manuel entrò in scena rigirandosi in mano il cappello, gualcendo la tesa nella più nervosa e incerta delle maniere. La sua offerta la fece al cappello, gettando solo qualche occhiata obliqua ad Aninha, e ritirando appena appena la testa tra le spalle a tratti, e strizzando la tesa tra le mani ad ogni tentativo di rifiuto da parte della ragazza…

Una cosa da levare il fiato: all’improvviso, Manuel Duarte era lì, personalità, tic, incertezze, tre dimensioni e tutto.

“Io l’avevo detto, di portarti un oggetto…” disse compiaciuta G. Ed era vero. L’aveva detto – e non solo quella volta. Lo dice spesso – e magari secca un pochino ammetterlo – ma, come la mamma, la Regista tende ad avere sempre ragione.

Red-Masquerade-Eye-MaskÈ successo anche questa volta, con SiW: il Coro… oh be’, il Coro non è qualcuno – è qualcosa, ma nondimeno aveva bisogno di una personalità, e non c’era. Non del tutto, almeno. Vagolavo un po’ incerta tra possibilità e possibilità, fino a quando non ho cominciato a portarmi la maschera. La maschera c’era fin da quasi subito, a livello teorico – e anzi, era stata oggetto di una vivace discussione sul fatto che io fossi un coro greco o un coro elisabettiano… Ma era, appunto, una maschera teorica, un gesto fatto qualche volta, un’idea. Nel momento in cui è apparsa, seppure in forma provvisorissima, le cose sono cambiate. Il Coro ha acquistato dimensioni e sicurezza… Immagino che, in un certo senso, abbia scoperto che fare di sé.

È stato come il Cappello di Manuel – con l’aggiunta delle connotazioni che vanno insieme alla maschera in sé. Un Cappello al Quadrato.

Nov 26, 2014 - teatro    Commenti disabilitati su Quel Momento

Quel Momento

Extreme Wishful Thinking

Extreme Wishful Thinking

Succede in tutti i giri di prove.

A volte succede prima, a volte succede disperatamente tardi, a volte a mezza strada.

È il momento in cui, fra il caos, le arrabbiature, i colpi a vuoto, il nonsense, le risate, gli errori, le cose che non funzionano, i dubbi irrisolti, i litigi, le follie,le sedie che non sono mai dove dovrebbero essere e il cioccolato alla menta – il momento in cui, per la prima volta, qualcosa prende finalmente la forma giusta.

Emerge da tutti i pezzetti e pezzettini come da una crisalide e…

Yes, well. Non è come se, per magia, da quel momento tutto andasse bene – sia chiaro. In realtà poisi ritorna al caos, alle arrabbiature, ai colpi a vuoto e a tutto il resto, ma ci si torna con un senso di direzione nuovo e la benedetta impressione di sapere dove si sta andando.

O almeno di averne un’idea – e questo è tanto bello quanto istruttivo.

A volte succede quasi da sé, più spesso per deflagrazione. La Sfuriata del Regista è un metodo classico. Ho ricordi dell’anno in cui, a scuola di teatro, preparavamo l’Importanza di Chiamarsi Ernesto, e non funzionava. Era molliccio, era blando, era sbiaditello… Una sera andammo tutti a vedere un meraviglioso Marivaux fatto da allievi già diplomati. Favoloso sotto tutti gli aspetti – e, incidentalmente, l’occasione in cui decisi che prima o poi mi sarei occupata di disegno luci. L’indomani arrivammo a lezione galvanizzatissimi… e sempre mollicci, blandi e sbiaditelli.

E la regista ci fece un’urlata epica, e poi, approfittando del fatto che eravamo scossi, ci passò tutti alla griglia – insieme e separatamente.

Uh.

Sono passati vent’anni, e me ne ricordo con dettagliata vividezza. Ogni tanto me lo sogno ancora…

Ebbene, quello fu Il Momento.

Si sbloccò qualcosa che non ci eravamo nemmeno accorti che fosse bloccato. La commedia cominciò ad avere un abbozzo di forma – e poi servì ancora un sacco di duro lavoro. Ma la soddisfazione… non vi fate un’idea. O forse ve la fate. È come fare il gioco del quindici – e, tutto d’un tratto, si capisce il meccanismo.

Poi non sempre succede in maniera così tellurica. Per fortuna, credo. A volte basta provare in un posto diverso, a un’ora diversa. A volte basta cambiare la musica di scena. A volte il miracolo succede con qualche prop aggiunto, o un esercizio, o una chiacchierata a notte fonda … A volte sembra che succeda, poi invece l’indomani ci si ritrova al punto di prima, e bisogna ricominciare daccapo.

Non c’è modo di saperlo, e ogni volta è diverso – ma succede ogni volta, e ogni volta è una gioia.

Anche quando succede spaventosamente tardi. Perché poi domani si ricomincia – e non è affatto meno faticoso di prima. Anzi.

Però adesso sappiamo dove stiamo andando.

 

 

 

Come La Prendi?

Sono curioso di sapere come prendi il fatto che questa cosa prenda vita in modi non completamente controllabili, o forse del tutto incontrollabili. Sembra che tu la prenda bene,

scriveva A. in un commento a questo post in cui si parlava di Bibi & il Re degli Elefanti e si traevano conclusioni sul recente giro di repliche – e “questa cosa” era l’interpretazione registica dei miei plays.

E il commento mi ha dato da pensare. In effetti, come prendo il fatto che quel che si vede sul palcoscenico finisca quasi sempre con l’essere diverso da quel che avevo immaginato?

Come prendo il fatto che registi e attori afferrino le mie parole e le trascinino in direzioni inattese?

Come prendo questa cosa nuova che germoglia, tridimensionale e variopinta là dove prima c’erano soltanto parole sulla carta? 

Ah, well…

Credo di voler cominciare citando Shaw che, nella prefazione alle Tre Commedie per Puritani, raccontava di avere tirato infiniti accidenti ai pur bravi regista e primattore di una fortunata produzione londinese de Il Discepolo del Diavolo, colpevoli di avere stravolto le sue intenzioni al punto di indurre il pubblico a credere che Dick Dudgeon fosse innamorato di Judith.

Da bambina, quando leggevo Shaw e, a chi mi chiedeva cosa intendessi fare da grande, rispondevo “la commediografa”, la consideravo una specie di cautionary tale, e mi immaginavo a tirare accidenti a registi e attori colpevoli di fraintendimento deliberato e grave…

Ma, a distanza di un quarto di secolo e dopo diversi plays prodotti, devo dichiararmi fortunata: nessuno ha mai stravolto nulla di mio in scena. 

E nonostante questo, e nonostante abbia avuto la fortuna di lavorare sempre con registi bravissimi, se dicessi che è sempre facile, mentirei.

Perché non c’è nulla da fare: nello scrivere del teatro non si può fare a meno di metterlo in scena nel proprio teatro immaginario. Si elucubrano voci, movimenti, scene, luci, costumi e regia completa… E a lavoro finito, quando si consegna il tutto alla compagnia, quel che rimane è un’idea piuttosto precisa del tipo di vita che lo spettacolo dovrebbe assumere.

Solo che poi, nella maggior parte dei casi, non funziona così.

E voi non andate a vedere le prove, perché la regista preferisce non avere autori tra i piedi, e usa motivazioni diplomatiche tipo “non c’è, credimi, nulla di bello come la sorpresa la sera della prima.” Oppure “Voglio che tu veda lo spettacolo solo quando è completo.”

Solo che, ogni tanto, la regista stessa o l’uno o l’altro membro del cast si lasciano sfuggire un particolare…

Ed è diversissimo, ma diversissimo da qualsiasi cosa voi aveste immaginato – e siete così tentati di dirlo… ma in linea generale non lo fate.

A dire il vero, la prima volta non lo fate solo e soltanto perché non vi par vero di scrivere per questa gente, e non avete il coraggio di mettere becco… Però avete misgivings. Temete molto che non sarà come voi credete che dovrebbe essere.

Però poi…

Poi viene la sera della prima, e scoprite che la regista aveva ragione e voi avevate torto – e forse è un bene che non siate mai andati alle prove. Scoprite che il vostro mestiere è fornire la storia, le parole, e soprattutto le occasioni perché gli attori possano comportarsi in modo significativo. Il comportamento significativo, i colori e la magia in generale sono affare della compagnia.

Sono loro a portare in vita quel che avete scritto – e che diamine! Loro lo fanno da decenni, hanno le idee chiare su che cosa produrrà quali effetti sul pubblico. Sanno come cavare il meglio teatrale da quello che avete scritto. Sanno come tradurre in tre dimensioni il vostro linguaggio.

Lo sanno così bene che quello che hanno fatto finisce col prendere completamente il posto di quello che avevate immaginato.

Sul serio: mi ricordo a malapena il Bogus-ombra, serioso e un po’ solenne, che avevo immaginato scrivendo Bibi. E dapprincipio ero davvero perplessa nello scoprire che il mio impalpabile elefante sarebbe stato un attore in scena, con un costume di panno e la proboscide… E invece è perfetto, e il play ha tutto da guadagnare dal Bogus buffo e tenero e concreto, perché il mio era l’elefante immaginario visto da un’adulta – ma in scena è andato il compagno immaginario di una bambina. Infinitamente più teatrale ed efficace.

Magnifico, no? 

E molto istruttivo. E appagante – non avete idea di quanto.

E così, credo che alla fin fine la risposta sia questa, A.

La prendo con qualche trepidazione ogni volta, perché si tratta di lasciare ad altri il compito di soffiare nelle narici delle mie statuine d’argilla. E la prendo con infinito entusiasmo, perché – per quanto mi piaccia scrivere romanzi – credo che nulla batta l’aprirsi del sipario e il veder succedere quello che si è creato.