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La Tettonica Delle Lingue

la dante, adotta una parola, lingue viveVi ricordate di Adotta una Parola – l’iniziativa de La Dante? Ne avevamo parlato qui un paio di anni fa (pittkins, come passa il tempo…), e da allora ogni tanto ripasso da quelle parti e sbircio tra i lemmi e adotto qualche altro orfanello, più o meno a seconda di quel che sto scrivendo.

Per dire, nel corso dell’ultima visita ho adottato Sonettista, Marineria, e una manciatina di altre cose – e tra l’altro mi sono mangiata le unghie per essere stata preceduta su Anemofilo… 

Perché non so che farci, a me le parole desuete piacciono proprio tanto. Forse fin troppo. Perché a parte tutto, posso anche divertirmi a usare “sesquipedale” in conversazione, ma non posso fare a meno di pensare che, se è uscito dall’uso, un motivo ci sia…

Ne parlavo qualche giorno fa con F., che lamentava il diluvio di usi invalsi – cose che dieci, o anche solo cinque anni fa consideravamo sbagliatissime, e adesso ormai sono inestirpabili. Tipo, per citare un pet peeve personale, “Vicino casa.”

In questi casi, lo riconosco, la tentazione è quella di continuare a fare sesquipedali e teatralissimi sobbalzi ogni volta che qualcuno racconta di come non riesce a parcheggiare vicino casa, e produrmi in esclamazioni di “A! a! a! Vicino A casa! A casa!!”…  E non è come se non cedessi alla tentazione con qualche frequenza – ma sempre con qualche remora. Sempre con la sensazione di arroccarmi su posizioni che la battaglia ha già ampiamente superato.

E badate, non sto parlando di veri e propri orrori grammaticali, crimini sintattici e spaventi lessicali, ma di quei cambiamenti, quegli aggiustamenti, quegli scivolamenti che capitano, e capitano di continuo nella storia delle lingue.

Perché il fatto è che le lingue non stanno ferme. Mai. Cambiano, si evolvono, assorbono, si gonfiano, cambiano colore, si arricchiscono e impoveriscono, rapinano le altre lingue nei vicoli bui, semplificano la loro struttura, scivolano le una verso le altre, le une nelle altre, le une sopra le altre, si adattano, si mescolano, si ibridano e fanno un sacco di cose – che non sempre sembrano lodevoli a chi le vede succedere. E tuttavia succedono, ed è quello che rende vive le lingue vive.

E cercare di fermarle, o anche soltanto di trattenerne il flusso, ha sempre un che di artificiale – e nessuna lingua artificiale ha mai funzionato davvero. Non è così che funziona. E questo è, ammettiamolo, parte del fascino del gioco.

E quindi, Adotta una Parola è un bel gioco, e temo che continuerò ad usare sesquipedale, versipelle, corrusco e tutte quelle altre belle parole che mi piacciono tanto, e temo anche che continuerò a storcere il naso sugli usi invalsi, perché in fondo ho, almeno in parte, l’animo di una purista conservatrice con un certo gusto antiquario… Ma sarà sempre con una vaga sensazione di causa perduta – e ricordandomi che tutto quel che a noi adesso pare l’apice della più forbita correttezza, in qualche secolo passato avrà fatto inorridire qualche purista conservatore.

Anglomane

Che io sia un’anglomane diagnosticata e irrecuperabile è cosa risaputa.

Tant’è vero che, quando ho aderito al progetto Adotta Una Parola della Società Dante Alighieri, appena l’ho visto ho esclamato, come i gabbiani di Nemo: “Mio!”

Ora, il Treccani dice:

Anglòmane s.m. e f. e agg. [comp. di anglo e -mane]. -Chi (o che) è affetto da annglomania.

E cos’è l’anglomania, secondo il Treccani?

Anglomanìa s.f. [comp. di anglo e -mania]. -Ammirazione e imitazione eccessiva di tutto ciò che è inglese.

E sì, lo so: ve n’era venuto il sospetto bazzicando attorno a SEdS… Potrei negarlo – potrei negare qualsiasi cosa – ma il fatto è che sono un’anglomane, e lo sono da molti anni. Un’anglomane al di là di ogni speranza o intento di guarigione. Un’anglomane che, nel trasferirsi a Cardiff per l’anno Erasmus, si fece fare un tailleur di tweed – con le conseguenze che potete immaginare, nel Galles degli Anni Novanta…

E ciò, badate, benché per molti anni mi sia attivamente rifiutata di imparare anche una singola parola d’Inglese.

E allora, si domandano a questo punto i Lettori, chi mordendosi le unghie, chi torcendo un fazzolettino ricamato, tutti trattenendo il fiato – allora? Com’è capitato che la Clarina anglofoba contraesse un caso incurabile di anglomania?

Ebbene, cominciamo dal principio. Uno dei miei ricordi più lontani* è questo: sono seduta sulle ginocchia di mio padre e lui mi indica dei disegnini di sua mano su un notes a quadretti in formato A4. Ci sono un piatto, un sole e altre cose che non ricordo, ma ricordo perfettamente l’Allora Maggiore che declama: “Sole, Sun! Piatto, dish!” E si supponeva che io ripetessi.

Io non ripetevo. Me ne stavo zitta come un’ostrica, con il cipiglio delle grandi occasioni e un’avversione montante dei confronti della lingua inglese. Non che l’Allora Maggiore sapesse granché d’Inglese**, ma era deciso a che io lo imparassi – il più presto possibile, volente o nolente. Non so se fosse più indignato per la mia pervicacia o per la mancanza di collaborazione di mia madre che, essendo laureata in Inglese e anglomane a sua volta, sarebbe stata l’anglicizzatrice naturale…

Invece mia madre, donna saggia, era dell’opinione che impormi l’Inglese non fosse una gran buona idea, e nicchiava. L’Allora Maggiore prese atto della defezione e decise di fare da sé nella maniera che vi ho detto. Per cui non vi stupirete se vi dico che, nell’accedere alle medie, mi rifiutai di studiare una lingua che non fosse Francese, e lo stesso feci al Liceo.

Poi non è che crescessi del tutto digiuna d’Inglese: mia madre ci provò e riprovò, coinvolgendo i miei amici in varie formazioni e tentando tutti i metodi*** – col risultato che fra i dieci e i diciotto anni passai attraverso I am/You are e To be/Was/Been un’infinità di volte, senza mai imparare granché e senza mai trovarci un minimo di gusto.

Il che era strano, a ben pensarci, perché nel frattempo avevo cominciato a sviluppare una predilezione per la storia e la letteratura inglesi. E tra l’altro avevo cominciato presto a esibire prodromi della malattia nelle mie letture infantili e adolescenziali. Sandokan, per esempio. Mai sopportata, la Tigre della Malesia. A me piaceva Rajah Brooke, persino quando Salgari ne faceva un malvagio di cartone. E ne Il Discepolo del Diavolo la mia simpatia andava a chiunque indossasse un’uniforme inglese – non solo il Generale Burgoyne, ma persino il povero Maggiore Swindon****, ben al di là delle intenzioni di Shaw. In Michele Strogoff, ne sono certa, non è né sano né normale affezionarsi a Harry Blount più che ai protagonisti. E ne L’Ultimo dei Mohicani non c’era un singolo personaggio per cui sapess spendere un refolo di partecipazione – ad eccezione del Maggiore Heyward, dell’Esercito di Sua Maestà Britannica.

Dunque, ricapitoliamo: leggevo romanzi inglesi, ero interessatissima alla storia inglese, prediligevo i personaggi inglesi dovunque saltassero fuori, sognavo di recitare teatro inglese, ambientavo storie in Inghilterra… però della lingua non ne volevo sapere.

Poi un giorno – ai primi di giugno di vent’anni fa – mia madre mi regalò una versione facilitata in lingua originale di Lord Jim, che avevo già letto e che, come tutti sapete, è il libro della mia vita. Pensava che, conoscendo la storia e adorandola, forse l’avrei letta con più interesse di quello che dedicavo alla grammatica e agli esercizi…

Folgorazione. Epifania. Apocalisse.

Per qualche motivo, leggere in Francese non mi aveva mai fatto apprezzare la differenza tra traduzione e originale. Con l’Inglese giunsi alla rivelazione che si tratta di due esperienze del tutto diverse. Persino nella versione abridged, la storia di Jim mi pareva nuova, diversa, piena di sfumature e iridescenze che non avevo mai notato prima. Oh, non avete idea.

Fu l’inizio di un’appassionata storia d’amore, perché all’improvviso la lingua che mi ero sempre rifiutata d’imparare si rivelava bella, efficace, espressiva, duttile, ricca… Un paio di mesi più tardi fui mandata a Edimburgo. Da sola. In famiglia. Per un mese. In una scuola dove ero l’unica italiana. Il che forse era un po’ azzardato, con il mio povero e recentissimo Inglese – ma funzionò. Quando tornai avevo fatto progressi drastici e acquisito un accento scozzese tanto denso da intasare una grondaia. Poi all’Università scelsi Inglese come prima lingua, poi ripetei l’esperienza a Edimburgo, poi passai un anno a Cardiff, poi feci la tesi su testi esclusivamente in Inglese, poi fui accettata per un master al King’s College London… poi le cose andarono come andarono e me ne tornai a casa, ma nel frattempo avevo scoperto Internet, letto forsennatamente***** in originale, cominciato a scrivere in Inglese, sviluppato una passione per l’epoca elisabettiana…

Ecco. Adesso sapete perché.

Se mia madre non avesse pensato a Lord Jim, un giorno di vent’anni fa, di sicuro adesso non leggerei, scriverei, penserei metò del tempo, prenderei appunti di preferenza e sognerei occasionalmente in Inglese.

Fa effetto pensare a quali minuzie, a volte, divengano il perno su cui una vita intera cambia (di molto o un po’) il suo corso…

Oh well, never mind. Adesso sapete come e perché.

 

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* Se escludiamo il terremoto in Friuli nel Settantasei – ma non doveva essere tanto più tardi di allora, perché non sapevo ancora leggere…

** Nonostante corsi, tentativi, una moglie anglomane e lunghe frequentazioni internazionali in ambito NATO.

*** Ho un ricordo particolarmente vivido dello Schenker: one hundred thousand cows arrived in Warsaw…

**** Ned, il protagonista (inglese) del mio primo tentativo di romanzo (ambientato in Inghilterra), è un attore teatrale che, da apprendista diciottenne, interpreta Swindon. Essendo il tipo che è, Ned gli costruisce attorno una complicata vicenda immaginaria, interpretandolo come un Custode Del Vecchio Ordine Che Si Vede Tragicamente Crollare Attorno Tutto Ciò In Cui Crede… Non del tutto incomprensibilmente, a un certo punto il capocomico gli suggerisce di sfrondare un nonnulla l’interpretazione.

***** Nel corso del mio anno Erasmus lessi tutta Jane Austen tranne i juvenilia, tutto Conrad, tutto Walter Scott, tutto Shaw, tutto Forster, tutte le sorelle Brontë, tutto Kipling, buona parte di Dickens, Thackeray, Mrs. Radcliffe, Mrs. Gaskell, più una seria quantità di storia e narrativa di genere. Er… no, non avevo una vita sociale.

Un Guest Post Rosso Cinabro

Ricordate quando, nel primissimo entusiasmo per l’iniziativa linguistica della Dante, ho adottato la parola Cinabro? Ebbene, l’avevo fatto perché il cinabro era bellissimo per suono e colore… Ma comincia ad essere chiaro che non sapevo chi mi stavo tirando in famiglia. 

Che devo dire? Sono una sventata che si getta in adozioni spericolate sulla base di informazioni insufficienti e infatuazioni cromatico-linguistiche.

Allora, giusto per sapere che cosa si nasconde sotto quel bel tono di rosso, ho chiesto lumi a gente che non solo è più scientifica di me, ma sa di cose orientali – e di alchimia, e di narrativa  di genere, e di un sacco di altri argomenti. E Davide Mana (l’uomo di strategie evolutive) non si è tirato indietro.

Per cui oggi gli cedo la parola e vi presento il suo guest post – un dotto e brillante arnese che spazia dalla geologia alla letteratura, dall’alchimia alla storia. Per di più questo post funge anche da ghiotta anticipazione per un corso online sul Taoismo che Davide sta preparando.

E adesso veniamo a noi: se, come me, credevate che il cinabro fosse solo un colore… well, you’re in for a surprise or three.

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cinabroIl colore vermiglio è anche detto “Rosso di Cina”.
Storicamente, un pigmento vermiglio piuttosto pregiato veniva prodotto in Cina a partire da un minerale, il Cinabro, detto anche Cinnabarite.
Cinabro è anche un sinonimo di Rosso di Cina, o vermiglio che dir si voglia.
Come vermiglio, il Rosso di Cina è più rosso del Rosso di Francia, che tende ad avere sfumature più arancioni.
Un esempio classico dell’uso del cinabro (il minerale) per produrre il cinabro (il colore) è nelle lacche cinesi di epoca Song, e succesive.

Ma non è questo che ci interessa, al momento.

Il cinabro è un solfuro di mercurio, formula HgS, e si rinviene frequentemente in vene, come prodotto di deposizione idrotermale in aree soggette a vulcanesimo.
Forse proprio per il suo presentarsi in vene di color rosso cupo in aree dense di fumarole, il cinabro venne originariamente associato, in Cina, alla circolazione sanguigna e alla respirazione*.
La medicina cinese raccomanda l’uso del cinabro per la cura di afflizioni disparate quali il mal di gola, l’asma, l’aritmia cardiaca e l’epilessia.

Nel linguaggio simbolico dell’alchimia taoista, il cinabro viene associato al dantien, il baricentro e punto focale della respirazione, normalmente definito “il campo di Cinabro”.
Ma l’alchimia interna, che si fonda su respirazione e meditazione, può chiamare il nostro dantien come le pare, e non ci sono gravi conseguenze.

È l’alchimia esterna, che è un problema.

L’alchimia taoista “esterna” (il Waidan) riconosce infatti il cinabro come una delle “pietre durevoli” – insieme con il realgar (che ci teniamo per dopo).
Le pietre durevoli sono brillantemente colorate, di solito rosso brillante, dure, resistenti all’usura.
Il mercurio e lo zolfo, che si combinano nel cinabro, sarebbero oltretutto simbolici dello Yin e dello Yang, e associati alla Luna ed al Sole.
Un ingrediente ideale, quindi, per l’elisir di Lunga Vita, la pillola dell’immortalità.

Il problema, naturalmente, è che il mercurio ha una allegra affinità per il selenio, un metallo necessario per un sacco di funzioni utili del nostro corpo – a cominciare dal garantire l’ossigenazione dei tessuti impedendone al contempo l’ossidazione.
Il mercurio ingerito, quindi, non solo si concentra nei tessuti grassi, restando in corpo alla vittima per anni e anni, ma va ad inibire l’azione degli enzimi a base di selenio – e come risultato i tessuti più ossigenati cominciano a morire per ossidazione.
E il tessuto più ossigenato, nel corpo umano, è naturalmente il cervello.

È per questo che gli artigiani specializzati nella produzione di lacche cinesi avevano la fama di essere un po’ originali, vagamente eccentrici, diciamo pure matti da legare.
Matti come cappellai, avrebbero detto gli inglesi – e non a caso, poiché se in Cina col cinabro ci producevano la lacca rossa, noi occidentali col mercurio ci producevamo il feltro dei cappelli.
Successivamente anche i fotografi ebbero gli stessi problemi.
Si lavora in bottega (o in camera oscura), si respirano i vapori, e poco a poco le cellule del cervello cominciano a morire.
Ne conseguono sbalzi di umore, perdite di memoria, insonnia o (più raramente) narcolessia, follia conclamata e poi, spesso dopo anni, la morte**.

Senza contare gli altri sintomi – dalla desquamazione della pelle all’aritmia, dalla perdita di sensibilità periferica a gonfiori sospetti, l’astenia muscolare, l’ipertensione e l’ipersalivazione.
Proprio un bel quadretto.wu gang, cinabro

La cosa divertente, ammesso che voi vi divertiate con certe cose, è che all’uso massiccio di cinabro nella preparazione delle bibite di lunga vita, la cultura occidentale deve uno dei grandi personaggi, dei grandi cliché dell’immaginario popolare – il Mandarino Pazzo.
Uno dei pilastri della letteratura pulp, e non solo, è il classico cliché del nobile cinese perverso e crudele, soggetto a periodici attacchi di follia omicida, crudele al limite del patologico, e vizioso.
Spesso con orride cicatrici (o abbondantemente truccato per nasconderle), di età indefinibile, incartapecorito e dalle movenze incerte.
Da Mysterious Wu Fan a Ming il Crudele in Flash Gordon, passando per il Pericolo Giallo in persona, il Dr. Fu Manchu, dalla fine dell’ottocento al secondo dopoguerra, questi personaggi infesteranno l’immaginario culturale di generazioni.
Forse persino Turandot (per quanto legata più palesemente ad altre strane derive scientifiche***), potrebbe in qualche modo incorporare la figura del sovrano cinese pazzo.
Orrido cliché razziale, è vero – ma con una base storica.

È infatti possibile scorrere la storia della Cina, ed osservare, presso le classi superiori, periodiche epidemie di follia e perversione.
Torture praticate come attività velleitarie, esecuzioni capitali per un nonnulla, spesso autolesionismo.
Deliri.
Cicliche decadenze della classe dominante in preda a scoinvolgimenti periodici “inspiegabili”.
Inspiegabili, certo, a meno di non consultare una cronologia delle mode intellettuali del Celeste Impero – nella quale noteremmo che ai periodi di follia diffusa fra i nobili corrispondono periodi durante i quali l’Alchimia esterna tornava in auge fra le classi superiori.

Tutti matti come cappellai.

In fondo, è comprensibile.
Chi, avendo un potere assoluto all’interno di una complessa struttura burocratica, butterebbe decenni a meditare concentrando lo spirito nel proprio dantien, magari al freddo, in mezzo alle montagne, per diventare immortale, quando è disponibile una comoda (e costosa) formula che, se consumata con regolarità, garantisce gli stessi effetti?
 
Già.
Vatti a fidare degli alchimisti.

Difficile a questo punto chiudere con una nota positiva, eh?
Ma possiamo provarci.
Mettiamola così – se non garantiva la longevità, per lo meno l’elisir di lunga vita taoista garantiva,a modo suo, un limitato periodo di follia prima del decesso.
Perché ci mettevano anche il realgar, ricordate.
E il realgar, è un solfuro di arsenico.

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* Succede lo stesso nell’America precolombiana, dove il cinabro viene spesso usato per ornare templi funebri, a simboleggiare la vita.

** Pensateci, la prossima volta che vi ritrovate a cantare “Un buon noncompleanno” – quell’allegro personaggio di Carroll è un disgraziato intossicato di mercurio, condannato ad una morte orribile.

*** Mi ci fai fare un altro guest post, Chiara? [NdC: Assolutamente!]
O ci facciamo un post a quattro mani di là da me?

Adozioni Giacobite

Ricordate Adotta Una Parola? Ne avevamo già parlato, ma la trovo un’iniziativa meritoria e divertente – e mi auguro che abbia anche qualche efficacia pratica.

società dante alighieri, adotta una parola, giacobita, stevenson, henry jamesAvevo già adottato qualche mese fa una famigliolina di parole, ma, trovandomi a passare di nuovo per il sito in questione, ho pensato di bene di adottare anche Giacobita, e ne vedete il risultato.

Ora, veniamo al mio nuovo figliolino adottivo.

Secondo il buon Treccani*:

giacobita (1) agg. e s.m. [dal lat. mediev. Iacobita] (pl.m. -i) – Che si riferisce alla Chiesa monofisita di Siria, fondata da Giacobbe (lat. Iacob) Baradeo alla metà del sec. 6°, la cui teologia e liturgia è essenzialmente i tipo greco-ortodosso. Come s.m., per lo più nel plur. giacobiti, denominazione dei seguaci della Chiesa giacobita, che sostenevano il monofisismo cosiddetto verbale o moderato, in contrapposizione al Concilio di Calcedonia da loro accusato di nestorianesimo, e che attualmente sopravvivono in gruppi isolati, soprattutto in Siria e in Turchia.

giacobita (2) s.m. e f. [dall’ingl. Jacobite, der. del lat. tardo Iacobus “Giacomo”] (pl. m. -i). – Nome con cui furono indicati, dopo la rivoluzione inglese del 1688-89, i fautori del re esiliato Giacomo II e i suoi discendenti, esteso poi a designare i fautori dei descendenti di Carlo I, della famiglia Stuart.

Allora, in primo luogo il significato (1) è un esempio di un motivo secondario per cui questa iniziativa è meritoria. La parola e io ci conosciamo da una ventina d’anni, ma nella mia anglomania non ero mai andata oltre il significato (2). Per cui adesso so che i giacobiti sono anche una varietà siriana di monofisiti, e questa microsemiepifania linguistica è cosa buona e giusta.

In secondo luogo, mi tremano le ginocchia a dubitare della competenza grammaticale del Treccani, ma non posso fare a meno di domandarmi se davvero il significato (2) esista solo in forma di sostantivo. Ma allora, quando traduco Jacobite Risings come “sollevazioni giacobite” sto solo aggettivando un sostantivo? E se l’Italiano si è disturbato ad assorbire il sostantivo, perché non l’aggettivo? Mah. Però questo paragrafo l’ho scritto timidamente e in corpo 12, perché il Treccani è il Treccani e – worst of all – sono del tutto intenzionata a usare l’aggettivo**.

In terzo luogo, mi confesso colpevole di qualcosa che forse è un altro peccato linguistico. Non so se questo ricada sotto la voce “uso improprio della parola”, ovvero qualcosa che mi sono impegnata a scongiurare adottandola, ma mi sto persuadendo a usare Giacobita come traduzione di Jacobean – con riferimento al regno di Giacomo VI e I… Probabilmente non è del tutto esatto, ma pebacco, non so proprio indurmi a tradurre Jacobean con Giacobino, e i dizionari non sono di grande aiuto. Persino lo Hazon, di solito così affidabile e ricco, offre in tutto e per tutto “relativo al regno di Giacomo VI e I.” Why, thanks! E allora, a Jacobean tragedy diventa una tragedia del periodo di Giacomo VI e I? Ma ditemi voi…

E poi lasciate che vi racconti della mia plurilustrale amicizia con il significato (2).

Edimburgo, agosto 1994. Per la seconda volta sono stata spedita a trascorrere un mese in famiglia nella verde Scozia, ma stavolta mi è andata così così. La padrona di casa è una signora anziana e ciarliera provvista di un King Charles Cavalier grassissimo e sbavante e di un’incoercibile passione per Doctor Quinn, Medicine Woman. Sono pienamente intenzionata a passare fuori casa più tempo che sia possibile, ma da un lato piove sempre, e dall’altro non posso fare gran conto sulla scuola. La mia amata, minuscola e ottima scuola è fallita e, mi si dice, i due fratelli che la gestivano sono fuggiti sul Continente, dove pare che lavorino come cuochi. Così sono finita in una scuola più grande, più centrale e affollata di Italiani. Nel giro di due giorni mi hanno spostata dal corso base a quello intermedio a quello avanzato, e così adesso il mio vicino di banco è un professore di Lettere delle medie impervio alla distinzione tra complemento di causa efficiente e complemento di provenienza (in Italiano). Cercherei di sfruttare al massimo il Festival, ma l’ho detto che piove sempre? E un sacco di eventi pomeridiani sono all’aperto. Morale: nel giro di due giorni ho il raffreddore del secolo, detesto la scuola e voglio tornare a casa… E allora applico il metodo abituale per i momenti di spleen: entro in una libreria e comincio a razzolare. Me ne esco con una piccola copia di Kidnapped, di R.L. Stevenson (copertina rigida blu con impressioni stevenson, giacobitavagamente dorate, pagine grigioline e caratteri concertati, ne sono certa, con l’ordine degli oculisti), mi arrampico verso la città vecchia, mi infilo in una tea-room, ordino tè con gli scones e comincio a leggere…

Vabbe’, ho parlato abbondantemente altrove della mia predilezione per Alan Breck Stewart, per cui ve la farò breve. Nel giro di una settimana avevo divorato Kidnapped e il suo seguito Catriona, nonché una storia della Scozia di Nigel Tranter, avevo visitato le mostre Stevensoniane alla National Library e al Royal Museum e avevo lottato duramente nel vano tentativo di procurarmi un biglietto per l’adattamento teatrale di Kidnapped… E intanto avevo scoperto l’esistenza dei Giacobiti e dei loro ripetuti e sfortunati tentativi di ripiazzare sul trono gli Stewart giusti…

la dante, adotta una parola, bonnie prince charlie, sollevazioni giacobiteOra, non dico che gli Stewart fossero necessariamente dei buoni sovrani e meritassero tanta irragionevole lealtà, ma se c’è qualcosa che mi scioglie sono le cause perdute e, in generale, tutta la gente che si aggrappa oltre ogni buon senso e senza speranza di successo a qualche vecchio mondo tramontato. And Jacobites fit the bill with a vengeance, con le loro malguidate sollevazioni, nel 1716 e nel 1745, annegate nel sangue, nella scarsa competenza e nelle discordie tra clan.

Una volta tornata in patria, in era pre-internet, avevo preso l’abitudine di piombare su librai e bibliotecari ignari chiedendo “qualcosa sulle sollevazioni giacobite.”

“Vuol dire giacobine…” Era la risposta standard e, inutile dirlo, non ho mai trovato nulla di più di qualche lemma stringato su qualche vecchia enciclopedia, perché i Jacobite Risings sono uno di quegli episodi di cui non importa granché a nessuno. Poi ho fatto il mio anno Erasmus a Cardiff, poi sono stata iniziata al fatto che Sir Walter Scott non ha scritto soltanto Ivanhoe***, poi ho scoperto le meraviglie di Internet, per cui adesso ho letto quanto volevo sui Giacobiti, compresi gli aspetti meno attraenti delle loro sollevazioni, dei loro metodi, dei loro sovrani oltre il mare, delle loro beghe e delle loro stupidità. So anche che l’Alan Breck Stewart storico era in realtà un pessimo soggetto senza un briciolo del fascino che Stevenson gli ha ricamato attorno.

Eppure la mia idea di giacobita resta legata all’incontro con un libro e un personaggio – un’immagine pittoresca e romantica, vagamente imparentata con la realtà, ma abbastanza vivida da farmi adottare una parola a quasi vent’anni di distanza, ed è tutta colpa di Stevenson. Ah, che cosa non riesce a fare uno scrittore, vero?

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* In realtà del Dizionario Enciclopedico Treccani ho una gran paura, e lo sfoglio sempre come se potesse attaccarmi, perché è illustrato e cosparso a tradimento di enormi fotografie e dettagliatissimi disegni di r. I r. sono le orribili creature con otto zampe che fanno le r.tele, e sono afflitta da una seria aracnofobia, per cui…

** Lettore che passa di qui e tralegge la bozza da sopra la mia spalla: “Sì, perché invece di solito sei linguisticamente timida, vero? Una glottomammoletta!” (collassa in un convulso di cachinni)

*** Se dovessi consigliare un titolo, consiglierei Waverley, ambientato nel corso della II Sollevazione.

Ott 19, 2011 - Adotta Una Parola    9 Comments

Custode Del Cinabro

Suona bene, vero? Ma andiamo con ordine.

Qualche giorno fa, quando ero in piena battaglia, Alessandro Forlani (che conosce i suoi polli) mi ha segnalato una cosa chiamata “Adotta una Parola.” Al momento, lo sapete, mi stavo dividendo fra Virgilio e Seamus Heaney, così ho accantonato la segnalazione ripromettendomi di indagare alla prima occasione.

E la prima occasione è stata ieri, quando ho seguito le mollichine fino a scoprire un’irresistibile iniziativa della Società Dante Alighieri. Si tratta, appunto di Adotta una Parola, ed è proprio quel che dice l’etichetta.

Cito verbatim dalla pagina rilevante del sito de La Dante:

Ogni iscritto potrà adottare la sua parola preferita selezionandola dalla lista disponibile sulla pagina dedicata al progetto , indicare la motivazione della scelta e la sua citazione preferita, sottoscrivere una dichiarazione simbolica nella quale si impegna a promuovere la parola quando ne ha l’occasione, invitare gli amici a partecipare, monitorare l’uso proposto della parola attraverso vari canali, segnalandone usi non appropriati o nuovi significati rispetto a quanto documentato dai dizionari. In questo modo chi partecipa al gioco diventa custode della parola, riceve un certificato elettronico e mantiene questa qualifica per un anno.

E vi pareva possibile che potessi resistere? Naturalmente no, e quindi mi sono precipitata qui, in cerca di una parola orfana da adottare e custodire per un anno.

Per prima cosa, lo confesso, ho cercato il gozzaniano color Gridellino, una delle mie bizzarrie lessicali preferite – e ho scoperto che ero stata battuta. Qualcun altro ha già provveduto, lasciandomi solo la consolazione di contarmi tra i sostenitori dell’aggettivo. Chiunque sia il custode, ha tutta la mia stima. Poi ho tentato con Iridescenza, Elisabettiano, Novellatore, Sesquipedale, Versipelle, Dragomanno, Siderale – tutte parole che mi piacciono tanto per bellezza del suono, per significato, per forza evocativa, per memorie o associazioni*, o presenze letterarie… Solo che erano tutte già adottate. Così mi sono affidata agli elenchi forniti dal sito, e ho cominciato a cercare.

Dapprima ho esitato lungamente tra Mistoforo (Pascoli non è la mia passione, ma Alexandros è un’altra cosa), Anglomane (per motivi puramente autobiografici), Balteo (perché ho ancora tracce di Eneide impigliate tra i capelli), Paracqua (in vista di Strada Nuova), Gnaulìo, Vesperare, Radiodramma, Cenerognola e altre meraviglie per tutta una serie di motivi, ma quando mi sono imbattuta in Cinabro, è stata fatta.

Il Cinabro è un pigmento capace di coprire ogni genere di sfumatura di rosso, dal vermiglio più proprio, fino al marrone rossiccio. Ha parentele col mercurio, ramificazioni kantiane, riverberi alchemici, connessioni ideali con l’immaginazione e un nome di etimologia greca che è una sinfonia in miniatura. Per me ha una distinzione aggiuntiva nel fatto che l’ho usato nel Somnium Hannibalis e in un paio di altre occasioni.

E adesso, per un anno a partire da oggi, sono la custode del Cinabro – cosa che già di per sé suona come un titolo da romanzo. Mi sono impegnata ad usare la parola ogni volta che se ne presenta l’occasione, a segnalarne usi impropri e scivolamenti semantici, a postare in proposito almeno due volte e a farne uso per almeno un titolo durante la mia wardenship.

Poi confesso che ho fatto domanda per alcune altre adozioni, e un po’ per volta sto raccogliendo altri orfanelli che mi piacerebbe adottare. Vi terrò aggiornati sull’eventuale espandersi della mia famigliola di lemmi.

E se per caso aveste voglia di adottar parole anche voi, eccovi di nuovo il link per cominciare. E magari, se vi va, passate di qui a raccontarmi che parole avete adottato e perché.

Oh, e c’è persino un attestato…

società dante alighieri, adotta una parola, cinabro,

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* Centocinquanta punti a chi indovina perché “Dragomanno”… 🙂