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Ott 6, 2014 - Shakeloviana    2 Comments

Shakeloviana: Inchiostro E Acciaio

Cover of "Ink and Steel: A Novel of the P...Che detto così suona molto come Zaffiro & Acciaio, n’est-ce pas? E invece è tutt’altro. È la prima parte della terza parte (che in realtà, cronologicamente, è la prima-prima parte) delle storie della Promethean Age di Elizabeth Bear.

Hm, mi rendo conto che non suona benissimo – ma il fatto è che è tutto vero. Vediamo un po’. Dopo avere introdotto nel secondo romanzo, Whiskey and Water, un Kit Marlowe reduce dall’inferno e assetato di vendetta, la signora Bear deve averci trovato gusto. Non sarò io a negare che il suo Kit sia un ottimo personaggio, e potete immaginare che sia con una certa soddisfazione che mi sono procurata i due volumi di The Stratford Man. il lungo prequel (orribile, orribile parola!) di ambientazione elisabettiana che ha per protagonisti – indovinate un po’? – Marlowe&Shakespeare.

Ora, rileggendo quel che avevo dedotto da Whiskey and Water sul passato post-mortem di Kit, posso solo formulare due ipotesi: a) non avevo capito un bottone; b) Elizabeth Bear ha saggiamente deciso di non lasciarsi condizionare troppo da quel che era più che sufficiente come backstory in W&W, ma forse avrebbe potuto soffocare una storia di respiro più ampio. E poi in realtà c’è anche l’ipotesi c), in base alla quale backstory e storia si congiungeranno per bene e annoderanno con il fiocchetto quando avrò letto tutto quanto The Stratford Man.

Per ora sono ferma a Ink and Steel, e mi è piaciuto davvero parecchio.

L’idea di fondo è che il Prometheus Club originario, una sorta di società segreta nata al fine di proteggere l’Inghilterra e la regina Bess con mezzi magici, si sia disgregato per rivalità miste assortite. A pagarne il prezzo sono stati prima Sir Francis Walsingham, che però nel 1593 non è poi così morto come tutti credono, e poi Kit Marlowe, poeta di punta del gruppo, maestro nel genere di magia che si pratica con le parole e il teatro. Ma Kit, invece di morire per davvero, viene rapito dalle fate, rimesso in piedi e cooptato in servizio semi-magico, come ufficiale di collegamento tra la fatata Annwn e Londra, dove però non può mai tornare per più di un paio di giorni se ha intenzione di vivere.

Al posto del non proprio defunto ma ormai inservibile Kit, i Walsingham e Burbage reclutano l’ingenuo William Shakespeare, che ha già un sacco di problemi per conto suo, e che dapprincipio non sa proprio dove mettere le mani – e che farà bene ad imparare in fretta…

Il resto è un’affascinante storia di intrighi, nostalgia, tradimenti, bugie, poesia, amore, amicizia e, naturalmente, magia. Il tutto è scritto assai bene, con dei dialoghi favolosi, ambientazioni costruite con incantevole, dettagliatissima cura, e dei personaggi estremamente convincenti – nel bene e nel male.

Sir Francis, Burbage, Robin Goodfellow, il malvagio e sorridente Baines, la regina Bess, la fata Morgana… ma soprattutto i due protagonisti. Shakespeare ha i suoi guai con una Anne Hathaway – che, finalmente e per una volta, non è né bisbetica né lamentosa e appiccicaticcia – con una salute traballante, con un compito che gli sembra inaffrontabile… almeno finché non ci si ritrova in mezzo. Kit è tormentato e pieno di nostalgia di casa, astuto ma capace di sconcertanti ingenuità, ha un filo di complesso del martire, è assai meno cinico di quanto gli piaccia pensare – e finisce sempre col pagare prezzi altissimi per qualsiasi cosa.

Adesso ci vorrà Hell and Earth – anche perché da qualche parte bisogna pur che ci sia un finale – ma fin qui andiamo più che bene.

Al solito, se siete incuriositi, Ink and Steel si trova su Amazon.

Giu 16, 2014 - Shakeloviana    Commenti disabilitati su Shakeloviana: Murdering Marlowe

Shakeloviana: Murdering Marlowe

2Vi ricordate lo Will Shakespeare di Clemence Dane?

Ve lo chiedo perché oggi parliamo di un altro play che, pur avendo una certo numero di punti di contatto, non potrebbe essere più diverso.

Come Miss Dane, anche Charles Marowitz tenta la via del verso sciolto. Come Miss Dane, anche Marowitz piazza il giovane Shakespeare all’ombra del giovane Marlowe. Come Miss Dane, anche Marowitz ci mette in mezzo una donna – più o meno contesa, più o meno indecisa. Come Miss Dane, anche Marowitz ci aggiunge una Anne Hathaway abbandonata e attaccaticcia. Come (e più di) Miss Dane, anche Marowitz esplora questioni di individualità artistica e spazi espressivi da trovare. Come Miss Dane, anche Marowitz mette Shakespeare dietro la coltellata fatale a Deptford – sia pure meno… er, direttamente.

E in realtà le somiglianze finiscono qui. In Marowitz, per cominciare, non ci sono bravi ragazzi tormentati. Will è un genio 4ec58402c1655.preview-300insicuro e meschino, divorato dall’invidia al punto che l’omicidio gli sembra un metodo perfettamente sensato per liberarsi del coetaneo più brillante. Kit è pieno di hybris e autodistruttivo, ma sgradevole su tutta la linea – scritto per offrire a Will tutte le motivazioni e tutti i mezzi per l’omicidio, e nemmeno l’ombra di un motivo di rimorso o simpatia. La donna contesa non è una Mary Fitton luccicante e amorale, ma una Emilia Lanier che rimbalza di letto in letto, cercando di manipolare in qualche parvenza di sentimento – o almeno di reazione – due uomini che per lei hanno davvero poco tempo considerando quanto Will sia ossessionato da Kit, e quanto Kit sia ossessionato da se stesso. Anne tenta di essere quella costretta alla prosaicità dalle delusioni, dalla povertà e dall’altrui vaghezza, ma esce piuttosto piatta. Quanto all’individualità artistica, devo confessare che, pur credendo senza un’ombra di difficoltà che Marlowe sia stato una pietra di paragone oltremodo ingombrante, fatico a indurmi ad apprezzare uno Shakespeare ossessivamente, circolarmente intento a ripetersi che oh, se solo non ci fosse Marlowe! È… poco.

E i versi? vi chiederete forse.

Ecco, i versi…

67289-large_0Non ho nulla, ma davvero nulla contro il teatro contemporaneo in versi giambici – a patto che la cosa funzioni. È un “a patto” piuttosto maiuscolo, me ne rendo conto, proprio per il fatto che far funzionare i pentametri giambici in un linguaggio che suoni debitamente elisabettiano e non sia un’infelicità per l’orecchio moderno è un mestiere intricato e delicatissimo. In qualche modo, Clemence Dane ci riesce senza grattare troppo – o almeno così sembra a me, e forse è solo perché con il 1921 si è più indulgenti? Magniloquente, gonfio e purpureo, il linguaggio in versi della Dane è irritante a tratti, ma irritante in quella maniera georgiana che, in qualche modo, funziona. Voglio dire, si vedono immagini come questa qui a fianco, e si capiscono molte cose…

Però si direbbe che il mio livello di tolleranza frani a valle quando si tratta di un autore contemporaneo, perché i pentametri di Marowitz mi rendono un po’ infelice. Non li ho mai sentiti recitare, ma alla lettura mi suonano legnosi e insipidi al tempo stesso. Ripeto, magari sono io, e non è come se preferissi i versi di Miss Dane, ma in qualche modo, lo spudorato tentativo post-vittoriano di riprodurre il linguaggio del Bardo mi irrita meno del dichiarato intento contemporaneo di non voler imitare Shakespeare.

D’altra parte, ci sono varie cose che Marowitz dichiara – tra l’altro di avere costruito il suo play più come un thriller che come un period piece. Considerando quanto è confuso e macchinoso il delitto, non so spingermi ad affermare che ci sia riuscito terribilmente bene.

Morale – un disastro completo?

In realtà no. Ci sono alcune buone cose in questo play. L’atmosfera cupa e claustrofobica, il senso di minaccia, un’idea di fondo bizzarra ma interessante, la frustrazione di Emilia, il momento rivelatore in cui Will si rende conto di non essere poi così machiavellico come credeva… È un peccato che poi l’insieme non funzioni granché.