È accaduto che in un blog contiguo si venisse, per una combinazione di serendipità e intento, a parlare di Tarzan. Tarzan, Orzowei, Sheena, Rima, Mowgli, Pocahontas e tutta quella gente che, succintamente abbigliata e supremamente abile, si aggira per jungle, savane e foreste più o meno pluviali, sempre up to every and anything, e fornita di una saggezza che definirei preternaturale – se non fosse che invece la si suppone derivata dal diretto contatto con e profonda conoscenza della Natura. Con la N maiuscola.
Ad essere del tutto sinceri, non è il mio tipo di personaggio prediletto: da un lato, la mia fiducia nell’umana natura essendo quel che si sa, non nutro soverchia simpatia per le teorie del Buon Selvaggio e del Nobile Selvaggio eccetera; dall’altro… voi lo sapevate che Tarzan pilota aerei?
Lo sapreste, mi si dice, solo se aveste letto i (numerosi) romanzi originali di Edgar Rice Burroughs, cosa che io non ho mai fatto a parte le prime venti pagine o giù di lì di Tarzan delle Scimmie. E siccome nell’estate in cui ciò accadde avevo dieci anni, non ero ancora cinica e non avevo ancora avuto modo d’inciampare in Rousseau e Chateaubriand, bisogna dire che fosse qualche altra cosa a farmi piantare il libro a men che mezzo.
Perché, vedete, a dieci anni quel che cominciavo lo finivo. Avevo finito con ogni cura Il Libro della Jungla, benché non mi piacesse, ma Tarzan era davvero troppo per me. E a distanza di tanti anni credo che, a rendermelo più indigesto di altri, fosse la somma delle sue abilità. Coraggiosissimo, e agilissimo e intelligentissimo, e astutissimo, e abilissimo con qualsiasi genere di arma gli capiti di trovarsi in mano, e velocissimo… sì, d’accordo, mi par di ricordare che le scimmie lo trattassero come un’anomalia bianchiccia e glabra, ma persino le scimmie più ostili lo erano perché si sentivano un nonnulla oppresse dalla sua collezione di superlativi.
Ecco, anch’io, lettrice decenne, mi sentivo oppressa dalla collezione di superlativi di Tarzan – e ancora non sapevo che pilotava anche gli aerei.
Ma l’onnicompetenza, mi si dice, fa parte del pacchetto. L’onnicompetenza è irrinunciabile dotazione dell’eroe avventuroso in un tutta una serie di generi e sottogeneri fin dalla notte dei tempi: come può l’eroe cavarsela in ogni genere di rocambolesche avventure, se non sa fare tutto – dal combattimento a mani nude alla lettura dei geroglifici, passando per la medicina spicciola, la risoluzione di enigmi e la tarte tatin?
E qui potrei chiamare in causa la mia scarsa ed erratica frequentazione di molti generi pulp per spiegare la natura della mia esposizione all’onnicompetenza. Perché ammetto che l’onnicompetenza ha la sua buona dose di senso narrativo, l’onnicompetenza è quasi indispensabile per raccontare un certo tipo di storia. L’onnicompetenza ha il suo perché. Capisco che Indiana Jones, per cercare l’Arca Perduta, sopravvivere al Tempio Maledetto e tornare a casa dall’Ultima Crociata deve possedere un repertorio di conoscenze e competenze buono per una decina di persone.
E tuttavia, passiamo in rassegna un po’ di gente onnicompetente attraverso vari generi.
Ricordo con somma irritazione una lettura d’infanzia intitolata Per l’Onore di Roccabruna, la cui protagonista, la dodicenne e aristocraticissima Maria Rosa, non solo era bellabuonaebrava, ma era più saggia dei suoi anni e più intelligente di tutte le sue sorelle maggiori e cugine, danzava con grazia suprema, suonava il pianoforte e cantava cantava come un angelo, cavalcava con audacia sopraffina, disegnava divinamente, recitava bene, aveva un gusto squisito, un coraggio a tutta prova e lunghi boccoli biondi. Si capisce che la piccola Maria Rosa* salvava il bel cugino, la famiglia intera, la magione avita e la patria in un sol colpo – provando al di là di ogni possibile dubbio che l’onnicompetenza non era appannaggio esclusivo degli eroi pulp maschi.
Esiste, molto evidentemente, anche la fanciullina onnicompetente per i fanciulli – come la Péline di In Famiglia, bilingue, autosufficiente, impavida e capace di costruirsi da sé calzature, posate e piccola mobilia…
Alan Breck Stewart, il protagonista de facto di Kidnapped, va tenuto lontano dalle carte da gioco per il suo bene e quello generale, ma a parte questo…
…era bravissimo in ogni genere di musica, ma specialmente nella cornamusa; era un buon poeta nella sua lingua, aveva letto molti libri in inglese e in francese, era un ottimo tiratore, un buon pescatore con la lenza e un eccellente spadaccino sia con la spada corta che con la sua arma particolare.
L’arma particolare è una specie di sciabola, con cui Alan fa miracoli – e naturalmente è coraggioso, risoluto, intelligente, leale, astuto, pieno di risorse – e se non fosse per lui, lo stolido e benpensante David non arriverebbe ad avere una storia da raccontare.
James Crichton of Cluny, l’Ammirabile Critonio, è onnicompetente in due versioni – anzi in tre, se contiamo la lettera di presentazione al Duca di Mantova scritta da Aldo Manuzio il Giovane per l’originale storico. Ma a parte Manuzio, sia il polemista secentesco Thomas Urquhart che il romanziere vittoriano William Ainsworth ci descrivono un giovanotto senza pari: poliglotta, filosofo, poeta, oratore, musicista, matematico, danzatore, duellatore in ogni forma, fine politico, conversatore inarrivabile, e per di più bellissimo e nobile d’animo.
I protagonisti di Edward Marston – che si tratti dell’attore elisabettiano Nicholas Bracewell, dell’architetto secentesco Christopher Redmayne, del settecentesco capitano Rawson o del vittoriano ispettore Colbeck – sono tutti uguali: supremamente abili nella loro professione, coraggiosi oltre ogni dire, intuitivi e tenaci nell’investigare, attissimi al comando e provvisti delle più svariate e utili capacità pratiche acquisite in circostanze straordinarie.
Anna, la Countess Below Stairs di Eva Ibbotson, danza squisitamente, canta, cavalca, suona il pianoforte e, nel momento della necessità, diventa un’incomparabile cameriera, abilissima e zelante in ogni genere di lavoro domestico.
Ilya Kuryakin, il coprotagonista di The Man from UNCLE**, che era una serie televisiva americana Anni Sessanta, non contento di essere un superaddestratissimo agente segreto, parla un’improbabile quantità di lingue, si è addottorato in fisica a Cambridge, suona almeno tre strumenti, è un esperto di esplosivi, pilota qualsiasi cosa voli e, in generale, sa quasi tutto di quasi tutto.
La Pocahontas disneyana salta, corre, porta la canoa, si tuffa, nuota e s’arrampica meglio di chiunque altro, sa come usare l’acido salicilico, impara l’Inglese in cinque minuti, ha una certa quantità di political savviness e parla con gli spiriti.
E potrei continuare a lungo, ma fermiamoci qui e analizziamo lo schema. Tutta questa gente onnicompentente (o quanto meno ipercompetente) ricade in due categorie: Maria Rosa, l’Ammirabile Critonio, la gente di Marston, Pocahontas e Péline vengono trattati dai rispettivi autori in tutta serietà. Sono offerti alla nostra ammirazione con tutta la loro straordinaria competenza. Invece le molteplici perfezioni di Alan Breck, Anna, Ilya Kuryakin e Indiana Jones ci vengono raccontate tongue-in-cheek, bilanciate da una vasta quantità di difetti e/o accompagnate da una strizzatina d’occhio da parte dell’autore: bada, o Lettore/Spettatore, che questa è una storia – e non prendiamoci troppo sul serio.
Potrei ricordarmi male, ma ho tanto idea che l’onnicompetenza di Tarzan sia played straight. E si vede che, quando avevo dieci anni e una capacità di prospettiva storica del tutto acerba, davanti agli onnicompetenti da prendersi sul serio la mia sospensione dell’incredulità franava a valle molto presto.
Perché si capisce, occorre tener conto della differenza d’epoca, delle convenzioni di genere, del pubblico per cui ciascuno di questi personaggi è stato scritto. Sir Thomas, nella sua veemenza pro-Scozia e nel XVII Secolo, è del tutto convinto di tracciare un ritratto storicamente accurato del suo eroe. E Marguerite Bourcet, che scrive per le bambine negli Anni Venti, è ansiosa di offrire alle sue piccole lettrici dei modelli di perfezione: la bimba che tutte dovete voler essere.
Dopodiché, la maggior parte degli esempi che coniugano l’onnicompetenza con un sense of humour sono più recenti, e verrebbe da pensare che, come categoria di personaggio, l’onnicompetente tout court debba essere passato di moda. Ma in realtà non ne sono poi così sicura, considerando il notevole successo di un Edward Marston, i cui eroi onnicompetenti (e privi di difetti) si vendono come noccioline.
E pensando poi a un Fratello Cadfael, a un Owen Archer o a una Fidelma, bisogna dedurre che, almeno nel giallo storico, l’onnicompetenza è tutt’altro che tramontata.
_____________________________________________________
* Non vi viene in mente la sua omonima del vetusto carosello del Lievito Bertolini? “Brava, brava, Maria Rosa, ogni cosa sai far tu! Qui la vita è sempre rosa solo quando ci sei tu!” A meno che non siate troppo giovani per ricordarvene… E, a ben pensarci, questa perfezione delle Marie Rose sembra esere un tema costante, perché c’è un altro carosello che non ho mai visto (per questo sono troppo giovane io), ma mi si dice che vi figurasse una Olivella gelosa di una Maria Rosa che sapeva fare tutto: una massaia onnicompetente.
** Incidentalmente, TMfU ha un episodio che parodizza Tarzan e compagnia, con una ragazza di buona famiglia allevata dalle scimmie, la spedizione di ricerca, gl’indigeni affidabili e gl’indigeni inaffidabili, gli animali selvaggi e tutti i props&trappings del caso.