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Lug 2, 2018 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Letture d’Infanzia

Letture d’Infanzia

StoriesSe ci badate, è un classico: quante volte un autore ci mostra quel che un personaggio legge da bambino? E sempre le letture d’infanzia sono un segno, nel bene o nel male, di come cresceranno il nostro eroe e la nostra eroina – di quel che vorranno, di quel che perderanno, di quel che faranno da grandi, o non faranno e rimpiangeranno per tutta la vita… Oppure, per contro, di quello a cui sono stati costretti e poi detesteranno.

Per elezione, per prossimità, per proiezione, per rifiuto – non importa come, ma le letture d’infanzia di un personaggio vanno sempre prese sul serio.

Per dire, lo sapevate che da bambino Ebenezer Scrooge leggeva avventure e fiabe? Ebbene sì: il piccolo Scrooge possedeva un’immaginazione e, abbandonato in collegio Natale dopo Natale, si consolava leggendo le Mille e Una Notte e Robinson Crusoe – almeno finché le amarezze della solitudine e poi la scalata al successo nella City non lo cambiano. Eppure le gioie di questa compagnia favolosa sono il primissimo ricordo che lo Spirito dei Natali Passati gli fa rivedere – e con quanta dolceamara nostalgia ci si commuove Scrooge! E queste fantasie perdute riaffiorano per prime, insieme al ricordo dell’adorata sorellina: le poche felicità di un’infanzia maltrattata, ma anche i segni che Ebenezer Scrooge non era nato arido.

StoriesSeaPiù beffardamente profetiche – e, se vogliamo, più crudeli – sono le avventure di mare che Lord Jim legge da ragazzo, quelle che gli fanno scegliere una carriera navale. Conrad sapeva come funziona: lui stesso da ragazzino, nelle pianure polacche e senza aver mai visto una goccia d’acqua salata, aveva deciso che solo il mare lo avrebbe reso felice, sulla base di James Fenimore Cooper. E poi lo ebbe, il mare – e non andò terribilmente bene. A Lord Jim, reclutato per inchiostro allo stesso modo, va molto peggio – pur conservando la stessa idea che lo splendore indefinito delle storie assorbite da bambini sia in realtà un luccichio bugiardo, capace di rovinare per la vita chi non impara a distinguere per bene la realtà.

Anche John Felton, l’erudito duchicida di The Assassin, non viene precisamente tirato su a senso pratico. Alunno del traduttore Arthur Golding, il piccolo John assorbe antichità classica, paradossi e storie – ma la sua predilezione personale oscilla tra libri di viaggi e trattati protestanti sulla responsabilità individuale. Quando ritroviamo Felton nella Torre di Londra, soldato deluso, viaggiatore esausto e condannato a morte per aver pugnalato il rovinoso Buckingham a beneficio dell’Inghilterra tutta, non ce ne stupiamo affatto. StoriesTurbin

Ma non è sempre tutto così profetico. Nel primo capitolo de La Guardia Bianca, per i tre fratelli Turbin la biblioteca della loro bella casa a Kiev è il simbolo di un mondo perduto. I volumi “dal profumo di cioccolata”, la stufa di maiolica olandese, le sere d’inverno passate a leggere romanzi per ragazzi prima, e poi Pushkin e Tolstoj emergono da una lontananza dorata e sicura, a cui Alyosha, Elenka e Nikol’ka si aggrappano dopo la morte della madre. All’età in cui dovrebbero cominciare “la vita raccontata nei romanzi”, i tre si ritrovano orfani, in un mondo sull’orlo della guerra e della rivoluzione. Niente sarà più come prima, niente sarà come Elena e i suoi fratelli avevano immaginato – e l’immagine più vivida di questa perdita fiammeggiante è il timore di vedere i libri bruciati nella stufa…

StoriesfSe poi c’è di mezzo un futuro scrittore, state certi che, oltre a leggere storie, le racconterà. Jo March, per esempio, e David Copperfield (che l’affascinante e malvagio-to-be Steerforth chiama la sua Sheherazade), passano il loro tempo a raccontare storie a sorelle, amici e compagni di collegio: storie che hanno letto, storie che hanno modificato, storie che hanno inventato. Kipling va un passo più avanti: le stesse storie hanno effetti differenti su ragazzi diversi.  Gli inseparabili Starkey, M’Turk e Beetle spaziano insieme dalle Mille e Una Notte ai saggi anti-stratfordiani, dagli edificanti (e detestati) romanzi scolastici all’elisabettiano Knight of the Burning Pestle, fino a Tom o’ Bedlam, pieno di folli avventure immaginate… E questi ragazzi finiranno sparsi per l’Impero, cresciuti in diverse combinazioni di queste premesse per iscritto: un ufficiale temerario e un nonnulla insubordinato, un malinconico e lucido funzionario malato di nostalgia, uno scrittore di curiosità e immaginazione sconfinate.

È possibile che tutti siamo – almeno in parte – frutto delle storie che assorbiamo da piccoli. Di certo è così per i personaggi letterari: per rifiuto, per proiezione, per prossimità, per elezione… non è per caso o per capriccio che il peso delle storie è un ottimo meccanismo narrativo.

E voi che ne dite, o Lettori? Che leggevano da fanciulli i vostri personaggi prediletti?

Set 20, 2010 - pennivendolerie    7 Comments

Quella lì è una scrittrice

Ero sul treno Mantova-Milano, sabato mattina, e dall’altra parte del corridoio erano sedute due signore che, ogni tanto, mi guardavano e poi tornavano a parlottare fra loro.

Mentre tutti scendevamo a Milano, ho sentito una delle due dire all’altra che sì, ero proprio quella scrittrice là. Avevano un accento mantovano ed erano salite a Mantova, e quindi non è esatto dire che sono stata riconosciuta a Milano, però…

Ripensandoci, spero vivamente che “quella scrittrice là” non significasse “l’autrice di quell’orrido romanzo che mi ha regalato mia suocera – dopo averne lette venti pagine con immane sforzo ho deciso che potevo usarlo per tappare lo spiffero della finestra nel bagno di servizio”.

Può sempre capitare anche quello: una volta, durante una presentazione, una signora mi ha rimproverata aspramente perché ne Lo Specchio Convesso avevo messo in cattiva luce Vincenzo Gonzaga, e dopo l’occasionale cena pesante mi capita ancora di sognare lo storico che, mentre ci presentavano, mi ha annunciato, fissandomi con occhio di falchetto maldisposto, che disapprovava dal profondo del cuore le libertà narrative che mi ero presa, sempre nello Specchio. La tirata d’orecchi della mia vita, però, l’ho presa per avere scritto ne Il Giglio e la Falce (inedito primo volume di un’ineditissima trilogia) che i sacerdoti vandeani impartivano l’assoluzione preventiva prima della battaglia. E’ assolutamente vero – e per quanto ne so la pratica non era confinata alla Vandea o alla fine del Settecento), ma ciò non toglie che sia stata irragionevolmente bacchettata per averlo scritto.

Ciò che mi consola è che non sono precisamente un caso isolato: Louisa May Alcott fu sommersa dalle lettere di lettrici irate per la morte di Beth in Piccole Donne, e lo stesso accadde a Dickens con la morte della piccola Nell. La cosa buffa è che Nell era stata spedita prematuramente al Creatore su suggerimento di un amico e lettore, cui pareva che un finale drastico si adattasse meglio alla situazione generale. In effetti, Nell è di quella gente troppo buona per vivere che va rimossa da questa terra (o quanto meno dal suo romanzo) con tutta la prontezza possibile, ma resta il fatto che Dickens era sempre molto ansioso di compiacere i suoi lettori. Quello che non aveva calcolato era la possibile reazione delle folle infatuate. Pare che, all’epoca dell’uscita dell’ultima puntata in Inghilterra, le navi inglesi fossero accolte al porto di New York da folle di ansiosi lettori che volevano sapere dai passeggeri in arrivo se Nell fosse viva. Potete immaginare che questa gente, se avesse incontrato Dickens in treno dopo avere saputo la luttuosa notizia, non sarebbe stata amichevolissima. E a proposito di treno, Daniel O’Connel, tostissimo campione dell’emancipazione dei Cattolici d’Irlanda, stava leggendo TOQS in volume durante uno spostamento ferroviario. Quando arrivò alla scena della morte di Nell, scoppiò a piangere e scaraventò il libro fuori dal finestrino.

Posso assicurare con sollievo che le due signore non hanno scaraventato nessun romanzo – mio o altrui – dal finestrino del Mantova Milano.

Facciamo Che…

Forse è il più diffuso, il più universale e il più amato tra i giochi infantili, quello che porta in mondi più lontani, quello che conosce le varianti più disparate e personali: facciamo che io ero Questo, e tu eri Quello, e il salotto era un castello… Giocare a fingere. Con o senza bambole, soldatini o animali di pezza, ricreando le avventure di una storia sentita raccontare o inventando di sana pianta, riproducendo la maternità, il lavoro, la guerra, i rapporti sociali – sempre in qualche specie di equilibrio tra prove tecniche di mondo e il what if più sfrenato.

Chi non ha mai – ma proprio mai – giocato a fingere che… alzi la mano e non si aspetti di essere creduto.

In definitiva, i rapporti tra questo gioco e la letteratura sono stretti: una storia raccontata partendo da un’ipotesi iniziale, la sospensione dell’incredulità, e tutte le possibilità aperte entro le regole del gioco. Narrativa embrionale, e il legame è ancora più evidente nell’espressione inglese make-believe che, a differenza del corrispondente italiano “fare finta” non è associata a connotazioni di menzogna e d’inganno, ma pone l’accento sulla sospensione dell’incredulità da parte del soggetto.

Quindi non è sorprendente che in letteratura si trovino esempi di make-believe, tanto narrati quanto praticati da narratori più o meno in erba- semmai c’è da stupirsi che non ce ne siano di più.

Nella letteratura per fanciulli, il MB è moneta corrente, con vari tipi di significato. Louisa Alcott ne fa un uso frequente e diversificato. In Piccole Donne, le quattro sorelle March riproducono una versione semplificata del viaggio di Christian, il protagonista del Libro del Pellegrino di Bunyan, partendo dalla cantina (Città della Distruzione) e salendo fino alla soffitta ribattezzata Paradiso. Il gioco è chiaramente educativo, e non è chiaro se sia stato ispirato dal padre ecclesiastico o semplicemente ideato dalla vulcanica Jo, ma la scena in cui viene rievocato serve a caratterizzare tanto le quattro ragazze quanto il tipo di educazione che hanno ricevuto. Sotto i Fiori di Lillà, comincia con una lunga scena di MB, la festa di compleanno della bambola in cui due sorelline ricreano i riti di un piccolo mondo sicuro e bene ordinato. L’arrivo del piccolo protagonista – un orfanello fuggito da un circo – scombinerà gioco, realtà e senso di sicurezza. Il racconto Dietro la Maschera presenta una versione più adulta e più inquietante del gioco: in una grande casa di campagna inglese, un gruppo di giovani gioca ai quadri animati con dei vecchi costumi teatrali. Apparentemente l’istitutrice scozzese si lascia coinvolgere un po’ troppo nella finzione con il bel fratello della sua allieva, qualcuno crede al gioco, qualcuno recita, qualcun altro finge – ma non tutto è come sembra.

Più spesso, tuttavia, il MB appare in vesti meno sofisticate. E’ il caso di Momo, di Michael Ende, i cui piccoli protagonisti si lanciano in un’epica avventura immaginaria, fingendo che un vecchi anfiteatro abbandonato sia una nave oceanografica. L’episodio non ha un ruolo narrativo particolare (a parte forse stabilire le posizioni di vari ragazzini all’interno del gruppo), ma la scrittura rende bene l’entusiasmante straniamento di quei prodigiosi pomeriggi che durano un lampo e un secolo insieme. 

Un esempio particolarmente significativo si trova in Puck of Pook’s Hill, di Kipling: nel crepuscolo della sera di Mezz’Estate, Una e Dan recitano una versione adattata di Shakespeare, e la recitano all’aperto, in un cerchio delle fate. Non è chiaro se stiano giocando al teatro o ad essere i personaggi, ma di certo, in un modo che accomuna significativamente gioco, letteratura e incantesimo, Puck in persona obbedisce alla convocazione e compare ai due ignari bambini.

Ho un ricordo molto vago di un libro per ragazzi degli Anni Ottanta – di cui mi sfuggono titolo e autore sicuramente italiano. La storia non era particolarmente memorabile, ma conteneva una scena interessante: entrando di nascosto nel giardino di una casa abbandonata per recuperare un pallone, due ragazzini sorprendevano due coetanee che, con gonne lunghe e bigiotterie sottratte alla mamma, giocavano “a regina e principessa”. “Ma che cosa fanno?” chiedeva uno dei due sbalordito. “Giocano a recitare,” era la risposta. “Le bambine lo fanno spesso.”* Il che sembrava voler implicare una distinzione dei ruoli: calcio per i bambini, make-believe per le bambine. Nell’ultimo capitolo, a mistero risolto, le bambine dichiaravano di avere perso interesse nel giocare “a regina e principessa”, ma non pare che la maturazione di un ragazzino implicasse parimenti il superamento del calcio.

Nella maggior parte dei casi, il MB è associato all’infanzia, ma l’associazione non è sempre particolarmente lieta. Per citare due esempi che più diversi non potrebbero essere, gli eroici sogni ad occhi aperti del futuro Lord Jim (e sostengo con fermezza che, per un bambino solitario, i sogni ad occhi aperti valgono come MB) si riveleranno profezie ironicamente crudeli, e Peter Pan, un ininterrotto, particolarmente magico MB per i fratelli Darling e i Bambini Smarriti, è una storia di irrecuperabilità e di perdita dell’innocenza.**

Quando poi all’aspetto deliberatamente ludico si sostituisce l’imitazione del mondo adulto, la faccenda può assumere colori più sinistri. I Ragazzi della Via Pal di Molnàr e i personaggi de La Guerra dei Bottoni di Pergaud “giocano” alla guerra in modo molto realistico, con tanto di feriti veri e addirittura un morto, in una delle scene più lacrimevoli della storia della letteratura. De Il Signore delle Mosche di Golding non cominciamo nemmeno a parlare, volete? Nei Promessi Sposi, che per fanciulli non sono, alla piccola Gertrude non vengono mai date altro che bambole vestite da monaca, giusto perché non si faccia idee balzane. In Jane Eyre, la piccola (e a dire il vero insopportabile) Adèle viene energicamente scoraggiata dal danzare, perché la madre assente, francese, ballerina e poco seria***, è tutto fuorché un modello da imitare.

Questo MB in chiave negativa sembra una scelta bizzarra da parte di Charlotte Bronte, considerando il ruolo che il MB aveva avuto nella sua formazione personale e letteraria (e che ancora aveva nella vita delle sue sorelle). La profonda e duratura passione dei quattro ragazzi Bronte per i loro regni immaginari e le loro generazioni di personaggi si spingeva al limite dell’ossessione, e nei diari di una Emily ventisettenne si trova questo episodio :

Anne e io abbiamo fatto il nostro primo lungo viaggio da sole e insieme. Siamo partite da casa lunedì 30 giugno, abbiamo dormito a York, siamo arrivate a Keighley Martedì sera, abbiamo dormito lì e siamo tornate a casa a piedi mercoledì mattina. Il tempo era incerto, ma ci siamo divertite moltissimo – tranne per qualche ora a Bradford – e durante il viaggio abbiamo giocato ad essere Ronald Macelgin, Henry Angora, Juliet Augusteena, Rosobelle Esraldan, Ella e Julian Egramont e Catherine Navarre e Cordelia Fitzaphnold. Fingevamo di essere fuggite dal Palazzo dell’Istruzione per raggiungere i Realisti, al momento in rotta davanti ai Repubblicani vittoriosi. (traduzione mia)

Ed ecco che ritorniamo al punto di partenza: make-believe e letteratura. Tutta la produzione poetica di Emily Bronte è basata sul regno immaginario di Gondal che aveva creato insieme ad Anne, e la trama di Cime Tempestose è di derivazione altrettanto gondaliana. Il legame è meno forte nei romanzi di Anne, ma la Jane Eyre ha la sua origine in diverse eroine di Angria, bruttine e indipendenti. Se dico che quei giochi, quei sogni ad occhi aperti e quelle irrealtà condivise hanno fatto delle sorelle Bronte le autrici che sono diventate, non credo di esagerare molto. Se il make-believe è narrativa embrionale, la narrativa si può considerare make-believe adulto – e il viaggio a York di Emily e Anne ci dimostra che fra la distanza tra i due è molto ridotta.

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* Insisto nel dire che non era memorabile. Se ricordo questo passaggio così dettagliatamente è perché – no doubt – il mio subconscio sapeva fin d’allora che un giorno avrei tenuto un blog letterario…

** Se poi si accetta l’ipotesi secondo cui Peter Pan sarebbe basato sul fratello maggiore di Barrie, morto a tredici anni, e che la madre orbata si consolava dicendosi che il suo bambino morto sarebbe rimasto bambino per sempre, il tutto diventa ancora più allegro.

*** In un qualsiasi ordine di gravità.