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Feb 16, 2011 - grilloleggente, scrittura, teorie    Commenti disabilitati su La Regola Del Curry

La Regola Del Curry

Leggevo un articolo su Writer’s Digest, tempo fa – tanto tempo fa che non ricordo più l’autore… Si parlava di dialogo, e si suggeriva di usare con misura le “meraviglie”. Per meraviglie intendendosi quella risposta perfetta e brillantissima, o quell’espressione favolosa, o quella battuta al vetriolo che caratterizzano tanto bene un personaggio. “Non più di una volta o due in un libro,” diceva l’innominato articolista, e ricordo di avere storto la bocca. Una volta o due? In tutto un libro? Che esagerazione!

Poi mi succede di leggere un volume (non il primo, per motivi vari) di una serie di gialli storici inglesi. Tutto è perfetto: ricostruzione storica da leccarsi i baffi, personaggi che balzano fuori dalla pagina, dialoghi brillanti, e se l’intreccio giallo scivola un po’ in secondo piano, fa lo stesso, tanto è buono il resto. Parlo dei misteri di Sir Robert Carey, di P.F. Chisholm, non tradotti in Italiano, ahimé, ma che valgono bene qualche sforzo per leggerli in originale – anzi, ho tanto idea che tradotti perderebbero parte del loro fascino… Perché il fascino in questione poggia largamente sulle incomprensioni culturali tra il granitico, lugubre, cinico e al tempo stesso ingenuo Sergente Dodd, strappato di mala voglia alla sua guarnigione sul turbolento confine con la Scozia, e i Londinesi di ogni estrazione sociale, dal Ciambellano della Regina ai monelli Cockney.

E’ una delizia assoluta seguire Dodd mentre si aggira perplesso e sospettoso per questa enorme, caotica e incomprensibile Londra, borbottando tra sé con l’accento quasi-scozzese del Berwickshire… A un certo punto, incontrando il giovane Shakespeare, Dodd commenta tra sé che è disposto “tae throw him a lot farther than he could trust him.”

Questo è uno di quei coloriti, meravigliosamente espressivi e un po’ nonsense modi idiomatici inglesi, e significa che Dodd non si fida di Shakespeare neanche un po’.

Il modo idiomatico originale (I can throw him farther than I can trust him*, oppure I’d trust him as far as I can throw him, oppure anche I wouldn’t trust him farther than I can throw him – vedete l’accesa discussione in proposito su questo forum), fa perno sulla difficoltà di scaraventare molto lontano un altro adulto, e su un altro modo idiomatico: “how far do you trust him?”, traducibile come “quanto di fidi di lui?”

Ecco, a questa domanda, a proposito di Shakespeare, Dodd risponderebbe “Not as far as I can throw him,” e – benché in tutta probabilità si tratti di un anacronismo – l’effetto è irresistibile. O almento, lo è stato la prima volta che me lo sono trovato davanti, perché era così inatteso e al tempo stesso così perfetto per il personaggio, e così adatto alla situazione… La seconda volta, pensato di nuovo da Dodd a proposito di altra gente, è suonato già meno naturale, perché è un modo idiomatico talmente inconsueto che la ripetizione si fa notare – e di conseguenza, quando noto la scrittura, sono trascinata fuori dalla storia.

Una terza volta non c’è – perché P.F. Chisholm conosce il suo mestiere e non si lascia trascinare dall’entusiasmo, ma sono certa che, se ci fosse stata, sarebbe stata irritante.

E dunque, chi l’avrebbe mai creduto, si direbbe che l’articolista di WD avesse ragione: anche per le particolarità del dialogo, vale la Regola del Curry. Più è piccante, meno se ne deve usare – o finirà per coprire tutti gli altri sapori.

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* Probabilmente sto esagerando, ma mi chiedo se non ci sia anche un gioco di parole tra trust e thrust, che, tra le altre cose, è un sinonimo di throw… Ad ogni modo, non riesco a individuare fonti attendibili sull’origine dell’espressione. Qualcuno sostiene che non possa avere più di cent’anni – ma sta talmente bene in bocca a Dodd che sono disposta a considerare il suo uso uno di quei rari casi di anacronismo perdonabile.

Dic 30, 2010 - Oggi Tecnica    Commenti disabilitati su Saldi Da Writer’s Digest

Saldi Da Writer’s Digest

Saldi di fine anno da Writer’s Digest.

Sì, è tutto in Inglese, e sì, bisogna farli arrivare dagli Stati Uniti, ma gli sconti sono notevoli e l’occasione di procurarsi per pochi dollari (+ spedizione) qualcuno di quei famosi/famigerati manuali di scrittura anglosassoni – quelli che in Italia non arrivano* – non è proprio da buttar via. Non foss’altro che per dare un’occhiata, per vedere come funziona la faccenda sull’altra sponda della Manica/dell’Oceano.

Non è la prima volta che affronto l’argomento tecnica/ispirazione, ma durante la vertiginosa preparazione de I Ninnoli Di Vetro ho avuto una vivace discussione con la regista di Hic Sunt Histriones, discussinoe che mi ha rinfocolato questo grudge cronico. Allora, avevamo questa serie di sequenze motorie**, una delle quali era stata modificata in itinere: la modifica era molto bella, ma non si legava più direttamente con quello che doveva accadere subito prima. “E allora che cosa ne è delle palline di vetro tra A e B?” ho chiesto. La regista mi ha aspramente rimproverata: possibile che io debba sempre preoccuparmi di questi dettagli insignificanti, e non mi renda conto che poi queste cose si sistemano da sole per gli esoterici e superni poteri dell’improvvisazione? Possibile che io non capisca che il teatro è teatro?

Ecco, questo mi ha irritata un nonnulla. A parte il fatto che tra noi e lo sbaraglio si frapponevano forse tre ore – di cui, nella migliore delle ipotesi, venti minuti di prove sul palco -, a parte il fatto che eravamo tutti troppo terrorizzati e sbalestrati per avere il tempo di maturare un’improvvisazione, a parte il fatto che stavamo strillando come due tricoteuses nell’ingresso del teatro, per l’attonita curiosità di gente del catering, microfonisti e medici dell’ABEO, a parte tutto ciò, io voglio sapere questo: che cosa c’è di tanto criminale – in teatro, in letteratura e in tutti i campi – nel voler capire quello che si fa? Nel cercare una logica e una tecnica? Certo, per lo spettatore/lettore tutto deve apparire magico e liscio, come se germogliasse da sé istante dopo istante, ma noi, perbacco? Noi siamo dietro le quinte, noi manovriamo il giocattolo, noi lo costruiamo e lo facciamo funzionare: che c’è di male se sappiamo quello che stiamo facendo?

Ecco, per cui, se vi punge vaghezza di dare un’occhiata al funzionamento delle rotelline, o anche solo di vedere su quali aspetti del gioco si teorizza, la pagina dei saldi è qui.

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* In Italia si traduce pochino di questa letteratura tecnica, perché la vigente mistica della scrittura fa sì che il pubblico accolga con orrore titoli che spiegano misteri e meraviglie di cose come il punto di vista, la caratterizzazione, e l’ingegneria drammatica.

** No, io non dovevo muovermi. O almeno non molto, thank heaven.

Dic 3, 2010 - pennivendolerie    5 Comments

10 Modi sicuri Per Farsi Bocciare Un Manoscritto Alla Prima Pagina

In linea di massima: va’ a sapere! Tutti conosciamo le raccapriccianti storie dei rifiuti ricevuti da autori poi non solo diventati celebri, ma considerati pilastri delle rispettive letterature nazionali – o dei rispettivi generi. Ci sono ottimi libri che non vengono accettati, ci sono buoni libri che non incontrano interesse, ci sono pessimi o mediocri libri che scalano le classifiche: può essere questione di tante cose, gusto che cambia, mercato, moda, mal di denti, spudorata fortuna… E allora non c’è molto da fare se non tentare, ritentare e ritentare ancora.

Detto questo, però, ci sono alcuni difetti che, fin dalla prima pagina, fanno molto per soffocare qualsiasi interesse o attrazione la storia possa esercitare – un po’ come un copriletto zuppo d’acqua gelida gettato in testa al lettore, avete presente?

Due diversi blogger, Chuck Sambuchino e Livia Blackburn, hanno affrontato il problema per Writer’s Digest – nella sezione dedicata agli agenti letterari. Distillando i loro sforzi combinati, e nella convinzione che in generale quello che repelle un agente faccia scappare a gambe levate anche un editor o un editore, eccovi dieci errori che sarebbe davvero meglio evitare:

1. Un prologo misterioso ai limiti dell’ermetismo e/o terribilmente aulico e/o minutamente espositivo e/o profetico-apocalittico, dopo il quale si passa a una scena in cui la protagonista è in cucina, occupata a friggersi un uovo al tegamino. Guai al prologo che fa pensare al lettore: ma perché sto leggendo questo?

2. Iniziare con dettagliate descrizioni di funzioni corporali, autopsie, amputazioni e altre consimile amenità. Sì, d’accordo: catturare il lettore, il fascino dell’orrido, il realismo… tutto quello che si vuole, ma l’idea di choccare il lettore in partenza ha cessato di essere originale ed efficace almeno tre decenni fa e, tolto l’effetto sorpresa, quel che rimane delle dettagliate descrizioni in questione sono la sgradevolezza e il ribrezzo – non il modo migliore di conquistare l’affetto del lettore. A meno che non stiamo parlando di un romanzo horror.

3. Un inizio lento. I personaggi sono in scena e, invece di fare cose rilevanti che avviino la storia e suscitino la curiosità e l’interesse del lettore, lavano i piatti e ricordano quell’estate del ’79 in spiaggia a Riccione, in cui non successe assolutamente nulla. Poi si preparano il caffè, guardano la pioggia attraverso la finestra, si grattano una macchia di calce dai jeans, pensano al noioso consiglio di classe del giorno prima, fanno uscire il gatto, si sentono soli… Sbadiglio – gemito – manoscritto accantonato definitivamente.

4. Un sacco di esposizione. Anche ammettendo che l’inizio in medias res sia un tantino sopravvalutato (specie al di fuori di certa letteratura di genere), un romanzo che per pagine su pagine suona come una guida turistica, una storia sociale o un trattato di psicologia difficilmente terrà molto a lungo l’attenzione del lettore. Questo vale anche per personaggi ancora sconosciuti che dialogano lungamente raccontandosi a vicenda cose epocali o tecniche che dovrebbero già sapere. Vale anche per il mentore che, chiuso in una biblioteca o seduto davanti al fuoco, trasmette quantità bibliche di conoscenza al protagonista.

5. Portare in scena un personaggio a pag. 1, renderlo interessante e simpatico, far sì che il lettore gli si affezioni e poi farlo morire a pag. 4 o, peggio ancora, relegarlo in un ruolo marginale. Il lettore non apprezza di essere spinto ad affezionarsi a vuoto. L’unica (cautamente) ammissibile eccezione è il migliore amico* che il protagonista passerà il resto del romanzo a vendicare – ma attenzione, perché questo genere di indagini/vendette è già stato scritto in quantità industriale.

6. Il sole [aggettivo] e [aggettivo] sorse [avverbio] nel cielo [aggettivo], [aggettivo] e [aggettivo], gettando [avverbio] la sua [aggettivo] luce [aggettivo] sulla [aggettivo] terra [aggettivo] e [aggettivo]. Ecco, a questo punto l’editor è già crollato sotto il peso degli aggettivi e non gl’importa più un granché di quanto possa essere buona la storia. E questo vale per ogni forma di prosa eccessivamente fiorita o poetica, per la punteggiatura creativa, per l’uso ingiustificato di termini aulici o, viceversa, per la riproduzione fonetica di accenti, dialetti e inflessioni. E’ un po’ come dotare ogni pagina di un cartellino pop-up che dice “ehi, visto come scrivo bene?”

7. Labirintiche introduzioni che lasciano il lettore a domandarsi che diavolo stia succedendo, un’irragionevole densità di parole in un’altra lingua (vera o inventata), personaggi che agiscono in maniera incomprensibile scambiandosi lapidarie battute di dialogo esotericissimo, scene iniziali che sembrano vere e poi si rivelano un sogno, tutto ciò che confonde e disorienta un lettore di normale intelligenza, tutto ciò che lo fa sentire stupido, trattato con sufficienza o imbrogliato, tutto ciò non va bene. E citare Umberto Eco non è un’attenuante.

8.Luoghi comuni, tanto dal punto di vista linguistico quanto narrativo. Se si comincia con uno scalcinato investigatore privato alle prese coi postumi di una sbornia, o con una prostituta dal cuore d’oro, o con il sole che spacca le pietre, o con due nemici alla resa dei conti, sarà bene avere smontato il luogo comune nel giro di un paio di paragrafi – non molti di più, o ci si sarà già perso l’editor per strada.

 9. Protagonisti che, mentre vengono strangolati, si perdono in minute descrizioni di ciò che provano, ciò che ricordano, ciò che capiscono, ciò che vorrebbero fare, ciò che potrebbe salvarli, ciò che purtroppo hanno trascurato di dire alla fidanzata… La gente non ha molto tempo per pensare in maniera coerente o lirica mentre viene strangolata, e se lo fa, forse non sta venendo strangolata davvero. In altre parole, il principio di verosimiglianza non si può violare impunemente nemmeno dentro la testa dei personaggi.

10. Errori di battitura, di grammatica, di sintassi. Questo in realtà dovrebbe essere il n° 1, perché in scrittura la forma è la sostanza, e perché nessuno considererebbe le torte di un pasticcere che non distingue lo zucchero a velo dal lievito, e perché non c’è ragione di pensare che una persona incapace di coniugare i verbi sia in grado di raccontare una storia per iscritto a livello professionale.

E so perfettamente che dozzine di meravigliosi romanzi contraddicono grandiosamente la maggior parte di questi dieci punti, ma sono lavori di una padronanza tecnica pressoché sovrumana e/o di genio. Una sovrana certezza che per noi e il nostro romanzo le regole non valgano tende ad essere il segno distintivo, più che del grande narratore, del dilettante onnirespinto. Nel dubbio, meglio sapere bene che cosa fa storcere il naso alla gente che decide e poi, semmai, correre rischi calcolati.

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* o la sorellina, o il padre putativo, o l’ancora amatissima ex moglie… ci siamo capiti.