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Ad Alta Voce E Con Le Cesoie In Mano

Era un po’ di tempo che non si parlava di tecnica, ma nel giro di pochi giorni mi è capitato un paio di volte di sentirmi dire (o implicare) che scrivere teatro è “più facile”, perché in fondo si tratta solo di scrivere dialoghi.

Perché a proposito dei dialoghi vige questo bizzarro mito: be’, quanto può essere difficile scrivere dialoghi? È la forma di linguaggio con cui tutti abbiamo, per forza di cose, più dimestichezza, no? Tutti parliamo, tutti usiamo il dialogo ogni giorno… ergo, scrivere dialoghi è facile.

Ebbene, no. È vero che tutti usiamo quotidianamente il dialogo, ma basta provare a trascrivere verbatim un pezzo qualsiasi di conversazione per accorgersi di che differenza abissale ci sia tra quel che si dice e un buon dialogo letterario – o teatrale.

Per prima cosa, trascrivendo, ci si rende conto che Nella Vita Quotidiana si dicono (e ripetono) un sacco di cose irrilevanti, sciatte e vacue, che per iscritto si condensano, rendono coerenti e intelligibili – possibilmente conservandone efficacia e sapore. Randy Ingermanson dice che il buon dialogo è pesce già sfilettato: solo le parti buone. Non si tratta di riprodurre pari pari il modo in cui parlano le persone, ma di trovare il giusto equilibrio tra realismo, registro ed efficacia, e servirsene per convogliare soltanto informazioni rilevanti.

Tutto quello che si mette sulla pagina deve servire a caratterizzare un personaggio e/o far avanzare la storia – possibilmente entrambe le cose. Ogni battuta di dialogo che non svolge almeno una di queste funzioni… a questo punto dovrei dire “va eliminata”, ma mi limiterò a qualcosa di meno drastico. Ogni battuta di dialogo che non svolge almeno una di queste funzioni, non ha una ragione narrativa per essere dov’è. Non è sempre facile. Personalmente, devo continuare a impormi di potare tutto ciò che è soltanto decorativo – non importa quanto mi piaccia. E non sempre ci riesco. A volte, nel tentativo di rendere rilevante qualcosa che mi piace troppo per poterci rinunciare, sono capace di dissennati equilibrismi, fino al momento in cui mi rendo conto che sto facendo John&Iris – e allora taglio tutto quanto, e in genere la scena ne guadagna.

Ma questo non mi rende necessariamente più saggia per la prossima volta.

Oh, e John&Iris è lessico famigliare per l’eccesso opposto al chit-chat decorativo, quando si lardella il dialogo di informazioni non plausibili. Può essere necessario informare il lettore sul rapporto tra il narratore, John e Iris, e del fatto che sono passati tre mesi dalla scena precedente, ma non per questo si può far esclamare al narratore “Buongiorno John, mio vecchio e fraterno amico! E come sta tua moglie Iris in questa splendida giornata di giugno?” In molti romanzi in cui una tecnica di qualche genere – non importa se si tratti di sottomarini, procedura legale, arazzi o curling – gioca un ruolo, capita di trovare lunghe pagine di dialogo in cui due o più personaggi si scambiano dettagliate informazioni su particolari che dovrebbero già conoscere a menadito. Ricordate il Comandante Phillips e la Regola del Sottomarino Nucleare?

Dopodiché trovare (e mantenere) la giusta combinazione di efficacia e plausibilità è tutt’altro che facile: è una questione d’orecchio, buon senso e intuito in parti variabili.

Io trovo utili due metodi – e li sto usando parecchio per la seconda stesura del Play Senza Titolo – di cui magari state seguendo le vicende via bollettini notturni. In primo luogo, mi leggo i dialoghi ad alta voce. Meglio ancora sarebbe farseli leggere da qualcuno – se avete una o due persone pazienti e disponibili, e so di gente che fa da sé, si registra e riascolta. Ora non dico che sia a prova di bomba, ma nove volte su dieci, se c’è, la magagna viene a galla.

Ma prima, o dopo, o prima e dopo, prendo la mia scena e fingo con convinzione di poterne tenere solo due terzi*. A che cosa proprio non si può rinunciare? È divertente quasi come farsi estrarre i denti del giudizio – ma la maggior parte delle volte, potato di fioriture, svolazzi e quisquilie varie, il dialogo ne esce più affilato, più efficace e più vivido.

Per cui, no: non c’è niente di facile nello scrivere dialoghi, thank you very much. È roba da liutai, una di quelle faccende di orecchio, precisione, tecnica, pazienza, numerose fasi e, tanto per cambiare, un sacco di lavoro. 

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* O tre quarti – anche se conosco anime avventurose e drastiche, che riducono alla metà.

Gen 18, 2012 - Oggi Tecnica, scrittura    3 Comments

L’Aggettivo Perfetto

Mail:

Ok, ho fatto il safari e sterminato la maggior parte degli aggettivi, come dice Mark Twain. Non dico che le cose non siano migliorate, però gli aggettivi che sono rimasti erano un po’ così prima e sono un po’ così adesso. Semmai hanno l’aria di farsela un po’ addosso: metti mai che ci ripensi e faccia fuori anche noi? No, scherzi a parte: mi pare che mi manchi ancora qualcosa. Quelli che ho lasciato li ho lasciati perché il sostantivo da solo non bastava proprio, ma come faccio a renderli significativi?

Confesso che l’idea degli aggettivi superstiti con le crisi di panico mi ha divertita. Mi par di vederli, tutti ammucchiati in un paragrafo che cercano di farsi coraggio… Ma non lasciamoci intenerire. Gli aggettivi non sono graziose bestiole spaventate. Gli aggettivi sono subdoli, prolifici e anche un po’ parassiti: quelli più blandi sono talmente abili nel volare sotto il radar che a volte li usiamo senza nemmeno farci caso, mentre l’abitudine a usarne molti si cronicizza e, senza accorgerne, ce ne ritroviamo intere colonie su ogni pagina, tutti occupati a succhiare significato alla nostra prosa…

Comunque, una volta effettuato un safari, che si fa con i superstiti? Ci si accerta che ciascuno di loro sia perfetto, significativo, irrinunciabile. Come si fa? In un certo numero di casi ci pensernno il subconscio, il gusto esercitato e il dizionario interiore, e l’aggettivo scintillerà al posto giusto in tutta la sua gloria di connotazioni. Otherwise bisogna strologarci su – operazione per la quale ciascuno elabora il proprio metodo. Ho messo il mittente della mail a parte del mio, che a suo tempo avevo illustrato in questo post. Il mittente ha letto, meditato e poi ha risposto:

E tu fai questa roba per ogni singolo aggettivo? Ci credo che impieghi vent’anni a scrivere un romanzo! Mi sa tanto che adesso riprendo la doppietta e vado a sterminare anche i pochi che mi sono rimasti…

Dite che questo faccia di me l’Erode degli aggettivi? No, sono quasi certa che Erode è il Mittente, e io… hm, never mind. Per la pace generale, ad ogni modo, sappiate che ho dissuaso il Mittente dai suoi truculenti propositi e l’ho invece incoraggiato lungo una strada di duro lavoro. Non voglio spingermi a dire che faccio “questa roba” per ogni singolo aggettivo, ma – indovinate un po’ – scrivere è hard work. Scrivere bene, even harder. E temo che un uso “un po’ così” degli aggettivi sia una di quelle debolezze traditrici…

Facciamo un paio di esempi specifici e uno generico.

C’è questo libro un po’ strambo, The Nine Lives Of Kit Marlowe, che è ho letto di recente rimanendone molto delusa. È irritante sotto molti aspetti, ma uno di essi è l’uso degli aggettivi. Per esempio, tutto è exotic. I due protagonisti inglesi attraversano tutta l’Europa (passando anche per un paio di posti immaginari), e dappertutto salta fuori qualcosa di exotic. Le dame francesi indossano abiti di corte exotic… del che non so immaginare il senso, visto che nel tardo Cinquecento la moda francese non era affatto sconosciuta in Inghilterra. Poi si arriva a Roma e il cibo è exotic, le maschere del carnevale sono exotic, ma anche l’accento dei Nostri è exotic… E non parliamo dell’isola immaginaria, dove non c’è nulla che non sia exotic. E una volta a Venezia, la misteriosa dama emana un profumo – l’avete indovinato! – exotic. Ebbene, Esotico è uno di quegli aggettivi che, logorati dall’uso e dagli ananas, non vogliono più dire granché. Quando poi non sappiamo rispetto a chi si applichi, siamo proprio a post. Rispetto agli Inglesi? Ai Romani? All’Europa tutta? Uno di quei casi in cui l’uso indiscriminato si accompagna al pallore dell’aggettivo con effetti deprimenti.

E passiamo per un attimo al buon Salgari. Un corsaro di qualche colore – sinceramente non ricordo – aveva nella sua biblioteca “scaffali di metallo dorato di foggia antichissima.” Ah. A parte il fatto che gli scaffali di metallo dorato, per qualche motivo, mi fanno tanto Anni Ottanta, che cosa è mai una foggia antichissima? L’intera espressione è mal congegnata*, ma l’aggettivo che vuol mai dire? Scaffali di foggia minoica? Libreria in stile assiro-babilonese? Moduli componibili mod. Ziqqurat? E vi dirò: “antica” sarebbe stato un po’ meno disastroso. Non molto, ma un po’. Ripetete con me: se un aggettivo fa danno, ci sono buone probabilità che il suo superlativo ne faccia esponenzialmente di più. 

Infine, un pet peeve tutto mio: ampio. Non so se sono solo io, ma mi pare che Ampio sia diventato ubiquo quasi quanto Hello Kitty. Ampie finestre, ampi corridoi, ampie vallate, ampi balconi… provate a farci caso. Non sempre nei corsi di scrittura gli allievi fanno i compiti, ma una che li faceva una volta mi portò la descrizione di una villa antica: su cinquecento parole scarse, un’ottantina erano aggettivi, e il dannatissimo Ampio ricorreva quattordici volte. A parte tutto il resto, il sovraffollamento è abuso, l’abuso logora e il logorio rende l’aggettivo blando.

E l’aggettivo blando non fa da prisma, non cattura la luce, non la rifrange sul suo sostantivo in inattese iridescenze… D’accordo – mi fermo qui, ma dopo lungo peregrinare ecco il sugo della mia esortazione al Mittente: vale sempre la pena di cercare l’aggettivo perfetto con l’ardore di una quest medievale.

E ripensandoci, a riprova del fatto che razzolare e predicare sono due sport ben diversi, sono amaramente pentita di non avere scelto, a suo tempo, Labirintina invece di Labirintica. E so bene che in Italiano Labirintino non esiste, ma è – era – sarebbe stato esattamente quello che volevo, in suono, colore, immagine, consistenza, associazioni mentali… Traviata – no, non traviata, ma sviata dal Treccani. Che faccenda triste.

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* Non so a voi, ma a me suscita immagini del Corsaro occupato a fare shopping di mobili da Centomo (reparto mobili in stile) nel periodo dei saldi…

Don’t Show & Tell

Su Show, Don’t Tell si può discutere. Come tutte le prescrizioni andrebbe presa con la debita quantità di sale, e tutti siamo d’accordo sul fatto che mostrare al momento sbagliato può essere tanto disastroso quanto dire inopportunamente. Sulle proporzioni ci sono scuole di pensiero, e non intendo addentrarmi adesso nelle intricacies della faccenda.

Ma c’è qualcosa che, a mio timido avviso, sarebbe sano evitare come la forma più virulenta di peste nera – ed è mostrare & dire.

I’ll show, con un piccolo esempio tratto (e tradotto) da una mia recente e poco felice lettura.

“Posso fidarmi di te, Kit?” domandò Tom, incerto della lealtà del suo volubile amico.

Toi. Non vi viene mal di denti al solo leggerlo? Abbiamo visto che Tom non si fida granché di Kit nel momento in cui gli ha chiesto se può fidarsi di lui… perché diamine disturbarsi a dirlo? Abbiamo capito, grazie.

“Posso fidarmi di te, Kit?” domandò Tom.

Questo sarebbe servito perfettamente allo scopo, senza dare al lettore la sgradevole sensazione di essere considerato denso. Volendo, si sarebbe potuto aggiungere un gesto per sottolineare l’incertezza di Tom, o aggiungere quel tanto di subtesto – che non fa mai male.

“Posso fidarmi di te, Kit?” domandò Tom, incurvando appena le spalle e distogliendo lo sguardo.

Questo m’indurrebbe a pensare che Tom tema molto di non potersi fidare, quale che sia la risposta.

“Posso fidarmi di te, Kit?” domandò Tom, fissando dritto negli occhi il suo volubile amico.

Questo è un cavallo di un altro colore: avanti, dimmi che posso fidarmi, e ti crederò – oppure prova a dirmi che posso fidarmi, se ne hai il coraggio, a seconda del contesto.

D’altro canto, non ci sarebbe stato nulla di orribilmente criminale nel limitarsi a riferire i pensieri di Tom (il cui punto di vista coincide con quello della narrazione – la maggior parte del tempo). 

Tom era incerto della lealtà del suo volubile amico.

Non è ideale – e non funzionerebbe granché nel contesto in cui si trova nella pagina da cui ho pescato l’esempio – ma in un paragrafo di transizione o come aside che qualificasse in via marginale considerazioni diverse, potrebbe anche andare.

Sempre meglio – treni merci meglio – che mostrare & dire, perché, come dicevasi qualche paragrafo fa, il lettore tende a capire da sé le implicazioni di una domanda come “posso fidarmi di te?” La traduzione nella stessa riga è bruttina, ingombrante e una fonte d’irritazione.

Tutte cose che non fanno bene alla scorrevolezza della lettura, alla sospensione dell’incredulità e (cosa che posso garantire per diretta e frustrante esperienza) alla gioia generale del lettore.

Ott 28, 2011 - Oggi Tecnica    3 Comments

Trascrivi… Ed Essi Verranno

“Essi” nel senso di “personaggi con una voce propria.”

Nel corso di un seminario sul dialogo narrativo, Elizabeth Sims consigliava di sedersi in luoghi pubblici e ascoltare la gente che parla. E di trascrivere, magari.

“Io lo faccio spesso,” dice. “Mi siedo da solo in qualche Starbucks affollato, fingo di lavorare e in realtà ascolto e annoto. Ho trovato delle gemme, in questa maniera…”

E badate che non si riferisce a gemme di storie, ma gemme di usi colloquiali, espressioni, giri di frase e cose del genere. Il tipo di gemme che, opportunamente lucidate e incastonate nel posto giusto, servono a dare a un personaggio una “voce” individuale e credibile.

Qualcosa del genere consiglia anche Jeffrey Sweet in fatto di teatro: “Non potrò mai raccomandare abbastanza l’utilità di registrare conversazioni e trascriverle.”*

Perché entrambi cominciano col raccomandare di leggere trascrizioni: libri di storia orale, raccolte di interviste, trascrizioni di processi e tutto quello su cui si possono mettere le mani – e non so bene che cosa e quanto si trovi in giro in Italiano. Oddìo, tutte le trascrizioni giudiziarie che si possono volere e anche molte di più, apparentemente, ma pensavo alla storia orale e alle interviste senza interventi cosmetici…

Tolto questo, e al di sopra e al di là, però, Sims e Sweet cantano separatamente le lodi dell’ascoltare conversazione spontanea e trascriverla. Sweet propone un’alternativa per la gente che, come la sottoscritta, è un po’ terrorizzata dall’idea di farsi beccare a trascrivere la conversazione altrui: registrare un talk show e – you guess it – trascriverlo. L’idea di base è, suppongo, che in un talk show non si parli in modo particolarmente sorvegliato… ed è quello che si vuole: conversazione per quanto possibile spontanea**, in cui la gente s’interrompe, usa intercalari, ellissi, sgrammaticature, espressioni peculiari, digressioni.

E, dice Sweet, sarà particolarmente istruttivo notare la scarsità di aggettivi ed avverbi che si usano davvero in conversazione. Gli aggettivi che Twain consiglia di sterminare. Gli avverbi che secondo King lastricano la strada per l’inferno… Questo è un esperimento interessante: ascoltatevi e ascoltate altra gente, e vedrete che parlando si usano altri mezzi per far passare intenzioni, sfumature e colori – tutta la roba che, in un romanzo (e nel teatro di autori inesperti), viene affidata alle bestioline infestanti.

Sweet dice addirittura che l’attore americano medio, quando trova un aggettivo altisonante o un avverbio decorativo, ingrana un riflesso automatico e inserisce un’impercettibile esitazione. Come se il personaggio stesse cercando l’aggettivo o l’avverbio in questione. Affascinante teoria – e istruttiva.

Badate: con questo nessuno vuol dire che si possa ascoltare la conversazione dei vicini di tavolo e piazzarla così com’è in una pagina scritta. Il buon dialogo narrativo (e teatrale), si sa, è pesce già sfilettato: solo le parti buone, accuratamente ripulite da tutto ciò che è innecessario o non significativo.

Jon Dorf propone una versione “per sottrazione” dell’esercizio: ascoltare una conversazione*** e badare tutti gli “Er…” e “Ah,” tutte le ripetizioni, tutte le frasi non terminate, tutto ciò che non aggiunge nulla alla conversazione. E tutti sappiamo che, scrivendo, ogni parola deve servire ad almeno una di due cose: avanzare la trama e/o caratterizzare il personaggio.

E quindi? E quindi la sfida consiste nel bilanciare tra essenzialità dell’informazione e individualità della voce, e il segreto potrebbe risiedere proprio in quei patterns of speech, quelle costruzioni peculiari, quei modi d’interrompersi a vicenda o di implicare strati di conoscenza in comune – quelle gemme che Sims raccoglie da Starbucks.

Insomma, ecco un gioco: ascoltare, annotare, trascrivere. Perché in fondo in scrittura, come in alchimia, nihil ex nihilo fit. Le voci ci sono già, basta catturarle, sfilettarle e combinarle per la bisogna dei personaggi e delle storie.

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* Da The Dramatist’s Toolkit – trad. mia.

** Col che non intendo dire che ci sia alcunché di spontaneo in un talk show dal punto di vista del contenuto, ma la forma dovrebbe essere uncensored e brada quanto basta. E poi non lo so per certo, perché parlo da platanicola poco meglio che ignara. dubito di avere mai davvero guardato un TS per più di un paio di minuti…

*** “La prossima volta che uscite con gli amici, passate un po’ di tempo ad ascoltare davvero, senza dire nulla, e prendete mentalmente nota…” Oh sì, fatelo: è un po’ meno imbarazzante che farsi sorprendere con un taccuino o un registratore, ma è il genere di cose che vi fa considerare distratti e inclini ad attacchi di vaghezza. Then again, i vostri amici non ci faranno caso, perché vi considerano già così. In fondo siete scrittori – vale a dire gente un pochino strana.

Giu 27, 2011 - Oggi Tecnica, tecnologia    3 Comments

Quattro Anni E Le Idee Chiare

Non è che il passaggio all’Innominatino stia andando proprio liscissimo… E’ successo un po’ di tutto, ma per farla breve diciamo che sono stata naufraga (as in senza rete e senza posta) fino a stamattina, quando è arrivato San G a riconnettermi al mondo.

Essendosi tempo di vacanze estive, San G. è arrivato con la sua adorabile famiglia al seguito e, mentre lui lavorava, io ho parlato con sua moglie, Santa A., e giocato a make-believe con il loro E., quattro anni e un’immaginazione illimitata.

Abbiamo giocato a lungo alla spedizione spaziale. La plafoniera del soffitto era la luna, e la scatola della tastiera un’astronave. Il gioco consisteva nell’allestire l’astronave per la partenza con foglietti ripiegati e nastrini colorati, chiuderla per bene e prendere il volo. E. arrivava fin dove poteva, poi subentravo io per portare l’astronave in orbita e poi… Oh-oh! Houston, abbiamo un problema. Il carburante non bastava: drammatico ammaraggio d’emergenza, recupero in mare – e via daccapo. Abbiamo ripetuto molte volte: ogni volta sembrava che andassimo più vicino alla luna, ma poi… oh-oh! diceva E.

A un certo punto ho deciso che ci voleva un successo: siamo arrivati sulla luna dopo molti tentativi, abbiamo festeggiato un pochino, ma E. ha perso subito interesse alla cosa allo spazio. Invece ha voluto che sua madre gli facesse delle barchette di carta con delle vecchie locandine, ha equipaggiato la sua flotta con i cavalieri di carta e abbiamo cominciato un’altra avventura piena di scontri, naufragi, abbordaggi e affondamenti.

E non ho più tentato di farla andare bene, perché E. aveva ragione, e che diamine! Dovrei saperlo: qual’è l’interesse di una storia, se tutto va bene? Il lieto fine va bene, appunto, per finire – ma prima di quello devono esserci innumerevoli tentativi e rovesci, devono esserci fallimenti e disastri, devono esserci conflitto e dramma… sennò che gioco è? Sennò che storia è?

Dovrei giocare più spesso a make believe – tutti gli scrittori dovrebbero, per toccare con mano la necessità quintessenziale del conflitto, dei guai e dei rovesci. Perché – il quattrenne E. me l’ha dimostrato nel più trasparente dei modi – una volta giunti felicemente sulla luna non c’è più nulla da fare, se non chiudere il libro e passare a un altro gioco.

Giu 1, 2011 - Oggi Tecnica    6 Comments

La Regola Del Sottomarino Nucleare

Il Capitano Randolph batté un paio di colpetti con l’indice sull’ultimo tratto segnato sulla carta, e annuì all’ufficiale di rotta e al Primo Ufficiale Phillips. Con un po’ di fortuna, un’ora avrebbe portato il Seahawk alla sua destinazione, anche se al momento tra il sottomarino e la destinazione era dispiegata metà della flotta nemica…

“Va bene, Signor Jensen,” disse il capitano. “Mantenga questa profondità fino a nuovo ordine.”

Jensen salutò. Randolph lo guardò allontanarsi, poi si sollevò dalla carta, scrollando discretamente le spalle indolenzite da un turno di venti ore consecutive. Non tentò nemmeno di nascondere il gesto a Phillips – dopo quattro anni fianco a fianco sul Seahawk, aveva rinunciato a nascondergli alcunché. Invece gli sorrise, senza che il cipiglio preoccupato dell’altro si spianasse di un soffio. A Phillips non piaceva quel genere di missioni.

“Levati quella faccia da funerale, veccho mio,” ordinò il Capitano. “Come ben sai, Phillips, il nostro supersottomarino è rivestito in una speciale lega, che lo rende invisibile ai sonar di profondità del nemico…”

ALT! Sirene, luci lampeggianti, tutto quanto.

Ho la sensazione che il Seahawk abbia appena fatto collisione con un Problema Narrativo Maggiore, della varietà conosciuta come Dialogo Espositivo. 

Mi spiego: se Randolph e Phillips servono insieme da quattro anni sul Seahawk, e Phillips deve essere messo al corrente dei prodigi tecnici del suo scafo, forse allora Phillips non è adatto a fare il comandante in seconda di un sottomarino nucleare. D’altro canto, se invece Phillips sa benissimo vita, morte e miracoli del Seahawk e Randolph sente l’esigenza di dargli spiegazioni del genere, o Randolph sta diventando senile, o abbiamo qualche serio problema di fiducia nella catena di comando… in either case, non la vedo bene per il Seahawk.

Parlando seriamente: per quanto sia cosa buona e giusta servirsi del dialogo per passare informazioni al lettore, c’è una verosimiglianza da mantenere. Personaggi che si ripetono l’un l’altro cose che, per il bene loro e di tutti quanti, dovrebbero sapere anche nel sonno, non sono verosimili. Personaggi che si descrivono a vicenda ciò che entrambi stanno vedendo mandano in frantumi la sospensione dell’incredulità. Personaggi che a ogni pie’ sospinto si chiamano l’un l’altro per nome e con i rispettivi gradi di parentela non sono un’alternativa efficace ai dialogue tags. E oltretutto scatenano istinti libricidi nel lettore.

In questi casi, un buona idea tende ad essere il Nuovo Arrivato. Un estraneo gettato da qualsiasi capriccio dell’autore – ops, volevo dire “del destino” – nell’ambiente in cui la storia si svolge, offre un punto di vista ideale o, quanto meno, avrà legittimamente bisogno di un sacco di spiegazioni. Tornando a bordo del nostro sottomarino, non ci sarebbe nulla di male se il Capitano Randolph cantasse le lodi dello scafo invisibile a un nuovo ufficiale, a un osservatore civile o a un naufrago raccolto da una zattera alla deriva*.

Un ulteriore caveat, però: leggere pagine su pagine in cui un personaggio descrive qualcosa e il Nuovo Arrivato si guarda attorno e dice battute epocali come “Davvero?” e “E come vi regolate per la profondità?” è noioso proprio come leggere pagine su pagine di meticolosi dettagli. Meglio che i nostri conversatori facciano qualcosa, mentre conversano – magari gli ultimi, frenetici preparativi per una battaglia navale**?

La Regola Del Sottomarino Nucleare, come tutte le regole, ha le sue eccezioni – o meglio, ha un’applicazione inversa che sembra un’eccezione ma non lo è. In un mondo narrativo in cui la gente tende a parlare quando ha buoni motivi per farlo, un’informazione ridondante assume significato. Il lettore può essere indotto a chiedersi perché mai Randolph racconti a Phillips il trito particolare della lega speciale… Forse Phillips è assalito da morbo di Alzheimer precoce e Randolph cerca di proteggerlo? O forse è il primo indizio del fatto che Randolph ha qualche biglia nella testa e finirà presto a simulare le ciliegie sotto spirito con la sabbia? O sta’ a vedere che Randolph sospetta che Phillips non sia Phillips affatto (alieno camaleontico, sosia nemico, fantasma vendicativo***…) e lo mette alla prova seminando improbabilità nella conversazione? In un mondo senza “Come ben sai, Phillips…”, l’occasionale e deliberata rottura della regola può servire a generare tensione narrativa.

Quindi, riepilogando: ci sono ambientazioni, specialmente nella letteratura di genere, che richiedono un sacco di informazioni perché il lettore si faccia un’idea di quel che sta succedendo. Sommergere il lettore di pagine descrittive è deleterio. Inserire informazioni nel dialogo è potenzialmente un’idea migliore – basta che chi fornisce e chi riceve le informazioni abbiano validi e legittimi motivi per fornirne e riceverne. Se poi il dialogo avviene nel corso di una scena in cui succede qualcosa d’altro, tanto di guadagnato.

Il Comandante Phillips è un fantasma molto utile da avere accanto mentre si scrive dialogo – per chiedersi ad ogni passo: se avessi bisogno di farmi dire questo, sarebbe il caso che comandassi un sottomarino nucleare?

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* A patto di non rivelargli segreti militari a colazione, si capisce, altrimenti il lettore svilupperebbe di nuovo dubbi sulla salute mentale di Randolph, solo di altra natura.

** Ciò che, naturalmente, comporta un’elevata selettività nella scelta delle informazioni. Nessuno tiene conferenze in momenti critici e, per contro, si può assumere con ragionevole certezza che le informazioni offerte in momenti critici siano abbastanza vitali.

*** Ridete pure: nessuno ricorda Voyage On The Bottom Of The Sea, una serie di fantascienza degli Anni Ottanta, con un supersupersottomarino e una certa tendenza all’improbabilità? Ricordo una puntata in cui il comandante cercava di ammutinarsi e gettare a mare l’ammiraglio – ma solo perché era posseduto, per l’appunto, da un fantasma vendicativo. Il comandante, intendo. O forse era l’ammiraglio… O era il primo ufficiale? Oh, well.

Va’ A Capire Il Bestseller

Rant ahead, vi avverto.

5165TA4QLKL__SL500_AA300_.jpgEdward Marston è un autore pluriseriale di gialli storici. Al presente ha in corso tre serie: le avventure di un architetto-detective nella Restoration London, le vicende di una spia al servizio del Duca di Marlborough ai primi del Settecento e i casi di un ispettore di Scotland Yard specializzato in crimini legati alle ferrovie. E almeno un paio di volumi di delitti ferroviari sono assurti al rango di bestsellers di categoria.

Francamente fatico a capire perché.

Di Marston ho letto più di quanto potessi desiderare: considero quattro corposi volumi, letti per intero, letti con cura e recensiti per la HNR una solida base per lamentarmi.

C’è per esempio il fatto che le tre serie, ambientazione storica a parte, sono singolarmente simili tra di loro. C’è sempre un protagonista brillante, retto e pieno di risorse, supremamente abile nella sua professione, ammirato da tutti e del tutto privo di difetti, dubbi o ombre di alcun tipo. Poi c’è la fanciulla, una creatura dolce, coraggiosa e a sua volta priva di difetti, che l’eroe salva rocambolescamente nel secondo o terzo volume, in circostanze che danno luogo a una mutua devozione. Dopo di questo, nessuno dei due avrà altri pensieri al di fuori dell’amato bene (e della carriere, nel caso di lui). Poi c’è il padre di lei, burbero ma onorevole e intelligente. Essendo stato salvato insieme alla figlia, ha avuto modo di concepire un’illimitata stima nei confronti del futuro genero. Poi ci sono servitori, subalterni e aiutanti, gente che svolge i compiti meniali, offre comic relief, fa le domande ovvie, canta senza posa le lodi dell’eroe e/o dell’eroina, e occasionalmente si lascia sfuggire l’informazione sbagliata in presenza della persona sbagliata. E infine ci sono i superiori dell’eroe, costantemente impegnati a ringraziare il cielo di avere messo una simile perla d’uomo sotto il loro comando, e i malvagi/assassini/nemici, gente pessimissimissima dalle motivazioni di cartapesta, che sogghigna e digrigna i denti, e non ha altra aspirazione se non liberarsi una volta per tutte dell’eroe. 51r9vnR0AFL__SL500_AA300_.jpg

E ci sono i dialoghi. Pagine su pagine di terrificanti dialoghi in cui ci si chiama continuamente per nome come nelle soap opera e si discute di a) particolari che tutti i partecipanti alla conversazione dovrebbero già conoscere; b) le gioie del santo matrimonio; c) il prezzo del tè, la misantropia del sergente, aneddoti sulle ferrovie, le molteplici perfezioni dell’eroe… Perché diavolo, nel bel mezzo di una campagna, il segretario del Duca di Marlborough dovrebbe spiegare al Duca di Marlborough la strategia del Duca di Marlborough? “Come Vostra Signoria sa bene…” Quando un dialogo inizia così, a me viene l’emicrania. Ma, a dire il vero, mi viene anche quando per ben quattro pagine l’eroina ricatta moralmente la sua fida cameriera che non vuole partire per l’Inghilterra – quattro pagine quattro di mutue dichiarazioni d’affetto, reticenti ammissioni di sogni premonitori, accenni alle innumeri doti dell’eroe assente, tentativi di sensata persuasione e “oh, non potrei mai andare senza di te, Beatrix, vuol dire che resterò a casa”. Sembra quasi di sentire la voce del responsabile editoriale: E’ fantastico, Ed, ma ci mancano almeno 10000 parole per raggiungere la lunghezza commerciale. Aggiungi qualche scena, vuoi?

E c’è il gioioso e sovrano disprezzo per qualsiasi genere di plausibilità. A parte la vaghezza dell’ambientazione storica, a parte l’occasionale errore, a parte l’improbabilità di fanciulle per bene che vanno e vengono da sole per la casa di giovanotti scapoli, è proprio la meccanica delle storie che mi lascia senza parole. Gente che passa da un esercito all’altro come se nulla fosse, gradi da ufficiale che piovono dal cielo, guardie che cercano dappertutto tranne nella stanza dove si trova nascosto l’eroe, gente che in conversazione con uno sconosciuto sospetto, rivela informazioni rilevanti, altra gente che passa dal campanile di una chiesa all’abbaino del palazzo di fronte senz’altro aiuto che una fune – salvo poi, appena dentro, sfondare una porta a spallate allertando così le guardie… Tanto gli Audaci Buoni quanto gli Spregevoli Malvagi mostrano una combinazione di improbabilità e idiozia che sconsola.

51tPT6PKwoL__SL500_AA300_.jpgSono ben lungi dall’avere finito con le mie doléances, ma vi siete fatti un’idea. Peggio di tutto, Marston non è un novellino. Marston dovrebbe essere uno scrittore esperto e prolifico, con un sacco di titoli alle spalle e una passata presidenza della Crime Writers’ Association. Non ho mai letto nessuno dei suoi lavori più vecchi, e al momento non mi sento molto incentivata a farlo. Come può uno scrittore esperto produrre questa roba dilettantesca e grossolana? Come può una casa editrice con un nome (Allison&Busby) mandare in stampa una storia mal concepita, mal scritta e mal eseguita? Ma forse dell’editore non dovrei meravigliarmi troppo, visto che a nessuno da A&B è parso grave mettere dei soldati di era napoleonica sulla copertina di un libro ambientato nel 1708. Dovrei piuttosto chiedermi tutt’altra cosa: com’è possibile che la gente legga con entusiasmo dei libri che partono da un’idea potenzialmente buona e poi la macellano senza il benché minimo riguardo per l’intelligenza del lettore?

Mar 18, 2011 - Oggi Tecnica    1 Comment

Carri, Buoi, Cause Ed Effetti

Ho sempre pensato che il rapporto causa/effetto, questo pilastro logico, andrebbe strenuamente inculcato nelle giovani menti (insieme alla capacità di individuare le informazioni rilevanti) al pari dell’alfabeto e delle quattro operazioni. O almeno subito dopo. Ragion per cui mi ha fatto molto piacere trovare su WD un articolo di Steven James che spiega con sintetica efficacia perché il nesso tra causa ed effetto sia fondamentale in narrativa.

Allora: è fondamentale tenere presente che il lettore non conosce la situazione, ma la scopre mentre legge, e quindi viene in possesso delle informazioni nell’ordine in cui le trova sulla pagina. Di conseguenza, se l’azione si svolge secondo un flusso logico di causa ed effetto, il lettore la segue con facilità e felicità; al contrario, se incontra effetti senza causa o cause che seguono gli effetti, è costretto ad “uscire” dalla storia per chiedersi che cosa diamine stia succedendo e perché. Not good.

little-red-riding-hood.jpgFacciamo un esempio.

Cappuccetto rosso si avvicinò saltellando al letto di Nonna.

“Ciao, Nonna!” cinguettò, poi si fermò di botto, si morse un labbro e fece un passo indietro. Il sorriso di benvenuto della nonna aveva proprio qualcosa di strano, stirato com’era tra due guance scavate e scure.

“Come ti senti?” domandò dubbiosa la bambina.

Hmm… Proviamo in un altro modo.

Cappuccetto Rosso si avvicinò saltellando al letto di Nonna.

“Ciao, Nonna” cinguettò.

Nonna sorrise. Il più strano sorriso del mondo, tirato tra due guance scavate e scure.

Cappuccetto Rosso si fermò di botto, si morse un labbro e fece un passo indietro.”Come ti senti?” domandò dubbiosa.

Meglio, non trovate? Perché nel secondo caso, invece di saltare fuori dal blu, la reazione dubbiosa di CR discende logicamente dalla strana faccia di “Nonna”, e noi restiamo nella testa di CR, condividendone la reazione.

E’ più facile costruire tensione in questo modo, e costruire tensione, ricordiamocene, è uno dei mestieri del narratore.

Una seria eccezione al principio è costituita dagli inizi – inizi di storia, inizi di capitolo… Se la mia storia si concentrasse solo sul finale, o se volessi usare una struttura narrativa non lineare, cominciando con un flasforward, potrei fare di peggio che iniziare con l’inspiegata, improvvisa riluttanza della nostra bambina in rosso ad appressarsi alla sua avola allettata.

“Ciao, Nonna…” Cappuccetto Rosso si fermò di botto, si morse un labbro e mosse un passo indietro. “Stai… bene?” domandò dubbiosa.

A questo punto potrei procedere a descrivere “Nonna” con un crescendo di elementi inquietanti, oppure potrei accennare appena, piantare lì tutto e tornare a qualche ora prima, e all’arrivo del calderaio con il messaggio di Nonna malata. Di sicuro avrei solleticato la curiosità del lettore.

Ma l’eccezione non fa altro che confermare quel che si diceva: il principio di causa/effetto è uno strumento narrativo potente, e contravvenirvi ha degli effetti specifici – da usarsi con cognizione di causa.

Feb 12, 2011 - Oggi Tecnica    2 Comments

Elevator Pitch

Ricordate The Sentence? Il vostro romanzo in quaranta parole, esercizio di focalizzazione – perché fa sempre comodo avere ben chiaro che genere di storia stiamo raccontando – nonché strumento di promozione, buono per l’editor incontrato al ristorante, per il lettore ancora solo vagamente curioso e per l’intervistatore alla fiera del libro…

In un articolo su The Red Room, Nina Amir propone un’interessante variazione sul tema, incentrata sul concetto di Elevator Pitch. Il termine è mutuato dal marketing, e descrive un’introduzione del proprio prodotto/servizio/ditta/libro tanto breve da poter essere fatta nel corso di uno spostamento in ascensore, e tanto efficace da spingere l’interlocutore a formulare la magica richiesta: “Mi dica di più..”

Il discorso è interessante perché Amir non si limita a prescrivere la preparazione di una Sentence, ma spiega anche come usarla all’atto pratico, supponendo di ritrovarsi in ascensore o al buffet con il responsabile delle acquisizioni della casa editrice dei nostri sogni.

Punto primo: se credevamo che comprimere un romanzo in quaranta parole fosse un’ordalia, adesso la cosa si complica ulteriormente: 25 o 26 parole, dice Amir, e davvero non vogliamo superare il limite. Questo perché nell’ipotetico mezzo minuto non vogliamo parlare  solo noi. L’editor deve avere il tempo di fare qualche domanda, anzi: in un mondo perfetto dovremmo indurlo a fare qualche domanda, con il nostro perfetto, attraentissimo, intrigante pitch di 25 parole. Ecco che allora ogni singola parola, ogni congiunzione e ogni articolo devono essere valutati con cura, ogni aggettivo deve raccogliere più connotazioni possibili, ogni verbo deve essere tanto efficace quanto può esserlo. Diventa necessario scegliere tra nomi, cognomi e attributi, o addirittura tra premesse, tratto singolare e antagonista. Qual è l’aspetto più unico della storia? Che cosa solleticherà di più la curiosità dell’interlocutore?

Una bambina disobbediente gioca una partita d’astuzia con un lupo parlante, e la posta in gioco è la sopravvivenza. (19)

Punto secondo: un tratto fondamentale dell’elevator pitch è quello di mettere in risalto il beneficio per il consumatore. Ora, questo può essere ovvio per la pasta d’acciughe, il sapone liquido e per un libro su come imparare a suonare il violino da soli. Per un romanzo sembra quasi impossibile, vero? Qual è mai il beneficio di leggere un romanzo, a parte il piacere di leggerlo? Amir suggerisce di concentrarsi sul tema di fondo: che cosa impara il protagonista? Verosimilmente è quello che imparerà anche il lettore.

In una letale partita d’astuzia con un lupo parlante, una bambina impara che la mamma ha sempre ragione: mai parlare agli sconosciuti. (22)

Punto terzo: una volta pronto il pitch, bisogna anche impararlo a memoria, esercitarsi a dirlo in modo fluido, sicuro e non meccanico. All’editor  che potrebbe comprare il nostro libro (e, se lo fa, dovrà vendere anche la nostra immagine insieme al parallelepipedo di carta) vogliamo dare l’impressione di sapere quello che diciamo, di essere brillanti, sani di mente e competenti su quello che abbiamo scritto.

Punto quarto: bene, immaginiamo che il pitch abbia funzionato. L’editor annuisce e ci invita a dirgli qualcosa di più… vogliamo farci cogliere impreparati? Giammai, poffarbacco! E’ qui che Amir suggerisce di prepararsi almeno tre punti su cui sviluppare il discorso, tre aspetti rilevanti del libro e/o di noi (se abbiamo ambientato il libro in Cina dopo avere trascorso dieci anni a Pechino, questo è un buon momento per dirlo), tre buoni motivi per cui l’editor dovrebbe sentirsi ancor più interessato al nostro romanzo e a porre altre domande.

La storia esplora vecchi temi legati al folklore centroeuropeo, sezioni della narrazione sono nel punto di vista del lupo/antagonista per mostrare la protagonista attraverso occhi ostili, e ho ambientato il tutto in un Settecento tedesco ricostruito con un misto di rigore storico e concessioni al fiabesco…

A questo punto dovremmo essere avviati felicemente e, se l’editor decide che il libro non fa per lui, almeno sapremo di non avere rovinato tutto con le nostre mani. Possono esserci infiniti motivi per cui la casa editrice dei nostri sogni non vuole pubblicare il nostro romanzo, ma se – quando l’occasione si presenta – riusciamo ad essere efficaci, brillanti e concisi, non saremo noi ad aggiungerne uno in più.

Dic 30, 2010 - Oggi Tecnica    Commenti disabilitati su Saldi Da Writer’s Digest

Saldi Da Writer’s Digest

Saldi di fine anno da Writer’s Digest.

Sì, è tutto in Inglese, e sì, bisogna farli arrivare dagli Stati Uniti, ma gli sconti sono notevoli e l’occasione di procurarsi per pochi dollari (+ spedizione) qualcuno di quei famosi/famigerati manuali di scrittura anglosassoni – quelli che in Italia non arrivano* – non è proprio da buttar via. Non foss’altro che per dare un’occhiata, per vedere come funziona la faccenda sull’altra sponda della Manica/dell’Oceano.

Non è la prima volta che affronto l’argomento tecnica/ispirazione, ma durante la vertiginosa preparazione de I Ninnoli Di Vetro ho avuto una vivace discussione con la regista di Hic Sunt Histriones, discussinoe che mi ha rinfocolato questo grudge cronico. Allora, avevamo questa serie di sequenze motorie**, una delle quali era stata modificata in itinere: la modifica era molto bella, ma non si legava più direttamente con quello che doveva accadere subito prima. “E allora che cosa ne è delle palline di vetro tra A e B?” ho chiesto. La regista mi ha aspramente rimproverata: possibile che io debba sempre preoccuparmi di questi dettagli insignificanti, e non mi renda conto che poi queste cose si sistemano da sole per gli esoterici e superni poteri dell’improvvisazione? Possibile che io non capisca che il teatro è teatro?

Ecco, questo mi ha irritata un nonnulla. A parte il fatto che tra noi e lo sbaraglio si frapponevano forse tre ore – di cui, nella migliore delle ipotesi, venti minuti di prove sul palco -, a parte il fatto che eravamo tutti troppo terrorizzati e sbalestrati per avere il tempo di maturare un’improvvisazione, a parte il fatto che stavamo strillando come due tricoteuses nell’ingresso del teatro, per l’attonita curiosità di gente del catering, microfonisti e medici dell’ABEO, a parte tutto ciò, io voglio sapere questo: che cosa c’è di tanto criminale – in teatro, in letteratura e in tutti i campi – nel voler capire quello che si fa? Nel cercare una logica e una tecnica? Certo, per lo spettatore/lettore tutto deve apparire magico e liscio, come se germogliasse da sé istante dopo istante, ma noi, perbacco? Noi siamo dietro le quinte, noi manovriamo il giocattolo, noi lo costruiamo e lo facciamo funzionare: che c’è di male se sappiamo quello che stiamo facendo?

Ecco, per cui, se vi punge vaghezza di dare un’occhiata al funzionamento delle rotelline, o anche solo di vedere su quali aspetti del gioco si teorizza, la pagina dei saldi è qui.

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* In Italia si traduce pochino di questa letteratura tecnica, perché la vigente mistica della scrittura fa sì che il pubblico accolga con orrore titoli che spiegano misteri e meraviglie di cose come il punto di vista, la caratterizzazione, e l’ingegneria drammatica.

** No, io non dovevo muovermi. O almeno non molto, thank heaven.

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