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Nov 27, 2010 - grilloleggente, Oggi Tecnica    2 Comments

Entered From The Sun – Pag. 145

Sì, dopo tutto non l’ho piantato lì, e dopo tutto anche il Capitano Barfoot è stato incaricato da altra gente (davvero?) di indagare sulla morte di Marlowe. A differenza di Hunnyman, Barfoot non accetta per paura o per avidità, ma perché è incuriosito e per proteggere gli interessi della sua famiglia. Tra parentesi, è vieppiù chiaro che Hunnyman è un caso senza speranza: un buon ragazzo che si crede molto più astuto e più cinico di quanto sia, alla completa mercé sia della vedova che del suo misterioso datore di lavoro – chiamiamolo Tom, per il momento. I have a fondness per Tom Walsingham, anche se forse nel 1597 non sarebbe stato considerato così giovane da descriverlo sempre come “un giovanotto”. E chiunque egli sia, il suo giudizio in fatto di investigatori è suscettibile di dibattito…

Ma non è di questo che volevo parlare.

Quello che mi fa diventare matta in questo libro sono i punti di vista. Tutto è cominciato con una narrazione in III persona a punti di vista alternati: Hunnyman, poi Barfoot, poi Hunnyman, occasionalmente Alysoun… salvo che poi ogni tanto s’infila altra gente, come un misterioso narratore in I persona che all’inizio si è presentato come “nulla più che un fantasma”, poi ha cominciato a sconfinare nei capitoli di Barfoot, e io credevo che fosse uno sporadico intervento autoriale, ma adesso sono sicura che non è così. Costui salta fuori ogni tanto come un pupazzo a molla, fa considerazioni e digressioni, moraleggia e ipotizza, si rivolge al lettore – why, in almeno un’occasione, per un po’, identifica il lettore con Barfoot… E quando il discorso si fa indiretto, a volte sembra essere lui che ascoltiamo.

Un fantasma… che sia Marlowe? Ma no: da un lato, l’autore ha descritto tutti i personaggi come fantasmi; dall’altro il narratore in I persona (che non è l’autore) ha elencato i personaggi comprendendo sé stesso e Marlowe (che in questa storia non avrà molto da dire per sé) come entità distinte. Ossignor!

A scuola c’insegnano a limitare funzionalmente i punti di vista. Ad essere molto cauti nel mescolare I e III persona (e ad evitare la II come la peste); ad essere coerenti nei tempi verbali; e soprattutto a non confondere il lettore – mai – e a non permettere che la scrittura abbia il sopravvento sulla storia. Ebbene, con Garret non ho mai la più pallida idea di chi parlerà nella pagina successiva – e ho smesso di considerare significativi i titoli dei capitoli), mi trovo chiamata in causa come in conversazione nei momenti più inaspettati, vengo sbalzata continuamente dall’immediatezza colloquiale del presente al distacco apparente del passato remoto, dal discorso diretto (come usa nei romanzi) al discorso indiretto caricato di ulteriori strati di significato, mi ritrovo a sbirciare le lettere di Barfoot per suo fratello, e per di più mancano deliberatamente un sacco di pronomi.

Sono confusa? Un pochino, a volte, ma non tanto quanto mi pare che dovrei esserlo nelle circostanze. Noto troppo la scrittura? La noto di sicuro, ma con golosa delizia. Il notarla mi trascina fuori dalla storia? No, accidenti, no! In qualche misterioso, alchemico, invidiabile modo, questa scrittura fa parte della storia, o forse è la storia… o quanto meno, è congegnata in modo tale da non farmi notare l’allarmante particolare che la storia in realtà non c’è.

Perché siamo, per l’appunto, a pagina 145 e non è ancora successo un bottone. O almeno pochi bottoni. A parte il fatto che Hunnyman spera di sistemarsi con la vedova e Barfoot aiuta segretamente i missionari gesuiti, ci sono le due indagini, ed è vieppiù evidente che, se qualcuno può scoprire qualcosa, quello è Barfoot, che sa come muoversi per le cancellerie, ungere le ruote giuste (o pizzicarle con la punta di un coltello), dissotterrare informazioni dai posti più improbabili. A parte questo, zero. In circostanze normali sarei furibonda e avrei già abbandonato la lettura. E’ chiaro che la scrittura iridescente, imprevedibile e densa di Garret non è una circostanza normale.

E non solo voglio continuare a leggere: voglio provare a fare altrettanto, cribbio!

Nero, rosso, bianco e giallo

Rosso_Nero_Giallo_e_Bianco.pngRosso, nero, giallo e bianco. Nella sua biografia di Christopher Marlowe, Una Ellis-Fermor dice che non ci sono altri colori che questi quattro, in tutto il Tamerlano.

Naturalmente, la prima cosa a cui viene da pensare è l’assedio di Damasco. Il primo giorno Tamerlano usa una tenda e bandiere bianche, per significare che ci sarà clemenza per gli abitanti se la città si arrende. Il secondo giorno, tenda e bandiere diventano rosse: Damasco può ancora arrendersi e avere i suoi civili risparmiati, ma non i difensori. Dal terzo giorno in poi, tenda e stendardi neri: non ci sarà più quartiere per nessuno.

E poi bandiere rosse, bianche e nere, e sabbie gialle, e laghi neri di pece, e sangue in quantità (parliamo di una tragedia elisabettiana, dopo tutto), e oro, e colline innevate, e sole, e giaietto, e cavalli candidi… A parte una menzione di zaffiri (che però, secondo Ellis-Fermor, vuole in realtà riferirsi ai diamanti – neri nel tardo ‘500), “nulla indica che Marlowe non fosse daltonico a tutto lo spettro dei colori, con l’eccezione del rosso e del giallo.” Ma ovviamente non si tratta di daltonismo selettivo, bensì di una scelta deliberata.

Ora, scrivere una tragedia intera in uno schema di colori così ristretto richiede guts, perché non bisogna considerare solo i colori citati espressamente, ma anche quelli evocati: troppa insistenza sul cielo o sulle piane erbose, ed ecco che compaiono dell’azzurro e del verde e si finisce fuori tavolozza. Ma Kit Marlowe era un genio, non conosceva la modestia (né letteraria, né otherwise), e a 23 anni era molto padrone dei suoi mezzi – non ancora dei mezzi teatrali, magari, ma quelli poetici: bianco, nero, giallo e rosso, nient’altro.

Mi pare che sia stato Prosper Merimée a descrivere il Trovatore di Verdi come un impasto di oro, fiele e sangue: non posso fare a meno di pensare che la definizione si adatti perfettamente anche al Tamerlano, cromaticamente e non solo.

Mi domando se qualche regista abbia mai messo in scena Tamerlano tenendo conto di questi colori, e tendo a immaginare di sì. Sappiamo che il costume del primo Tamerlano, Ned Alleyn, era decorato di “merletti color rame”. E il rame è una sfumatura di rosso… chissà? Ma in realtà, nel ‘500 il concetto di regia non era quello odierno, ed è lecito dubitare. E tuttavia non è possibile che nessuno ci abbia mai pensato negli ultimi quattro secoli e qualcosa. Anche perché in Inghilterra Marlowe è ancora abbastanza rappresentato.

Ad ogni modo, l’effetto è stupefacente. Viene voglia di sperimentare: scegliere tre o quattro colori e usare solo quelli e le loro sfumature, in tutte le descrizioni, tutte le figure retoriche, tutta l’imagery… Hm. Meglio cominciare con un racconto.

Un racconto breve.

 

Lug 26, 2010 - Oggi Tecnica    1 Comment

Piccola Guida Agli Insetti Nocivi: Il Punto Esclamativo

english-exclamation-mark_~u13399848.jpgGli impagabili Nizza e Morbelli dicevano che, quando avevano l’impressione di non riuscire a dare mordente a una scena, uno dei due andava al mercato a comprare tre o quattro etti di punti esclamativi, che poi spargevano a manciate sulla pagina deboluccia…

Ecco, se anche non ci fosse nient’altro, basterebbero queste cose surreali a farmi adorare N&M, ma non divaghiamo. Tutti, generalmente prima che poi, attraversiamo una fase in cui ci sembra che i punti esclamativi siano una buona idea. Il mio periodo esclamativo, molti e molti anni fa, assunse aspetti inquietanti: persino nei temi di scuola, facevo punti esclamativi a forma di goccia e li coloravo di rosa… Credo di poter cercare qualche scusante nel fatto che ero alle medie.

Col tempo ci si accorge che, se tre frasi su finiscono con un punto esclamativo, per metterne in evidenza una occorre aggiungere un secondo punto esclamativo… se tutto va bene, il giorno in cui s’infila il terzo punto esclamativo, si è tramortiti da folgorazione celeste e si rinsavisce. Oppure si esce anagraficamente dall’incauta adolescenza, oppure ci s’imbatte nella Caccia al Pleonasmo di Allan Guthrie, da cui cito il tip n° 16:

Il Pleonasmo Esclamativo: punto esclamativo – usare con cautela. Più ne usate, meno impatto avranno, e finirete con l’usarne due per ottenere l’effetto di uno solo. E’ vero che serve a dare enfasi, ma l’ideale sarebbe creare l’enfasi per mezzo di scelte lessicali e sintassi. Un testo zeppo di punti esclamativi di solito è segno d’inesperienza. *

Tutto ciò vale nella narrazione, naturalmente, ma anche nel dialogo. Nel dialogo qualche punto exclamation_mark.jpgesclamativo è legittimo, ma devono essere così pochi che, vedendone uno, il lettore drizzi immediatamente le orecchie in risposta al cambiamento di tono.

Salvati quei pochissimi pochi, però, la regola è sempre quella: armarsi di flit e sterminare senza pietà.

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* Traduzione mia.

Giu 26, 2010 - Oggi Tecnica    4 Comments

Quello Che Serve: 12 punti che è meglio avere in una trama

Catherine Ryan Howard, con questo nome da romanzo storico, è una ragazza irlandese provvista di uno sguardo decisamente no-nonsense su libri, scrittura, editoria e compagnia cantante, un invidiabile spirito d’iniziativa e ironia a carrettate. Sul suo blog ho trovato questo arnese, che sembra una lista della spesa, ma è una sensatissima ipotesi di trama in 12 punti, basata sull’analisi della trama media e sulla lettura di un buon numero di testi di scrittura cinematografica:

1.  Scena d’apertura

2.  Impostazione/Introduzione personaggi/Ambientazione

3.  Incidente catalizzatore

4.  Dibattito (I personaggi cogitano: “che fare?”)

5.  Inizia il II Atto/Introduzione della sottotrama

6.  Il Punto di Mezzo (un momentaneo ‘miglioramento’ o ‘peggioramento’ – purché sia in direzione opposta a quella del finale)

7.  Cose toste, effetti speciali e meraviglie varie (i pezzi che finirebbero nel trailer, se il vostro romanzo fosse un film)

8.  La minaccia cresce, il pericolo si avvicina

9.  Tutto è perduto (il momento peggiore per il protagonista)

10. Inizia l’Atto III

11. Finale/Climax

12. Scena finale o epilogo

Sì, lo so: uno schema? Orrore! Sacrilegio! Anatema! Che ne è dell’ispirazione, dell’alata fantasia, della mistica e spontanea sacralità della scrittura? Nessuno dice di prendere questo schema e scriverci un romanzo seguendolo punto per punto – e guai se si sgarra! – ma di certo a nessun romanzo nuoce contenere tutti questi punti. Anche perché – sorpresa!! – si tratta di una versione della buona, vecchia e collaudata Struttura in Tre Atti che, a sua volta, risale alla teoria drammatica di Aristotele.

Quindi, per ricapitolare: nulla di astruso, di americano, di orribilmente commerciale. Solo Aristotele, solo una manciatina di principi drammatico-narrativi che erano già solidificati ventiquattro secoli fa, che sono insiti nella nostra identità culturale, che siamo programmati per riconoscere come elementi necessari di una “storia”. Per cui, magari, i dodici punti qui sopra possiamo considerarli una buona checklist: abbiamo, il mio romanzo e io, tutto quello che serve?

 

Giu 19, 2010 - Oggi Tecnica    2 Comments

Egli disse, ella disse

Capita di scrivere un dialogo e di essere colpiti all’improvviso da quella che sembra una manifica idea: perché invece di ripetere ad nauseam “A disse” e “B disse” e via così, che è monotono e generico, non uso qualche bel sinonimo espressivo? E/o qualche bell’avverbio? Una giudiziosa combinazione delle due cose non mi darebbe un dialogo più vivace e meglio caratterizzato, oltre che meno banale?

La risposta è no, no, no, mille volte no. Date un’occhiata all’esempio qui sotto. Si suppone che sia una scena d’azione in cui A e B, guidati da D, inseguono dei nemici più numerosi e meglio armati di loro.

“Tra poco saremo al villaggio” annunciò D con sicurezza. “Dopo il villaggio la strada si allontana dal fiume, risale ed entra tra gli alberi. Quando stavo con la zia, scendevamo sempre al villaggio a comprare il sale per la scorciatoia che gira in alto, sopra il bosco” spiegò.

“Scorciatoia sopra il bosco?” ripeté B, rizzando le orecchie.

“Sissignore, si imbocca dopo la curva, non si vede quasi, è un sentierino che sale verso sinistra” rispose lui e, cogliendo al volo l’idea del gigante, esclamò euforico: “Ma, volendo, si può tagliare nel bosco, riprendendo la strada dopo il posto X.”

“Ridiscendere alla strada dopo il posto X? Cos’è questo posto X? E dov’è?” interrogò A.

“Tra, tra… che so, tra quattro, cinque miglia almeno. Lo chiamano il posto X, ma restano solo rovine” D balbettava quasi per l’eccitazione.

“Abbiamo la nostra sorpresa, D, sei un genio!” decise B. Si misero in cammino.

“Ci siamo”  affermò D poco dopo, mostrando un sentiero che saliva ripido sulla sinistra. Salirono.

“Di qua, di qua” sollecitò D, indicando con la mano il limitare degli alberi a destra. “Ecco il posto X” dichiarò soddisfatto, dando l’alt. “La strada è poco lontana, ci si arriva di là” spiegò, indicando la scarpata davanti a loro.

“Abbiamo guadagnato terreno e i carri vanno piano. Abbiamo il tempo per organizzare un’imboscata” valutò B.

“Andate giù a piedi, studiate la situazione e tornate a riferire” ordinò A.

Ecco, non so se mi spiego: dodici sinonimi diversi del verbo dire, per non parlare delle qualificazioni, tra il semi-lirico e il burocratico, il tutto – presumibilmente – nel duplice intento di scongiurare la monotonia e differenziare le voci. Peccato che non funzioni… E’ sabato, siamo in giugno, quindi magari avete una mezz’oretta da dedicare a un paio di istruttivi esperimenti.

Primo esperimento: leggete l’esempio ad alta voce e ascoltatevi per bene, oppure fatevelo leggere da qualcuno, oppure registratevi e ascoltate. Avete colto la dolorosa goffaggine del dialogo? Bene.

Secondo esperimento: copiate e incollate il dialoghetto in un processore di scrittura e sostituite tutti i verbi sottolineati con il buon vecchio “disse”, eliminandoli senza remore quando ce ne sono troppi. Poi togliete di torno i vari soddisfatto, euforico, con sicurezza e compagnia cantante. Adesso rileggete il pezzo: a parte il fatto che scorre meglio, vi pare che le voci siano diverse l’una dall’altra? Sareste in grado di determinare chi sta parlando se non vi venisse detto esplicitamente? No, vero? Appunto.

Il fatto è che da una parte tutti quei bei sinonimi e aggettivi trascinano fuori dalla storia, e dall’altra, senza di essi, il dialogo è pressoché incomprensibile. E allora come si fa? Una volta di più, è questione di mostrare e non dire: dev’esserci un modo per mostrare che D è soddisfatto o euforico, anziché dirlo – attraverso l’azione. Dev’esserci un modo per distinguere D da A e B – attraverso il modo di parlare. Tutto il resto deve essere come un macchinario teatrale: efficiente ed invisibile. Il lettore non deve accorgersi che gli state dicendo che D parla ancora e ancora, o che D è soddisfatto… deve sentire la sua voce, percepire la sua soddisfazione.

Proviamo:

D li guidò fuori dal bosco. “Visto? E’ il posto X,” disse, col fiato ancora grosso per la salita. “Che vi avevo detto? E la strada è proprio qua sotto, guardate.” Indicò col dito il nastro bianco che s’intravedeva tra gli alberi e, quando si voltò a guardare i due uomini, la luce compiaciuta negli occhi di B gli fece allargare il cuore.

Ok, non è da nobel per la letteratura, ma mostra molto più di quanto non dica: D ha fatto la strada poco meglio che di corsa nella sua impazienza, D è compiaciuto di se stesso, D cerca l’approvazione di B – e la ottiene.

Per cui, terzo esperimento: provate a riscrivere tutto il passaggio, dando ad A, B e D delle voci ben distinte, delle azioni che rivelino quello che pensano, dei nomi se volete. Tenete il punto di vista di D (sapete solo quello che D sa, pensa, vede e sente). Poi, se ne avete voglia, ricominciate dal punto di vista di B, e poi ancora da quello di A – ciò che viene detto non cambia, ma le reazioni e le interpretazioni? Per esempio, ha proprio ragione D nel pensare che B sia soddisfatto? E A lo è altrettanto?

“Se ne possono spremere, di esercizi di scrittura, da dieci battute di dialogo,” argomentò soddisfatta la Clarina e, sospirando compiaciuta, annuì a sé stessa, salvò con prudenza il post e lo pubblicò.

Giu 11, 2010 - Oggi Tecnica, scrittura    Commenti disabilitati su Occhi Blu, Capelli Neri, Naso uno.

Occhi Blu, Capelli Neri, Naso uno.

Certe cose sono come salare l’acqua per la pasta: non ci pensi fino a quando non ti tocca farlo, oppure fino a quando non t’imbatti nelle conseguenze degli errori altrui…

Nello specifico, questo goffo riferimento culinario era per parlare della descrizione fisica del personaggio nel cui punto di vista si sta scrivendo. Allora, il problema non si pone quando si scrive in terza persona onnisciente perché il narratore tutto sa e tutto vede, e quindi può benissimo descrivere al lettore ogni personaggio nel momento in cui entra in scena – e questo è uno dei pochissimi compiti che la III Onnisciente facilita al lettore. Per quasi tutto il resto, scrivere una buona, solida III Onnisciente è orribilmente difficile e quindi forse vale la pena di risolvere questo specifico problema e concentrarsi su una voce narrante diversa.

Per esempio una Prima o una Terza Limitata, ed ecco che torniamo alla domanda iniziale: come descrivere al lettore l’aspetto di un personaggio da dentro la sua testa? Perché se scrivo dal punto di vista di Geremia, il lettore può sapere solo quello che Geremia vede, pensa e sente, e siamo onesti: quante sono le probabilità che Geremia spenda del tempo a passare in rassegna i propri tratti fisici?

La III Limitata offre ancora una possibilità di scampo, se la storia non è raccontata completamente dal punto di vista di Geremia: posso aspettare che, nella scena successiva, il punto di vista passi a Yvette, la quale forse vede Geremia per la prima volta e ne osserva occhi, capelli, numero di nasi, statura e tutto il resto. Oppure Yvette conosce benissimo Geremia, ma può avere ogni genere di motivi narrativamente legittimi per scompigliargli il ciuffo corvino, guardarlo nel profondo delle iridi blu o dargli un pugno sull’unico naso…

Se invece sono limitata al punto di vista di Geremia e voglio proprio darne una descrizione fisica, dovrò darmi da fare per trovare una buona ragione. John Olson sostiene che non è poi così necessario descrivere i personaggi: se Geremia ha una voce abbastanza caratteristica, se le sue azioni, i suoi pensieri e le sue parole suggeriscono un minimo di tipo fisico e di età, il lettore sarà perfettamente felice di immaginarsi il personaggio come vuole. A dire il vero, non sono sicura di essere d’accordo. Quando leggevo le commedie di Shaw, per prima cosa andavo a cercare le descrizioni di tutti quelli che dovevano entrare in scena, e restavo molto delusa nei casi in cui non c’erano. Non voglio otto paragrafi di minuzie fisiognomiche, e non voglio un estratto della carta d’identità, ma mi fa piacere sapere come l’autore vede il suo personaggio, grazie. Mi fa assai meno piacere, però, essere trascinata fuori dal punto di vista e dalla storia per ricevere una lista dei connotati di Geremia…

E allora?

Allora bisogna domandarsi come e perché Geremia potrebbe essere indotto a fare considerazioni sul proprio aspetto. Un metodo collaudato sono le speculazioni che il personaggio fa sulle reazioni altrui – specialmente in circostanze inusuali. Diciamo che Geremia vede Yvette per la prima volta dopo essere stato salvato dall’annegamento in un fiume particolarmente fangoso. Diciamo anche che Yvette sia l’incarnazione perfetta della donna dei suoi sogni*, ed ecco che c’è posto per qualche legittima considerazione sul proprio aspetto non precisamente immacolato. “In altre circostanze avrei fatto affidamento sul fascino dei miei occhi blu”, o qualcosa del genere. Tra parentesi, non occorre che la descrizione arrivi tutta in una volta, confezionata in un unico e comodo pacchetto: meglio, molto meglio se i capelli neri e il naso arrivano in momenti successivi e pertinenti, procedendo insieme alla storia invece di fermarla per un’edizione del notiziario descrittivo.

Tutto diventa più facile se i caratteri fisici del personaggio hanno un ruolo nella storia. In Hunting The Corrigan’s Blood, una storia di fantascienza narrata in prima persona, la protagonista-narratrice Cady Drake ha più di un ottimo motivo per descriversi: da un lato, è il prodotto di una teoria genetica passata di moda, in base alla quale la sua esecrabile madre l’ha resa, diciamo così, inconfondibile; dall’altro vive in un futuro in cui alterare radicalmente il proprio aspetto è facile e relativamente economico. L’aspetto di Cady è significativo dal punto di vista concettuale e strettamente narrativo, e il modo in cui lei descrive se stessa nel secondo capitolo è perfettamente funzionale.

Non sempre va così bene, ma in alternativa si può sperare che l’aspetto del personaggio sia così perfetto per il ruolo, o così improbabile per il ruolo da meritare qualche commento. Potete giurare che Geremia non va attorno meditando sulla sua combinazione di colori, ma se è un agente segreto e deve infiltrarsi in Irlanda, potrà ringraziare fuggevolmente il fato benigno che gli ha fatto ereditare gli occhi blu di suo padre e i capelli scuri di sua madre. O in alternativa, se si ritrova paracadutato per errore nello Swaziland, potrà comprensibilmente essere scettico sulle sue chances di mimetizzarsi tra la popolazione locale.

E’ vero, c’è sempre lo specchio. Quante volte abbiamo letto che “Geremia gettò un’occhiata allo specchio, soffermandosi sugli occhi blu, sul naso diritto,” eccetera eccetera? Collaudato anche questo, ma da prendersi con cautela. Onestamente, se un romanzo si apre con una descrizione di qualcuno che si guarda allo specchio, farà bene ad esserci un ottimo motivo per questo, o qualcosa di davvero interessante che interrompe la contemplazione in tempi brevi.

Insomma, alla fin fine si possono trovare diversi modi di introdurre una descrizione fisica, ma l’importante è tenere a mente un paio di cose: attenersi a ciò che il personaggio vede, sente e pensa; avere un buon motivo per ogni dettaglio che si mette sulla pagina; utilizzare i caratteri fisici per far avanzare la storia.

Se non è possibile incorporare nella descrizione almeno due di queste tre caratteristiche, forse è saggio considerare l’opzione Olson e rassegnarsi a non descrivere affatto.

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* Che esempio orribile!! Mi cospargo di cenere il capo per averlo concepito.

Apr 28, 2010 - Oggi Tecnica, scrittura    9 Comments

Come Si Cattura Un Lettore Con Il Primo Capitolo

Questa è una tecnica quasi più da editor che da scrittore, ma direi che conoscerla non guasta, ed è basata sul comportamento del Lettore Tipo in libreria. Diciamo che stiate passeggiando tra gli scaffali. I motivi che vi spingono a prendere in mano un libro possono essere diversi: il nome dell’autore, il titolo, la copertina… non ha importanza. Resta il fatto che leggerete la quarta di copertina (oppure il risvolto della sovraccoperta), e poi, se siete ancora interessati, passerete alla prima pagina.

Capitolo I.

Se la prima frase vi attira a sufficienza, è verosimile che arriviate fino alla fine della pagina, giusto? Ma nelle ultime righe deve esserci qualcosa che vi spinge a voltare pagina per vedere cosa succede. A questo punto, se non avete rimesso il libro nello scaffale, potreste essere già catturati a sufficienza da comprarlo, oppure restare sospettosi – ma intrigati – e continuare a leggere. E questo è il motivo per cui il I capitolo dovrebbe essere piuttosto breve, e chiudersi con qualcosa, qualcosa che vi incuriosisca, che non vi permetta di mettere giù il libro.

Diamo un’occhiata, a titolo di esempio, al primo capitolo di Harry Potter E La Pietra Filosofale

Il signore e la signora Dursley, di Privet Drive numero 4, erano orgogliosi di poter affermare che erano perfettamente normali, e grazie tante, dice l’incipit, che funziona come primo gancio. E in effetti, questa ringhiosa affermazione di normalità ci incuriosisce e ci induce a pensare che molto presto ai Dursley capiterà qualcosa che normale non è.

Nel resto della pagina ci viene descritta la perfetta normalità – e notevole sgradevolezza – dei Dursley. Il secondo gancio, a fine pagina, riprende il primo e non solo gli dà corpo, ma allarga la prospettiva dalla famiglia Dursley a tutto il paese: Quando i coniugi Dursley si svegliarono, la mattina di quel martedì grigio e coperto in cui inizia la nostra storia, nel cielo nuvoloso nulla lasciava presagire le cose strane e misteriose che di lì a poco sarebbero accadute in tutto il paese.

Segue una serie di scene in cui le cose strane e misteriose cominciano ad accadere. Dapprima è solo gente bizzarra che fa discorsi ancora più bizzarri, voli inusitati di gufi, stelle cadenti, accenni incomprensibili, notizie inconsuete al telegiornale, gatti nella strada, in un crescendo d’informazioni incomplete che culmina nell’apparizione di Silente, McGrannit e Hagrid a Privet Drive. Finalmente scopriamo che lo Harry* eponimo è un orfano di maghi, sopravvissuto a un evento cataclismatico – nel bene e nel male – e che sta per essere affidato ai suoi parenti, proprio i detestabili Dursley. Tutto finisce con i maghi che si dileguano e il piccolo Harry che dorme sulla soglia in attesa di essere “trovato”. Non poteva sapere, dice il terzo gancio, che in quello stesso istante, da un capi all’altro del paese, c’era gente che si riuniva in segreto e levava i calici per brindare “a Harry Potter, il bambino che è sopravvissuto”. E’ un ottimo terzo gancio: chiude il capitolo costruendo sugli altri due, ampliando ulteriormente la prospettiva e lasciando il lettore pieno di domande e di curiosità.

Chi è questa gente che brinda? Perché lo fa in segreto? Perché il fatto che Harry sia sopravvissuto è così importante? E via così. Ormai il lettore è catturato e, a meno che non detesti il genere**, non gli sarà facile piantare la lettura e rimettere il libro nello scaffale.

Voilà: Struttura in Tre Ganci del I Capitolo. Badateci, e vedrete che molti libri contemporanei di autori anglosassoni cominciano in questo modo, con tre ganci per incuriosire il lettore, trascinarlo dentro la storia e non lasciarlo più sfuggire. Vale la pena di tenerne conto: male non fa di sicuro e, se è vero che è destinata al lettore finale, comincia col dimostrare all’editor/editore che sapete quello che state facendo.

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* Qualcun altro si è domandato perché, persino nei suoi documenti scolastici, Harry venga chiamato con quello che è un diminutivo? Non so: possibile che almeno la formalissima McGrannit, o qualche aspetto della burocrazia scolastica, o il Ministero della Magia non lo designino mai come Henry, o Harold, o qualunque sia il nome intero di cui Harry è diminutivo?

** Nel qual caso, però, forse era nel settore sbagliato della libreria fin dapprincipio.

Apr 23, 2010 - Oggi Tecnica    2 Comments

I’ve got rhythm…

Ho la vaga impressione di avere già citato Virginia Woolf a proposito del ritmo, ma credo che lo ripeterò comunque. A memoria, e quindi senza la minima pretesa di precisione: scrivere un libro è quasi solo questione di ritmo. Una volta scelto un ritmo, il libro viene da sé.

Sì, vabbe’.

Premesso che per una volta non credo affatto a Virginia, dirò tuttavia che il ritmo della prosa è fondamentale a vari livelli. Narrativamente, il ritmo serve a rallentare o accelerare il tempo di una scena; musicalmente, per dir così, il ritmo delle frasi cattura, trascina, culla, mette a disagio o strangola il lettore. I cambi di ritmo sottolineano o preparano le sorprese, enfatizzano gli snodi della trama, sostengono le descrizioni… ci sono un sacco di cose che si possono fare amministrando con saggezza il ritmo di ciò che si scrive. Ci sono un sacco di modi per amministrare saggiamente il ritmo.

Oggi mi soffermo su uno in particolare, perché quando mi è stato fatto notare mi ha lasciata perplessa. Perplessa, perché dire che un susseguirsi di frasi brevi rallenta il ritmo, mentre un’unico periodo lungo lo velocizza, a me sembra controintuitivo. Insomma, una frase breve è lapalissianamente più rapida, no? E il ritmo di tre o quattro frasi brevi in rapida successione deve necessariamente correre, giusto?

No, sbagliato.

Provate a immaginare ogni punto come un semaforo rosso, e vedrete che un paragrafo costituito da un numero qualsiasi di frasi brevi separate da punti è una strada piena di semafori rossi. Ogni volta occorre fermarsi.

Prendiamo un esempio da Close Range, di Annie Proulx*, autrice americana celebre per i suoi periodi interminabili**:

Cenarono tardi, accanto al fuoco, una scatola di fagioli per ciascuno, patate fritte e un quarto di whiskey in due, seduti contro un tronco, con le suole e i risvolti dei jeans a scaldare, passandosi la bottiglia mentre il cielo lavanda perdeva colore e l’aria fredda scendeva, bevendo, fumando, col fuoco che gettava scintille nella curva del torrente, buttando legna sul fuoco per tenere viva la conversazione, parlando di cavalli e di rodeo, di donne, incidenti e ferite subite, del sottomarino Threscher perduto due mesi prima con tutto l’equipaggio e di come doveva essere stato negli ultimi minuti prima della fine, di cani che ciascuno aveva avuto e conosciuto, della siccità, del ranch dove i genitori di Jack tiravano avanti, della casa di famiglia di Ennis, perduta anni addietro dopo la morte dei suoi, del fratello maggiore a Signal, della sorella sposata a Casper.

Monster period di 145 parole, se non ho contato male, eppure provate a leggerlo ad alta voce: è scorrevolissimo e veloce. All’inizio c’è il verbo all’indicativo che indica l’azione principale, completata poi da una serie di gerundi che scandiscono le azioni accessorie e l’accumularsi dei dettagli, fino all’elenco degli argomenti toccati nella conversazione, che passano dal triviale al tragico al personale. Il tutto regolato da tutta una processione di virgole. Ma le virgole non fermano: anziché semafori rossi, sono boe, attorno alle quali scivoliamo lungo la traiettoria di una scena di dialogo indiretto.

Spero che la signora Proulx non me ne voglia se adesso modifico sperimentalmente il suo periodo, spezzettandolo.

Cenarono tardi, accanto al fuoco. Mangiarono una scatola di fagioli per ciascuno, patate fritte e un quarto di whiskey in due. Sedevano contro un tronco, con le suole e i risvolti dei jeans a scaldare, passandosi la bottiglia mentre il cielo lavanda perdeva colore e l’aria fredda scendeva. Bevvero e fumarono, col fuoco che gettava scintille nella curva del torrente, buttando legna sul fuoco per tenere viva la conversazione. Parlarono di cavalli e di rodeo, di donne, incidenti e ferite subite. Chissà come, da quello passarono al sottomarino Threscher perduto due mesi prima con tutto l’equipaggio. Si domandarono come doveva essere stato negli ultimi minuti prima della fine. Poi fu la volta dei cani che ciascuno aveva avuto e conosciuto, della siccità. Jack parlò del ranch dove i suoi genitori tiravano avanti. Ennis raccontò della casa di famiglia, perduta anni addietro dopo la morte dei suoi, del fratello maggiore a Signal e della sorella sposata a Casper.

Visto? Lo so che controintuitivo, l’ho sempre pensato, e una parte di me lo pensa ancora, anche davanti all’evidenza: ogni singola frase della seconda versione può essere asciutta e rapida, ma l’effetto complessivo del paragrafo diventa molto più lento, con tutte quelle pause obbligate. Se volete fare un esperimento, leggete ad alta voce entrambe le versioni, o fatevele leggere da qualcun altro, o registratevi e riascoltate. Il ritmo è cambiato, molto più spigoloso e più faticoso alla lettura.

Il problema è che costruire periodi come la versione originale, spropositatamente lunghi e traboccanti di dettagli, e tenerli scorrevoli, è un’arte complicata, richiede orecchio, attenzione e pratica, padronanza della sintassi e la pazienza di tornare indietro e limare, spostare, leggere ad alta voce ancora e ancora, fino a quando ritmo, musica e significato non si combinano in maniera liscia.

Difficile, ma non c’è niente come provare. E a dire il vero, credo che sperimentare una tecnica controintuitiva sia tanto più efficace proprio perché ci costringe ad affrontare i preconcetti, a provare soluzioni che non avevamo considerato (e magari credevamo di non dover considerare affatto), a pensare con estrema attenzione a ogni parola, ogni suono, ogni virgola che usiamo.

Quindi, non so voi, ma io, nel corso delle numerose ore di treno che mi aspettano durante il fine settimana, ho intenzione di dedicarmi a questo esercizio: partire dal monster period di Annie Proulx e riscriverlo, modificandolo vieppiù nel contenuto, ma mai nella struttura. Centocinquanta parole e nemmeno un punto, again and again, fino a quando non riesco a farlo indipendentemente dal modello e con scioltezza accettabile e buon ritmo.

Non intendo certo modificare il mio stile in una processione di periodi di dimensione biblica, ma voglio saperne scrivere uno senza sfigurare, se ne sorge l’occasione o la necessità.

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* Per la cronaca, è il racconto da cui è stato tratto I Segreti di Brokeback Mountain.

** Traduzione mia: nulla di artistico, solo funzionale.

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Tengo a precisare che questo post è stato scritto in uno stato di terror panico, perché c’è un r (bestia con otto zampe) che se ne va in giro tra l’una e l’altra cassa del computer. E siccome ho già chiamato la Cavalleria dieci minuti fa per estrometterne un altro, e non ho il coraggio di ripetere il numero, posso solo cercare di finire il prima possibile e allontanarmi in fretta. Per cui non c’è stata gran revisione, e se trovate un numero di errori di battitura superiore al consueto, blame it on the spider.

 

Apr 19, 2010 - cinema, libri, libri e libri, Oggi Tecnica    Commenti disabilitati su Sempre di Film e di Libri

Sempre di Film e di Libri

Questo post è un enorme spoiler – lo dico perché una volta su aNobii sono stata vigorosamente accusata di avere spoiled il finale del Gattopardo…

Ad ogni modo, se leggete i libri per sapere come vanno a finire, fermatevi qui. Se v’interessa la meccanica delle storie, qui sotto c’è un’analisi comparata della Struttura In Tre Atti e Tre Disastri di Morality Play – Lo Spettacolo Della Vita, di Barry Unsworth, e di The Reckoning, il film che Paul McGuigan ha tratto dal romanzo.

Morality Play – Lo Spettacolo della Vita

The Reckoning

ATTO I

Nicholas Barber, un giovane prete in fuga dalla sua diocesi per avere conosciuto (senso biblico) una donna, si unisce a una compagnia di attori in viaggio e, insieme a loro, raggiunge una cittadina ancora scossa dall’assassinio di un bambino. Gli attori hanno bisogno di denaro per far seppellire un loro compagno, morto durante il viaggio, e mettono in scena una rappresentazione sacra nella piazza.

Nicholas, un giovane prete, fugge attraverso i boschi, si taglia i capelli per nascondere la tonsura e getta nel fiume il suo abito religioso – e nel frattempo ricorda la sua parrocchia, la giovane donna con cui ha commesso adulterio, e il marito di lei che li ha sorpresi in flagrante delicto.

DISASTRO n° 1

La rappresentazione va molto male e la compagnia è in bolletta. Il capocomico propone di provare un dramma di nuovo genere, ispirato all’omicidio appena avvenuto.

Nel bosco, Nicholas crede di assistere a un omicidio. Scoperto e catturato da quelli che in realtà sono attori girovaghi che assistono un compagno moribondo, decide di unirsi a loro.

ATTO II (parte I)

Per preparare il nuovo dramma, gli attori, e Nicholas con loro, fanno domande ai cittadini, raccogliendo informazioni sul bambino morto, sulla ragazza accusata del delitto, e sul confessore del signore locale, che ha scoperto le prove della sua colpevolezza. Una volta messa in scena, la storia non risulta convincente nella sua conclusione, ma raccoglie molto denaro, e gli attori decidono di ripeterla l’indomani, in occasione della fiera.

Insieme agli attori, Nicholas giunge in un villaggio dove è appena avvenuto un omicidio. Non potendo pagare il funerale, gli attori seppelliscono clandestinamente il loro compagno nella tomba del ragazzo assassinato e Nicholas officia il rito, rivelando di essere un prete. Impossibilitati a proseguire per un guasto al carro e a corto di denaro dopo una disastrosa rappresentazione sacra, gli attori si lasciano convincere dal capocomico Martin a mettere in scena un nuovo tipo di dramma, ispirato all’omicidio appena compiuto. Dopo avere incontrato la donna accusata del delitto, Nicholas prende parte alla rappresentazione, ma la logica della storia e le reazioni del pubblico non lo convincono. Gli attori non gli danno retta e si dispongono a partire l’indomani con il carro riparato.

DISASTRO n° 2

Per raccogliere ulteriori informazioni, il capocomico Martin visita in prigione la ragazza condannata all’impiccagione, se ne innamora, si convince della sua colpevolezza e decide di servirsi del dramma per scagionarla.

Riesumando il corpo del ragazzo assassinato, Nicholas vi scopre segni di violenza e i primi sintomi della peste, e rifiuta di partire con gli attori, lasciando che una donna innocente venga impiccata per un omicidio che non ha commesso.

ATTO II (parte II)

Durante la seconda rappresentazione, trascinati da Martin, gli attori dimostrano logicamente l’inconsistenza delle accuse del confessore. Il pubblico è sconvolto, e lo ancora di più quando arriva la notizia della morte del confessore. Impauriti dalle conseguenze delle loro azioni, gli attori si ribellano a Martin, e dichiarano l’intenzione di partire immediatamente.

Nicholas interroga il confessore del castellano, la cui testimonianza è stata risolutiva nella condanna della donna, e il monaco risponde ambiguamente, lasciando intendere di avere agito per ordini altrui. Poco dopo, il confessore viene ucciso simulando un suicidio. Con l’aiuto degli attori tornati a sostenerlo, Nicholas ferma l’esecuzione e denuncia alla folla la responsabilità del castellano. All’arrivo delle guardie, l’intera compagnia si rifugia nella chiesa, dove trova il castellano.

DISASTRO n° 3

I soldati del signore locale prelevano gli attori e li conducono al castello – nominalmente per recitare davanti al castellano, ma di fatto prigionieri.

Nicholas affronta il castellano con le prove della sua colpevolezza e rivelandogli la presenza del Giudice al villaggio. Quando il nobiluomo dichiara orgogliosamente la propria immunità dalla giustizia, Nicholas gli rivela che il ragazzo da lui violentato aveva la peste. Il castellano pugnala Nicholas.

ATTO III

Condotti davanti al castellano, gli attori danno inizio ad una terza rappresentazione, nel corso della quale Martin accusa, dapprima copertamente e poi con sempre maggiore sicurezza, “colui che il confessore serviva”. Il dramma è interrotto dalla figlia del castellano, venuta a chiedere l’assistenza religiosa di Nicholas per un moribondo. Separato dai suoi compagni, Nicholas fugge dal castello e raggiunge il Giudice del Re che alloggia in città, al quale riferisce la situazione. Il Giudice rivela a Nicholas di essere venuto ad arrestare il figlio del castellano, colpevole di avere violentato e ucciso quattro bambini, e promette di far rilasciare gli attori.

La folla, inferocita dall’omicidio del bambino, dal tentativo di far condannare un innocente e dall’attacco a Nicholas, assalta il castellano e lo uccide. Nicholas muore, e gli attori si preparano a lasciare il villaggio, dichiarando l’intenzione di continuare a rappresentare il nuovo dramma in omaggio a Nicholas, morto per amor di giustizia e verità.

Notate come alcuni eventi siano stati spostati (ad esempio l’incontro con la donna condannata a morte), e come il film tagli sulla preparazione del dramma, e sula parte che esso ha nel disvelamento della verità. Notate anche il finale del film, molto più drammatico di quello del romanzo.

Ma la differenza più significativa, strutturalmente parlando, risiede nel punto di vista. Nel romanzo, Nicholas è il narratore in prima persona e il testimone degli eventi, ma la storia è incentrata su tutta la compagnia, e sul dramma, per cui i disastri sono tali dal punto di vista collettivo degli attori. Nel film, invece, Nicholas è il protagonista e il propulsore degli eventi, e i disastri costituiscono gli snodi della sua vicenda e della sua indagine.

Nel libro, Martin comincia per amore dell’arte e poi prosegue per amore della ragazza muta. Alla fine molti interrogativi rimangono aperti (che sarà successo agli attori nel frattempo? Cosa ne sarà della compagnia che è venuta meno al suo ingaggio? Vorranno ancora gli attori fidarsi di Martin? Nicholas resterà con loro?) ma la cosa importante è che il dramma, come esperienza di arte e conoscenza, e come simbolo dell’avventurarsi della mente umana in territorio inesplorato, ha condotto alla verità e alla giustizia. Nel film, al contrario, Nicholas* agisce fin dapprincipio per amor di giustizia, e così va incontro alla sua fine. E’ la sua ostinazione a portare alla luce la verità e scagionare l’innocente, e alla fine tutte le domande trovano risposta.

Francamente, l’arco narrativo del film è più solido, ma al romanzo resta la superiorità di una magnifica, originale e potente metafora della conoscenza che il film sacrifica alla trama gialla.

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* Vero è che nel film Nicholas ha anche ucciso il marito della sua bella, per cui ha più da redimere e meno da perdere… Ma, a parte le motivazioni del tutto diverse, il Nicholas del libro e quello del film non hanno poi molto in comune.

Apr 14, 2010 - libri, libri e libri, Oggi Tecnica    Commenti disabilitati su Liberamente Tratto – Parte II

Liberamente Tratto – Parte II

morality.jpgParlavamo di libri&film, ricordate?

Qualche tempo fa ho inavvertitamente noleggiato un film chiamato The Reckoning, con Paul Bettany* e Willem Dafoe, credendo che parlasse di Christoper Marlowe. Insomma, c’era il titolo, c’era il “boh, credo che parli di attori, di teatro…” di M.T… Come potevo non pensare che parlasse di Marlowe?

Invece era tutt’altro, la storia di un giovane prete nei guai che, nell’Inghilterra del tardo Trecento, si unisce a una compagnia di attori girovaghi. Naturalmente accadono cose impreviste, hanno bisogno di denaro, hanno un capocomico con delle idee eterodosse, c’è un omicidio… E’ un buon film, cupo e asciutto, ben fatto e bene ambientato, con un numero limitato di anacronismi minori, un arco narrativo solido e un finale parzialmente inaspettato. Se ho un’obiezione, è che è doppiato così così. Di solito i doppiatori italiani sono stratosferici… qui non proprio, ma pazienza – un momento o l’altro troverò il modo di vederlo in versione originale.

A film visto e restituito, una rapida indagine ha rivelato che The Reckoning è tratto da un romanzo storico di Barry Unsworth, Morality Play, tradotto in Italia come Lo Spettacolo della Vita (Frassinelli 1997, poi CDE 1998), e ho deciso che dovevo leggerlo. E’ stata una buona idea. Non è bizzarro come a volte un caso si leghi a un altro caso? Morality Play, scoperto noleggiando il film sbagliato, si è rivelato uno dei migliori libri che abbia letto da qualche tempo in qua.

Se vi capita, leggetelo, perché Unsworth sa il suo mestiere, ha un favoloso senso del periodo e sa come trasmetterlo vividamente al lettore. Nicholas Barber, narratore in prima persona, è credibile e attraente fin dalla prima riga: il suo sistema di valori, il suo terrore dell’inferno, il suo rimpianto per i suoi peccati e per il mantello perso, i suoi piccoli sfoggi di latino, di logica e di teologia suonano sinceri e perfettamente medievali. Il linguaggio è meraviglioso: niente contrazioni, qualche costruzione arcaica, un lessico pertinentissimo senza stravaganze**, ed abbiamo questo senso di secoli passati, ma non di estraneità. Poi non tutto è perfetto: il finale è un po’ floscio rispetto al resto della storia (anche se devo ammettere che la conversazione notturna con il giudice itinerante trasmette un serio senso di spiazzamento e di conclusione al tempo stesso: l’atmosfera è giusta, peccato che gli eventi siano tronchi), sir Roger de Yarm sembra un personaggio un po’ buttato lì, e non tutto è debitamente risolto. Ma la cosa davvero straordinaria è il modo in cui l’arte dei teatranti viene usata a fini narrativi. I dettagli della vita quotidiana della compagnia, pittoreschi e mai gratuiti, sono di per sé una gioia, ma Unsworth fa ben di più che portarci dietro le quinte. Morality Play è un giallo, in qualche modo, ma per una volta, individuare il colpevole e gl’innocenti prima di subito non toglie granché alla lettura. Quello che importa è il modo in cui la preparazione di un dramma diverso dai canoni viene usata per risolvere il delitto. Il teatro assurge da forma d’arte a forma di conoscenza: gli attori abbandonano il repertorio della sacra rappresentazione per l’ambizione del capocomico Martin, un visionario ansioso di sperimentare forme nuove, ma poi continuano trascinati dal modo in cui la logica narrativa del dramma rifiuta le facili soluzioni per l’omicidio commesso nel villaggio. Il dramma viene recitato tre volte, e ogni volta cambia e ramifica in direzioni diverse, sulla base di nuovi elementi che da soli non sembravano significare molto, ma che prendono vita appena portati in scena. Arte, conoscenza, verità e paura s’intrecciano in modo sempre più intricato, portando Nicholas e i suoi nuovi amici in direzioni inattese e molto, molto pericolose. E’ un po’ un peccato che tanta tensione non regga fino alla fine, ma l’insieme è così intelligente e profondo che si possono perdonare molte cose.

E il film? Ecco, il film è tutta un’altra cosa. Ho già detto che è un buon film, ma pur essendo tratto dal libro, non si può negare che racconti un’altra storia. I personaggi portano gli stessi nomi (tranne un paio di casi, per motivi meglio noti alla divinità che veglia sui cervelli dei produttori), ma sono molto diversi, così come sono molto diversi i rapporti tra loro, i loro peccati e le loro intenzioni. Più cinematografici, si capisce. E più cinematografico è il finale che, una volta di più, mette tutta la vicenda in una luce completamente diversa.

Ora, il fatto è che sarebbe stato impossibile finire il film nel modo in cui finisce il libro, o caratterizzare i personaggi del film come quelli del libro, o tenerli lungamente a guardare un torneo da una finestra, o lasciare al dramma, alla sua preparazione e alle sue implicazioni intellettuali il peso che hanno nel libro. Non avrebbe mai funzionato sullo schermo, e questo è fuori discussione. Però, per renderlo cinematografico, gli sceneggiatori hanno dovuto amputare a Morality Play proprio quegli aspetti che ne fanno un libro straordinario. Hanno fatto, tutto considerato, un buon lavoro, ma hanno raccontato un’altra storia, con un significato diverso e gente diversa. Che cosa dobbiamo dedurne? Probabilmente che Morality Play non si prestava ad essere ridotto per lo schermo. E allora? Vale davvero la pena di trarre un film da un libro che non si presta?

Lo dico una terza volta, a scanso di equivoci: The Reckoning è un buon film, molto buono, ma con Morality Play ha in comune l’ambientazione, alcuni nomi, l’atmosfera cupa e la forma base della trama. Come si chiama, davvero, il rapporto tra film e libro in un caso come questo?

Mi piacerebbe sapere che cosa ne pensa Barry Unsworth.

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* Sì, mi piace Paul Bettany, perché?

** Credo che persino Josephine Tey l’avrebbe considerato accettabile.

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