Ritratto Dell’Artista

E non dico che tutto il mondo sia un teatro affollato di antistratfordiani, ma la sensazione che il povero Will Shakespeare non fosse del tutto qualificato per scrivere ciò che ha scritto dev’essere diffusa – e lo dico sulla base della quantità di Will letterari mostrati mentre non fanno altro che assorbire il loro materiale.

Lo Shakespeare letterario medio, quello che  si trova in un romanzo o a teatro, vive con il taccuino in mano – più o meno metaforicamente – annotando, raccogliendo o rubando ogni spunto che gli passa nel raggio di un miglio.

E non da oggi, se consideriamo Le Voyage de Shakespeare, di Alphonse Daudet, una faccenda a mezza strada tra la storia picaresca e il romanzo di formazione, in cui un giovane Will attraversa l’Europa e tutte quelle esperienze che mancano al figlio del guantaio di Stratford per diventare il Bardo.

In The Dark Lady Of The Sonnets, sconosciutissimo atto unico di G.B. Shaw, la faccenda è più teatrale e più spudorata: il nostro ragazzo incontra sul ponte di Londra la Signora Bruna, un Beefeater e varia altra gente, e per tutto il tempo non fa altro che appuntarsi ogni parola che dicono – irritando tutti da non dirsi.

P. F. Chisholm, che poi è Patricia Finney, nei suoi Carey Mysteries porta occasionalmente in scena un Will di questo genere – solo molto più tecnico e consapevole di quel che fa. A un certo punto Sir Robert Carey racconta del bizzarro piccolo attore della compagnia di suo padre*. Costui, dice Carey, ha l’abitudine di scovare gente di tutte le provenienze (nulla di troppo difficile a Londra) e pagarla un tanto all’ora per ascoltarla parlare o leggere ad alta voce. Per impadronirsi di ritmi, inflessioni e cadenze. He’s odd that way, commenta un perplesso Sir Robert – ma noi capiamo e sorridiamo.

Robert Brustein, in The English Channel, riprende l’idea l’idea di Shaw** con un Will che, in conversazione, continua ad interrompere se stesso e gli altri al grido di “this could be something” ogni volta che riconosce un giro di frase, una possibile trama o un’idea. Dopodiché uno dei suoi interlocutori è Marlowe, che non si diverte particolarmente ad avere la sua conversazione messa in versi – e meno ancora a constatare i piccoli furti di versi del suo ambizioso collega… E se vi chiedete il significato del titolo, ebbene, l’idea è che Shakespeare trasmetta, canalizzi voci e idee del suo tempo – in particolare del defunto Marlowe, il cui fantasma, in una bizzarra cornice di prologo & epilogo, c’informa di aspettarsi che Will continui il suo lavoro.

Ancor più radicale da questo punto di vista è Sarah Hoyt, che in Any Man So Daring ci mostra un prima perplesso e poi terrorizzato Shakespeare che scrive sotto dettatura di Marlowe. Un Marlowe che forse non è proprio morto, ma lo è sotto molti aspetti, e comunque questo è un fantasy piuttosto metaletterario in cui i personaggi fatati del Sogno e della Tempesta prendono vita, sono di grande aiuto e combinano innumerevoli danni, e quindi figuratevi che cosa non può fare un Marlowe tra il defunto e il fatato…

Inutile dire che, in tutto questo, Marlowe invece è sempre perfettamente capace di scrivere da sé, senza un gran bisogno di ascoltare, osservare o prendere a prestito altro che l’occasionale cronaca di Holinshed o atlante di Lonicerus.

Basta vedere certe scene di The Reckoning of Kit and Little Boots di Nat Cassidy, con un vulcanico Marlowe che scrive per tesi e uno Shakespeare a mala pena articolato, ma occupato a raccogliere l’essenza della natura umana. “Stories. People,” spiega in tutto e per tutto Will, accennando con le mani alla folla che lo circonda.

E certo è che, a giudicare dalle sue opere, non si direbbe che quell’egocentrico e ambizioso rimuginatore di Kit Marlowe si sia mai preoccupato soverchiamente di capire o osservare i suoi simili. Non doveva avere un grande interesse per l’aspetto people, quale che fosse la sua passione per le stories. Al punto che in quella bizzarria marloviana che è The Nine Lives of Kit Marlowe, Jay Margrave sente di dover giustificare in qualche modo la nuova umanità del Kit post-1953 – quello che, per intenderci, invece di morire a Deptford sopravvive e scrive l’intero canone scespiriano***. E così, tanto per cominciare, il giovanotto passa abbastanza tempo nascosto, travestito da donna e addestrato a comportarsi come una donna da sviluppare tutta una nuova comprensione per il genere femminile.

Ma eccentricità a parte, bisogna ammettere che stili, maniere e biografie autorizzano questo tipo di caratterizzazione. O forse sto assumendo opinioni bizzarre a mia volta, ma trovo del tutto convincente vedere un Marlowe che essuda e uno Shakespeare che assorbe come una spugna.

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* Carey era il figlio più giovane di Lord Hunsdon, Lord Ciambellano d’Inghilterra e mecenate dei Lord Chamberlain’s Men, la prima compagnia con cui Shakespeare lavorò.

** Direi che mi sono stupita di non trovare Shaw citato tra i precedenti letterari nella prefazione dell’autore – se non fosse che constato quasi quotidianamente la facilità con cui si scrive qualcosa di simile a qualcos’altro – senza averne la più pallida idea. *sospiro*

*** Mai usata in vita mia questa versione italianizzata dell’aggettivo, ma mi sono proposta di fare qualcosa di mai fatto prima almeno una volta al mese, Breakfast-at-Tiffany’s-wise. Ci sono mesi in cui baro un pochino. Scespiriano, scespiriano, scespiriano.

Ritratto Dell’Artistaultima modifica: 2012-03-16T08:10:00+01:00da laclarina
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6 Commenti

  • Divago? Divago…
    Già a partire dal secondo secolo a.C., era convinzione diffusa in Cina che Lao Tzu, dopo aver scritto il Tao Te Ching, si fosse ritirato in India, dove era diventato l’insegnante del Buddha o, secondo alcuni, ne aveva assunta l’identità.
    Impossibile infatti che un indiano potesse avere le intuizioni dimostrate dal Buddha – doveva essere un cinese, e pure un cinese illuminato.
    Una manciata di secoli dopo, sempre in Cina, si giurava e spergiurava che Zhang Daoling, dopo aver fondato la scuola del taoismo magico diventando il primo Maestro celeste, fosse emigrato in Giappone e ci avesse fondato il Buddhismo Zen.
    Come sarebbe stato possibile, infatti, per quei buzzurri dei giapponesi, sviluppare una scuola filosofica tanto sofisticata?

    Mi sorprende a questo punto che nessuno abbia ancora postulato che il quattordicesimo patriarca della setta della Porta del Dragone, disgustato dalla popolarità del neoconfucianesimo nella Cina del 16° secolo, sia fuggito in occidente, dove avrebbe potuto dettare agevolmente tutte le opere di Shakespeare al povero Bill Shakes, o assumerne l’identità; o meglio ancora assumere l’identità di Marlowe e poi, dopo aver simulato la propria morte a Deptford, assumere anche quella di Shakespeare.
    E per buona misura anche quelle di Raleigh, e occasionalmente della Regina Elisabetta (non quella di John Dee, perché lo sappiamo tutti che in realtà John Dee era il Rabbino Lowe).
    D’altra parte l’influenza del taoismo – tanto nella sua variante filosofica che in quella magico-operativa – è evidente sia nell’opera di Marlowe che in quella di Shakespeare.
    E in quella di Elvis Presley – che quindi probabilmente è Shakespeare, cioè Marlowe, cioé un vecchio cinese che si tiene in vita con beveroni alchemici a base di cinabro, ginseng e té verde.

    Solo un’ipotesi, naturalmente.

  • Un’arancia caramellata, una poltrona in prima fila e voi due prodigiosi che chiacchierate. MOLTO meglio del cinema.

    Grazie.

  • @Davide: Affascinante – bisogna che li provi i beveroni al cinabro – ma non scarterei offhand nemmeno l’ipotesi che il canone sia in realtà un’opera lasciataci in eredità da quella civiltà aliena che costruì le piramidi e abitò Atlantide prima di tornarsene a casa nelle distanze siderali. Ancora non mi è chiaro se possedessero prescienza esatta del Cinquecento Inglese o avessero attraversato a loro volta una fase simil-elisabettiana – e a dire il vero sto lottando con questa immagine mentale di un Anubi in gorgiera…
    Dopodiché capita, partendo in fretta e furia, di lasciarsi dietro qualche carta importante. Poi la risma di manoscritti finisce in mano ai Templari, che la portano in Inghilterra e la nascondono al Temple, fino a quando quel certo attore da strapazzo la ritrova per caso e…
    L’ipotesi, come vedi, è acerba – ma sono certa che è piena di possibilità, e che cose come la fantasiosa geografia shakespeariana si spiegano con l’esistenza di un pianeta-sosia.

    @Alessandro: Grazie a te – lusingati, I’m sure. Però, invece di restare in prima fila, potresti unirti alle danze. Gente pigerrima, ‘sti scrittori. 🙂

  • Off-topic – il cinabro è un solfuro di mercurio.
    Il mercurio è altamente tossico.
    Causa degenerazione del sistema nervoso, follia, e morte.
    Se osservi da vicino la storia cinese, noterai che con una cadenza di tre/quattro generazioni, vere e proprie epidemie di follia spazzano le classi superiori…la classica figura del “mandarino pazzo” che si trova in tanta pulp fiction viene da qui.
    Beh, queste periodiche follie della nobiltà cinese coincidono perfettamente coi periodi in cui l’alchimia taoista e i bibitoni al cinabro tornavano di moda.

    Quindi, grazie ma no – mi limito al ginseng ed al té, non necessariamente verde (questa sera, Prince of Whales).

    Per il resto, su Atlantide e gli elisabettiani, ho già dato.

    @Forlani
    La pianti di perder tempo e torni a scrivere!

  • How serendipitous! Il cinabro, voglio dire. Ho adottato la parola qualche mese fa (La Dante, you know…) e adesso te ne salti fuori così. Sapevo che era rosso e non salutarissimo – ignoravo the chineese connection. È qualcosa su cui dovrò postare, prima o poi, perché ho connesso di farlo.

    E a dire la verità, a me la produzione di Forlani fa già un po’ paura così com’è… come fa a scrivere così tanto? Forse ogni tanto possiamo lasciare che si sieda in prima fila con un piattino di arance… 🙂

  • 🙂 … ma che non diventi un’abitudine (capito, Forlani?)

    Interessante la sincronicità del cinabro.
    Attendo sviluppi.