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Set 2, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: Rigoletto

Librettitudini Verdiane: Rigoletto

giuseppe verdi, rigoletto, victor hugo, le roi s'amuseE così siamo arrivati alla cosiddetta trilogia popolare – e lasciate che vi dica che la cosiddetta trilogia popolare non mi piace. Chiarito questo, parliamo di Rigoletto, che in origine era Triboulet ne Le Roi s’amuse, di Victor Hugo.

Che a Verdi Hugo piacesse, s’era già visto – e in realtà questo dramma gli piaceva ancor più dell’Ernani. Nella figura del padre-buffone di corte, deforme e cinico, ma pronto a farsi di pastafrolla quando si tratta della figliola, vedeva un personaggio quasi shakespeariano per complessità e grandezza. E il perno della storia lo trovava nella maledizione – quella maledizione che il padre della disonorata Diane de Poitier scaglia sul buffone irriverente, e che colpirà con micidiale precisione all’ultimo atto.

Per cui, non del tutto incomprensibilmente, Verdi e Piave (povero Piave!) quest’opera la volevano intitolare “La Maledizione”. In fondo è tutto lì, giusto?

Ma la censura non approvava, e compositore, librettista e presidenza della Fenice si ritrovarono a dover danzare in circoli attorno alle dissennate pretese del pubblico pudore: niente maledizioni, per primissima cosa. E niente Francia, merci beaucoup. E niente re che si divertono, chè i sovrani non possono essere spregevoli seduttori di vergini quindicenni. E, heaven knows why, niente sacco all’ultimo atto…

La selva che negli uffici di polizia era entrata appasionatamente hughiana, ne uscì insipida e mutilata al punto che Verdi minacciò di rescindere il contratto, perché lui quel semolino illogico non voleva né poteva musicarlo.

Così alla fine si cedette sul titolo, per far posto al nome italianizzato del protagonista, e si cedette sul Re di Francia, che si mutò in un generico Duca di Mantova (trasparente allusione al solito Vincenzo), e si smussarono gli angoli del libertinaggio, si capitozzarono il destino dell’equivalente locale di Diane de Poitier e il cinismo del seduttore scoperto… Però si tenne il sacco.

E se Mantova funzionasse agli occhi dei censori asburgici come una sorta d’inoffensiva Curlandia dell’Impero, se il sacco fosse una pretesa funzionale, qualcosa su cui poter dare l’impressione di cedere in cambio di altro, son cose che, temo, non sapremo mai – ma tant’è. 

Curiosi di vedere ciò che, alla fin fine, Piave riuscì a salvare* e Verdi potè musicare? Andiamo a incominciar.

Atto Primo

giuseppe verdi, rigoletto, victor hugo, le roi s'amuseE cominciamo con una festa a Palazzo Ducale, e il Duca che confida allegramente a un cortigiano di avere a) un intrallazzo sotto mentite spoglie con una misteriosa fanciulla di basso rango, gelosamente custodita da un amante altrettanto misterioso; b) un interesse più che teorico per la bella moglie del conte Ceprano.

Contemporaneamente? Embe’? Lo sappiamo che questa o quella per lui pari sono a quant’altre d’intorno si vede… E a questo punto è già chiaro che il Duca non è uomo da farsi scrupoli di sorta. E il suo buffone, il gobbo Rigoletto, ha l’abitudine di divertirsi e divertire il Duca e tutta la corte alle spalle dei mariti malserviti come il povero Ceprano… giuseppe verdi, rigoletto, victor hugo, le roi s'amuse

In fondo, è soltanto questione di tempo prima che, nonostante la noncurante protezione del Duca, qualcuno decida di fargliela pagare – tanto più che i cortigiani, tutti chi prima o chi poi abrasi dall’umor cinico del buffone, gli hanno appena scoperto… un’amante segreta! 

Ma intanto entra il conte di Monterone, a chiedere giustizia per l’onore violato della figlia… e quando il Duca lo respinge e Rigoletto si fa beffe di lui, il vecchio gentiluomo maledice il Duca e, già che c’è, anche il buffone – serpente che d’un padre ride al dolore.

E Rigoletto è scosso.

Tanto scosso che più tardi, mentre rincasa per i vicoli bui di Mantova, è ancora lì a ripetersi che quel vecchio maledivalo… Se lo sta ancora ripetendo quando gli si avvicina Sparafucile, bravo Borgognone, assassino freelance, pronto a liberare da nemici e rivali scomodi con discrezione, efficienza e prezzi modici.

Rigoletto lo rimanda per la sua strada, ma non senza essersi fatto un appunto – perché non si sa mai. E comunque, non si sente poi tanto diverso dal sicario: l’uno col pugnale, l’altro con la lingua, non feriscono tutti e due? Ma se lui è cinico e crudele, in fondo, è colpa del fato che lo ha voluto deforme, buono soltanto a fare il buffone, considerato men che umano, il giocattolo del Duca, odiato e disprezzato da tutti… c’è da stupirsi che si rivalga mordendo dove può? Certo che forse adesso ha morso un nonnulla troppo, perché questa maledizione… ah, questa maledizione!

giuseppe verdi, rigoletto, victor hugo, le roi s'amuseMa distraiamoci un momento dalla maledizione, perché è giunta l’ora di scoprire il segreto del nostro antieroe. Ebbene, i cortigiani si sbagliavano di grosso: il buffone non ha un’amante, ma un’adoratissima figlia, che vive da reclusa, ignora nome, provenienza e professione del suo malinconico padre, non ha idea di chi fosse la sua defunta madre, non esce mai di casa se non per andare al tempio, ha una governante con le istruzioni più severe – e per di più, povera ragazza, si chiama Gilda**.

Ma si direbbe che a qualcuno sia sfuggito qualcosina, perché a un tratto si sentono passi nel vicolo, e Rigoletto si allarma, e il Duca in incognito entra nel giardinetto e… che vediamo! La governante, supposta dragonessa, accetta una borsa dal misterioso giovanotto. Così il misterioso giovanotto è libero di nascondersi tra gli alberelli e assistere al congedo di Rigoletto dalla figlia (Sua figlia!), e alle remore di Gilda, che ha taciuto al padre l’esistenza del misterioso corteggiatore…

Ma guardate un po’? Il misterioso corteggiatore… è qui! Noi riconosciamo subito il Duca, ma Gilda non sa nemmeno come si chiami e, seppure un nonnulla bouleversée, è preda facile per la melata parlantina di Vincenzo… Ma proprio quando la candida Gilda sta per cedere al falso studente, ecco che si sentono dei rumori, delle voci, delle governanti che tornano… 

Tenero e frettoloso congedo, poi il Duca s’invola, Gilda si sdilinquisce un po’, ed ecco, nella viuzza, i cortigiani guidati da Ceprano. Ricordate che meditavano di rendere a Rigoletto pan per focaccia? Ebbene, eccoli qui per rapirgli quella che credono la sua bella amante. E quando inciampano proprio in Rigoletto che, inquieto, è tornato verso casa, gli fanno credere di voler rapire la contessa di Ceprano. Sollevato, Rigoletto si presta al gioco – e manco s’accorge che, col pretesto di mascherarlo, i cortigliani lo bendano, gli fanno credere di girar mezza Mantova e poi si fanno reggere la scala mentre scavalcano il muro e rapiscono Gilda. giuseppe verdi, rigoletto, victor hugo, le roi s'amuse

Ed è chiaro che, pur essendo un baritono, Rigoletto non è proprio un’aquila di mare.

Quando si accorge di essere bendato e beffato, i buoi sono abbondantemente scappati – portandosi la povera Gilda. A Rigoletto non rimane che costatare la sua stupidità e l’avvenuto rapimento e, come usa in finale d’atto, svenire.

Atto Secondo

Torniamo a Palazzo Ducale, volete? E scopriamo il Duca in agitazione terribile – perché, chi l’avrebbe mai detto? – il rapimento di Gilda lo ha sconvolto. Comincia a pensare di amarla davvero, questa ragazzina che gli fa quasi desiderare la virtù… solo che non sa dov’è. Ed è occupato a torcersi musicalmente le mani quando i cortigiani arrivano ridanciani e, contravvenendo a tutte le regole della buona narrazione, ripetono tutto quel che abbiamo visto accadere nell’atto precedente. E il Duca fa due più due e, per lo stupore generale, si precipita a consolare la rapita.

“Povero Rigoletto,” commentano i rapitori, cui pare che la faccenda vada assumendo contorni un nonnulla preterintenzionali.

Ma parli del diavolo, e spunta la coda: ecco Rigoletto in persona, che finge (malissimo) di nulla, e cerca Gilda, e interroga senza parere, e s’informa sul Duca… ci vuole un paggio importuno per far esplodere la situazione. E quando Rigoletto reclama non l’amante, ma la figlia, i cortigiani restano, come suol dirsi, di carta.

Adesso sì che siamo andati sul preterintenzionale.

Rigoletto maledice i cortigiani – vil razza dannata – e cerca di forzare la porta del Duca, ma gli altri lo fermano, e allora Rigoletto cambia musica e supplica e implora ma, prima che qualcuno possa decidersi a cedere, irrompe Gilda, piangente e vergognosa, perché… be’, lo immaginate.*** Si direbbe che, quando credeva di soffrire di un attacco di virtù, il Duca esagerasse i suoi sintomi…

giuseppe verdi, rigoletto, victor hugo, le roi s'amuseRigoletto caccia via i cortigiani e conforta la figlia – e si vede che questo è un atto così, perché anche Gilda si dà all’esposizione, ri-raccontando la faccenda del corteggiamento in chiesa e in giardino, che noi abbiamo in parte già sentito raccontare, e in parte visto succedere.

Orrore orror.

Rigoletto vuole soltanto vendetta, tremenda vendetta e, al passaggio di Monterone, scortato dalle guardie alle segrete, giura di portare a compimento la maledizione che il vecchio signore ha scagliato sul Duca. E sapete qual è il guaio? Che Gilda, tortorella, è ancora innamorata del vil seduttore, e supplica il padre di perdonare… Ma voi ce lo vedete, all’opera, un padre che perdona il seduttore della figliola? Sipario, va’…

Atto Terzo

A casa di Sparafucile. Ora, tanto vale dirlo adesso: a Mantova abbiamo una “Casa giuseppe verdi, rigoletto, victor hugo, le roi s'amusedi Sparafucile” in cima al ponte di San Giorgio. In realtà una volta era la dogana, e adesso è un ostello. Abbiamo anche una “Casa di Rigoletto” che, altrettanto ovviamente, non è nulla del genere, ma i nomi sono entrati nell’immaginario cittadino e nella toponomastica, perché sì – e se il merito è più della censura asburgica che della ditta Verdi&Piave, pazienza.

Ad ogni modo, dicevamo: casa di Sparafucile, proprio mentre scoppia un opportunissimo temporale – con tanto di macchina del tuono da libretto. Rigoletto ci ha trascinato Gilda per guarirla dalla sua infatuazione per il Duca. La poverina lo crede ancora innamorato di lei, ma quando lo vede arrivare in incognito, chiedere una stanza e del vino, cantare che la donna è mobile, e corteggiare con buona lena la bella e spudorata sorella di Sparafucile…

giuseppe verdi, rigoletto, victor hugo, le roi s'amuse“Quando vede tutto ciò, si ravvede,” direte voi. “O meglio, dovrebbe ravvedersi, ma essendosi questa un’opera…”

E invece, o malfidenti, pare proprio che si ravveda. Ed è indubbiamente strano, ma nel corso di un bel quartetto (che è la mia fetta preferita di quest’opera), la nostra ragazzina vede il Duca dichiararsi schiavo dei vezzi della bella figlia dell’amore – che per parte sua non si lascia incantare troppo – e, per oca ingenua che sia, non può non rendersi conto che il suo innamorato non è precisamente degno di fiducia.

Credendola guarita, Rigoletto la spedisce a casa a vestirsi da uomo e partire per Verona, dove la raggiungerà. Non che Gilda sia contenta, ma noi la guardiamo obbedire, mansueta come pochi soprani innamorati…

Oh well. Mentre il Duca si sistema per la notte, Sparafucile esce incontro a Rigoletto, che gli versa la caparra – metà dei venti scudi di tariffa – e promette di tornare più tardi per gettare nel lago il cadavere del Duca, una volta che cadavere sia. 

Ma che farà mai questo Vincenzo alle donne? Anche alla pur smaliziata Maddalena pare un peccato far fuori questo bel giovanotto così gaio. Ed è pur vero che gli affari sono affari…

Ed è proprio qui che arriva Gilda, vestita da uomo, sragionante e trascinata dall’amore – giusto in tempo per sentire fratello e sorella che discutono se ci sia modo di salvare il bel ragazzo senza rimetterci dieci scudi. Maddalena sarebbe per uccidere il gobbo, tenersi gli scudi che avrà addosso e gettare lui nel lago, ma Sparafucile insorge: lo crede forse sua sorella un ladro e un bandito? Rigoletto ha pagato e ha diritto alla lealtà del sicario. Quel che si può fare, perché anche i sicari hanno un cuore tenero quando le sorelline lacrimano – ed evidentemente la lealtà è trattabile – è che, se per caso qualcuno dovesse arrivare, lo si può uccidere al posto del giovanotto.

Ma chi arriverà mai, protesta lacrimando Maddalena, in una notte così buia e temporalesca?

E questo decide Gilda: traditore o no, ama il Duca e morirà per lui.

Il Duca è un mascalzone che le ha mentito, l’ha violentata e si è rapidamente consolato altrove? Fa nulla. Il povero Rigoletto è destinato a morirne di crepacuore? Pazienza. Da buon soprano, la scervellata bussa alla porta, Sparafucile si arma, Maddalena fa entrare l’ospite inatteso… tuoni, lampi, buio in scena.

Passa una mezz’oretta, il temporale scema, e Rigoletto se ne arriva gongolando sulla sua vendetta compiuta. Altro che buffone – gliel’ha fatta vedere lui, al Duca…

Allo scoccare della mezzanotte, Sparafucile e Rigoletto si scambiano rapidamente saldo in scudi contro sacco pieno, e il Nostro si avvia per gettare il supposto cadavere nel Mincio. Non si accorge che è leggerino per essere un uomo? Si direbbe di no e, se è tentato di dare un’occhiata, ci rinuncia nell’urgenza di far sparire il corpo. E butterebbe il sacco a fiume, gongolando ancora sulle bizzarrie del destino, e le attuali rispettive posizioni del potente e del buffone, e la dolcezza della vendetta, se all’improvviso, in lontananza, non sentisse la voce del Duca: la donna è mobile, you know, qual piuma al vento…

Uh oh… ma allora chi diavolo c’è nel sacco? Noi lo sappiamo già: Gilda – non del tutto morta. Segue una di quelle scene in cui lo straziato genitore supplica la figlia di non morire, e lei chiede perdono e promette di pregare dal cielo e poi, esaurito il fiato restante, Gilda trapassa.

Torna il tema – quasi un leit motiv – della maledizione…

“Ah, la maledizione!” ulula Rigoletto, strappandosi i capelli.

Sipario.

E sì, fu un successone. Dopo gli spigoli di Stiffelio, Verdi era tornato almeno in giuseppe verdi, rigoletto, victor hugo, le roi s'amuseparte sui suoi passi: Rigoletto è un borghese intento a difendere la figlia, ma il vilain è un sovran(ell)o, la scena distribuita tra feste ducali e taverne diroccate, la trama piena di agnizioni, amori segreti, scambi di persona… il pubblico ne andò matto – per la storia e per la musica.

In seguito le censure qua e là fecero del loro meglio per rendere innocuo il dramma, e a Roma ribattezzarono persino il protagonista in Viscardello – nell’intento, posso solo indovinare, di rimuovere ogni associazione con il ben più scandaloso Triboulet dell’originale francese…

Ma, nonostante tutto, Rigoletto rimase e rimane ancora, una delle più popolari, più citate e più eseguite opere verdiane.

 

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* Sarà forse per questo, che Piave – povero Piave – apostrofa il Benevolo Lettore in questi termini commossi:

Per circostanze speciali sento il bisogno di raccomandare alla tua indulgenza, piucch’altro mai, questo mio lavoro, e spero di non ingannarmi, confidando che non sarai per negarmela. Vivi felice.

** Che cosa non andasse nel Bianca tradotto dall’originale, non arrivo a divinarlo…

*** O meglio: in Victor Hugo la faccenda era inequivocabile (e infatti aveva avuto anche lui i suoi guai con la censura), poi il libretto di Piave resta tanto sul vago quanto si può e, leggendolo in letterale ingenuità, si potrebbe quasi credere che il tradimento del Duca stia solo nell’essersi presentato sotto mentite spoglie. Noi siamo un’epoca smaliziata, tuttavia – e infatti non ricordo una regia che al second’atto non presenti Gilda in camicia, discinta e scarmigliata.
Ago 26, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: Stiffelio (Parte II)

Librettitudini Verdiane: Stiffelio (Parte II)

giuseppe verdi, francesco maria piave, stiffelio, aroldo Era il terzo campanello, questo? Sarà meglio che ci affrettiamo a tornare alle nostre poltroncine di velluto rosso. Scusi, signora, dovrei… Grazie. No, scusi lei. È suo questo programma? Prego…

Buio in sala…

Sipario…

Atto Secondo.

Dove eravamo rimasti?

Ah, sì: che ci sia adulterio nell’aria tutti l’han capito. Chi sia lei, pure. Chi sia lui, però, è un’altra faccenda…

Lei, intanto, ovvero Lina Mueller née Stankar, s’aggira barcollando tra i sepolcri di un cimiteruolo gotico presso la chiesa il tempio, e supplica la madre defunta di perorare la sua causa al trono dell’Altissimo.

Come d’accordo scritto (anche se, a ben pensarci, Lina la lettera non l’ha letta), entra Raffaele, e i due scambiano questa affascinante conversazione:

RAFFAELE:(frettoloso)
Lina . . . Lina!

LINA:
Parlate sommesso
Per pietade . . . mio padre qui presso.
Indovina Rodolfo . . . sa tutto . . .

RAFFAELE:
Federico sol reo ei sospetta;
Vostro padre la prova ha distrutto . . .

LINA:
E il rimorso ch’eterno ne aspetta?

RAFFAELE:
Non lo teme chi serve all’amore.

LINA:
Fui sorpresa; non v’ama il mio core . . .

RAFFAELE:
Cruda, sempre pur v’amo . . .

LINA:
Il provate:
I miei scritti, l’anel mi ridate . . .
Di qua tosto partite . . . involatevi . . .

RAFFAELE:
No, a difendervi qui resterò.

giuseppe verdi, francesco maria piave, stiffelio, aroldo E di difenderla forse non c’è poi tutto questo bisogno, perché a entrare è Stankar, che una volta di più frustra le intenzioni di confessione della figlia, e poi la caccia via. Ha due spade, Stankar, e l’intenzione di sfidare a duello il ben più giovane Raffaele – il quale è preso da scrupoli di coscienza* e non ha poi tutta questa voglia di battersi con un anziano signore pieno di gotta e di artrite che, per di più, non ha tutti i torti.

Ma Stankar è deciso ad avere il suo duello, e insulta Raffaele sempre più sanguinosamente.* Ci vuole il disvelamento dell’oscura origine e dei millantati quarti di nobiltà a travolgere ogni scrupolo. 

Mentre i due si battono accanitamente, chi ti esce dalla chiesa dal tempio, se non Stiffelio che, in tutto candore, prima ferma i duellanti in nome di Dio, e poi tenta anche di rappacificarli…

E quando, visto che Stankar non vuole saperne, Stiffelio stringe la mano a Raffaele, il vecchio signore esplode:

Oh eccesso inaudito!
La man stringi dell’uom ch’hai tradito!

Ops…

Sensazione generale.

Stankar si morde la lingua, Stiffelio capisce tutto** – e Lina, che ritorna proprio a fagiolo, non è in grado di discolparsi…

E ricordate Stiffelio il Perdonatore, sulla cui magnanimità si sdilinquiva il coro nell’atto primo? Be’, dimenticatelo: il nostro bravo pastore assasveriano afferra la spada e si avventa su Raffaele che, di nuovo, preferirebbe non battersi nelle circostanze. Ma Stiffelio ha proprio perso la testa, e lo ucciderebbe disarmato, se non fosse per il coro che in chiesa nel tempio canta il Miserere.

Stiffelio si ferma, barcolla, si torce le mani, non dà troppa retta al vecchio Jorg che vorrebbe richiamarlo alla ragione, maledice Lina, finalmente ascolta le pie esortazioni del collega e, per segnare come si deve il finale d’atto, sviene. E sipario.

Atto Terzo.

giuseppe verdi, francesco maria piave, stiffelio, aroldo Siamo tornati al castello, dove Stankar contempla disonore, rovina, delusione e suicidio***. Ha già la pistola puntata alla tempia quando arriva Jorg ad annunciare l’imminente arrivo di Raffaele – e la sete di vendetta oblitera l’impulso autodistruttivo.

Al suo arrivo, però, Raffaele trova soltanto Stiffelio, che gli offre di sposare Lina, da cui intende divorziare. E non è che Raffaele accolga la notizia con irrefrenabile entusiasmo… sta a vedere che le sue intenzioni non erano poi troppo onorevoli? Stiffelio lo spedisce ad aspettare e ascoltare dietro le quinte, mentre sottopone lo stesso piano a Lina.

E lei, pur inorridita di fronte alla prospettiva di un divorzio, è più inorridita ancora all’idea di perdere l’amore del marito. Non che lui si lasci commuovere – e allora lei firma l’atto e, smaritata a tutti gli effetti pratici, chiede di confessarsi con quello che non è più il suo sposo.

E quel che ha da confessare è che il suo tradimento è ancora più grave perché ha ceduto a un non meglio specificato tradimento di Raffaele, pur senza avere mai smesso per un istante di amare suo marito…

Ah be’, ma allora Stiffelio ha ogni genere di legittime ragioni per far fuori il seduttore che, guarda caso, è proprio in attesa tra le quinte…

O forse dopo tutto no, perché…

“Non v’è più,” annuncia Stankar, facendosi avanti con una spada insanguinata in pugno.

Dal che siamo autorizzati a dedurre che quel pessimo soggetto di Raffaele di Leuthold (o forse no) ha incontrato il suo destino. E forse non è quello che noi faremmo in circostanze simili, ma questi sono Assasveriani, e quindi se ne vanno tutti in chiesa al tempio.

L’ultima scena si svolge per l’appunto in una chiesa un tempio d’architettura gotica e arredamento assasveriano, dove l’assemblea – che comprende il coro, Stankar, Lina velata, l’ormai scagionato Cugino Federico e la poco meglio che inutile Cugina Dorotea – supplica l’Altissimo di andarci piano con le punizioni.

E poi arriva Stiffelio, che sale in cattedra per predicare. E dovrebbe/vorrebbe predicare fulmini, se Lina non si svelasse, facendosi riconoscere. E allora il nostro pastore apre il Vangelo, comincia a leggere il passo dell’adultera…

E detto fra noi: tutti sappiamo come va a finire, giusto? È una storia di perdono – e allora perché mai Lina si sente mancare il cuore e Jorg gongola?

Che gli Assasveriani abbiano, per i casi di necessità, versioni più feroci dei passi del Vangelo? Fatto sta: quando Stiffelio legge che Gesù perdona l’adultera, Jorg disapprova da profondo, il coro esulta, e Lina gioisce scompostamente.

Perdono è fatto. Sipario.

Tiepidi applausi. Perché, vedete, Stiffelio non ebbe mai un gran successo. Il pubblico non ci si affezionò mai, perché – povero Verdi! – era troppo borghese. .

È vero che, se non abbiamo caverne – orride od otherwise – né teste coronate o guerre in corso, abbiamo pur sempre un castello tedesco, un cimitero, un duello e uno svenimento e una chiesa un tempio gotico – benché di persuasione assasveriana – ma per il pubblico ottocentesco non era abbastanza. Il pubblico ottocentesco, se voleva vicenduole famigliari tra amici, cugini e ospiti per il fine settimana, andava al teatro di prosa. All’opera ci andava per faccende più pittoresche e melodrammatiche – o quanto meno ci era sempre andato.

E se è vero che il gusto stava per cambiare, restava sempre la censura. Abbiamo già detto quanto fosse imprudente quest’abbondanza di temi e personaggi religiosi connessi con l’adulterio, per non parlare della lettura di un passo evangelico in scena… Sul libretto di Stiffelio le censure d’ogni dove si gettarono come formiche a un picnic. Tanto che Verdi e Piave (povero Piave!) si decisero alla fine a spostare la storia in altri tempi e luoghi. Si provò ancora con la Germania (trasformando il pastore Stiffelio nel primo ministro Wellingrode – cosa che mi dà da pensare soprattutto per il III Atto…), poi ad Arlem/Harleem, e infine nell’Inghilterra medievale e crociata. giuseppe verdi, francesco maria piave, stiffelio, aroldo

Stiffelio divenne il cavaliere sassone Aroldo, Stankar il vecchio cavaliere Egberto, Lina fu ribattezzata Mina, Jorg si mutò nel pio solitario Briano e Raffaele diventò il cavaliere di ventura (e di padre ignoto) Godvino. Tolti di mezzo gli Assasveriani**** e tutti i pericolosi ammenicoli religiosi, al castello e al cimitero si aggiunsero le Crociate, la cavalleria e, in un quarto atto nuovo, la Scozia selvaggia attorno a Loch Lo(o)mond e un naufragio. Il nuovo libretto era molto più convenzionale, ed ebbe qualche successo in più, ma anche qualche fiasco sonorissimo. 

Temo che, pur essendo un lavoro-cerniera tra ere della storia del melodramma e tra periodi artistici della carriera di Verdi, Stiffelio resti un’opera un po’ così. Interessante per le intenzioni – e però discontinua, malcerta e, alla fin fine, bruttina.

Se anche nella nostra epoca senza censura viene rappresentata così poco, un motivo ci sarà

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* Vi ricorda nulla? Padre deciso a vendicare l’onore della figlia; seduttore con crisi di coscienza; insulti cumulativi e progressivi… Caramelle virtuali a chi ricorda dove abbiamo già visto la situazione pari pari – anche se con esiti diversi.

** Yes, well, non che restasse molto da capire, vero?

*** Dopo avervi detto lunedì scorso di non avere mai sentito nemmeno una nota di quest’opera, ho recuperato un cd di arie verdiane per baritono che comprende i rimuginamenti suicidi di Stankar. Nonostante il bravo interprete, se dicessi di esserne rimasta enormemente impressionata, mentirei.

**** E a questo punto posso anche confessarlo: ho cercato di scoprire in che diamine consista l’Assasverianismo o Assaverianesimo (is it a word at all?), ma non sono approdata a nessuna conclusione più precisa di “variante di protestantesimo” Qualcuno ha idee in proposito?


Ago 19, 2013 - Anno Verdiano    3 Comments

librettitudini Verdiane: Stiffelio

Chiedo perdono, o Lettori: per una serie di simpatici inconvenienti tecnici, oggi le Librettitudini arrivano in ritardo, in versione ridotta e senza granché in fatto di illustrazioni. Abbiate pazienza. Ci faremo perdonare.

Intanto, Stiffelio.

 

giuseppe verdi, anno verdiano, francesco maria piave, stiffelioCredo che Stiffelio sia l’unica opera di Verdi di cui non ho mai sentito nemmeno una nota.

E a dire la verità, non è nemmeno tutta colpa mia, perché non è che la si rappresenti proprio tutte le settimane. A quanto pare, anzi, non la si rappresentò affatto tra il 1857 e il 1968 – con una manciatina di possibili eccezioni spagnole, cosa di cui però nessuno è troppo sicuro.

Comunque, centoundici anni senza una singola rappresentazione vorranno pur dire qualcosa…

Nel caso di Stiffelio, paiono volerne dire più di una. Per cominciare, che Verdi e Piave (povero Piave!) avevano scelto un soggetto perfettamente adatto a far storcere il naso a pubblico e censura. Perché il fatto si è che, e già lo si era visto con la Luisa Miller, Verdi cominciava a non poterne più di castelli, guerre, teste coronate e tutti gli orpelli classici del melodramma. A lui, all’epoca, sarebbe piaciuto occuparsi di piccole storie individuali e “borghesi” e raccontarle con un occhio alla verosimiglianza.

Tanta verosimiglianza quanta se ne può praticare all’opera, s’intende – ma ci siamo capiti. E così scelse con Piave un dramma teatrale francese in cui si parlava di (gasp!) adulterio. E non solo, ma di (gasp!) adulterio ai danni di un (gasp!) pastore protestante.

E voi capite che questo significava andarsi a cercare dei guai, vero?

Piave (povero Piave!) da quel buon gatto che era tentò di sfrondare gli aspetti più scandalosi semplificando il dramma, ma riuscì soltanto a mettere (gasp!) l’adulterio in bella vista tra i rami nudi…

E vediamo un po’.

Atto Primo

Cominciamo col chiarire che non siamo più in Francia come nel dramma, ma in castello in Germania.

“Oh…” odesi dal loggione. “Ma non si era detto niente castelli?”

E che vi devo dire? Anche le rivoluzioni si fanno per gradi.

E comunque di essere in territorio inesplorato lo capiamo subito: saremo pur in un castello ma, anziché con un coro, per una volta, cominciamo con un vecchio pastore assasveriano che legge e mugugna e spera che il matrimonio con la figlia del nobile padrone di casa non abbia smussato lo zelo del suo giovane amico e collega Stiffelio…

Ed eccolo qui, Stiffelio, che torna… da dove? Non lo sappiamo – né lo sapremo mai, però una cosa è certa: dovunque fosse, si è fatto onore. E mentre suocero, cugini e amici lo festeggiano, e la moglie Lina lo festeggia un po’ meno, per primissima cosa il Nostro eroe racconta che un barcaiolo lo ha accolto sottoponendogli un rovello: nottetempo ha visto (il barcaiolo, non Stiffelio) un giovanotto e una donna a una finestra. La donna era agitata, e il giovanotto si è gettato dalla finestra nel fiume… e ha perso delle carte.

Si vede che non si sono bagnate troppo, perché il barcaiolo le ha raccolte e le ha affidate a Stiffelio.

Ora, dite la verità: non vi chiedereste per prima cosa dove di preciso il barcaiolo ha visto questa scena? Ma Stiffelio e compagnia no – né notano particolarmente l’aria colpevol di Lina e del nobile Raffaele di Leuthold. Ed è ovvio che se lo notassero, l’opera sarebbe già finita – però chi ha dei sospetti è il vecchio colonnello-conte Stankar, padre di Lina e, come la maggior parte dei padri d’opera, gelosissimo dell’onor famigliare.

Gli altri vogliono solo sapere che mai intenda fare Stiffelio delle carte misteriose. Stiffelio, anima candida, le carte decide di bruciarle, perché non ha l’abitudine di leggere missive altrui e comunque i falli vanno perdonati.

Sollievo di Lina (decisa a non peccare più) e Raffaele (disposto a peccare almeno un’ultima volta), masticazione amara di Stankar, ammirazione degli altri per la magnanimità di Stiffelio.

Ma ecco il coro. Cominciavamo a preoccuparci, vero? E invece il coro è qui e viene a festeggiare il ritorno di Stiffelio e a dirgli…

Sei di Lamagna vanto,
Del vizio fugatore.
Giustizia, amor fraterno
Diffondi sulla terra,
Pel santo Vero eterno
Combatti l’aspra guerra.

Non dev’essere il più gaio dei mariti da avere attorno, vero? Però, quanto Stankar conduce tutti quanti a festeggiare fuori scena (dove presumibilmente è pronto il buffet) e i due coniugi restano soli, scopriamo che, se è un po’ dull, però Stiffelio è innamoratissimo.

Scopriamo anche che in realtà Stiffelio si chiama Rodolfo Mueller. Forse che gli Assasveriani usano nomi d’arte? Anche questo non lo sapremo mai – ma non è molto importante. O almeno non crediamo. Quel che è importante è che, quando il discorso cade per caso sull’adulterio e Lina si turba, Stiffelio dapprima la crede troppo candida e pura per l’argomento – salvo poi, accorgendosi che lei non ha l’anello nuziale, infuriarsi all’istante e sulla fiducia.

Sì, be’, forse sulla fiducia e sulla base dell’aria terribilmente colpevole con cui Lina scoppia a piangere…

Ma che ne è stato, ci domandiamo noi un nonnulla sbigottiti, dell’uomo che bruciava le carte e predicava il perdono? E si direbbe che, Assasveriano o no, Stiffelio non razzoli tanto bene quanto predica. Abbiamo la netta impressione che soltanto l’arrivo di Stankar impedisca al nostro tenore di allungare un manrovescio persuasivo al soprano…

Gli amici aspettano di là, e Stiffelio si ricompone e li raggiunge insieme a Stankar, promettendo però di ritornare. 

Lina resta da sola e si torce un po’ le mani in tutta contrizione, e comincia a scrivere una confessione per lettera… ma ecco che ritorna Stankar, cui non pare davvero bello che Lina spiattelli tutto. In una serie di versi non terribilmente chiari, il vecchio conte informa la figlia che proprio non sta bene, senza contare che di certo il dolore ucciderebbe Stiffelio…

Anche a voi era parso più furibondo che addolorato da morirne? Anche a me, ma Lina cede – e tanto più che il padre la maledice un pochino. Sì, insomma: verosimiglianza, storie individuali e tutto, ma una maledizione, così come un castello, non ce la si poteva far mancare, giusto?

Ad ogni modo, padre e figlia escono lasciando il campo a Raffaele di Leuthold, il nostro adultero, che nasconde in un libro provvisto di chiave la lettera in cui chiede a Lina un colloquio segreto. E lui magari crede di essere solo e inosservato, ma chi lo spia di tra le quinte? Jorg, il vecchio e lugubre pastore dell’inizio, ricordate? E perché, nel vedere poi il cugino di Lina che prende il libro e se lo porta via, Jorg debba giungere alla conclusione che l’amante clandestino debba essere proprio lui, è un altro degl’impenetrabili misteri di questo libretto – ma tant’è.

E infatti, al riapparire del coro (che ancora non la pianta di festeggiare il ritorno di Stiffelio) e dei solisti, Jorg si affretta ad informare il suo giovane amico di quello che crede di aver visto… Col non incomprensibile risultato che Stiffelio farnetica di tradimento e di Giuda, strappa il libro al povero e innocente cugino Federico, ingiunge a Lina di aprire, strappa il fermaglio quando lei rifiuta, e… 

Oh! una lettera!

Stankar non è terribilmente stupito, ed è rapido ad impossessarsi della lettera e farla a pezzettini – per poi rovinare sfidare a duello Raffaele in gran segreto.

“Lasciando che Stiffelio creda colpevole il povero cugino Federico?” odesi dimandare dal loggione…

Essì – dal che capiamo che a) il povero cugino Federico è in tutta probabilità spendibile; b) potevamo credere che la pace d’animo del genero fosse la prima preoccupazione di Stankar – ma ci sbagliavamo. E… sipario.

E per oggi, perdonate, ci fermiamo qui.

Che ne sarà di tutti questi Assasveriani? Capirà Stiffelio come stanno le cose? Tacerà Lina? Agirà Stankar? Che farà Raffaele?

Non perdete gli atti secondo e terzo di… Stiffelio – lunedì 26 agosto su Senza Errori di Stumpa.


Ago 12, 2013 - Anno Verdiano    3 Comments

Librettitudini Verdiane: Luisa Miller

L’aver fatto debuttare a Roma la Battaglia di Legnano era stata, come abbiamo visto, una benedizione dal punto di vista della censura, ma aveva creato non pochi problemi con la direzione del San Carlo di Napoli, che su Cammarano&Verdi – ma soprattutto su Cammarano – vantava qualche diritto in virtù del contratto del 1845.

Cosicché, con Cammarano minacciato di azione legale e addirittura di carcere, Verdi decise di scrivere un’opera per Flaùto – a inderogabile condizione, si legge in una lettera, che nulla accadesse al povero poeta, già indebitato di suo e padre di cinque. 

E dopo qualche infruttuoso tentativo con L’Assedio di Firenze – che comunque prometteva di diventare non meno pericoloso e censurabile della Battaglia – i due si decisero per Schiller un’altra volta: Kabale und Liebe, sotto il titolo di Luisa Miller.

E francamente non so vedere tutto questo miglioramento rispetto a Firenze o Legnano. Schiller era il tipo di scrittore che non sapeva fare nemmeno la lista della spesa senza farcirla di vagonate di critica sociale e incendiarietà politiche assortite, e Kabale, con la sua vicenda di scontro tra vecchia nobiltà e borghesia emergente, non faceva eccezione.

Ma Cammarano, pover’uomo, aveva già i suoi guai, e così forse non dobbiamo stupirci troppo che annacquasse il tutto in una storia d’amore contrastato in salsa tirolese…

Atto Primo – L’amore.

Tirolo, ameno villaggio, e il coro, guidato dalla contadinella Laura, va a cantare gli auguri di compleanno alla dolce Luisa, figlia dell’ex soldato Miller. Il quale è preoccupato, perché Luisa si è innamorata di uno sconosciuto venuto da fuori – e a lui, come dicesi dalle mie parti con rustica ma efficace espressione, balla un occhio.

Non ha neanche tutti i torti, ma questo noi ancora non lo sappiamo, e Luisa non ci vuole credere. Per convincere il padre gli ripete con sopranile logica che si sono visti appena e già si amano di tenerissimo amore… né noi né il padre siamo terribilmente rassicurati, ma non c’è tempo per agitarsi ulteriormente, perché chi ti compare tra i contadinelli che offrono fiori di campo a Luisa, se non l’innamorato misterioso? Dubbi del padre, felicitazioni del coro, cinguettio dei due giovani – ed è mai possibile che, pur cinguettando d’amore, debbano riuscire a parlar di morte due volte nel giro di otto versi? Che vorrà mai dire? Avrà forse ragione il vecchio Miller, che non sa qual voce infausta entro il suo cor favelli?

Ma lasciamo che Luisa, il suo giovanotto e il coro se ne vadano in chiesa, e guardiamo entrare Wurm, il castellano del conte von Walter. Ora, da uno che di nome fa Verme che cosa possiamo aspettarci? Come minimo, che sia innamorato a sua volta di Luisa e chieda a Miller di convincerla a sposarlo volente o nolente. Ma Miller, padre affettuoso e Schilleriano, inorridisce: e che! un consorte – che poi si deve tenere finché morte non separi – si può scegliere solo in tutta libertà, e Luisa è innamorata di un altro.

Un altro, eh? sibila Wurm. E lo sa Miller che quell’altro si finge un cacciatore, ma in realtà è il figlio del conte von Walter, signore del luogo? E poi il verme se ne va, lasciando Miller a crogiolarsi in uno di quei momenti da io-l’avevo-detto.

Anche noi ce ne andiamo, e seguiamo Wurm al castello, intento a fare la spia con il conte, che non può credere alle sue orecchie. Ma come? Lui si dannerebbe l’anima per vedere felice l’amatissimo figlio, e lo sciagurato ragazzo lo ricambia innamorandosi di una contadinella? E considerando che questo è il XVII Secolo, a noi il conte pare più turbato di quanto la circostanza giustifichi, vero? Be’, prendiamone nota e mettiamo da parte. Ne riparleremo poi.

Ma quando arriva il rampollo Rodolfo, che è (ma lo sapevamo già) il moroso di Luisa, il conte finge di nulla e gli annnuncia gaiamente di avere qui pronta da dargli in moglie la cugina Federica, amica d’infanzia, duchessa, ricca, bene introdotta a corte e anche innamorata… che si può volere di più?

Ma io non l’amo, protesta Rodolfo, e non ho ambizioni particolari, non so che farmene di lei…

Il padre rimbrotterebbe, ma eccola che arriva, Federica. E sappiatelo: Federica è bella, buona e virtuosa.* Solo che non è Luisa e, quando conte e coro si ritirano strategicamente per andare a caccia, Rodolfo si affretta a informarla che non può sposarla perché ama un altro.

Non ci aspettavamo che Federica la prendese bene, giusto? Se tu mi pugnalassi, sibila al cugino, ti perdonerei perché ti amo. Ma questo è imperdonabile e me la pagherai.

Hell hath no fury – con quel che segue.**

Ma torniamo a casa Miller, dove Luisa guarda dalla finestra i cacciatori in arrivo dal castello, e si stupisce di non vedere tra loro il suo giovanotto. Chi arriva, invece, è Miller, a svelare l’identità del bugiardo. Luisa, naturalmente, non vuole crederci, ma ecco Rodolfo, che confessa e però giura che il suo cuore appartiene solo e soltanto a Luisa.

Miller chiede, non irragionevolmente, chi proteggerà tutti e tre dall’ira del conte. E Rodolfo comincia a spiegare di avere buon materiale ricattatorio in mano… 

E a noi potrebbe venir da levare un sopracciglio all’idea di un eroe d’opera che ricatta il babbo – ma mentre ancora ci pensiamo, ecco giungere il conte in persona. E appena giunto, chiama Luisa una venduta seduttrice. Luisa semisviene, Rodolfo non passa alle vie di fatto solo perché si tratta di suo padre, ma Miller non soffre di questo genere di compunzioni.

Naturalmente non va molto lontano, perché il conte fa arrestare lui e Luisa.

Se la incarcerate, vado con lei, minaccia Rodolfo.

Il babbo risponde che si accomodi.

Prima di vederla incarcerata, la uccido di mia mano, è la seconda minaccia.

Di nuovo, il babbo risponde che si accomodi.

E tutti pensiamo: adesso minaccia di uccidersi lui, giusto? Perché questo sì che farebbe sobbalzare il conte…

E invece no: visto che proprio non c’è altro modo, Rodolfo sussurra di sapere come il padre sia diventato signore di Walter e se ne  va di corsa. E si vede che era proprio buon materiale, perché il conte cede all’istante e se ne va con i suoi, trascinandosi via Miller, ma lasciando libera Luisa.

Sipario.

Atto Secondo – l’intrigo

Ecco il coro che porta a Luisa pessime nuove: gli uomini del conte stanno portando via suo padre, e non per una gita panoramica… E poi ecco Wurm, che caccia via tutti e spiega a Luisa come stanno le cose: vuole suo padre salvo? E allora, per ordine del conte, che scriva una lettera in cui dice di non avere mai amato Rodolfo, di non averlo mai creduto un povero cacciatore, di averlo sedotto per ambizione, di essere in realtà innamorata di Wurm… E sarà l’amor filiale, sarà che è una mozzarella, ma Luisa cede prima di subito e scrive. Non basta: Wurm le fa giurare di non smentire mai la lettera, e di mostrarsi innamorata di lui davanti alla duchessa Federica.

Luisa non è contenta, ma che può fare, povera ragazza?

E noi torniamo al castello con Wurm, e lo ascoltiamo mentre, con il conte, si raccontano l’un l’altro come anni prima abbiamo cospirato per assassinare il cugino e predecessore del conte… credevano di avere fatto tutto in gran segreto, ma si direbbe che Rodolfo sappia tutto e non si faccia scrupoli particolari a servirsene… Ci mancava solo questo accidente di Luisa, vero? Né Wurm né il conte si sentono terribilmente sicuri, né si fidano granché l’uno dell’altro…

Ma ecco la duchessa, davanti a cui Wurm trascina Luisa. Le due si squadrano in cagnesco, ma a dire il vero Federica è una cara ragazza, ed è più interessata alla verità che altro, e Luisa, pur gelosa e angosciata, finirebbe col confidarsi, se non fosse per Wurm e il conte che le stanno con il fiato sul collo… Ma alla fine la povera fanciulla riesce ad essere convincente, la duchessa è ingannata e felice, Wurm e il conte esultano.

Intanto, in un giardino pensile del castello (chissà poi perché un giardino pensile…), Rodolfo riceve la famosa lettera per mano di un contadino prezzolato (ma non  volevano tutti un gran bene a Luisa?) e s’infuria e manda a chiamare Wurm. Non è ben chiaro se abbia in mente un duello o un duplice suicidio, ma di sicuro ha due pistole, e Wurm pensa bene di scaricarne una in aria, facendo accorrere tutti – padre compreso.

E al conte bisogna riconoscere qualche sottigliezza, perché, trovando il figlio sconvolto, finge di cedere e di acconsentire alle nozze con Luisa – proprio quando Rodolfo non la vuol più nemmeno sentir nominare. E, con tutto il suo prestigio ristabilito e un’apparenza di generosità, può suggerire pronte nozze con Federica, senza che lo sbigottito Rodolfo tenti nemmeno di ribellarsi.

Atto Terzo

Torniamo a casa Miller, dove Luisa scrive e se ne sta mesta. La lettera è una semiconfessione per Rodolfo, la mestizia si deve alle intenzioni suicide.

Poi, come fa la gente che in realtà non intende suicidarsi davvero, affida la lettera (aperta) al babbo da consegnare. E Miller legge, naturalmente, e se ne resta lì trambasciato e silenzioso, e impiega un’era geologica ad afferrare il senso della lettera, e poi quando lo afferra piange e supplica e dissuade, e Luisa si pente e desiste – a patto di andarsene via. E così, padre e figlia risolvono di andarsene raminghi e poveri dove il destin li porta, magari mendichi, ma insieme. Miller va a schiacciare un pisolo prima della partenza, Luisa prega…

E chi sarà mai lo sconosciuto amnmantellato che entra di soppiatto? E perché versa il contenuto di un’ampolla nella tazza di latte che così convenientemente il direttore di palcoscenico ha preparato sul tavolo? E che sarà mai quella lettera che si trae dalla manica – il tutto senza che Luisa se ne accorga?

Forse stava pisolando anche lei, ma bisogna che l’uomo misterioso si palesi come Rodolfo, la chiami e le metta la lettera sotto il naso perché Luisa dia cenno di essere ancora con noi. E alla domanda se l’abbia scritta lei, la dannata lettera, la poveretta non può fare altro che dir di sì – perché ha giurato, ricordate?

E allora Rodolfo finge di stare poco bene, e di aver bisogno di un sorso di latte (gli ardono, vedete, le fauci…), e beve, e poi fa bere Luisa… E poi, dopo avere sparso un po’ di maledizioni equamente distribuite tra sé stesso, Luisa, il padre e il fato cinico e baro, annuncia di avere avvelenato entrambi.

E magari non è che Luisa accolga la notizia proprio con esultanza, ma il sollievo con cui, sentendosi sciolta in extremis dal giuramento, confessa la verità, è tanto repentino da essere quasi buffo.

Ops…

Adesso sì che Rodolfo vorrebbe averle concesso almeno il beneficio del dubbio…

Il resto è… come dire? Un nonnulla frenetico

Entra Miller, c’è uno scambio triangolare di richieste di perdono e poi Luisa muore – ma questo è ancora nulla, perché a questo punto entra tutto il cast (tranne Federica) per il gran finale, e nel giro di quattro versi quattro, Rodolfo uccide Wurm, maledice ancora una volta il padre e cade morto ai suoi piedi.

“Figlio!” esclama il conte, che non ha avuto il tempo di capire che cosa stia succedendo.

“Ah!” chiosa costernato il coro e, senza por tempo in mezzo, il sipario cala.

Sì, be’, ecco. A dire la verità, di Schiller rimangono qualche nome e, grosso modo, l’intreccio. Cammarano ha sacrificato l’ambientazione cittadina, tedesca e settecentesca, la contrapposizione borghesia-nobiltà, l’aspetto moral-religioso, l’amante del principe, la madre ambiziosa, molto dell’abbondante fuoco e la maggior parte delle non numerosissime sottigliezze dell’originale per sanitizzare il tutto in un’innocua e vaga vicenda d’amore e morte a prova di censura, spinta in un vago e innocuo Seicento tirolese…

In qualche maniera, funzionò. Scrivendola come la scrisse, quasi sotto ricatto e facendo la spola tra Parigi, Busseto, Roma e Napoli, non ci si può aspettare che Verdi componesse con soverchio ardore, e l’opera è musicalmente ineguale. Però così il contratto fu rispettato, il povero Cammarano non fu sbattuto in gattabuia e tutto finì passabilmente bene. Che con questa storia Flaùto e il San Carlo tutto si fossero conquistati la simpatia di Verdi, però, non si può dire: con un’abortita eccezione di cui parleremo, la Luisa è l’ultima opera verdiana a debuttare a Napoli.

 

 

___________________________________________

* Badateci: l’Altro Uomo è un verme, mentre l’Altra Donna è un semiangelo. Rodolfo ha tutte le scelte, e Luisa non ne ha nessuna.

** E no, non l’ha scritto Shakespeare.

 

Ago 5, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: La Battaglia Di Legnano

Librettitudini Verdiane: La Battaglia Di Legnano

giuseppe verdi, la battaglia di legnano, anno verdiano, salvadore cammaranoEra il 1848, e tutti sappiamo che razza di tempi fossero.

Verdi, l’uomo che aveva già infiammato i cuori dell’Italia patriottica con cose come il Nabucco, i Lombardi e il Macbeth e l’Attila, decise che ci stava bene qualcosa di proprio incendiario, thank you very much.

Probabilmente si sarebbe rivolto al solito Piave – povero Piave! – se a quello non fosse saltato per il capo di arruolarsi a Venezia. Ma con Piave in armi, Solera in Spagna e Maffei mai più per carità, chi restava se non Cammarano?

In un primo momento ci provarono con il Cola di Rienzo di Bulwer-Lytton*, ma proprio non funzionava, e allora misero insieme una storia napoleonica di Mery con L’Assedio di Firenze del buon Guerrazzi, e quel che ne uscì fu La Battaglia di Legnano – in cui, capite, gli Italiani le danno di santa ragione ai “barbari” del Barbarossa e, per di più, i Teutoni in campo son gente malvagia e spregevole.

Ma vediamo un po’.

L’Atto Primo (intitolato, secondo la maniera di Cammarano, Egli Vive!), si svolge a Milano nel 1176.

All’aprirsi del sipario, sono in arrivo i rinforzi da Verona, Vercelli, Novara, Brescia e Piacenza, e il coro milanese fa loro tutte le festevoli accoglienze del caso.giuseppe verdi, la battaglia di legnano, anno verdiano, salvadore cammarano

Viva Italia! un sacro patto
Tutti stringe i figli suoi:
Esso alfin di tanti ha fatto
Un sol popolo d’Eroi!
[…]
Viva Italia forte ed una
Colla spada e col pensier!
Questo suol che a noi fu cuna,
Tomba sia dello stranier!

Canta fra l’altro questo festevole coro – e immaginatevi l’effetto che versi del genere potevano avere nell’Italia del Quarantotto…

Ma non distraiamoci, e notiamo invece che tra i Veronesi marcia Arrigo, il nostro tenore. Per prima cosa, egli c’informa che, dopo la lunga convalescenza di una ferita di guerra, è ben contento di essere tornato a Milano, dove spera di ricongiungersi con la sua amata.

Intanto però si ricongiunge con il suo grande amico Rolando (duce milanese) che, come tutti, l’aveva creduto morto in battaglia, e a cui non par vero di ritrovarlo vivo. Gran commozione reciproca, ma badateci: Rolando, ahilui, è un baritono, e all’opera le amicizie tenore-baritono non sono mai destinate bene.

giuseppe verdi, la battaglia di legnano, anno verdiano, salvadore cammaranoPoi arrivano i Consoli di Milano a dare il benvenuto ai nuovi arrivati, e tutti cantano ancora un po’ di roba incendiaria come:

S’appressa un dì che all’Austro
Funesto sorgerà,
In cui di tante ingiurie
A noi ragion darà!

E poi noi ci spostiamo in un loco ombreggiato, dove la bella e nobile Lida, sola tra tutti i Milanesi, se ne sta solinga e pensosa invece di esultare. Le sue dame se ne stupiscono. Lei risponde che, dopo avere perduto in guerra genitori e fratelli, non è più capace di esultare – e a noi pare che le sue dame potrebbero anche saperlo, ma si sa che i cori sono né più né meno che espositori prezzolati, giusto?

E mentre Lida lamenta tra sé di non potersi più nemmeno augurare di morire presto perché adesso ha un bambino, entra Marcovaldo**, che è un prigioniero alemanno – nonché un baritono della varietà peggiore. Costui, veniamo a scoprire, è prigioniero di Rolando, della cui generosità approfitta per corteggiare la di lui consorte Lida. Lei lo respinge indignatissima, e lui è occupato a masticare amaro quando arriva Rolando con la stupefacente novella che Arrigo è qui!! 

Sensazione.

Lida avvampa, Arrigo per poco non sviene e si salva in corner con la scusa dell’imperfetta guarigione – e Marcovaldo vede e capisce tutto. Perché, vedete, è proprio Lida la bella con cui Arrigo era così ansioso di ricongiungersi – e lei è… come dire? Un nonnulla maritata a Rolando.

Rolando invece non capisce nulla e, alla notizia che gli Imperiali avanzano, commette il Peccato Capitale Operistico: se ne va lasciando insieme un tenore e un soprano.

Arrigo, si capisce, non è contento. È così occupato a maledire la fedifraga Lida, che a quanto pare gli aveva promesso di amarlo per sempre, aspettarlo se fosse vissuto e seguirlo nella tomba se fosse morto… così occupato a maledirla, dicevo, che nemmeno ascolta alle sue proteste d’innocenza: lei lo credeva morto, che diamine, e il padre moribondo le aveva imposto di sposare Rolando! Che cosa può fare una povera ragazza?

Ma Arrigo non la considera una giustificazione e, dopo avere maledetto ancora un po’, se ne va annunciando l’intenzione di morire in battaglia. Sipario.

Atto Secondo – Barbarossa! giuseppe verdi, la battaglia di legnano, anno verdiano, salvadore cammarano

Per questo atterello fulmineo ci spostiamo a Como, dove Rolando e Arrigo arrivano in qualità di messaggeri per chiedere l’aiuto dei Comaschi contro il Barbarossa. Ma i Comaschi l’hanno a morte con Milano per vecchie rivalità e poi hanno un patto in essere col Barbarossa… del che, ritorcono i Nostri, dovrebbero vergognarsi con tutto il cuore, ma possono ancora riscattarsi unendo le loro spade a quelle della Lega Lombarda… Mentre son lì che battibeccano, entra un misterioso uomo ammantellato che, nel giro di tre secondi, si rivela essere il Barbarossa in persona, giunto con quell’esercito che i Milanesi credevano da qualche parte tra l’Adige e Pavia…

Ops.

E non è chiaro se i Comaschi siano più sgomenti per essere stati beccati a colloquio con i ribelli o più gongolanti per l’iradiddio che sta per abbattersi sui rivali storici, ma tant’è. Barbarossa tuona minacce con voce di basso, Rolando e Arrigo replicano sdegnosamente che non gli rispondono nemmeno e si rivedranno sul campo di battaglia.

TUTTI:
Guerra dunque!… terribile!… a morte!…
(Con grido ferocissimo)
Senza un’ombra di stolta pietà!

E… sipario!***

Atto Terzo – L’Infamia!****

Abbiamo approfittato dell’intervallo per tornare a Milano, nella cripta di Sant’Ambrogio, dove…

I Cavalieri della Morte scendono a poco a poco, ed in silenzio: ognun d’essi porta una ciarpa ad armacollo, su cui avvi effigiato il capo d’uno scheletro umano.

A questa gaia compagnia intende aggregarsi Arrigo, che viene accettato al volo. Rapida cerimonia d’iniziazione…

[I]l più anziano fra essi, che pone Arrigo in ginocchio a piè d’una tomba, e lo fregia della propria ciarpa: allora tutti i cavalieri incrocicchiano i brandi sul capo di Arrigo, quindi lo sollevano e gli porgono l’amplesso fraterno.

Incrocicchiano… credete che ci possa umanamente chiamare un gatto? Ma non divaghiamo. La cerimonia si conclude con un giuramento che vi riporto per intero:

giuseppe verdi,la battaglia di legnano,anno verdiano,salvadore cammaranoGiuriam d’Italia por fine ai danni,
Cacciando oltr’Alpe i suoi tiranni.
Pria che ritrarci, pria ch’esser vinti,
Cader giuriamo nel campo estinti.
Se alcun fra noi, codardo in guerra,
Mostrarsi al voto potrà rubello,
Al mancatore nieghi la terra
Vivo un asilo, spento un avello:
Siccome gli uomini Dio l’abbandoni,
Quando l’estremo suo dì verrà:
Il vil suo nome infamia suoni
Ad ogni gente, ad ogni età.

E di nuovo, immaginatevi l’effetto. Non è in fondo commovente pensare che un libretto del genere potesse passare indenne la censura?

Oh well, spostiamoci a casa di Rolando, dove Lida si aggira come una forsennata e, quando l’ancella Imelda le chiede a chi scrivesse poco prima, prorompe in una delle più convincenti scene di coda di paglia della storia del teatro musicale. E che Imelda la denunci pure, se crede – alla peggio la condanneranno a morte, e lei non brama altro, bla, bla…

Imelda non ha la minima intenzione di denunciare nessuno, ma ci mette meno di nulla a capire che si tratta di Arrigo. E infatti, Lida è angosciatissima all’idea che il giovanotto vada a cercare la morte tra la gente col teschio sulla sciarpa e così – of all stupid things – gli ha scritto una lettera.

Imelda andrebbe a consegnare, se non arrivasse Rolando che, alla vigilia della battaglia, arriva per congedarsi dalla moglie e dal frutto del loro imene.

Commosso e d’umor cupo, benedice il bambino che Imelda gli porta, e lo affida alle molteplici virtù della madre se lui dovesse morire in battaglia. Lida comincia a sentirsi una bestiaccia e se ne va col bambino. giuseppe verdi,la battaglia di legnano,anno verdiano,salvadore cammarano

Non contento, Rolando fa chiamare Arrigo e gli chiede, in nome della loro amicizia, di vegliare su Lida e sul bambino se lui dovesse morire. Naturalmente non sa che Arrigo si è appena arruolato tra quei morituri che in battaglia difendono la bandiera sul Carroccio – ma non è questo il punto. Anche Arrigo comincia a sentirsi una bestiaccia. Commosso e pieno di sensi di colpa, giura e suggella il giuramento abbracciando (pur con qualche riluttanza, bisogna ammetterlo) il povero Rolando. E poi se ne va singhiozzando.

E qui, signori della corte, vi prego di spendere un pensiero su quanto bravo, buono, leale, fiducioso e degno sia il baritono Rolando.

E ve ne prego adesso perché nella scena successiva arriva Marcovaldo ad annunciargli che tradito, offeso fu, vilipeso nell’onore…

Rolando inorridisce.

Lida e Arrigo…

Rolando rifiuta di credere.

Lettera…

E Rolando legge – e questa è una scena classica. Il baritono scopre che l’adorata moglie e l’amico fraterno lo hanno tradito e, col cuore spezzato, giura vendetta. La vedremo ancora in futuro. Ma francamente, potete biasimarlo, pover’uomo?

E Marcovaldo gongola…

Noi ci spostiamo nelle stanze di Arrigo, in cima ad una torre. Arrigo sta scrivendo alla mamma quando Lida arriva per dirgli che, proprio per riguardo alla mamma, non deve e non può andare a morte certa. Be’, protesta Arrigo in un esempio del più bieco ricatto morale, ma se lei non lo ama più, che vive a fare? Oh, ma lei lo ama, lo ama ancora. Non che a questo amore possano dar corso, ma…

E in quella si bussa. Ed è Rolando. E Arrigo nasconde Lida sul balcone. E Rolando è venuto a dire ad Arrigo che sa del giuramento e della Compagnia della Morte, ed è ora di andare, e apre la porta sul balcone per mostrargli le schiere in partenza e, come in una pochade francese, chi c’è sul balcone?

Lida e Arrigo, scoperti nel peggiore dei modi, supplicano Rolando di ucciderli, ma Rolando ha un’idea migliore. Li chiude dentro, così che Arrigo non possa raggiungere i suoi compagni e, mancando alla battaglia, sia disonorato.

Orrore orror! Questa sì che è una vendetta – o lo sarebbe, se Arrigo non si gettasse dal balcone pur di non rimanere indietro. Essì, in una scena che, francamente, sembra uscita da Braccobaldo Bau, Arrigo si butta dal balcone gridando “Viva Italia!” e Lida gli grida dietro “Arresta!” e poi cade tramortita. E il sipario cade.

Atto Quarto – Morire per la Patria!

Altro atto breve. In un tempio***** milanese, dove le imbelli donne, i tremuli vecchi, e gl’innocenti fanciulli aspettano nuove da Legnano, dove si è combattuto lo scontro decisivo tra la Lega e gli Imperiali. Ci sono anche Lida e Imelda, che discutono sottovoce di come Arrigo sia stato visto uscire dal fiume e raggiungere i suoi in tempo per la battaglia. Lida è tanto grata che si sente in colpa, e allora prega per Rolando, e anche per Arrigo, perché ehi! sono i due migliori capitani dell’esercito: supplicare il cielo di risparmiarli entrambi è altamente patriottico, giusto?

Ma odonsi grida di vittoria.

giuseppe verdi,la battaglia di legnano,anno verdiano,salvadore cammaranoArrivano i Consoli ad annunciare che il Barbarossa le ha prese di santa ragione in senso lato e in senso stretto, visto che il veronese Arrigo lo ha anche disarcionato…

Dall’Alpi a Cariddi echeggi vittoria!
Vittoria risponda l’Adriaco al Tirreno!
Italia risorge vestita di gloria!…
Invitta e regina qual era sarà!

esulta il coro, ma… che è quel corteo semifunebre che giunge? Ma che diamine! Sono i Cavalieri della Morte, che riportano uno dei loro ferito. Indovinate chi?

E Arrigo morente usa il suo ultimo respiro per chiedere a Rolando di perdonarlo e di credergli se dice che Lida è pura siccome un angelo. E perché Rolando dovrebbe credergli? Perché…

Non mente… error nefando
Saria mentir… spirando…
Chi muore per la patria
Alma sì rea non ha.

Anche Lida supplica, e Rolando si commuove e cede, e abbraccia entrambi e perdona.giuseppe verdi,la battaglia di legnano,anno verdiano,salvadore cammarano

Per rendere ancora più strappalacrime il momento, al suono del Te Deum entra trionfalmente il Carroccio. Il nostro giovanotto chiede di toccare un’ultima volta lo stendardo che ha difeso così bene e, accontentato, muore tra le braccia di Lida e Rolando.

Il coro costata il decesso, le campane squillano e il sipario cala.

Ora, prima ho detto che questo libretto, che per l’epoca era incendiario indeed, passò lo sbarramento della censura… Ma forse dovrei specificare che la passò nella Roma fuggevolmente repubblicana dell’inizio del ’49, dove La Battaglia debuttò al Teatro Argentina. E dove comunque, al successone di pubblico dovuto in buona parte all’argomento iperpatriottico, corrisposero gli strali della critica delusa da un lavoro musicalmente così così…

Nei mesi e negli anni successivi quest’opera circolò pochissimo, nonostante tutta una serie di tentativi di addomesticare l’argomento spostandolo a Calais, ad Arlem (Harleem, presumo…) ed altri luoghi più o meno improbabili.

Ma non servì a granché. A Verdi piaceva, a dire il vero, ma nessun altro ci si appassionò mai per davvero, e in conseguenza La Battaglia rimane uno di quei titoli semidimenticati.

 

________________________________________________

* Yes, yes: Edward Era-una-notte-buia-e-tempestosa Bulwer-Lytton.

** E così adesso sappiamo dove è andato a pescarlo Calvino.

*** Sì, col punto esclamativo! Mi sono lasciata trascinare da Cammarano, che semina punti esclamativi come se piovesse!

**** See? Che cosa vi avevo detto?

***** Ricordate? Parlare di “chiesa” nei libretti era proibito. 

Lug 29, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: Il Corsaro

Librettitudini Verdiane: Il Corsaro

Il Corsaro è un’opera scritta per ripicca.

Dovete saper che nel ’45 l’editore Ricordi aveva lasciato pubblicare sul suo Corriere Musicale di Milano una recensione men che benevola della Giovanna d’Arco. Verdi, in a dreadful miff, se ne andò dalla bieca concorrenza, l’editore Lucca, e firmò un contratto per due opere da rappresentarsi a Londra e Roma nel ’47 e ’48 – con cast di prim’ordine.

giuseppe verdi, il corsaro, byron, francesco maria piaveEd ecco che, a Masnadieri archiviati (e non strabene), Lucca si rifà vivo. E Verdi gli propone con entusiasmo il byroniano The Corsair. Sia chiaro che l’entusiasmo era tutto per il drammone – storia iperromantica di vendetta, amore & morte, popolata di pirati tragici, emiri malvagi, fanciulle greche e almee pugnaci – e niente affatto per l’editore, l’esosissimo e indelicatissimo sig. Lucca. Avendo avuto tempo di pensarci su, non è improbabile che Verdi si fosse pentito di essersi legato a un soggetto del genere per far dispetto a Ricordi, ma tant’è.

E sapete a chi si rivolge per il libretto? Non a Maffei, dopo il mezzo disastro dei Masnadieri, non a Solera, indignato ed esule in Spagna, e nemmeno a Cammarano – bensì il povero e bistrattato poeta-gatto Piave… E per qualche motivo che non so, nelle lettere Verdi è raddolcito. Sì, be’, raddolcito quanto può esserlo il Terribile Giuseppe (Stai diventando matto? […] Va, va a curarti all’ospedale!), ma abbastanza da apprezzare per iscritto il libretto, che definisce “verseggiato con pù cura del solito” e fatto con amore…

E no, non doveva essere facile lavorare con Verdi… Ma d’altra parte è chiaro che con Piave ci voleva pazienza. Quel che si può dire a favore di questo libretto è che è fedele a Byron – molto più di quanto si fosse preoccupato di essere il librettista della precedente versione operistica di Pacini, per esempio… Ma per il resto…

Andiamo a incominciar, e vedrete da voi.

Atto Primo

Siamo su un’isola dell’Egeo dove, all’ombra di una torre bisantina (sic), un coro di corsari si compiace della propria ferocia, concludendo:

Su godiam! ne’ ci caglia che il sangue
Dalla destra vittrice ne grondi,
L’allegria delle tazze confondi
L’imprecar del nocchiero che muor.giuseppe verdi, george gordon byron, il corsaro, francesco maria piave

Non adorate la gente che, all’opera, gongola di quanto è malvagia? Ma questa gente senza complicazioni è capitanata, come da tradizione da un giovanotto di voce tenorile, molti tormenti e animo tempestoso: Corrado, il corsaro eponimo, approva la foga dei suoi ma, quanto a lui, ha della furia da smaltire nei confronti dell’umanità tutta.. Perché, vedete, dapprincipio tutto pareva sorridergli…

L’aura, la luce, l’etere
E l’universo intero…

Essì: aura, luce, etere, universo… Capite che cosa intendo quando dico che con Piave ci voleva pazienza? Ad ogni modo, poi si direbbe che le felici premesse di Corrado si siano un nonnulla guastate, perché adesso lo ritroviamo esule e livoroso nell’Egeo. Che gli è successo? Non si sa. Chi era prima? Mistero. Chi l’ha esiliato? Non lo sapremo mai. Ci basti sapere che Corrado intende dare addosso agli Ottomani più vicini – per lo stupito entusiasmo dei suoi.

E non so se lo sbalordimento generale per il fatto che sarà Corrado in persona a guidare il blitz sia quanto di più lusinghiero per le qualità eroiche d’un tenore – but never mind, e spostiamoci invece nella torre bisantina, dove ha le sue stanze (con vista mare) la bella Medora, soprano e amante del Nostro.

giuseppe verdi, george gordon byron, il corsaro, francesco maria piaveOra, Medora è una di quelle donne che non sanno star da sole, e se la canta accompagnandosi con l’arpa. Oh, come si sente sola! Oh, come si sente triste! Oh, come vorrebbe morire piuttosto che starsene senza Corrado! Oh, come sarebbe meglio giacere nell’avello pianta da lui, piuttosto che vivere in sua assenza…

Figurarsi quando lui arriva soltanto per dirle che è in partenza. Segue una certa quantità di suppliche. E dov’è che vai? E perché vai? E resta, e bada che se te ne vai potresti non trovarmi al mio ritorno, perché potrei morire prima…

E francamente, nessuno di noi sa biasimare Corrado che si districa e va per la sua strada.

Medora sviene, noi le attribuiamo la palma della più insulsa eroina verdiana so far, e il sipario cala.

Atto Secondo giuseppe verdi, george gordon byron, il corsaro, francesco maria piave

Ci siamo spostati in una deliziosa stanza nell’harem di Seid. Dove siamo? A Corone. Chi è Seid? Il locale Bascià (sic), chiaramente l’Ottomano più vicino – nonché l’innamoratissimo padrone della schiava cristiana Gulnara. Gulnara in realtà detesta Seid, e non ne vuole sapere dei veli trapunti di gemme che un coro di odalische cerca di infilarle addosso…

E tuttavia, non è come se avesse molta scelta, povera ragazza. Quando arriva un Eunuco Nero ad annunciare che…

Seide celebra – con gioia e festa
Una vittoria – che egli otterrà,

e che la sua presenza è richiesta, Gulnara può solo portarsi dietro le odalische:

Verrò… voi pure – con me verrete.
Al suo comando – s’ubbidirà.

E le seguiamo anche noi, sulla riva del porto, dove gli Ottomani stanno… er, festeggiando preventivamente l’arrivo di Corrado e compagnia.

Mostriamci e l’infesta
Ciurmaglia cadrà.
Tremate, o corsari!
Su voi fulminando
L’invitto suo brando
Seid graverà,

sghignazza il coro – e a noi vien da dubitare che il fidato messaggero greco del primo atto non fosse poi così fidato…

Entra Seid che, con voce di baritono, scioglie qualche strofetta in lode di Allah. L’entusiasmo del coro è interrotto dall’arrivo di uno schiavo che annuncia un dervis (sic) sfuggito ai corsari e ansioso di favellare al Bascià.

giuseppe verdi, george gordon byron, il corsaro, francesco maria piaveE il dervis è… rullo di tamburi… Corrado travestito!

Seid lo interroga con una certa asciuttezza:

Onde, o Dervis?
E dove preso, e quando?
Chi t’ha salvato?

E il finto fuggitivo dice di non sapere nulla, di non avere visto nulla, di non avere alcunché d’interessante da dire… Seid potrebbe insospettirsi, non fosse che, proprio in quella, scoppia un incendio tra le navi ottomane ancorate nel porto.

A Seid pare che il dervis gioisca un nonnulla troppo* e ordina di catturarlo e tosto ridurlo in brani, ma Corrado getta mantello e cappuccio, si rivela, suona il corno, incita i suoi prodi, e quelli arrivano brandendo le spade e ricacciano indietro gli Ottomani.

A che è servita la mascherata di Corrado? Mah… Perché i corsari dovevano aspettare il suo segnale? Boh… In Byron la scena aveva qualche senso, ma Piave ha tagliato qualche angolo. giuseppe verdi, george gordon byron, il corsaro, francesco maria piave

Oh well. Mentre la battaglia infuria, la preoccupazione prima di Corrado sembra essere quella di salvare le donne dell’harem. E mentre i corsari se ne fuggono portandosi dietro le odalische (incidentalmente, Corrado ha beccato proprio Gulnara), ecco che arriva Seid alla riscossa, con un sacco di Ottomani.

I corsari si devono arrendere, e Seid promette vendetta tremenda vendetta, e vi riporto un paio di quartine, perché sì:

Audace cotanto – mostrarti pur sai?
Vedremo, superbo, – vedrem se potrai
Nell’ora suprema – la sorte tua estrema
Con ciglio securo – mirare, incontrar.

E questo era Seid, cui Corrado risponde:

Pei vili tuoi pari -tremenda è la morte,
Ma chiusa è al terrore – quest’anima forte.
Vedrai se il tormento – mi strappa un lamento
Quel gaudio infernale – non devi gustar.

E insomma, i corsari mugugnano, il coro ottomano esulta, le odalische sono impressionate e Gulnara… ah, Gulnara si innamora sul campo del fiero, audace e cavalleresco Corrado.

Tanto è vero che, quando Seid promette a Corrado e ai suoi ogni genere di terribili e innovative torture, la ragazza guida le odalische in un piccolo coro di supplica. Non che serva a nulla, ma ci hanno provato – per la scarsa soddisfazione di Seid.

E sipario!

Atto Terzo

giuseppe verdi, george gordon byron, il corsaro, francesco maria piaveSeid, l’abbiamo detto, non è contento. Ha un paio d’occhi, e ha visto come Gulnara guarda il prigioniero… tant’è che la fa chiamare e, per metterla alla prova, le annuncia l’intenzione di suppliziare Corrado…

“Ma, o Clarina, lo sapeva già!” odesi dal loggione.

E bisogna pensare che si fosse distratta, perché nell’entrare, per prima cosa, chiede a Seid se ha vinto…

“Ma, o Clarina, c’era anche lei!” esclamasi ancora lassù in piccionaia.

E lo so. Prendetevela con Piave, volete? Con Piave che, quando Gulnara suggerisce che forse varrebbe la pena di tener vivo Corrado e chiedere un serio riscatto, fa rispondere a Seid:

Nol farei franco – per quante gemme
Del mio Sultano – chiude l’Haremme.

E ad ogni modo, Gulnara si è tradita. Seid le revoca tutti i privilegi, e lei risponde con qualche vaga minaccia della varietà non-sai-di-che-sono-capace.

Noi qualche sospetto l’abbiamo, vero? E per verificarlo ci spostiamo nella torre**/prigione dove Corrado carico di catene alteramente passeggia. Dev’essere comodo… E mentre passeggia si duole delle circostanze e del colpo che la sua morte sarà per la povera Medora e poi, per dimostrare che ha un’anima d’acciaio, si dispone a ingannare il tempo con un pisolino.

Ma in queste prigioni ottomane non si riesce nemmeno a dormire in pace senza che ti piombi tra capo e collo una donna innamorata che, dopo averti informato di non sapere troppo bene perché è venuta, né come fare per salvarti, si ricorda di avere corrotto le guardie per farti fuggire, e si ritrova in tasca (oh, ma guarda!) la chiave dei ceppi e un pugnale per uccidere Seid. giuseppe verdi, george gordon byron, il corsaro, francesco maria piave

I nostri due indugiano il tempo che serve a scambiarsi qualche confidenza sul fatto che l’uno ama Medora e l’altra odia Seid, e Corrado fa qualche difficoltà – prima perché se non ha saputo vincere gli sembra brutto sottrarsi alle conseguenze, e poi perché lui no, non è tipo da pugnali… No, nemmeno se si tratta di salvare se stesso, i suoi e Gulnara. No, nemmeno se rimanere significa condanannare a morte anche la ragazza che un atto fa ha rischiato tutto per salvare dal fuoco…

Gulnara, non incomprensibilmente, si altera un nonnulla.

GULNARA:
Di seguirmi tu dunque disdegni?

CORRADO:
Io disdegno…

GULNARA:
Terror d’un pugnale
Provi tu, masnadiero, corsale?
(Risoluta)
Un imbelle a vibrarlo t’insegni!

“Ah, che fai?” le grida dietro l’intuitivo Corrado. E Gulnara, ci dice Piave, fugge rapidamente pel cancello brandendo colla massima esaltazione il pugnale.

Odesi un tuono, e Corrado se ne resta lì a sperare di morire… dove si capisce che dopo tutto lui e Medora sono a match made in heaven.

Un istante più tardi, la nostra tostissima fanciulla ritorna con il pugnale insanguinato – e Corrado l’accoglie al grido di

Tu?… Gulnara, omicida!…

Lei gli fa notare che l’ha fatto per lui, lui finalmente si decide ed entrambi scappano.

giuseppe verdi, george gordon byron, il corsaro, francesco maria piaveMa precediamoli all’isola sull’Egeo, dove Medora se ne sta a piagnucolare sul molo, dicendo al coro che sa che Corrado è morto, e che è contentissima di seguirlo nella tomba… Ma che appare là lontan sul mare? Una nave! E che nave sarà? È una nave amica! E chi mai ci sarà a bordo? È Corrado!

Il coro esulta, e noi ci aspettiamo che esulti anche Medora, giusto? E allora perché invece la fanciulla assume quest’aria inorridita?

Perché, e ce lo lascia capire mentre corsari, ancelle, Corrado gioiscono per quella che sembra una felice conclusione, lei è genre savvy, e lo sa che all’opera non va mai a finire bene. Così, sulla fiducia che Corrado fosse morto, si è avvelenata. E già, non voleva altro fin dall’atto primo…

Adesso però le sorge il dubbio di essere stata un tantino precipitosa – anche perché chi è questa bellezza in vesti trasparenti che accompagna il suo amante e si torce le mani piena di rimorso?

Conscio dell’urgenza del momento, Corrado le riassume il secondo e terzo atto alla velocità del lampo:

Per me infelice – vedi costei;
Rischiò suoi giorni – pe’ giorni miei.
Fu di Seide – la favorita;
Ardea l’haremme, – salvai sua vita.
Grata e pietosa – le mie ritorte
Infranse, e tolsemi – da orrenda morte;
Fuggimmo insieme. –

Oh! esclama il coro… giuseppe verdi, george gordon byron, il corsaro, francesco maria piave

Ma Gulnara non vuole essere ringraziata: l’ha fatto per amore e, se adesso Medora muore, stia pur certa che lei e Corrado la ricorderanno sempre. Insieme.

Yes, well. Ma la nostra ex almea ha fatto i conti senza l’oste – o almeno senza il corsaro che, non appena Medora muore, si butta in mare con tutta l’intenzione di seguirla nella tomba.

Che fai? Corrado!… Ah corrasi
Quel misero a salvar!

strepitano i corsari, ed escono di scena – come pure escono di scena le ancelle, portandosi via la defunta, e lasciando Gulnara a svenire tranquillamente in privato.

Sì, ecco, appunto.

E comunque, una volta visto il libretto – pur verseggiato con amore – a Verdi l’entusiasmo era scemato alquanto. Tanto che compose un po’ così e poi, a opera pronta, non si fece nemmeno vedere alla prima triestina, in barba agli obblighi contrattuali.

E un po’ per l’assenza del compositore, un po’ per i modesti meriti di libretto & musica, il povero cast di prim’ordine (tra gli altri Gaetano Fraschini e la Barbieri-Nini) dovette accontentarsi di un tiepido successo.

E se avete l’impressione che quello di comporre un po’ come veniva stesse diventando un vizio di Verdi, non so davvero darvi torto…

 

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* “Non riesce a trattenere la gioia,” c’informa Piave. Questo sì che si chiama andare sotto copertura…

** Visto? Quando manca la caverna c’è la torre.

 

Lug 22, 2013 - Anno Verdiano    2 Comments

Librettitudini Verdiane: I Masnadieri

Essere invitati a comporre per i teatri londinesi non capitava tutti i giorni. Per dire,giuseppe verdi,friedrich schiller,andrea maffei,jenny lind al pur osannato Rossini non capitò mai… Per cui noi ci immaginiamo che, nel vedersi offrire un contratto per dieci opere allo Her Majesty’s Theatre, un giovane compositore di celebrità crescente dovesse accettare con grato entusiasmo, giusto?

Ma Verdi no. Verdi fece sapere che tre opere erano più che sufficienti – e ciascuna a una cifra cinque volte superiore al prezzo di mercato, e potevano aggiungerci una residenza in campagna e una carrozza per tutto il suo soggiorno, per favore?

E bisogna dire che ce lo volessero proprio, a Londra, perché fu in buona parte accontentato. Con tutto questo, Verdi sull’Isoletta ci andò svogliato e svagato, armato di un libretto così così e con un’inedita propensione al laissez-faire artistico per quel che riguardava la compagnia.

Poco promettente, eh?

giuseppe verdi, friedrich schiller, andrea maffei, jenny lindE le cose cominciarono male fin dal libretto, che Andrea Maffei trasse dallo Schilleriano Die Räuber. Con Maffei Verdi non ebbe la voglia o il coraggio di far la voce grossa come con Piave – povero Piave! – e il risultato si fu che, lasciato a se stesso, il librettista addomesticò la tumultuosa e moralmente grigia tragedia tedesca in una storiellona blanda nonostante le tinte forti. 

Maffei era un verseggiatore raffinato, ma un gran senso del teatro non lo aveva…

Figuratevi che l’Atto Primo inizia con Carlo Moor (tenore) che legge Plutarco e dichiara il suo disprezzo per l’era imbelle in cui si ritrova a vivere, mentre un coro di giovani traviati gozzoviglia offstage. E quando riceve la lettera con cui credeva di vedersi perdonato dal vecchio babbo e invece si ritrova bandito, il nostro comincia a smaniare di vendetta e a cercare la sua spada…

Noi l’abbiam. Ti calma e senti.giuseppe verdi, friedrich schiller, andrea maffei, jenny lind
Comporremo una masnada. . .

Suggerisce il coro di giovani traviati. E Carlo sobbalza e inorridisce:

Ladri noi? chi v’ha piovuto,
spirti iniqui, un tal pensiero?

Gli spirti iniqui non si scompongono, e anzi, hanno un’idea ancora migliore:

E tu capo condottiero.

E questo piccolo ottonario costituisce la scena di persuasione più breve della storia del teatro, perché la successiva replica di Carlo è:

Per la morte, io non rifiuto!

E così eccolo masnadiere e capo di masnadieri eponimi. Truci giuramenti vengono scambiati, buoni propositi à la Cecco Angiolieri – ma un pochino più concreti – vengono fatti, e noi, sulle ali del primo cambio di scena del primo atto, ci spostiamo in Franconia, nella magione avita dei Moor, a fare la conoscenza di Francesco.

giuseppe verdi,friedrich schiller,andrea maffei,jenny lindFrancesco è il fratello minore di Carlo, è un baritono e, cosa abbastanza inconsueta per Verdi, è cattivo cattivo cattivo. Irredimibilmente, stupidamente, piattamente cattivo. In Schiller non era così, ma Maffei ha fatto di lui un esecrabile giovanotto che, risentito della sua condizione di secondogenito, ha pensato bene di farla pagare al padre e al fratello. Ha intercettato la lettera con cui Carlo chiedeva perdono; ha scritto di persona quella con cui il padre bandiva Carlo; e adesso, visto che il padre non ha il garbo di morire e togliersi di torno, ha avuto un’idea su come affrettare il corso delle cose.

Per un po’ farnetica di piangolose lettere, fiacche animucce e vecchiardi, e poi predispone il finto messaggero che deve portare la notizia fasulla della morte di Carlo in battaglia. Con un minimo di fortuna, al vecchio babbo verrà il coccolone risolutivo.

E va bene, ma voi chi scegliereste per la parte del messaggero? Di certo non il camerlengo di casa, fidato servitore che si presume il vecchio conte conosca abbastanza bene, giusto? Ma Francesco no. Francesco sceglie proprio il camerlengo… ve l’avevo detto che, per essere un baritono, non è un fulmine di guerra, vero? 

Intanto, noi ci spostiamo un’altra volta* nella camera da letto del vecchio conte Massimiliano (basso), che sonnecchia vegliato dalla bella nipote orfana Amalia (soprano). Amalia non è del tutto contenta che lo zio abbia bandito il Carlo di cui era tanto innamorata – e non si fa per dire, ma i baci suoi stillavano gioir di paradiso… – ma è troppo affezionata al vecchio signore per fargliene una colpa. Tanto più che il vecchio signore in questione è già pieno di dubbi e rimorsi per conto suo.

Figuriamoci quando arriva Francesco col finto giuseppe verdi,friedrich schiller,andrea maffei,jenny lindestraneo…

E, miracolo della scarsa illuminazione al Secolo XVIII, né il conte né Amalia riconoscono il Camerlengo. Lo ascoltano con crescente orrore mentre snocciola la storia che Francesco gli ha insegnato, prendono per buona la spada insanguinata che salta fuori molto opportunamente, e ingollano persino il messaggio scritto col sangue sulla spada stessa. E in effetti, quale moribondo sul campo di battaglia non trova l’agio di vergare col proprio sangue un distico in rima baciatasu una lama?

“Dal giuro, Amalia, ci scioglie la morte.
Sii tu, Francesco, d’Amalia consorte.”

Orrore orror! Amalia strilla, il vecchio conte sviene così bene che sembra morto, Arminio è colto da rimorso, Francesco giubila, il sipario cala.

Atto Secondo

Sepolcri gotici. Due. Uno è quello del vecchio conte. L’altro non si sa. Amalia prega e piange mentre fuori scena Francesco, nonostante il lutto, gozzoviglia con un altro coro debosciato e un filo blasfemo. Dev’essere un talento di famiglia, quello di scegliersi cori discutibili… Ad ogni modo, ricordate la crisi di coscienza di Arminio?** Ebbene, adesso ne vediamo le conseguenze: il camerlengo entra di soppiatto e confessa ad Amalia che sono tutti vivi – Carlo e anche il vecchio Massimiliano.

giuseppe verdi,friedrich schiller,andrea maffei,jenny lindDove poi siano è tutta un’altra faccenda, ma Amalia è già in tutt’altra disposizione d’animo all’arrivo di Francesco, che le dichiara il suo amore con la delicatezza che gli è propria. E quando Amalia lo rifiuta, lui la minaccia di rabbassar la sua cervice rinchiudendola. Amalia commette l’errore tattico di dichiararsi ben felice di qualunque prigionia le risparmi la compagnia del perfido cugino, al che il perfido cugino esplode:

oh no, proterva!
Qui starai! mia druda e serva.

Amalia, soprano da battaglia, gli sottrae la spada, lo minaccia, ma Francesco la blocca e giura prigionia, catene, tormenti e vendetta anche contro di lei – e così adesso ce l’ha a morte con tutta la distribuzione.

Ma noi spostiamoci in quel di Praga, signore e signori, a scoprire che Carlo Moor il Masnadiere è diventato un terrore generale, capace di mettere a ferro e a fuoco Praga intera per salvare dalla forca un luogotenente catturato…

Non che ne sia contento, sia ben chiaro. Adorato dai suoi uomini, odiato dai nemici, temuto dai civili, Carlo è è amareggiato, pieno di disgusto di sé (seppur con una tendenza a biasimare i suoi accoliti) e di nostalgia di casa – ma soprattutto di Amalia, che non potrà più nemmeno pensar di guardare in faccia, dopo tutti gli spaventi che ha commesso…

Ma chi viene? Nemici! Mille soldati! Carlo si raccoglie attorno i suoi, li incita al combattimento – e l’atto finisce bruscamente prima della battaglia. Oh well.

Atto Terzo

Amalia fuggitiva cammina sola e smarrita… in un luogo deserto che mette alla foresta presso al castello. Ebbene sì, si è persa dietro casa. – ma che vogliamo farci? È un soprano… e poi, se non si fosse persa, come farebbe a terrorizzarsi delle voci nel bosco?

Le rube, gli stupri, gl’incendi, le morti,
per noi son balocchi, son meri diporti,

c’informano le voci, e Amalia è comprensibilmente scossa. Tanto che, quando Carlo compare tra gli alberi, impiega una vita a riconoscerlo.

Ei non m’è novo,

mormora a un tratto la perspicace fanciulla, ma bisogna che lui si presenti per nome. Dopodiché, estasi e delirio – con la riserva, da parte di lui, che Amalia non deve sapere il ver. Cosicché Carlo elude tutte le domande, seppure in termini di cui chiunque non fosse un’eroina d’opera s’inquieterebbe un nonnulla…

AMALIA:
Mendaci novelle ti dissero ucciso.

CARLO:
Beato se chiuso m’avesse l’avel!

AMALIA:
Tu pure, o mio Carlo, provasti gli affanni?

CARLO:
Li possa il tuo core per sempre ignorar!

AMALIA:
Anch’io, derelitta, ti piansi lung’anni…

E tutti noi dubitiamo che Amalia Moor sarà mai candidata al Nobel per la fisica, vero? E infatti il suo mestiere non è quello di scovar neutrini, ma solo di riassumere a Carlo in pochi versi l’atto primo e l’atto secondo, cosicché lui, pur tormentato dalla candida fiducia di lei, possa giurar vendetta contro il malvagio fratello.giuseppe verdi,friedrich schiller,andrea maffei,jenny lind

E poi ci spostiamo nel cuore della foresta, dove ci sono le rovine di una torre. Stavolta niente grotta e niente caverna, ma abbiamo le ruine di antica ròcca – che sono teatralmente equivalenti. Tra le ruine il coro si compiace del proprio ruvido cuore di sasso per un po’, poi arriva Carlo e si mette di sentinella. I Masnadieri dormono, e Carlo una volta di più maledice se stesso e i suoi uomini – cosa che personalmente comincio a trovare più che un po’ irritante. Non gliel’ha ordinato il medico di mettersi alla loro testa, giusto? Ci ha messo un ottonario a superare i suoi scrupoli un paio d’atti orsono, e poi ha condotto questa pur discutibile gente di atrocità in atrocità… Per cui che adesso li chiami “malvagi” implicando che lui è diverso, è davvero piuttosto gratuito. E forse il dubbio viene anche a lui: piuttosto che affrontare un futuro disonorevole e senza Amalia, è pronto a farsi saltare le cervella… Ma poi ci ripensa, perché sarebbe troppo facile.

E chi ti entra, molto opportunamente, a questo punto? Arminio il camerlengo, che viene a portare vettovaglie a qualcuno di affamato e invisibile, rinchiuso sotterra nelle rovine. Col dubbio che ai suoi possa essere sfuggito qualcosa, Carlo ferma Arminio, lo interroga senza farsi riconoscere, poi Arminio fugge e Carlo trova nella segreta un vecchio attenuato come uno scheletro.

Dapprima lo scambia per un fantasma, poi riconosce suo padre, il quale racconta di come Francesco, delusissimo nel costatare che il vecchio genitore era meno morto di quanto sembrasse, lo avesse fatto gettare là sotto per completare l’opera. Poi sviene un’altra volta – e non fa granché d’altro questo anziano signore, vero? Espone e sviene, espone e sviene… 

Carlo, indignato e sconvolto, convoca i suoi Masnadieri e li nomina sul campo angeli ministri dell’ira divina. In altre parole, li spedisce ad assaltare il castello e catturargli il fratello – vivo. E chi l’avrebbe mai detto? Ai Masnadieri il ruolo piace proprio tanto. Sipario.

Atto Quartogiuseppe verdi,friedrich schiller,andrea maffei,jenny lind

Intanto, al castello, Francesco ha gli incubi – questo esantema comune tra i tiranni e/o assassini all’opera, ed è tanto sconvolto che ha mandato a chiamare il pastore. Intanto racconta ad Arminio di essersi sognato un giudizio universale privato, con tanto d’implacabile giuria di vittime… Arminio, ci dice Maffei, si allontana con atti di raccapriccio.

Ma si sa che un incubo condiviso è un incubo dimezzato: quando arriva il Pastore Moser, Francesco si è ripreso abbastanza da fingersi tracotante – almeno finché Moser gli dice che i peggiori peccati sono il parricidio e il fratricidio…

Ops.

Ma non c’è tempo per discutere il punto dottrinale: Arminio arriva annunciando l’assalto. Francesco perde la testa, vuole che si preghi per lui, vuole l’assoluzione (che Moser gli nega), vuole il perdono, vuole pregare pro se, non vuole affatto… Alla fine s’impicca – e non è nulla che conduca al perdono divino, giusto?

E intanto nella foresta il vecchio conte si dispera proprio per Francesco – cosa che fa dubitare a Carlo di essere stato un nonnulla precipitoso. Non potendoci più fare granché, tuttavia, si limita a liberare il padre e a chiedergli la sua benedizione senza farsi riconoscere. La gente non è sveglissimissima in questa storia: il vecchio Massimiliano, lungi dal fare due più due, si sente molto in colpa per tutto quello che è capitato ai figli, tra i figli e con i figli, ed è fin troppo contento di sentirsi dire dal presunto sconosciuto che Carlo di certo lo perdonerebbe…

Ma ecco arrivare i Masnadieri: alcuni confessano a testa bassa di non essere riusciti a catturare Francesco, altri trascinano Amalia catturata.

Segue confusione, perché ormai non c’è più modo di tenere nascosto che Carlo è il capo di questa gentaglia… E una volta di più, Carlo se la prende con i Masnadieri, improvvisamente declassati da angeli vindici a demonii:

Ma voi che nel fondo
dal ciel mi traeste,
ministri esecrati dell’ira celeste . . .

Come se fosse colpa loro! E a dire il vero non serve nemmeno più di tanto, perché Amalia, ditzier than ever, è dispostissima a fingere che dettagli come incendi, stragi, stupri e ruberie non siano mai accaduti.

giuseppe verdi,friedrich schiller,andrea maffei,jenny lindChi non è disposto a passarci sopra, è il coro che, in seguito ai truci giuramenti dell’Atto Primo, ha servito Carlo lealmente, con sprezzo del pericolo, e spesso in rima baciata – e adesso non vuol saperne di lasciarlo andare. Carlo li insulta ancora un po’, ma riconosce che non hanno tutti i torti. Niente da fare, Amalia cara.

E allora va’, singulta Amalia, ma prima uccidimi. E bisognerebbe stare attenti a quel che si chiede, perché Carlo la prende sul serio e, con un’altra bordata di insulti per i suoi uomini, la pugnala tra lo sconcerto generale. Al conte Massimiliano viene il coccolone definitivo, Carlo si avvia a consegnarsi***, Amalia muore, i Masnadieri costatano il decesso e il sipario cala. giuseppe verdi,friedrich schiller,andrea maffei,jenny lind

Quindi l’abbiamo visto: il libretto non era granché, e anche la musica non era granché. Per di più, la compagnia era perfetta solo sulla carta. Per Amalia, Verdi aveva voluto Jenny Lind, l’etereo e trillante Usignolo di Svezia – né si capisce perché, visto che non l’apprezzava nemmeno tantissimo. Per Carlo doveva esserci il magnifico Fraschini, e invece ci fu Gardoni, che non aveva altro merito se non di essere un bell’uomo… Verdi lasciò che la Lind (un’egocentrica retrograda musicale se mai ce ne fu una) facesse quel che le pareva, e di Gardoni si disinteressò bellamente. Dopo due sole prove d’orchestra, i Masnadieri andarono in scena diretti dal compositore in persona, e incontrarono quello che possiamo chiamare un successo di stima.

È molto probabile che non meritassero nulla di più e, dopo che Verdi se ne fu ripartito, sparirono dai cartelloni con la vellutata rapidità delle cose fatte senza convinzione.

 

 

___________________________________________

* Tre cambi di scena nel primo atto soltanto! La gioia di questa produzione ai tempi delle scene dipinte e letterali doveva essere al di là di ogni descrizione…

** Certo che ve ne ricordate: è stato appena prima dell’intervallo!

*** E so che cosa state pensando: lo lasciano andare, dopo tutto? E allora che bisogno c’era di far fuori Amalia? E che volete che vi dica? Questa non è mica la Fanciulla del West, non si può cavalcare via, liberi e felici e vivi, verso il tramonto…

Lug 15, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: Macbeth

Librettitudini Verdiane: Macbeth

Questa tragedia è una delle più grandi creazioni umane!… Se noi non possiamo fare una gran cosa cerchiamo di fare una cosa almeno fuori del comune,

scriveva Verdi a Piave ai primi di settembre – questa tragedia era il Macbeth di Shakespeare.

giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo vareseVerdi era uno shakespeariano furibondo, conosceva la tragedia scozzese a menadito e aveva idee molto precise e dettagliate su come dovesse essere tradotta in libretto. Prima di tutto, voleva brevità e sublimità… e fosse stato tutto qui!

Piave – povero Piave! – ci si mise d’impegno, ma scoprì presto che non c’era modo di accontentare Verdi. Nulla di quel che scriveva andava mai bene. Le lettere di rimprovero si susseguivano, sempre più brusche e sempre più impazienti. I versi non erano mai abbastanza stringati, le parole delle streghe non erano mai abbastanza strane, la Lady non era mai abbastanza incisiva…

Alla fin fine, quando il libretto fu finito – e Verdi scontento come all’inizio – Piave fu pagato ed estromesso dalla faccenda. Il suo nome non sarebbe comparso in copertina, e Maffei avrebbe risistemato le streghe e la Lady sonnambula…

Non posso fare a meno di chiedermi se Solera, da Madrid, sapesse dell’odissea e sghignazzasse tra sé e si sentisse vendicato per l’Attila rimaneggiato.

Ma vediamo un po’ che cosa musicò Verdi in sei mesi di frenesia compositiva…

Atto Primo.

Tutti sappiamo che si comincia con le streghe… Verdi voleva che parlassero in versi tronchi:

I. Che faceste? dite su!
II. Ho sgozzato un verro. E tu?
III. M’è frullata nel pensier
La mogliera di un nocchier:
Al dimon la mi cacciò…
Ma lo sposo che salpò
Col suo legno affogherò.
I. Un rovaio ti darò…
II. I marosi leverò…
III. Per le secche lo trarrò.giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo varese

Tronchi sono tronchi – e troncati ulteriormente dall’ingresso di un paio di capitani scozzesi. Gente vittoriosa: Macbeth (talora detto anche Macbetto per esigenze metriche), generale di fiducia del buon Re Duncano, e Banco.

Ora, le streghe salutano Macbeth come signore di Glamis e Caudore*, nonché re di Scozia.

E Macbeth, che delle tre cose è soltanto la prima, ma forse qualche pensierino alle altre due l’aveva fatto, trema.

“E io?” chiede Banco. Oh, lui non sarà re – ma i suoi figli sì.

E le streghe svaniscono, lasciando i due generali comprensibilmente scossi…

Tanto più che l’ingresso successivo è quello di un messaggero reale: in premio per la battaglia vinta, il buon Duncano concede a Macbeth la signoria di Caudore, appena levata a un vassallo ribelle…

Ops.

giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo vareseMa allora, se uno dei vaticini rispondeva a verità… Macbeth impiega meno di una sestina a fare due più due e a decidere che non, non, non è il tipo del golpista. E intanto Banco è meno compiaciuto di quanto dovrebbe o potrebbe essere un buon amico…

Chi ha tutta l’aria di volersi divertire un sacco sono le streghe, che tornano per un attimo a promettere cose sinistre. Ma d’altra parte, questo è Shakespeare – per non parlare di Verdi! Saremmo delusissimi del contrario, giusto?

Intanto, al castello… Oh d’accordo, non “intanto”, ma tanto tempo dopo quanto ne basta perché arrivi un messaggero a cavallo, Lady Macbeth legge la lettera con cui il consorte le racconta quel che sta accadendo. E subito capiamo che Lady M. è fatta di un’altra pasta: la sua prima preoccupazione sembra essere per la carente malvagità di Macbeth.

E in effetti, ricordate che aveva detto di non voler fare nulla di truce? Però

Pien di misfatti è il calle
Della potenza, e mal per lui che il piede
Dubitoso vi pone, e retrocede!

Oh well, poco male. Gli uomini vanno guidati – ed è per questo che ci sono le mogli, giusto? Ci penserà lei a spingerlo sul trono, costi quel che costi.

E chi ti va ad arrivare proprio al momento giusto? Ma il buon Re Duncano, con Macbeth al seguito.

Trovi accoglienza quale un re si merta,

sibila Lady M. – e noi di questa donna cominciamo proprio ad avere paura.

Dopo di che, ai Macbeth ricongiunti basta il più scarno dei recitativi ad accordarsi sull’accoglienza in questione. Lui esita: e se si fallisce? Forse lasciato a se stesso rinuncerebbe, ma Lady M. è inflessibile: se non ora, quando?

E infatti, qualche ora più tardi, appena il re si è ritirato al suono di musica villereccia, Macbeth comincia a vedere pugnali dappertutto, trema, si agita e poi prende il coraggio a quattro mani e va ad agire.

Quando rientra, stravolto e con un pugnale in mano, diventa subito chiaro che l’omicidio a sangue freddo non è il suo mestiere. Sente le voci, trema, delira… Lady M. è scossa a sua volta, ma molto più lucida e un nonnulla disgustata. Quando né ordini né incoraggiamenti** né sarcasmo servono a nulla, è lei a rientrare nelle stanze del re per lasciare il pugnale e sporcare di sanguegiuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo varese le guardie.

Così i gufi bubbolano, Lady M. depista, il marito di Lady M. si sente arrivare addosso l’insonnia cronica da rimorso e…

Chi bussa?

Macbeth è pronto a perdere la testa. Per fortuna c’è sua moglie ad avere la brillante idea di farsi trovare a letto. I due sposi e complici si dileguano, ciascuno con le mani insanguinate e, quando Banco e il nobile Macduff scoprono il cadavere di Re Duncano, ricompaiono con le mani pulite e l’apparenza del più profondo sbigottimento.

Sono persino capaci di unirsi al coro che maledice gli ignoti assassini – e nessuno si stupisce se la maggior parte dei registi rende la maledizione di Lady M. più convinta di quella del marito. 

E sipario.

Al giungere dell’Atto Secondo, il figlio di Duncan è fuggito in Inghilterra e tutti lo credono colpevole, e Macbeth è re di Scozia ma, come molti re all’opera, non è che dorma proprio bene.

Rimorso? Ssssì, ma più che altro, continua a pensare alla seconda metà della profezia, quella che riguarda i figli di Banco.

E lo si può anche capire: tutta quella fatica per poi passare la corona alla prole altrui? Giammai.

E guardate come Lady M. gli lascia credere che sia sua l’idea:

LADY:
Egli e suo figlio vivono, è ver…

MACBETH:
Ma vita immortale non hanno…

LADY:
Ah si, non l’hanno!

MACBETH:
Forz’è che scorra un altro sangue, o donna!

Ma sì, che vogliamo mai? Omicidio più, omicidio meno… E se Macbeth deve sforzarsi per convincersi, è chiaro che invece Lady M. ci prova gusto. Lei lo voleva proprio, questo trono – e non sarà certo un Banco qualsiasi a levarglielo, che diavolo!

E non so se, al posto di Banco, sapendo quel che Banco sa e dubitando quel che Banco dubita e sospettando quel che Banco sospetta, me ne sarei andata a spasso per il parco di Macbeth a notte fonda e senz’altra compagnia che un figlio ragazzino. Dopodiché non vedo che possa davvero lamentarsi quando un allegro coretto di sicari gli zompa addosso nel buio, vi pare?

Intanto, al castello i Macbeth intrattengono regalmente il coro e Macduff (che è un tenore della varietà non amorosa, e finora non è servito a granché – ma abbiate fiducia). E c’è forse un che di forzata gaiezza in questi due – ma come biasimarli? Tanto più che arriva un sicario ad annunciare che Banco è morto, ma il figlio no… ops. Questo vanifica un po’ tutto, vero?

giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo vareseMa non davanti agli ospiti. Nell’ansia di fare buon viso a cattivo gioco, Macbeth si lagna dell’assenza di Banco… finché non ne vede il fantasma tranquillamente seduto a tavola.

E allora, capite, perde un pochino la testa. Ora, tutto si può dire di Macbeth, ma non che sia un codardo. Invece di fuggire strillando, si rivolge allo spettro, lo apostrofa, lo interroga, lo minaccia… Peccato che lo veda soltanto lui. Gli ospiti sono, non del tutto incomprensibilmente, sconcertati, e Lady M. è livida:

E un uomo voi siete?
Vergogna, signor!

Tra l’altro, il fantasma è intermittente: ogni volta che Macbeth tenta di minimizzare o la sua consorte riprende il brindisi, eccolo che fa bubu settete di nuovo. Macbeth farnetica, Lady M. si chiede che razza di mozzarella abbia sposato, e gli ospiti si dileguano quatti quatti – perché non c’è nulla come un’apparizione di fantasmi per rovinare una cena. L’ultimo ad andarsene è Macduff, cui comincia a balenare qualche ombra di sospetto.

E mentre cala il sipario, che resta da fare a un povero usurpatore omicida, se non decidere di cercare quelle imbroglione tendenziose delle streghe e cantargliene quattro?

Atto Terzo

È il momento della caverna regolamentare. Questa è oscura anziché orrida – ma caverna è. E ci sono le streghe, col calderone. E, ad opera del cavalier Maffei, giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo varesecantano così:

I. Tre volte miagola la gatta in fregola.
II. Tre volte l’upupa lamenta ed ulula.
III. Tre volte l’istrice guaisce al vento.

TUTTE:
Questo è il momento.
Su via! sollecite giriam la pentola,
Mesciamvi in circolo possenti intingoli:
Sirocchie, all’opera! l’acqua già fuma,
Crepita e spuma.
(gettando nella caldaia)

I. Tu, rospo venefico
Che suggi l’aconito,
Tu, vepre, tu, radica
Sbarbata al crepuscolo
Va’, cuoci e gorgoglia
Nel vaso infernal.

II. Tu, lingua di vipera,
Tu, pelo di nottola,
Tu, sangue di scimmia,
Tu, dente di bòtolo,
Va’, bolli e t’avvoltola
Nel brodo infernal.

III. Tu, dito d’un pargolo
Strozzato nel nascere.
Tu, labbro d’un Tartaro,
Tu, cuor d’un eretico,
Va’ dentro, e consolida
La polta infernal.

Tutte: (danzando intorno)
E voi, Spirti

Negri e candidi,
Rossi e ceruli,
Rimescete!
Voi che mescere
Ben sapete,
Rimescete! Rimescete!

giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo varesePittoresco, nevvero? Arriva Macbeth a chiedere lumi, e gli si propone una consultazione con gli spiriti – i quali gli dicono: a) di guardarsi da Macduff – e a questo ci aveva già pensato da solo; b) di star sicuro che nessun nato da donna può nuocergli; c) che il suo trono sarà saldo finché non si muoverà il bosco di Birna(m). Data la non elevatissima densità di gente non nata da donna e boschi semoventi nella Scozia dell’epoca, Macbeth potrebbe fermarsi qui e andarsene a dormire contento…

E magari lo farebbe, se fosse un tenore. Ma essendo invece un baritono, ha una mente logica e gli viene il dubbio: ma se è così invincibile, come la mettiamo con la discendenza di Banco?

Le streghe cercano di eludere la domanda, ma poi gli mostrano una processione di spiriti coronati scortati dallo spettro di Banco.

Ma… si stupisce Macbeth. Eh sì, replicano le streghe. I calcoli Macbeth può farseli da solo e, facendoseli, sviene.

E qui nell’edizione riveduta per la Francia del ’65 (quella che per lo più s’esegue oggidì), c’è un balletto di spiriti aerei che si suppone debba rinfrancare il nostro povero usurpatore.

E arriva Lady M., e Macbeth, rinfrancato ma scosso, le racconta delle nuove profezie. Con logica impeccabile, Lady M. decide che sono tutte vere tranne l’ultima e comunque, nel dubbio, meglio liberarsi una volta per tutte di Macduff con moglie e figli e del figlio di Banco.

E questa volta Macbeth non fa più nemmeno finta di esitare. Siamo in ballo e balliamo, giusto?

Sipario. giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo varese

Atto Quarto – e si direbbe che Macbeth si sia lasciato prendere un nonnulla la mano. Non solo ha sterminato la famiglia di Macduff, ma ha messo a ferro e fuoco la Scozia nella sua caccia, tanto che cori interi di profughi se ne stanno a lamentarsi molto pateticamente appena al di qua del confine inglese.

Ma comincia a sembrare che i Macbeth possano aver fatto i conti senza l’oste, perché non solo Macduff è ancora vivo e affamato di vendetta, ma c’è anche Malcolm (il figlio di Duncano, ricordate?), che arriva parimenti intenzionato conducendo molti soldati inglesi e, in un momento d’ispirazione tattica, ordina a tutti quanti di provvedersi di un ramo mimetico dai rami del bosco.

Quale bosco? Il bosco di Birna(m).

Oh oh…

Intanto al castello, da una parte una sonnambula Lady M. ha le ben note difficoltà igieniche:

Di sangue umano
Sa qui sempre… Arabia intera
Rimondar sì piccol mano
Co’ suoi balsami non può.

giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo vareseE dall’altra Macbeth si dibatte tra rimorso, paura, ferocia, solitudine e rimpianto…

E sì, potevano pensarci prima – ma, forza di Shakespeare e di Verdi, noi non siamo capaci di restare insensibili alla disperazione dell’uno e dell’altro.

Dopodiché tutto comincia ad assumere l’inconfondibile forma di una pera.

Lady M. muore – se di affanno, suicidio o altro non è chiaro – e Macbeth la prende in maniera… stramba.

Ma non basta, naturalmente, e arriva una sentinella ad annunciare che, o prodigio, la foresta di Birna(m)… er, si muove.

E Macbeth si scuote un po’ di più. Ma è un fiero signore della guerra scozzese: di nuovo, invece di scappare strillando, impugna la spada e va ad affrontare il suo destino.

Che gli si presenta nella forma di… Macduff. giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo varese

Oh, d’accordo. Avremmo preferito qualcuno di un po’ più.. un po’ meno… Però state a sentire: quando Macbeth lo invita a levarsi di torno, perché nessun nato da donna può fargli un baffo, Macduff si svela. Non so se conti come un’agnizione, ma sta di fatto che il nostro tenore-non-amoroso è nato con parto cesareo. Tecnicamente non è nato da donna.

Vatti a fidare delle streghe.

E sì, è un inqualificabile cavillo, ma che vogliamo farci? Macduff e Macbeth escono di scena duellando, e tutti sappiamo come va a finire. E poi tutto succede offstage, e Macduff rientra trionfante, e il coro esulta, e Malcolm si proclama re, e la Scozia è liberata, e tutti sono molto felici, e noi parteggiavamo per il baritono, ma fa lo stesso.

Sipario.

Ecco qui. Quando ebbe messo tutto in musica, Verdi cominciò a seguire le prove con la ferocia incontentabile di un gallo da combattimento. Le prove furono un massacro creativo. Sopravvivono le lettere in cui Verdi istruisce puntigliosamente il baritono Carlo Varesi, primo Macbeth. Marianna Barbieri-Nini, la prima Lady Macbeth (scelta perché era brutta e di voce aspra come Verdi voleva), scrive nelle sue memorie di avere provato un certo duetto non meno di centocinquanta volte, prima che fosse cupo e “quasi parlato” come lo voleva il compositore…

giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo vareseMa Verdi aveva ragione: nel marzo del 1847 il Macbeth debuttò alla Pergola di Firenze, e fu un successo maiuscolo – con la possibile eccezione del libretto.

A quanto pare c’è un intrecciarsi di nemesi beffarde, quando si tratta di libretti. Vi ricorderete che il nome di Piave non compariva, ma si sapeva che l’autore era lui. A Firenze Piave non era popolare – e che le stroncature dei versi fossero un po’ partito preso lo dimostra il fatto che i pezzi più presi di mira furono proprio il coro delle streghe e la scena del sonnambulismo. Quelli di Maffei. Quelli di cui il povero Piave era del tutto innocente.

 

 

________________________________________

* Cawdor, in realtà. E a dire il vero non so nemmeno se valga la pena di cominciare con la toponomastica scozzese ad uso dei melomani…

** Yes well, dubito che l’equivalente operistico di “dormiamoci su e domattina andrà tutto meglio” sia fatto per funzionare in caso di assassinio.

Lug 8, 2013 - Anno Verdiano, Storia&storie    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: Attila

Librettitudini Verdiane: Attila

giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffei“Perché non Attila?” disse Maffei – e Verdi, se avesse avuto delle antenne, le avrebbe rizzate.

Andrea Maffei – marito della più celebre Clarina – era un poeta, un librettista, un traduttore dall’Inglese e dal Tedesco. Per cui conosceva bizzarrie germaniche come il dramma di Zacharias Werner sul re degli Unni…

Verdi qualche tempo prima aveva letto De l’Alemagne, di Mme de Staël, in cui, tra l’altro, proprio quel dramma si riassumeva con entusiasmo. E ne era rimasto colpito. Gli pareva una bella storia cupa e romantica (nel senso meno sentimentale del termine), piena di forza tragica e ambientata in un tardo impero tanto oscuro da essere esotico di risulta. Figurarsi quando Maffei glielo propose come soggetto “barbaro”!

Dopo la batosta napoletan-peruviana dell’Alzira, bisognava andare sul sicuro: la collaudata Fenice e il fidato Solera sembravano una buona combinazione… peccato che Solera fosse a Madrid, in autoesilio per sfuggire ai creditori, e fosse men che sollecito nel consegnare i versi. Per di più aveva le sue idee su come dovesse essere il libretto, continuava a battere sull’aspetto risorgimental-patriottico, a discapito delle psicologie individuali e dell’Impero che franava a valle – che a Verdi interessavano molto di più. giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffei

Quando diventò evidente che Solera nicchiava con l’atto terzo – e forse in considerazione del fatto che battere troppo su un’Italia che si libera dei barbari occupanti significava cercar grane con la censura – Verdi si rivolse a Piave chiedendogli (con la consueta abbondanza di istruzioni e raccompandazioni) di risistemare e finire il tutto.

Solera, dalla Spagna, si offese a morte e non volle mai più collaborare con Verdi. Il povero Piave-Gatto si lesse Mme de Staël, si lesse Werner (forse tradotto da Maffei) e sistemò tutto come voleva Verdi.

Quindi: Verdi, Solera, Piave – e anche Werner, e probabilmente un po’ Maffei… Vediamo che ne uscì.

Il Prologo comincia ad Aquileia caduta. Eruli, Ostrogoti & Unni si aggirano tra le macerie fumanti, compiacendosi coralmente dell’abbondanza di urli, rapine, gemiti, sangue, stupri e rovine…  Credevano forse di resistere ad Attila, questi scemi di Aquileiesi? Ha!

giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffeiEd eccolo qui, Attila su un carro trainato dagli schiavi, duci, re, ecc…* E prima che noi possiamo farci domande su quell’affascinante ecc…, il coro barbarico accoglie il suo condottiero così:

Viva il re delle mille foreste,
Di Wodano ministro e profeta;
La sua spada è sanguigna cometa,
La sua voce è di cielo tuonar.
Nel fragore di cento tempeste
Vien lanciando dagl’occhi battaglia;
Contro i chiovi dell’aspra sua maglia
Come in rupe si frangon gli acciar.

E Attila (basso) sarebbe soddisfatto, non fosse che il suo fedele schiavo Uldino entra conducendo un gruppo di donne locali che, contrariamente agli ordini, ha salvato per offrirle in dono al Re. Dopo tutto sono una rarità esotica, e hanno pugnato in armi.

Allor che i forti corrono
Come leoni al brando
Stan le tue donne, o barbaro,
Sui carri lagrimando.
Ma noi, donne italiche,
Cinte di ferro il seno,
Sul fumido terreno
Sempre vedrai pugnar,giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffei

chiarisce Odabella**, il nostro soprano – e chi vuole intendere, intenda. Attila s’innamora sur-le-camp, le offre una grazia a scelta e, quando lei chiede una spada, le offre gentilmente la sua e la lascia libera di vagare a suo gusto per il campo.

Ora, voi sapete che ho una predilezione per le voci gravi, ed è mia convinzione che, in questo come in molti altri casi, nessuna donna sana di mente che non ci fosse costretta dal libretto, potrebbe preferire il tenore al basso e/o al baritono. Ciò detto, se non vi siete fatti l’impressione che Attila sia candidabile al Nobel per la fisica, non so biasimarvi…

E infatti Odabella, che ha un padre e un moroso da vendicare, gioisce tra sé – perché quella spada non ha intenzione di usarla al posto delle forbicine da ricamo. E Attila si stupisce di come l’ardire e la bellezza di Odabella dolcemente gli fiedano il cuore. 

Ma non distraiamoci. La guerra è guerra, e Attila manda tutti quanti per la loro strada, perché ha da ricevere l’inviato di Roma.

E l’inviato di Roma altri non è che Ezio, il nemico preferito di Attila, quello che gli ha rifilato una batosta di tutto rispetto ai Campi Catalaunici – e l’abbiamo già capito, ad Attila piace la gente tosta, purché non se ne venga con proposte di pace…

Peccato che Ezio se ne venga a proporre qualcosa di peggio della pace. giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffei

Perché Ezio, vedete, è uno di quei generali di sangue barbaro che sono più fedeli a Roma dei Romani stessi, e la cui lealtà in genere viene ricompensata così così***. Ed Ezio non ne può davvero più dell’imbelle giovine**** Valentiniano che siede sul trono d’Occidente. Seccherebbe molto ad Attila spartirsi con Ezio questo vecchio impero malconcio e tanto bisognoso di una mano energica – o due?

Poffarbacco!

Noi Ezio lo perdoniamo (o almeno sospendiamo il giudizio) perché è un baritono, ma Attila, che non è frenato da queste considerazioni timbriche ed è un nobile re guerriero, s’indigna. Se Roma è così malmessa che il suo eroe più valido pratica tradimento e spergiuro, allora è proprio tempo che gli Unni radano tutto al suolo.

Ah be’, ma se la mettiamo così, Ezio non ha altro da dire, se non: guerra! Dopo tutto, gliele ha suonate una volta, ad Attila, ed è capacissimo di farlo ancora. E i due si separano vicendevolmente furibondi.

Chiudesi il prologo dalle parti della futura Venezia, dove un coro di eremiti accoglie un coro di aquileiesi in fuga, guidati da… Foresto? Possibile? Il comandante e salvatore dei fuggiaschi è un tenore che non è poi così morto come noi e il soprano credevamo, e che si dispera perché la sua bella è prigionera del nemico conquistatore – da cui, incidentalmente, vuole liberare la patria afflitta…

E lo so, suona familiare, ma fidatevi: secolo diverso, continente diverso, costumi diversi, finale diverso. Insomma, abbastanza diverso… oh well.

E con questo siamo soltanto alla fine del prologo. Sarà meglio che ci affrettiamo all’Atto Primo.

E cominciamo con Odabella che vaga nottetempo nei boschi e pensa ai casi suoi, giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffeifinché non le arriva addosso Foresto travestito da Unno. E forse anche questo vi suonerà vagamente familiare, perché a lei quasi prende un coccolone nel vedersi davanti il moroso redivivo, ma lui è furibondo perché la crede collaborazionista: com’è che se ne gira libera e armata, eh?

E lei fatica un po’, tra giuramenti e citazioni bibliche, a convincerlo che tutto quel che vuole è vendicarsi infilzando Attila con la sua stessa spada.

“E perché non l’hai ancora fatto?” sarebbe la domanda sensata, viste le generali circostanze…

Ma Foresto è un tenore, e invece va in estasi, chiede perdono e i due cinguettano e s’invitano a vicenda a inebriarsi nell’amplesso–

Ma no, cosa avete capito? Opera, Ottocento, censura! Tutto molto casto – e comunque fade to

La tenda di Attila che, in una scena reminiscente del Riccardo III*****, si sveglia da un incubo. Perché insomma, imman gli apparve un veglio, che l’ha preso per i capelli e gli ha ingiunto di lasciare in pace Roma, che il suo incarico divino prevedeva la flagellazione dei mortali, ma Roma è di Dio.

Raccapriccio!

esclama il fedele Uldino – ma Attila si riprende prima di subito, arrossice della sua debolezza e anzi, convoca il coro tutto: armi e bagagli, ragazzi, che si parte per Roma.

Ma…

Che d’è quella religiosa armonia che risponde alle trombe guerriere degli Unni?

giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffeiÈ Papa Leone, con sei anziani e un corteo di vergine e fanciulli in bianche vesti. C’è anche Foresto, nascosto in mezzo al coro, ma nessuno bada a lui. Cosa più interessante, nel vecchio disarmato, Attila riconosce l’uomo del suo incubo. E, guarda caso, Leone ripete proprio le parole del sogno: basta così, grazie, flagellato abbastanza, Roma no…

Aiuta che alle sue spalle Attila veda un paio di gigantesche figure armate di spade fiammeggianti. Chi l’avrebbe mai detto? Per lo sbigottimento degli Unni e la meraviglia dei locali (e, a quanto pare, di Leone stesso), Attila cade in ginocchio, pronto a prendere, incartare e portare a casa la divina ammonizione.

E qui (soprattutto dalle mie parti), saremmo anche disposti a considerare finita la faccenda. E invece no: è finito solo l’atto primo.

E l’Atto Secondo comincia con Ezio, di umor nero perché il pavido Valentiniano lo riconvoca in tutta fretta a Roma, proprio adesso che si potrebbe dare il colpo di grazia agli Unni in ritirata… ah, dov’è finita la potenza di Roma? Dove andremo a finire? Non ci sono più le mezze stagioni, eccetera.

Ma a interrompere le lamentazioni del generale arriva uno stuolo di schiavi d’Attila, recante richiesta di un abboccamento. E perché mandare uno stuolo di schiavi a parlamentare? Ma perché così ci si può nascondere in mezzo, e poi restare indietro inosservato, Foresto. Foresto che viene a giocare agl’indovinelli. Non chiedermi perché, non ti dico chi sono o come lo so, ma in serata si fa fuori Attila. Tu tieniti pronto e, al segnale, attacca.

E magari sarebbe legittimo dubitare, non vi sembra? Trappola, imboscata, ruse de guerre?

Ma no: ad Ezio non par vero di avere l’occasione di ignorare gli ordini imperiali. Per mal che vada, morirà in battaglia, risparmiandosi il resto del declino di Roma.

E noi facciamo appena in tempo a tornare al campo di Attila, dove Eruli, Ostrogoti & Unni gozzovigliano, e Attila presiede con Odabella al fianco vestita da amazzone, e Foresto si nasconde in mezzo al coro (again)… Facciamo appena in tempo a tornare, dicevo, che arrivano Ezio e i suoi.

E salta fuori che, nonostante il carattere piuttosto truculento dei brindisi, quel che vuole Attila è offrire una tregua e celebrarla con una buona cena. giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffei

Il che, fanno lugubremente notare i druidi, porta malissimissimo… E se Attila crede di risollevare gli animi con un po’ di musica, sbaglia: il vento interrompe il già non allegerrimo canto delle sacerdotesse e spegne fuochi e lucerne, e tutti cominciano a farsi un nonnulla nervosi. 

Foresto ne approfitta per sussurrare a Odabella che il fedele Uldino è in realtà pronto ad avvelenare Attila; Odabella s’indigna perché Attila lo vuole infilzare lei; Uldino, col veleno in mano, cerca di farsi coraggio; il coro si agita; Ezio torna a proporre alleanza contro Valentiniano; Attila rifiuta sdegnato ma, a mezza via tra Winnie the Pooh e (again) Riccardo III, deve ammettere che:

Oh rabbia! Non sento più d’Attila il cor!

E poi il cielo si rasserena all’improvviso, e potremmo quasi credere a un anticlimax, se non fosse che Attila, nell’ansia di superare il momentaccio, sta per bere. Per bere dal boccale che gli ha portato Uldino…

Ma no! Odabella lo ferma, gli rivela il tentato avvelenamento e, quando Attila, non incomprensibilmente, vuol sapere chi è stato, è Foresto a farsi tenorilmente avanti.

Sensazione.

Attila riconosce il capitano aquileiese che tanto filo da torcere gli ha dato in battaglia – e adesso gliela fa vedere lui.

Poco sforzo, adesso! provoca Foresto.

E Odabella chiede in premio la sua vita.

E Attila acconsente, e ci aggiunge la corona di regina degli Unni, da suggellarsi con matrimonio l’indomani.

E Foresto fugge non senza avere prima maledetto Odabella (again), e dite la verità: non potremmo quasi crederci tornati in Perù?

giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffeiA riprova del fatto che invece siamo ad Aquileia, Ezio si morde le nocche per il fiasco, Uldino pensa che l’ha scampata bella e che deve un gran favore a Foresto, e il coro non ne può davvero più: facciamogliela vedere, a questi Romani arroganti e avvelenatori, e che diamine!

Sipario.

Atto Terzo, e non ci stupiamo di trovare Foresto nel bosco tra il campo di Attila e quello di Ezio – lui che passa di qua e di là come se nulla fosse. Ad ogni modo, adesso è lì nella terra di nessuno a mangiarsi le unghie al pensiero di Odabella fedifraga. Ed entra Uldino a dire che la sposa è appena salita in automobile partita col corteo verso la tenda di Attila. Ed entra Ezio a chiedere che cosa stanno aspettando. E Foresto vaneggia ancora sull’infedeltà di Odabella. Ed Ezio, con tutta l’aria di avere sentito i vaneggiamenti molte e molte volte, gli fa notare che lui ha in mente cose più importanti di una ragazza poco seria – tipo il destino dell’Impero. Ed entra Odabella vestita da amazzone/sposa/regina******, vaneggiando a sua volta. Si direbbe che lo spettro del babbo sia venuto a tirarle le coperte: ma proprio Attila, doveva sposare? Foresto, ça va sans dire, concorda col fantasma.giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffei

E mentre Ezio cerca di affrettare i tempi, Odabella si proclama innocente e ultrice, e Foresto non le crede (again)…

Ed Ezio non aveva tutti i torti, perché arriva Attila, cercando la sua novella sposa.

E la trova abbracciata a un riluttante Foresto in presenza di Ezio.

Ops.

Ma come? s’infuria Attila. Lui ha sollevato Odabella da schiava a regina, ha risparmiato Foresto e non ha distrutto Roma – e adesso tutti cospirano contro di lui?

E a noi viene il dubbio che a Solera sia sfuggito qualcosa – o che Piave ci abbia messo parecchio di suo. Siamo sinceri: tra Foresto che passa il tempo a nascondersi tra gli alberi e le comparse e a maledire ingiustamente Odabella*******, Uldino che viene trattato come un figlio e ricambia col veleno, ed Ezio che, baritono o meno, muore dalla voglia di tradire qualcuno fin dal prologo, per chi dovremmo simpatizzare, se non per Attila?

giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffeiE mi sembra degno di nota che Odabella dica di non poter consumare il matrimonio con Attila perché lui le ha ucciso il padre. Non per altri motivi come, ad esempio, Foresto.

Ma a questo nessuno ha l’aria di badare troppo. Mentre si sentono in quinta le grida dei Romani che assaltano gli Unni già piuttosto su di giri, Foresto parte per pugnalare Attila, ma Odabella lo precede… Anche a voi sembra un gesto da donna innamorata? Ad Attila, devo dire, non molto.

E tu pure, Odabella?

mormora – e poi muore.

E in quella che credo sia la scena più breve della storia dell’opera, guerrieri romani irrompono da tutte le parti per informarci che

Appien sono
Vendicati, Dio, popoli e re!

Sipario.

E insomma, sì. C’erano grandi aspettative per questo Attila. Verdi ne scriveva dicendo che i suoi amici la consideravano la sua opera migliore – con quel genere di tono che implica “lo penso anch’io, ma non lo dico”, e doveva essere il riscatto dopo l’Alzira.

Tutto quel che si può dire è che la carriera di Verdi non fu un progresso trionfale di successi da far crollare il loggione, e che l’Attila andò tutt’altro che male.  

E sapete, tuttavia, quale fu la beffa più maiuscola? Verdi si aspettava grandi cose dai finali secondo e terzo, e invece la Fenice applaudì “con maggior fanatismo” proprio il più patriottico, più risorgimentale, più soleriano atto primo.

Solera, da Madrid, avrebbe potuto trarne tutta la consolazione che voleva.

 

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* Holla, ye pampered jades of Italy… No, scherzi a parte, non è bizzarro che nessuno abbia tratto un’opera dal Tamburlaine di Marlowe? Ci sono almeno un paio di Tamerlani – uno di Haendel, l’altro non ricordo – ma nessuno, per quanto ne so, tratto da Marlowe…

** Un giorno ci chiamerò una gatta.

*** Belisario, anyone? E sì, era Costantinopoli e non Roma – but still.

**** Werner, Solera e Piave ce lo fanno passare per adolescente, ma in realtà Valentiniano nel 452 aveva ben passato la trentina. Ma d’altronde nemmeno l’Imperatore d’Oriente Marciano era poi così tardo per gli anni e tremulo come vuole il libretto… Però così Ezio ci fa una figura vagamente migliore.

***** Altra cosa da cui è strano che nessuno abbia mai tratto un’opera. Almeno per quanto ne sappia. Qualcuno ha qualcosa da segnalare in proposito?

****** No, davvero.

******* D’altra parte, Vedi per primo… C’è una favolosa lettera con cui chiede a Piave di verseggiargli una romanza supplementare per Foresto, su richiesta del tenore russo Ivanoff. Ed è davvero una forma di consolazione leggere che Verdi descrive Foresto come quell’imbecille di amoroso.

Lug 1, 2013 - Anno Verdiano, musica    2 Comments

Librettitudini Verdiane: Alzira

Se mai opera nacque sotto i migliori auspici, probabilmente fu l’Alzira. giuseppe verdi, anno verdiano, salvatore cammarano, alzira, voltaire, teatro san carlo

Insomma, il San Carlo di Napoli era un teatro difficile da accontentare. Venirci chiamati – come capitò a Verdi nel ’44, e vedersi offrire la collaborazione con un principe dei librettisti come l’esperto, celebre e notevole Salvadore Cammarano, era un’opportunità non da poco.

Verdi accettò di slancio e diede a Cammarano carta bianca – bianchissima: qualsiasi cosa il librettista avesse in mente, lui l’avrebbe musicata con entusiasmo.

giuseppe verdi,anno verdiano,salvatore cammarano,alzira,voltaire,teatro san carloE Cammarano aveva in mente Voltaire. Ma non un Voltaire qualunque: Alzire, Ou Les Américains – tragediona in cinque atti con gli Incas e i Conquistadores, il Buon Selvaggio e il Cristianesimo, l’Amore e la Vendetta – tutto in maiuscole. E, giusto per non farsi mancare nulla, il tutto si svolgeva in Perù! Che si poteva volere di più in fatto di esotismo?

Per un po’, Verdi e Cammarano si danzarono intorno in reciproco entusiasmo come due uccelli-lira nella stagione del corteggiamento, sotto lo sguardo benevolo di Vincenzo Flauto, impresario del San Carlo. Poi…

Be’, poi cominciarono i guai.

Cammarano si rivelò verseggiatore lento.

Verdi si ammalò.

L’Eugenia Tadolini, il supersoprano su cui Verdi aveva messo gli occhi per il ruolo eponimo, si rivelò incinta.

Di Anna Bishop, la possibile Alzira inglese caldeggiata da Flauto, Verdi non voleva nemmeno sentir parlare.

Cammarano diceva sempre di sì a tutte le modifiche richieste da Verdi – e poi faceva sempre di testa sua.

Verdi seguitava in cattiva salute.

Flauto cominciò a credere (forse non del tutto a torto) che Verdi stesse tergiversando.

Il libretto dopo tutto era molto meno meraviglioso di quanto fosse parso in un primo momento.

Anna Bishop sobillò melomani e stampa contro il compositore forestiero…

Alla fine fine, tanto si procrastinò che la Tadolini rientrò in servizio e Verdi, col libretto finalmente completo, si mise al lavoro. Leggenda vuole che musicasse tutto quanto in venti giorni – per poi precipitarsi a Napoli per le prove. giuseppe verdi,anno verdiano,salvatore cammarano,alzira,voltaire,teatro san carlo

Con Flauto seccato, la Tadolini convalescente, Verdi convalescente e seccato, Cammarano freddino, la città ostile e la Bishop che soffiava sul fuoco, potete immaginare che il clima non fosse dei migliori.

E per di più il libretto era… yes, well.

Ma vediamo.

Per cominciare, immaginatevi una vasta pianura, irrigata dal Rima: l’oriente è ingombro di maestose nubi, imporporate dai raggi del sole nascente. Quando il sipario si apre sul prologo, una tribù di Americani è intenta a pregustare in coro le brutte cose da farsi al prigioniero spagnolo – nientemeno che il vecchio e canuto governatore del Perù.

E vi riporto, perché ne vale la pena…

Muoja, muoja coverto d’insulti,
I martiri sien crudi, ma lenti,
(Con accento ferocissimo)
Strappi ad esso codardi singulti

Il tormento di mille tormenti. –
O fratelli, caduti pugnando,
Dalle tombe sorgete ululando…
L’inno insieme del trionfo s’intuoni,
Mentr’ei sparge l’estremo respir.

Ecco, appunto. Ma mentre già levano dardi (!), picche e tizzi ardenti per grigliare Don Alvaro, piomba tra loro in canòa il tenore – accolto con gran gioia da tutti senza che, cosa rilevante, nessuno lo chiami per nome.

A dimostrazione del fatto che non è poi così selvaggio, il giovanotto fa grazia a Don Alvaro e lo rimanda per la sua strada. Solo a questo punto si rivela essere il capo locale Zamoro, che tutti credevano morto, e ci racconta come a) le voci sulla sua morte fossero decisamente premature; b) non abbia altra brama al mondo se non quella di vendicarsi di Gusmano, figlio di Don Alvaro; c) sia ansioso di riunirsi alla sua bella Alzira.

giuseppe verdi,anno verdiano,salvatore cammarano,alzira,voltaire,teatro san carloAh, ma il fatto si è che Alzira, insieme al babbo capo Ataliba, è prigioniera degli Spagnoli a Lima… Ebbene, ragione di più per raccogliersi attorno tutte le tribù furibonde, marciare su Lima e dare agli Spagnoli quel che spetta loro, giusto? E così, galvanizzati dalla prospettiva, i nostri Americani si avviano tumultuosi, agitando all’aura vivamente e dardi, e clavi, ed aste.

Sipario – e Atto Primo, che, alla maniera di Cammarano, ha un suo titolo: Vita per vita.

Siamo a Lima, adesso, dove è appena arrivata una nave recante dispaccio reale.

Alvaro comunica a soldati, ufficiali e popolo che Madrid gli ha concesso il sospirato pensionamento. Il nuovo governatore è suo figlio Gusmano – che è, badate bene, baritono.

E Gusmano comincia il suo governatorato stringendo la pace con Ataliba, re Inca – pace da suggellarsi con il matrimonio tra Gusmano stesso e Alzira, la bella figlia di Ataliba.

Ataliba chiede un po’ di tempo: Zamoro, il precedente fidanzato della fanciulla, è morto in battaglia e lei è ancora un tantino scossa… Gusmano capisce, ma è innamorato e non ha nessuna particolare voglia di aspettare. Vorrebbe, per favore, Ataliba esercitare la sua autorità paterna?

Perché insomma, va bene essere capitani vittoriosi, va bene essere governatori del Perù – ma senza il cor d’Alzira/un mondo è poco a lui…

Ataliba vorrebbe, e tutto il coro spagnolo simpatizza.

Chi non vorrebbe affatto è Alzira che, dicono le sue donzelle americane, di giorno e di notte, nel sonno e nella veglia, non fa altro che invocare Zamoro – che, ricordatevi, crede morto. E qui a noi balza vagamente l’idea che Alzira sia una tremenda rompiscatole, ma fingiamo di nulla e stiamo ad ascoltarla mentre si sveglia, racconta di avere sognato un’altra volta il defunto Zamoro, cui intende essere fedele, morte o non morte.giuseppe verdi,anno verdiano,salvatore cammarano,alzira,voltaire,teatro san carlo

Per cui, quando Ataliba arriva e le comunica che non c’è più trippa per gatti ed è gioco forza sposare Gusmano, la fanciulla non è per nulla contenta. Ma come, e Zamoro?

Ataliba le fa notare che: 1) Zamoro è, you know, morto; 2) solo sposando Gusmano può restituire la pace al suo popolo; 3) poteva andarle peggio, visto che Gusmano è sinceramente innamorato di lei; 4) e comunque glielo ordina suo padre: poche storie e agl’imenei si proceda.

E mentre Alzira fa sopraneschi propositi di morte, l’ancella Zuma le annuncia che… Be’, di fatto le annuncia che secondo una sentinella c’è un Americano che chiede udienza – ma qui siamo all’opera, per cui Zuma dice che:

Alcun fra loro, cui vegliar le porte
S’ingiunge, annunzia che venirne implora
Un de’ nostri al tuo piede.

Chi fia? E indovinate un po’?

Ma Zamoro, naturalmente – che dapprima Alzira scambia per un fantasma. Ma no, è lui in carne, ossa e sete di vendetta, per non parlare di un’ombra di sospettosa indignazione: ma come, davvero è pronta a sposare uno Spagnolo? Quello specifico Spagnolo fra tutti? Alzira, con notevole sottigliezza, risponde che non era pronta affatto: doveva farlo e basta. Al che Zamoro si scioglie, e i due cinguettano un diluvio di teneri e appassionati emistichi…

…Fino all’ingresso di Gusmano con Ataliba e coro al seguito!

Gusmano, non incomprensibilmente, non è colmo di letizia nello scoprire che Zamoro è ancora vivo, e lo condanna a morte.

Alzira strilla, Ataliba è perplesso, il coro si divide in pro e contro e, nel mezzo del pandemonio, entra Alvaro, che riconosce in Zamoro il nobile selvaggio che gli ha salvato la vita nel prologo.

Segue confusione: incalzato da Alzira, Ataliba e parte del coro, Alvaro supplica il figlio di essere clemente; Zamoro pensa di migliorare la sua situazione insultando Gusmano; il resto del coro chiede misure drastiche; Gusmano comincia inflessibile, poi è scosso quando il babbo gli s’inginocchia davanti, poi spiega di non poter cedere perché c’è di mezzo Alzira…

giuseppe verdi,anno verdiano,salvatore cammarano,alzira,voltaire,teatro san carloMa all’improvviso, odesi un murmure lontano. Vi eravate dimenticati delle tribù furibonde, vero? Be’, eccole qui, le tribù furibondo, che vengono a riprendersi Zamoro, Alzira, Ataliba e, già che ci sono, Lima tutta e il maggior numero possibile di teste spagnole.

Questo sì che decide Gusmano – e, badate bene, non perché speri di placare gli attacanti. Scosso dalle preci del genitore, punto sul punto d’onore e ansioso di battaglia, rimanda Zamoro da dove è venuto (vita per vita!), con la promessa d’incontrarlo sul campo.

Il coro accoglie variamente la prospettiva di altro spargimento di sangue, Gusmano e i suoi escono da una parte, Zamoro dall’altra e Alzira, trattenuta dal padre e dalle donzelle americane, vaneggia di scudi umani.

Sipario.

L’Atto Secondo, che s’intitola La vendetta di una selvaggio, si apre sull’inequivocabile costatazione che gli Spagnoli sono più tosti degli autoctoni. Gli autoctoni le hanno prese di santa ragione (again), Zamoro è prigioniero (again) e Gusmano si appresta a firmare la sua condanna a morte (again). Arriva Alzira a supplicare la grazia per Zamoro (again), con il ricattatorio argomento che, se muore lui, muore anche lei.

Ma in fatto di ricatti, anche Guzmano non scherza: non c’è nessun bisogno che Zamoro muoia. Basta che Alzira ceda e il selvaggio è salvo.

Contro-contro-ricatto: ma non capisce Gusmano che tradire il suo giuramento ucciderebbe Alzira non meno della morte di Zamoro?

Ed è qui che Gusmano scopre il bluff di Alzira: sì, tutto molto poetico, ma la scelta resta tra le nozze e l’esecuzione.

E che deve fare un povero soprano? Alzira cede e Gusmano, nel suo entusiasmo, convoca il suo SIC per impartirgli queste affascinanti istruzioni:

Il pronubo
Rito solenne appresta…
E sia di tede innumeri
Splendente la città…

E quello corre. E Alzira si lancia nei consueti propositi di morte a’ pie’ dell’ara – cosa che potrebbe allarmare un nonnulla Gusmano, se non fosse troppo occupato a effondere sulla sua immensa gioia e sulla natura del suo amore…

Butta male, non pare anche a voi?

Ma spostiamoci per un momento in un’orrida caverna. Non potevamo assolutamente farci mancare un’orrida caverna. E in questa specifica orrida caverna si riuniscono i rimasugli della malconcia orda peruviana, a lamentare la batosta e a rallegrarsi della marginale consolazione di essere riusciti a liberare Zamoro corrompendo i suoi custodi.

Ed eccolo, Zamoro, cui secca maledettamente di essere giuseppe verdi,anno verdiano,salvatore cammarano,alzira,voltaire,teatro san carlostato sconfitto da Gusmano, e non è ancor nulla. Quando i suoi gli fanno notare le luci di Lima in lontananza e gli svelano le nozze imminenti, Zamoro perde la testa, maledice la fedifraga (again), giura vendetta e allarma i suoi correndo via nell’intento di imbucarsi al matrimonio – e non per scroccare i canapé.

Torniamo a Lima anche noi, e troviamo Gusmano che gongola, Alzira che si strugge e il coro che fa quel che i cori sono pagati per fare almeno una volta in ogni opera: compiacersi di un imene.

Ma proprio mentre Gusmano tende la destra alla sua riluttante e lacrimosa sposina, ecco Zamoro che, con balzo felino, esce di tra le quinte e pugnala lo sposo. A morte.

Orrore! Orror!!

Le sezioni armate del coro inorridito si avventano sull’omicida – ma aspettate… Colpo di scena! Con l’equivalente operistico di una conversione a U, Gusmano ferma tutti. Se non dispiace a nessuno, lui, che selvaggio non è, preferirebbe perdonare l’accoltellatore selvaggissimo e adoratore di dei crudeli.

Sensazione.

Il coro è perso in lacrimosa ammirazione. Zamoro è attonito (e forse anche un po’ seccato: che figura si fa a pugnalare un uomo che ti perdona?). Alzira, folgorata da tanta generosità, si converte all’istante. Don Alvaro è distrutto.

Gusmano non fa le cose a mezzo: ricongiunge i due innamorati, ingiunge loro di vivere felici e scagiona Alzira da qualunque intento matrimoniale. Sta a vedere che dopo tutto l’aveva ascoltata più di quanto sembrasse?

Il coro tutto è ammirato e commosso.

Gusmano barcolla, cade ai piedi del padre, gli chiede e ottiene una benedizione in extremis e manda l’estremo anelito per la disperazione del povero Don Alvaro e la commozione generale.

Spirò!…

commentano utilmente Gli Altri – caso mai il particolare ci fosse sfuggito.

Doppio accordo conclusivo regolamentare. Sipario.

E siamo alle solite, vero? Che un baritono possa vivere felice e/o amare ricambiato è proibito dalle leggi del Fato Operistico. Figurarsi. Oh well.*

giuseppe verdi,anno verdiano,salvatore cammarano,alzira,voltaire,teatro san carloAd ogni modo, quando alla fine andò in scena nell’agosto del ’45, l’Alzira non piacque. Il pubblico la trovò cortina, frettolosa, bruttarella di musica e parole…

La prima fu accolta freddamente, le tre repliche furono fischiate. Peggio ancora andarono le riprese di Roma e Milano. Dopo avere difeso senza troppa convinzione il suo lavoro per un po’, Verdi stesso giunse alla celebre conclusione che l’Alzira fosse proprio brutta.

Quanto questo giudizio del suo stesso autore abbia pesato sulla fortuna successiva di questa escursione peruviana, è difficile a dirsi. Di certo, quasi nessuno la mette in scena – e che vi devo dire? Di solito, se un’opera non viene rappresentata per decenni e decenni e decenni… be’, un motivo c’è.

 

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* E sì: ho un debole per i baritoni. So sue me. E vi avverto: rants come questo – e peggiori di questo – ne leggerete ancora.

 

 

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