Librettitudini Verdiane: Rigoletto
E così siamo arrivati alla cosiddetta trilogia popolare – e lasciate che vi dica che la cosiddetta trilogia popolare non mi piace. Chiarito questo, parliamo di Rigoletto, che in origine era Triboulet ne Le Roi s’amuse, di Victor Hugo.
Che a Verdi Hugo piacesse, s’era già visto – e in realtà questo dramma gli piaceva ancor più dell’Ernani. Nella figura del padre-buffone di corte, deforme e cinico, ma pronto a farsi di pastafrolla quando si tratta della figliola, vedeva un personaggio quasi shakespeariano per complessità e grandezza. E il perno della storia lo trovava nella maledizione – quella maledizione che il padre della disonorata Diane de Poitier scaglia sul buffone irriverente, e che colpirà con micidiale precisione all’ultimo atto.
Per cui, non del tutto incomprensibilmente, Verdi e Piave (povero Piave!) quest’opera la volevano intitolare “La Maledizione”. In fondo è tutto lì, giusto?
Ma la censura non approvava, e compositore, librettista e presidenza della Fenice si ritrovarono a dover danzare in circoli attorno alle dissennate pretese del pubblico pudore: niente maledizioni, per primissima cosa. E niente Francia, merci beaucoup. E niente re che si divertono, chè i sovrani non possono essere spregevoli seduttori di vergini quindicenni. E, heaven knows why, niente sacco all’ultimo atto…
La selva che negli uffici di polizia era entrata appasionatamente hughiana, ne uscì insipida e mutilata al punto che Verdi minacciò di rescindere il contratto, perché lui quel semolino illogico non voleva né poteva musicarlo.
Così alla fine si cedette sul titolo, per far posto al nome italianizzato del protagonista, e si cedette sul Re di Francia, che si mutò in un generico Duca di Mantova (trasparente allusione al solito Vincenzo), e si smussarono gli angoli del libertinaggio, si capitozzarono il destino dell’equivalente locale di Diane de Poitier e il cinismo del seduttore scoperto… Però si tenne il sacco.
E se Mantova funzionasse agli occhi dei censori asburgici come una sorta d’inoffensiva Curlandia dell’Impero, se il sacco fosse una pretesa funzionale, qualcosa su cui poter dare l’impressione di cedere in cambio di altro, son cose che, temo, non sapremo mai – ma tant’è.
Curiosi di vedere ciò che, alla fin fine, Piave riuscì a salvare* e Verdi potè musicare? Andiamo a incominciar.
Atto Primo
E cominciamo con una festa a Palazzo Ducale, e il Duca che confida allegramente a un cortigiano di avere a) un intrallazzo sotto mentite spoglie con una misteriosa fanciulla di basso rango, gelosamente custodita da un amante altrettanto misterioso; b) un interesse più che teorico per la bella moglie del conte Ceprano.
Contemporaneamente? Embe’? Lo sappiamo che questa o quella per lui pari sono a quant’altre d’intorno si vede… E a questo punto è già chiaro che il Duca non è uomo da farsi scrupoli di sorta. E il suo buffone, il gobbo Rigoletto, ha l’abitudine di divertirsi e divertire il Duca e tutta la corte alle spalle dei mariti malserviti come il povero Ceprano…
In fondo, è soltanto questione di tempo prima che, nonostante la noncurante protezione del Duca, qualcuno decida di fargliela pagare – tanto più che i cortigiani, tutti chi prima o chi poi abrasi dall’umor cinico del buffone, gli hanno appena scoperto… un’amante segreta!
Ma intanto entra il conte di Monterone, a chiedere giustizia per l’onore violato della figlia… e quando il Duca lo respinge e Rigoletto si fa beffe di lui, il vecchio gentiluomo maledice il Duca e, già che c’è, anche il buffone – serpente che d’un padre ride al dolore.
E Rigoletto è scosso.
Tanto scosso che più tardi, mentre rincasa per i vicoli bui di Mantova, è ancora lì a ripetersi che quel vecchio maledivalo… Se lo sta ancora ripetendo quando gli si avvicina Sparafucile, bravo Borgognone, assassino freelance, pronto a liberare da nemici e rivali scomodi con discrezione, efficienza e prezzi modici.
Rigoletto lo rimanda per la sua strada, ma non senza essersi fatto un appunto – perché non si sa mai. E comunque, non si sente poi tanto diverso dal sicario: l’uno col pugnale, l’altro con la lingua, non feriscono tutti e due? Ma se lui è cinico e crudele, in fondo, è colpa del fato che lo ha voluto deforme, buono soltanto a fare il buffone, considerato men che umano, il giocattolo del Duca, odiato e disprezzato da tutti… c’è da stupirsi che si rivalga mordendo dove può? Certo che forse adesso ha morso un nonnulla troppo, perché questa maledizione… ah, questa maledizione!
Ma distraiamoci un momento dalla maledizione, perché è giunta l’ora di scoprire il segreto del nostro antieroe. Ebbene, i cortigiani si sbagliavano di grosso: il buffone non ha un’amante, ma un’adoratissima figlia, che vive da reclusa, ignora nome, provenienza e professione del suo malinconico padre, non ha idea di chi fosse la sua defunta madre, non esce mai di casa se non per andare al tempio, ha una governante con le istruzioni più severe – e per di più, povera ragazza, si chiama Gilda**.
Ma si direbbe che a qualcuno sia sfuggito qualcosina, perché a un tratto si sentono passi nel vicolo, e Rigoletto si allarma, e il Duca in incognito entra nel giardinetto e… che vediamo! La governante, supposta dragonessa, accetta una borsa dal misterioso giovanotto. Così il misterioso giovanotto è libero di nascondersi tra gli alberelli e assistere al congedo di Rigoletto dalla figlia (Sua figlia!), e alle remore di Gilda, che ha taciuto al padre l’esistenza del misterioso corteggiatore…
Ma guardate un po’? Il misterioso corteggiatore… è qui! Noi riconosciamo subito il Duca, ma Gilda non sa nemmeno come si chiami e, seppure un nonnulla bouleversée, è preda facile per la melata parlantina di Vincenzo… Ma proprio quando la candida Gilda sta per cedere al falso studente, ecco che si sentono dei rumori, delle voci, delle governanti che tornano…
Tenero e frettoloso congedo, poi il Duca s’invola, Gilda si sdilinquisce un po’, ed ecco, nella viuzza, i cortigiani guidati da Ceprano. Ricordate che meditavano di rendere a Rigoletto pan per focaccia? Ebbene, eccoli qui per rapirgli quella che credono la sua bella amante. E quando inciampano proprio in Rigoletto che, inquieto, è tornato verso casa, gli fanno credere di voler rapire la contessa di Ceprano. Sollevato, Rigoletto si presta al gioco – e manco s’accorge che, col pretesto di mascherarlo, i cortigliani lo bendano, gli fanno credere di girar mezza Mantova e poi si fanno reggere la scala mentre scavalcano il muro e rapiscono Gilda.
Ed è chiaro che, pur essendo un baritono, Rigoletto non è proprio un’aquila di mare.
Quando si accorge di essere bendato e beffato, i buoi sono abbondantemente scappati – portandosi la povera Gilda. A Rigoletto non rimane che costatare la sua stupidità e l’avvenuto rapimento e, come usa in finale d’atto, svenire.
Atto Secondo
Torniamo a Palazzo Ducale, volete? E scopriamo il Duca in agitazione terribile – perché, chi l’avrebbe mai detto? – il rapimento di Gilda lo ha sconvolto. Comincia a pensare di amarla davvero, questa ragazzina che gli fa quasi desiderare la virtù… solo che non sa dov’è. Ed è occupato a torcersi musicalmente le mani quando i cortigiani arrivano ridanciani e, contravvenendo a tutte le regole della buona narrazione, ripetono tutto quel che abbiamo visto accadere nell’atto precedente. E il Duca fa due più due e, per lo stupore generale, si precipita a consolare la rapita.
“Povero Rigoletto,” commentano i rapitori, cui pare che la faccenda vada assumendo contorni un nonnulla preterintenzionali.
Ma parli del diavolo, e spunta la coda: ecco Rigoletto in persona, che finge (malissimo) di nulla, e cerca Gilda, e interroga senza parere, e s’informa sul Duca… ci vuole un paggio importuno per far esplodere la situazione. E quando Rigoletto reclama non l’amante, ma la figlia, i cortigiani restano, come suol dirsi, di carta.
Adesso sì che siamo andati sul preterintenzionale.
Rigoletto maledice i cortigiani – vil razza dannata – e cerca di forzare la porta del Duca, ma gli altri lo fermano, e allora Rigoletto cambia musica e supplica e implora ma, prima che qualcuno possa decidersi a cedere, irrompe Gilda, piangente e vergognosa, perché… be’, lo immaginate.*** Si direbbe che, quando credeva di soffrire di un attacco di virtù, il Duca esagerasse i suoi sintomi…
Rigoletto caccia via i cortigiani e conforta la figlia – e si vede che questo è un atto così, perché anche Gilda si dà all’esposizione, ri-raccontando la faccenda del corteggiamento in chiesa e in giardino, che noi abbiamo in parte già sentito raccontare, e in parte visto succedere.
Orrore orror.
Rigoletto vuole soltanto vendetta, tremenda vendetta e, al passaggio di Monterone, scortato dalle guardie alle segrete, giura di portare a compimento la maledizione che il vecchio signore ha scagliato sul Duca. E sapete qual è il guaio? Che Gilda, tortorella, è ancora innamorata del vil seduttore, e supplica il padre di perdonare… Ma voi ce lo vedete, all’opera, un padre che perdona il seduttore della figliola? Sipario, va’…
Atto Terzo
A casa di Sparafucile. Ora, tanto vale dirlo adesso: a Mantova abbiamo una “Casa di Sparafucile” in cima al ponte di San Giorgio. In realtà una volta era la dogana, e adesso è un ostello. Abbiamo anche una “Casa di Rigoletto” che, altrettanto ovviamente, non è nulla del genere, ma i nomi sono entrati nell’immaginario cittadino e nella toponomastica, perché sì – e se il merito è più della censura asburgica che della ditta Verdi&Piave, pazienza.
Ad ogni modo, dicevamo: casa di Sparafucile, proprio mentre scoppia un opportunissimo temporale – con tanto di macchina del tuono da libretto. Rigoletto ci ha trascinato Gilda per guarirla dalla sua infatuazione per il Duca. La poverina lo crede ancora innamorato di lei, ma quando lo vede arrivare in incognito, chiedere una stanza e del vino, cantare che la donna è mobile, e corteggiare con buona lena la bella e spudorata sorella di Sparafucile…
“Quando vede tutto ciò, si ravvede,” direte voi. “O meglio, dovrebbe ravvedersi, ma essendosi questa un’opera…”
E invece, o malfidenti, pare proprio che si ravveda. Ed è indubbiamente strano, ma nel corso di un bel quartetto (che è la mia fetta preferita di quest’opera), la nostra ragazzina vede il Duca dichiararsi schiavo dei vezzi della bella figlia dell’amore – che per parte sua non si lascia incantare troppo – e, per oca ingenua che sia, non può non rendersi conto che il suo innamorato non è precisamente degno di fiducia.
Credendola guarita, Rigoletto la spedisce a casa a vestirsi da uomo e partire per Verona, dove la raggiungerà. Non che Gilda sia contenta, ma noi la guardiamo obbedire, mansueta come pochi soprani innamorati…
Oh well. Mentre il Duca si sistema per la notte, Sparafucile esce incontro a Rigoletto, che gli versa la caparra – metà dei venti scudi di tariffa – e promette di tornare più tardi per gettare nel lago il cadavere del Duca, una volta che cadavere sia.
Ma che farà mai questo Vincenzo alle donne? Anche alla pur smaliziata Maddalena pare un peccato far fuori questo bel giovanotto così gaio. Ed è pur vero che gli affari sono affari…
Ed è proprio qui che arriva Gilda, vestita da uomo, sragionante e trascinata dall’amore – giusto in tempo per sentire fratello e sorella che discutono se ci sia modo di salvare il bel ragazzo senza rimetterci dieci scudi. Maddalena sarebbe per uccidere il gobbo, tenersi gli scudi che avrà addosso e gettare lui nel lago, ma Sparafucile insorge: lo crede forse sua sorella un ladro e un bandito? Rigoletto ha pagato e ha diritto alla lealtà del sicario. Quel che si può fare, perché anche i sicari hanno un cuore tenero quando le sorelline lacrimano – ed evidentemente la lealtà è trattabile – è che, se per caso qualcuno dovesse arrivare, lo si può uccidere al posto del giovanotto.
Ma chi arriverà mai, protesta lacrimando Maddalena, in una notte così buia e temporalesca?
E questo decide Gilda: traditore o no, ama il Duca e morirà per lui.
Il Duca è un mascalzone che le ha mentito, l’ha violentata e si è rapidamente consolato altrove? Fa nulla. Il povero Rigoletto è destinato a morirne di crepacuore? Pazienza. Da buon soprano, la scervellata bussa alla porta, Sparafucile si arma, Maddalena fa entrare l’ospite inatteso… tuoni, lampi, buio in scena.
Passa una mezz’oretta, il temporale scema, e Rigoletto se ne arriva gongolando sulla sua vendetta compiuta. Altro che buffone – gliel’ha fatta vedere lui, al Duca…
Allo scoccare della mezzanotte, Sparafucile e Rigoletto si scambiano rapidamente saldo in scudi contro sacco pieno, e il Nostro si avvia per gettare il supposto cadavere nel Mincio. Non si accorge che è leggerino per essere un uomo? Si direbbe di no e, se è tentato di dare un’occhiata, ci rinuncia nell’urgenza di far sparire il corpo. E butterebbe il sacco a fiume, gongolando ancora sulle bizzarrie del destino, e le attuali rispettive posizioni del potente e del buffone, e la dolcezza della vendetta, se all’improvviso, in lontananza, non sentisse la voce del Duca: la donna è mobile, you know, qual piuma al vento…
Uh oh… ma allora chi diavolo c’è nel sacco? Noi lo sappiamo già: Gilda – non del tutto morta. Segue una di quelle scene in cui lo straziato genitore supplica la figlia di non morire, e lei chiede perdono e promette di pregare dal cielo e poi, esaurito il fiato restante, Gilda trapassa.
Torna il tema – quasi un leit motiv – della maledizione…
“Ah, la maledizione!” ulula Rigoletto, strappandosi i capelli.
Sipario.
E sì, fu un successone. Dopo gli spigoli di Stiffelio, Verdi era tornato almeno in parte sui suoi passi: Rigoletto è un borghese intento a difendere la figlia, ma il vilain è un sovran(ell)o, la scena distribuita tra feste ducali e taverne diroccate, la trama piena di agnizioni, amori segreti, scambi di persona… il pubblico ne andò matto – per la storia e per la musica.
In seguito le censure qua e là fecero del loro meglio per rendere innocuo il dramma, e a Roma ribattezzarono persino il protagonista in Viscardello – nell’intento, posso solo indovinare, di rimuovere ogni associazione con il ben più scandaloso Triboulet dell’originale francese…
Ma, nonostante tutto, Rigoletto rimase e rimane ancora, una delle più popolari, più citate e più eseguite opere verdiane.
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* Sarà forse per questo, che Piave – povero Piave – apostrofa il Benevolo Lettore in questi termini commossi:
Per circostanze speciali sento il bisogno di raccomandare alla tua indulgenza, piucch’altro mai, questo mio lavoro, e spero di non ingannarmi, confidando che non sarai per negarmela. Vivi felice.
** Che cosa non andasse nel Bianca tradotto dall’originale, non arrivo a divinarlo…