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Nov 8, 2017 - gente che scrive, grillopensante, pessima gente, Vitarelle e Rotelle    Commenti disabilitati su Perfidi, Cattivi, Malvagi E Delinquenti

Perfidi, Cattivi, Malvagi E Delinquenti

Questo sarà un post un tantino sconclusionato. Abbiate pazienza e fate conto che abbia dormito poco e che stia rimuginando per iscritto.Villains

Il fatto è che abbastanza spesso, parlando di libri e personaggi, salta fuori il discorso dei malvagi, questa essenziale popolazione letteraria, questa collezione di gente di assoluta indispensabilità narrativa e, spesso e volentieri, di notevole fascino.

Perché in realtà, se per avere una storia abbiamo bisogno di gente che vuole qualcosa e non riesce ad averla, che ne sarebbe delle storie, a chi interesserebbe degli eroi, se non ci fossero gli antagonisti a rendere tutto complicato e avventuroso?

E non so se sia una deformazione molto allarmante, ma non so fare a meno di pensare che sarebbe possibile raccontare a lungo di un Innominato non convertito – mentre Renzo&Lucia, senza l’Innominato &. C. a metter loro i bastoni tra le ruote, sarebbero interessanti come il piano di un tavolo di formica.

Per contro, quando è promosso a protagonista, il Villain tende ad occupare la scena con irresistibile prepotenza. Avanti, così al volo, ditemi chi sono i “buoni” in Riccardo III o ne L’Ebreo di Malta o nel Filippo… Nella migliore delle ipotesi dovete pensarci su – e forse non siete nemmeno certi che i “buoni” ci siano affatto.

Bisogna dire che, occupati ad essere magnanimi, candidi come ermellini e di gran cuore, per secoli i Buoni si sono trovati preclusi tutti quegli interessanti sentieri come ambizione, vendetta*, omicidio, arroganza, propensione all’intrigo, sete di potere, avidità o pura e semplice malevolenza – con tutti i tormenti annessi.

QuilpAncora a metà Ottocento, un relativamente inesperto e affannato Dickens se la cavava creando distribuzioni manichee che nemmeno all’opera, e non è che i lettori lo rincorressero nelle strade per riavere i loro soldi. Il nano Quilp è di una malvagità quasi barocca nella sua gratuità, nerezza e magniloquenza, ma ai nostri cinici occhi d’oggidì c’è un che di redeeming quality nel suo accanimento contro l’angelica, mite e moritura Little Nell. E non riusciamo biasimare del tutto Fagin e Sikes perché vogliono disfarsi dell’impenetrabilmente candido Oliver Twist, vero?

Or at least, I can’t. E quando dico queste cose alle conferenze le anziane signore in prima fila cominciano a guardarmi male, ma resta il fatto che Quilp e Fagin, pur non essendo il genere di malvagi con cui si simpatizza, sono personaggi più vividi, più interessanti e di molte spanne più divertenti dei rispettivi piccoli protagonisti. Il gusto con cui Dickens li ha scritti è evidente in ogni parola, a dispetto della semi-burattinesca bidimensionalità di un Quilp.

Nel caso di Fagin magari la faccenda è un po’ più complessa, ma di sicuro Dickens non stava facendo nessuno sforzo per rendere simpatico il personaggio – di certo non più di quanto Shakespeare volesse fare lo stesso con Riccardo III (che pure ha un suo notevole fascino), o Daphne Du Maurier con la terribile Mrs. Danvers. felipeii

Lo sforzo di comprendere il punto di vista del Villain è tutta un’altra faccenda. Mi verrebbe da citare il passaggio di Filippo II dal nigerrimo tiranno filicida e sadico di Alfieri al sovrano tormentato di Schiller, ma si potrebbe legittimamente sostenere che, se a Filippo cresce un’anima, è perché per Schiller (e ancora di più per Verdi all’opera) la vera malvagità va cercato all’indirizzo della Santa Inquisizione.

Comunque Filippo è tecnicamente un antagonista per il quale siamo autorizzati – se non addirittura invitati – a dispiacerci: un Atlante triste che porta sulle spalle il peso della Spagna tutta, un padre e marito con molte ragioni di dolersi, e guardate come va a finire la prima volta che si concede un affetto… Sarà anche un riprovevole e cieco tiranno, ma è un riprovevole e cieco tiranno in buona fede.

E c’è il fatto che narratori e lettori si smaliziano: da un lato si affermano gli eroi imperfetti e gli antieroi, al centro le distinzioni morali si fanno nebulose e dall’altro lato il Malvagio Perché Sì non basta più. Averla a morte con l’eroe e/o voler conquistare il mondo diventano manifestazioni di motivi più a monte e nuovi clichés si cristallizzano attorno all’antagonista. Trauma infantile, tragica vedovanza, guerra nel Vietnam, famiglia sterminata, rivalsa sociale, a volte anche le migliori intenzioni…

BarabasMurrayAbrahamQualche tempo fa, in un articolo sul Telegraph, Philip Hensher lamentava la scomparsa del buon vecchio Villain tradizionale, quello che trovava un gran gusto nell’essere malvagio, quello per il quale nuocere all’eroe era uno scopo sufficiente in sé stesso, quello cui la nobiltà d’animo del protagonista dava travasi di bile e/o crisi di cachinni.

Oh dove, si domandava Hensher, dove sono finiti i Richard, i Barabbas, gli Jago, i Quilp, le Mme de Merteuil? E si rispondeva che la genia è estinta, sepolta sotto valanghe di umana comprensione e political correctness…

Mah, non saprei.

Dopo tutto, il really villain Villain resiste e prospera nella narrativa per ragazzi e in svariati generi. E considerando i torti che subiscono Barabbas e Shylock, considerando la lealtà feroce e mal ripagata di Redgauntlet, o considerando il fratello e la sorella di Mme Defarge, mi sembra difficile vedere nel Malvagio Con Un Buon Motivo qualcosa di diverso dal discendente di una lunga stirpe.

E comunque state leggendo il blog della donna che ha un debole per Richard, per Jago, per Rupert von Hentzau, per il Conte di Luna, per Steerforth, per Silver, per il Satana di Milton – e ha sempre trovato che avessero tutti delle ottime ragioni per quel che facevano. O quanto meno, del tutto plausibili. O, se non sono del tutto plausibili, fa lo stesso. Che diamine, stiamo parlando di letteratura, e i Malvagi, diciamocelo, si dividono in due categorie: gli altri, e quelli con tanto fascino da chiuderci il buco nell’ozono.

E talvolta dirottarci un libro.

E voi? Come vi ritrovate, in fatto di Villains?

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* Be’, quella magari non sempre – ma per secoli i vendicatori non sono andati a finire particolarmente bene, nemmeno quando si supponeva che avessero tutte le ragioni. Amleto, per dire…

Ott 14, 2015 - Ossessioni, scribblemania, Vitarelle e Rotelle    Commenti disabilitati su Belle Parole

Belle Parole

Pile-of-wordsE cito: “Oh, santo cielo – ma sei ossessionata dalle parole, tu!”

Vero.

Verissimo. Ma d’altra parte, le parole… ah, le parole.

Avendo incautamente prestato, e mai più rivisto, La Trilogia del Ritorno di Fred Uhlman, adesso sono costretta a citare sparsamente e a memoria il punto di Un’Anima Non Vile in cui Konradin Von Hohenfels, parlando di Grecia, cita Alicarnasso, non so più a quale proposito.

“A-li-car-nas-so. Ho sempre amato i bei nomi.”

E questo è uno dei motivi per cui mi piace tanto Konradin: il suo genere d’immaginazione. Posso capire un uomo che ama i bei nomi, che fantastica sui ritratti di famiglia, che preferirebbe essere fucilato anziché impiccato, perché davanti al plotone d’esecuzione potrebbe “immaginare di assaltare una fortezza imprendibile”…

Ma non divaghiamo: tutto ciò era per parlare della bellezza intrinseca delle parole. Non tanto del modo in cui vengono usate in frasi, periodi e paragrafi, quanto per le immagini che contengono di per sé, da sole o due a due, nel loro suono o nella combinazione di suono e significato.

Ci sono parole, nomi ed espressioni la cui bellezza è una combinazione di suono e significato. Non si tratta solo di come suonano, ma anche di quello che evocano. Forse, se Konradin non fosse tanto appassionato di grecitudini assortite, il nome di Alicarnasso non gli apparirebbe altrettanto bello. E qui adesso entriamo in un campo del tutto arbitrario, ma diciamolo: Costantinopoli, sonoro, solido e solenne, non è un nome perfetto per una città con tanta storia e una fine così tragica e grandiosa? Tuttavia, il modo in cui evoca colonne di marmo bianco, folle multicolori e foreste di alberi di navi nei bacini di pietra ha principalmente a che fare con la storia che si associa al nome. Bizantino, (che non si usava in epoca e ambito bizantini), nell’Italiano moderno ha assunto connotazioni negative di tortuosità e di intrigo, eppure a me piace tanto. Lo associo ai meravigliosi mosaici ravennati, alla corte imperiale in clamidi bianche e cinture incrostate di gemme. E di per sé è una parola che suona come un gioiello: bi-zan-ti-no. Anche senza considerare il significato, il suono parte solido e poi si affila, come la lama di uno stiletto. Continuando su questa strada, Generali Bizantini* è un’espressione musicale di per sé, con quella combinazione sinuosa di consonanti, e poi evoca immagini di battaglie in piane polverose, di avamposti sperduti, di intrighi di palazzo…

Poi invece ci sono parole dal suono bellissimo che perdono tutto il loro fascino appena si guarda il significato. Che delusione, al Ginnasio, scoprire che glirium, dal suono così liquido e lucente, in realtà era solo il genitivo plurale di glis, vale a dire ghiro. Per non parlare del fatto che i selevìnidi, anziché una dinastia persiana, sono topini dei deserti asiatici, che mutano pelle e pelo insieme. Ugh. E palamìta è una specie di sarda, quando suonerebbe così bene per un fante scelto o per il seguace di un culto…

Ecco, sotto un certo aspetto, scrivere è una continua caccia a queste bellezze. Sia in poesia che in prosa, suono, ritmo e capacità evocativa sono fondamentali, e può capitare di passare ore a cercare la parola perfetta per il particolare nodo nell’arazzo che si sta tessendo – e tanto meglio se ogni parola riesce ad assolvere più di una funzione: sono certa che quando Verga ha infilato in Mastro Don Gesualdo il suo meraviglioso “cielo di smalto”, lo ha fatto non soltanto per l’immagine, ma anche per quel suono liscio, lucido e duro, che evoca senza nominarlo un blu intenso e leggermente metallico. E che dire di “quello spirto guerrier ch’entro mi rugge”, con quella feroce allitterazione ripetuta, ostinata, imprigionata dalla doppia -g in fine di verso? E d’Annunzio, ne Gli Idolatri: “La gran piazza sabbiosa scintillava come sparsa di pomice in polvere”, tutto suoni asciutti e sibilanti, così che pare di vederla, questa piazza bianca, calcinata dal sole. Due pagine dopo abbiano il sole mutato in una “gran plaga vermiglia”: non suona torbido, lento, malato? Stiamo pur certi: questa giornata non finirà affatto bene.

Per una volta mi sono limitata ad esempi italiani, visto? Non sembro nemmeno io. Ma la conclusione per oggi è questa: certo che sono ossessionata dalle parole. Uno scrittore dovrebbe essere ossessionato dalle parole. O quanto meno, con la ricchezza meravigliosa, la bellezza, le possibilità espressive della lingua, uno scrittore non ha davvero nessuna scusante per la sciatteria. Non c’è storia tanto buona che non possa essere resa ancora migliore raccontandola in parole belle, significative e pertinenti.

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* C’è anche un problema informatico così chiamato, lo sapevate? Intricato, questo sì. Incomprensibile – per me. Se sia bello come dovrebbe essere con un nome del genere… questo non saprei proprio dire, ma lumi in proposito sono benvenuti.