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Mezzaloghi

phone1.jpgC’è questa cosa che voglio provare da un sacco di tempo – solo che, per un motivo o per l’altro, non sono mai andata al di là di un tiepido tentativo defunto in culla.

Vediamo se scriverlo qui mi serve da sprone – e vediamo anche di che si tratta.

Allora, la faccenda è questa: qualche tempo fa un team di psicologi della Cornell University ha condotto uno studio che dimostra come sentire solo un lato di un dialogo (per esempio ascoltare qualcuno che parla al cellulare) catturi l’attenzione dell’ascoltatore molto più di un dialogo completo.

Ai soggetti dell’esperimento veniva assegnata una serie di compiti che richiedevano attenzione e concentrazione, poi il ricercatore avviava una registrazione che poteva essere un dialogo completo, un “mezzalogo”* o un monologo, e raccomandava al soggetto di non badare al rumore e concentrarsi su ciò che doveva fare. Abbastanza crudele, non trovate?

Ad ogni modo, i risultati peggiori (risposte errate o mancanti o altri errori) corrispondevano sempre ai casi in cui la distrazione era costituita dal mezzalogo.missing piece

E questo perché il cervello umano è irresistibilmente attratto dalle informazioni mancanti. Potendo scegliere fra una situazione in cui tutto è esplicito e una piena di buchi, le nostre Piccole Cellule Grigie (per dirla con Poirot) si gettano sulla seconda senza la minima esitazione: cercano di ricostruire le parti mancanti, fanno ipotesi, traggono conclusioni e, nel complesso, si comportano come bambini in un parco giochi. In un certo senso lo sapevamo già: basta pensare all’intramontabile successo di indovinelli, quesiti, misteri, gialli et caetera similia, dal mito della sfinge a Stieg Larsson, passando per l’irresistibile monologo al telefono di Gigi Proietti (che, adesso lo sappiamo, è in realtà un mezzalogo).

QuestionMeglio metterci tutti a scrivere gialli, allora? Oddìo, forse è un campo più redditizio di tanti altri – ma in realtà il principio si può applicare a tutti i generi, perché l’informazione incompleta è sempre materia di conflitto – e il conflitto, lo sappiamo, è la materia prima di cui son fatte le storie – o, nella più blanda delle ipotesi, di curiosità. Per cui è spesso un’ottima cosa lasciare il lettore all’oscuro di qualche particolare, e lo è sempre lasciare uno o più personaggi all’oscuro di qualcosa che il lettore sa – o crede di sapere. E in realtà, perché non tenere all’oscuro i personaggi e anche il lettore, dandogli però modo di trarre conclusioni sbagliate per poi sorprenderlo? Questo era, tra l’altro, il metodo di Agatha Christie.

E per far passare informazioni incomplete o fuorvianti, un mezzalogo è un buon sistema. Non è nemmeno detto che serva un telefono: un confessionale? Una porta chiusa? Un corridoio molto rumoroso? Solo metà di un epistolario? Un compagno immaginario? Le possibilità non mancano. E dite la verità: non vi viene voglia di provare a raccontare una storia tramite un mezzalogo?

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* Halfalogue, in originale…

 

Giu 14, 2013 - cinema, Vitarelle e Rotelle    4 Comments

Il Dialogo – Quando È Frizzantino

scrittura creativa,dialoghi, paris when it sizzles, william holden, audrey hepburnAvete mai visto Paris When It Sizzles? È un film anni Sessanta, assolutamente delizioso. Un po’ metacinema, un po’ parodia, un po’ commedia sofisticata. Mi pare che in Italia sia tradotto come Insieme A Parigi (meh…), e ogni tanto lo ridanno – in genere d’estate, alle due del pomeriggio o dopo mezzanotte, you know

E c’è persino una comparsata di Noël Coward. Quel Noël Coward. No, davvero.

Se vi capita e non l’avete mai visto, vale la pena. Questa però non è una recensione. È una faccenda di vitarelle e rotelle. Dialoghi, per la precisione.

Perché dovete sapere che, proprio all’inizio di PWIS, Audrey Hepburn irrompe nella suite di William Holden, armata del suo fascino e di una gabbia contentente canarino a nome Richelieu, per assumere le sue funzioni di dattilografa. Lui, sceneggiatore talentuoso, pigro, alcolizzato e non poco eccentrico, l’accoglie con una serie di istruzioni e raccomandazioni strambe.

“E soprattutto, non risponda mai a una domanda con un’altra domanda. Ha capito bene?”

“Perché?” cinguetta Audrey. “L’ho fatto?”

Inutile dire che lo sceneggiatore diventa sarcastico e i due cominciano a battibeccare adorabilmente, mettendo subito in vetrina il tipo di dialogo brillante, sofisticato e appena nonsense che costituisce un terzo del fascino di questo film.

Ecco, questa è un’abitudine leggermente irritante nella vita reale, ma una meravigliosa tecnica nello scrivere dialoghi. E lo è perché: a) crea conflitto*; b) consente di usare badilate di sottotesto, perché ovviamente tutte le domande successive alla prima sottintendono la mancata risposta e le ragioni della mancata risposta; c) permette di caratterizzare efficacemente varie tipologie di personaggio. Possono esserci varie ragioni per rispondere a una domanda con un’altra domanda: ingenuità, curiosità iperattiva, sovrana indifferenza alle esigenze altrui, tortuosità più o meno machiavellica, sfida, menzogna, evasività, provocazione scherzosa… you name it. E diversi modi per farlo; d) consente di produrre scambi (e battibecchi) incisivi, efficaci e pieni di ritmo.

Per dire, in teatro… ecco.

Poi naturalmente, come tante cose, è da usarsi come il curry – ovvero con cautela. Ma considerando che il dialogo dovrebbe sempre caratterizzare il personaggio o far avanzare l’azione/conflitto (e possibilmente entrambe le cose insieme), direi che questo fits the bill.

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* Fate un piccolo esperimento: al lavoro o in famiglia, scegliete qualcuno di moderatamente nervoso e provate a rispondere con una domanda a ogni domanda che vi viene rivolta. Fatelo due o tre volte, non una sola, e poi sappiatemi dire se genera conflitto oppure no…

Don’t Show & Tell

Su Show, Don’t Tell si può discutere. Come tutte le prescrizioni andrebbe presa con la debita quantità di sale, e tutti siamo d’accordo sul fatto che mostrare al momento sbagliato può essere tanto disastroso quanto dire inopportunamente. Sulle proporzioni ci sono scuole di pensiero, e non intendo addentrarmi adesso nelle intricacies della faccenda.

Ma c’è qualcosa che, a mio timido avviso, sarebbe sano evitare come la forma più virulenta di peste nera – ed è mostrare & dire.

I’ll show, con un piccolo esempio tratto (e tradotto) da una mia recente e poco felice lettura.

“Posso fidarmi di te, Kit?” domandò Tom, incerto della lealtà del suo volubile amico.

Toi. Non vi viene mal di denti al solo leggerlo? Abbiamo visto che Tom non si fida granché di Kit nel momento in cui gli ha chiesto se può fidarsi di lui… perché diamine disturbarsi a dirlo? Abbiamo capito, grazie.

“Posso fidarmi di te, Kit?” domandò Tom.

Questo sarebbe servito perfettamente allo scopo, senza dare al lettore la sgradevole sensazione di essere considerato denso. Volendo, si sarebbe potuto aggiungere un gesto per sottolineare l’incertezza di Tom, o aggiungere quel tanto di subtesto – che non fa mai male.

“Posso fidarmi di te, Kit?” domandò Tom, incurvando appena le spalle e distogliendo lo sguardo.

Questo m’indurrebbe a pensare che Tom tema molto di non potersi fidare, quale che sia la risposta.

“Posso fidarmi di te, Kit?” domandò Tom, fissando dritto negli occhi il suo volubile amico.

Questo è un cavallo di un altro colore: avanti, dimmi che posso fidarmi, e ti crederò – oppure prova a dirmi che posso fidarmi, se ne hai il coraggio, a seconda del contesto.

D’altro canto, non ci sarebbe stato nulla di orribilmente criminale nel limitarsi a riferire i pensieri di Tom (il cui punto di vista coincide con quello della narrazione – la maggior parte del tempo). 

Tom era incerto della lealtà del suo volubile amico.

Non è ideale – e non funzionerebbe granché nel contesto in cui si trova nella pagina da cui ho pescato l’esempio – ma in un paragrafo di transizione o come aside che qualificasse in via marginale considerazioni diverse, potrebbe anche andare.

Sempre meglio – treni merci meglio – che mostrare & dire, perché, come dicevasi qualche paragrafo fa, il lettore tende a capire da sé le implicazioni di una domanda come “posso fidarmi di te?” La traduzione nella stessa riga è bruttina, ingombrante e una fonte d’irritazione.

Tutte cose che non fanno bene alla scorrevolezza della lettura, alla sospensione dell’incredulità e (cosa che posso garantire per diretta e frustrante esperienza) alla gioia generale del lettore.

Feb 16, 2011 - grilloleggente, scrittura, teorie    Commenti disabilitati su La Regola Del Curry

La Regola Del Curry

Leggevo un articolo su Writer’s Digest, tempo fa – tanto tempo fa che non ricordo più l’autore… Si parlava di dialogo, e si suggeriva di usare con misura le “meraviglie”. Per meraviglie intendendosi quella risposta perfetta e brillantissima, o quell’espressione favolosa, o quella battuta al vetriolo che caratterizzano tanto bene un personaggio. “Non più di una volta o due in un libro,” diceva l’innominato articolista, e ricordo di avere storto la bocca. Una volta o due? In tutto un libro? Che esagerazione!

Poi mi succede di leggere un volume (non il primo, per motivi vari) di una serie di gialli storici inglesi. Tutto è perfetto: ricostruzione storica da leccarsi i baffi, personaggi che balzano fuori dalla pagina, dialoghi brillanti, e se l’intreccio giallo scivola un po’ in secondo piano, fa lo stesso, tanto è buono il resto. Parlo dei misteri di Sir Robert Carey, di P.F. Chisholm, non tradotti in Italiano, ahimé, ma che valgono bene qualche sforzo per leggerli in originale – anzi, ho tanto idea che tradotti perderebbero parte del loro fascino… Perché il fascino in questione poggia largamente sulle incomprensioni culturali tra il granitico, lugubre, cinico e al tempo stesso ingenuo Sergente Dodd, strappato di mala voglia alla sua guarnigione sul turbolento confine con la Scozia, e i Londinesi di ogni estrazione sociale, dal Ciambellano della Regina ai monelli Cockney.

E’ una delizia assoluta seguire Dodd mentre si aggira perplesso e sospettoso per questa enorme, caotica e incomprensibile Londra, borbottando tra sé con l’accento quasi-scozzese del Berwickshire… A un certo punto, incontrando il giovane Shakespeare, Dodd commenta tra sé che è disposto “tae throw him a lot farther than he could trust him.”

Questo è uno di quei coloriti, meravigliosamente espressivi e un po’ nonsense modi idiomatici inglesi, e significa che Dodd non si fida di Shakespeare neanche un po’.

Il modo idiomatico originale (I can throw him farther than I can trust him*, oppure I’d trust him as far as I can throw him, oppure anche I wouldn’t trust him farther than I can throw him – vedete l’accesa discussione in proposito su questo forum), fa perno sulla difficoltà di scaraventare molto lontano un altro adulto, e su un altro modo idiomatico: “how far do you trust him?”, traducibile come “quanto di fidi di lui?”

Ecco, a questa domanda, a proposito di Shakespeare, Dodd risponderebbe “Not as far as I can throw him,” e – benché in tutta probabilità si tratti di un anacronismo – l’effetto è irresistibile. O almento, lo è stato la prima volta che me lo sono trovato davanti, perché era così inatteso e al tempo stesso così perfetto per il personaggio, e così adatto alla situazione… La seconda volta, pensato di nuovo da Dodd a proposito di altra gente, è suonato già meno naturale, perché è un modo idiomatico talmente inconsueto che la ripetizione si fa notare – e di conseguenza, quando noto la scrittura, sono trascinata fuori dalla storia.

Una terza volta non c’è – perché P.F. Chisholm conosce il suo mestiere e non si lascia trascinare dall’entusiasmo, ma sono certa che, se ci fosse stata, sarebbe stata irritante.

E dunque, chi l’avrebbe mai creduto, si direbbe che l’articolista di WD avesse ragione: anche per le particolarità del dialogo, vale la Regola del Curry. Più è piccante, meno se ne deve usare – o finirà per coprire tutti gli altri sapori.

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* Probabilmente sto esagerando, ma mi chiedo se non ci sia anche un gioco di parole tra trust e thrust, che, tra le altre cose, è un sinonimo di throw… Ad ogni modo, non riesco a individuare fonti attendibili sull’origine dell’espressione. Qualcuno sostiene che non possa avere più di cent’anni – ma sta talmente bene in bocca a Dodd che sono disposta a considerare il suo uso uno di quei rari casi di anacronismo perdonabile.

Giu 19, 2010 - Oggi Tecnica    2 Comments

Egli disse, ella disse

Capita di scrivere un dialogo e di essere colpiti all’improvviso da quella che sembra una manifica idea: perché invece di ripetere ad nauseam “A disse” e “B disse” e via così, che è monotono e generico, non uso qualche bel sinonimo espressivo? E/o qualche bell’avverbio? Una giudiziosa combinazione delle due cose non mi darebbe un dialogo più vivace e meglio caratterizzato, oltre che meno banale?

La risposta è no, no, no, mille volte no. Date un’occhiata all’esempio qui sotto. Si suppone che sia una scena d’azione in cui A e B, guidati da D, inseguono dei nemici più numerosi e meglio armati di loro.

“Tra poco saremo al villaggio” annunciò D con sicurezza. “Dopo il villaggio la strada si allontana dal fiume, risale ed entra tra gli alberi. Quando stavo con la zia, scendevamo sempre al villaggio a comprare il sale per la scorciatoia che gira in alto, sopra il bosco” spiegò.

“Scorciatoia sopra il bosco?” ripeté B, rizzando le orecchie.

“Sissignore, si imbocca dopo la curva, non si vede quasi, è un sentierino che sale verso sinistra” rispose lui e, cogliendo al volo l’idea del gigante, esclamò euforico: “Ma, volendo, si può tagliare nel bosco, riprendendo la strada dopo il posto X.”

“Ridiscendere alla strada dopo il posto X? Cos’è questo posto X? E dov’è?” interrogò A.

“Tra, tra… che so, tra quattro, cinque miglia almeno. Lo chiamano il posto X, ma restano solo rovine” D balbettava quasi per l’eccitazione.

“Abbiamo la nostra sorpresa, D, sei un genio!” decise B. Si misero in cammino.

“Ci siamo”  affermò D poco dopo, mostrando un sentiero che saliva ripido sulla sinistra. Salirono.

“Di qua, di qua” sollecitò D, indicando con la mano il limitare degli alberi a destra. “Ecco il posto X” dichiarò soddisfatto, dando l’alt. “La strada è poco lontana, ci si arriva di là” spiegò, indicando la scarpata davanti a loro.

“Abbiamo guadagnato terreno e i carri vanno piano. Abbiamo il tempo per organizzare un’imboscata” valutò B.

“Andate giù a piedi, studiate la situazione e tornate a riferire” ordinò A.

Ecco, non so se mi spiego: dodici sinonimi diversi del verbo dire, per non parlare delle qualificazioni, tra il semi-lirico e il burocratico, il tutto – presumibilmente – nel duplice intento di scongiurare la monotonia e differenziare le voci. Peccato che non funzioni… E’ sabato, siamo in giugno, quindi magari avete una mezz’oretta da dedicare a un paio di istruttivi esperimenti.

Primo esperimento: leggete l’esempio ad alta voce e ascoltatevi per bene, oppure fatevelo leggere da qualcuno, oppure registratevi e ascoltate. Avete colto la dolorosa goffaggine del dialogo? Bene.

Secondo esperimento: copiate e incollate il dialoghetto in un processore di scrittura e sostituite tutti i verbi sottolineati con il buon vecchio “disse”, eliminandoli senza remore quando ce ne sono troppi. Poi togliete di torno i vari soddisfatto, euforico, con sicurezza e compagnia cantante. Adesso rileggete il pezzo: a parte il fatto che scorre meglio, vi pare che le voci siano diverse l’una dall’altra? Sareste in grado di determinare chi sta parlando se non vi venisse detto esplicitamente? No, vero? Appunto.

Il fatto è che da una parte tutti quei bei sinonimi e aggettivi trascinano fuori dalla storia, e dall’altra, senza di essi, il dialogo è pressoché incomprensibile. E allora come si fa? Una volta di più, è questione di mostrare e non dire: dev’esserci un modo per mostrare che D è soddisfatto o euforico, anziché dirlo – attraverso l’azione. Dev’esserci un modo per distinguere D da A e B – attraverso il modo di parlare. Tutto il resto deve essere come un macchinario teatrale: efficiente ed invisibile. Il lettore non deve accorgersi che gli state dicendo che D parla ancora e ancora, o che D è soddisfatto… deve sentire la sua voce, percepire la sua soddisfazione.

Proviamo:

D li guidò fuori dal bosco. “Visto? E’ il posto X,” disse, col fiato ancora grosso per la salita. “Che vi avevo detto? E la strada è proprio qua sotto, guardate.” Indicò col dito il nastro bianco che s’intravedeva tra gli alberi e, quando si voltò a guardare i due uomini, la luce compiaciuta negli occhi di B gli fece allargare il cuore.

Ok, non è da nobel per la letteratura, ma mostra molto più di quanto non dica: D ha fatto la strada poco meglio che di corsa nella sua impazienza, D è compiaciuto di se stesso, D cerca l’approvazione di B – e la ottiene.

Per cui, terzo esperimento: provate a riscrivere tutto il passaggio, dando ad A, B e D delle voci ben distinte, delle azioni che rivelino quello che pensano, dei nomi se volete. Tenete il punto di vista di D (sapete solo quello che D sa, pensa, vede e sente). Poi, se ne avete voglia, ricominciate dal punto di vista di B, e poi ancora da quello di A – ciò che viene detto non cambia, ma le reazioni e le interpretazioni? Per esempio, ha proprio ragione D nel pensare che B sia soddisfatto? E A lo è altrettanto?

“Se ne possono spremere, di esercizi di scrittura, da dieci battute di dialogo,” argomentò soddisfatta la Clarina e, sospirando compiaciuta, annuì a sé stessa, salvò con prudenza il post e lo pubblicò.