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Ott 7, 2016 - teatro    Commenti disabilitati su Campogalliani70 – Intervista a Francesca Campogalliani (parte II)

Campogalliani70 – Intervista a Francesca Campogalliani (parte II)

MrsHE rieccoci con Francesca Campogalliani, proprio ieri sera deliziosa Signora Higgins nella ripresa al Teatro Sociale del fortunatissimo Pigmalione diretto da Grazia Bettini.  Abbiamo parlato della nascita e dell’evoluzione dell’Accademia, e di una felicissima carriera iniziata come regalo di maturità, sotto minaccia materna d’interruzione alla prima bocciatura universitaria – bocciatura che non venne mai, per fortuna. Ma questa madre che non minacciava a vuoto mi ha incuriosita…

La sua mamma non era coinvolta nelle attività dell’Accademia?

Assolutamente no. Mia mamma aveva due lauree in materie scientifiche ed era del tutto estranea al mondo dell’arte. I miei hanno avuto una vita bellissima, per loro stessa ammissione, anche perché non sono mai entrati troppo l’uno nel lavoro dell’altro. In casa c’erano ruoli molto definiti: mia mamma era un’organizzatrice perfetta, e mio padre non sapeva niente della vita pratica, e sono andati  benissimo così. Lui ha potuto svolgere il suo lavoro a un metro da terra perché mia mamma glielo ha permesso. Non si è mai fatto una valigia, non ha mai prenotato un aereo – e come stessero le cose si è visto fin dal primo appuntamento, quando è andato a prendere mia madre nella farmacia sbagliata. Da parte sua, mia mamma lo ha seguito nelle sue attività, ma per lo più non distingueva un baritono da un tenore.  In casa si è sempre detto che in due facevano una persona completa.

E chissà se una complementarità di caratteri ben assortiti non sia anche uno dei segreti della vostra ottima e lunga riuscita. Se non sbaglio, settant’anni fanno di voi la più longeva compagnia amatoriale d’Italia: che cosa è cambiato in questi decenni, e cosa è rimasto immutato?

Sono rimasti i principi secondo i quali l’Accademia è stata fondata. Nessuno di noi viene remunerato in alcun modo. Se uno di noi occupa un posto regolare paga il suo biglietto. C’è una grande correttezza reciproca su cui nessuno ha mai discusso. Non è cambiato l’impegno, e non è cambiata la passione… Quel che è cambiato è che tutto è diventato più intenso e impegnativo. La qualità è sempre quella, ma un tempo – prima che questo teatrino fosse un teatrino – una commedia si faceva una volta o due al Sociale, poi si andava una volta a Pesaro, a Montecarlo, a Vichy – e tutto finiva. Non c’era la stagione che si è andata consolidando e allungando nel tempo, e c’era per lo più un regista unico, Aldo Signoretti. Adesso, con due registi e numerosi attori, possiamo diversificare i cast e fare tre o quattro titoli nuovi ogni stagione – e naturalmente insieme all’impegno si sono moltiplicate le necessità organizzative e di comunicazione. La sostanza non è cambiata – ma i modi sì. Gli ideali della fondazione sono rimasti intatti – e non è cosa da poco.

Prima accennava al teatrino. Come ci siete arrivati?about_2

Nei primi anni Cinquanta la marchesa d’Arco ha ceduto questa, che era la scuderia. Il pavimento era tutto a livello del palcoscenico, e noi l’abbiamo presa in carico come sala prove. Poi pian piano, a nostre spese, abbiamo fatto scavare il pavimento e aggiunto le sedie, abbiamo acquisito i camerini, i servizi, la parte di sopra e, dopo varie fasi a seconda delle necessità e del gusto, nei primi anni Settanta era già tutto più o meno come lo si vede adesso. E tengo a dire che l’abbiamo sempre tenuto perfettamente a norma – un impegno non da poco. Noi troviamo che abbia un calore e un’atmosfera particolari. C’è un rapporto speciale tra palco e platea, qui. Addirittura, quando siamo in un teatro grande il pubblico ci sembra così lontano…

Posso dire che vale anche dal punto di vista del pubblico: venendo qui molto spesso mi sono abituata a quel calore tra palco e platea di cui parla – e ne sento la mancanza in teatri più grandi. E credo di non essere la sola: tutta Mantova ha un rapporto speciale con la Campogalliani.

st_014_05Ogni anno vengono qui più di quattromila spettatori. Un discreto numero, perché qui i posti sono 64, e quindi significa tante serate a platea piena. D’altra parte, la Campogalliani è stata parte del tessuto culturale cittadino in modo continuativo fin dal ’46 – anche perché a suo tempo ha raccolto in sé le filodrammatiche che c’erano prima della guerra. Il contatto con la vita culturale cittadina c’è sempre stato. Le istituzioni non si sono sempre occupate di noi, devo dire. Ma c’è di buono che questo ci ha resi liberi, ci ha dato facoltà di fare qui quello che volevamo e vogliamo – nella scelta dei testi, dei tempi, della programmazione… in tutto. Però abbiamo collaborato con il comune e con tante associazioni – non soltanto in questo anno così particolare – e l’abbiamo sempre fatto con piacere. Io ho una grande nostalgia della collaborazione davvero esemplare con l’Accademia Virgiliana, durante la presidenza del professor Zamboni. Oltretutto c’erano degli intenti comuni, un senso di servizio fatto alla città che non sempre si trova. Giorgio parlava della necessità di unire le forze per creare di più. Noi non avremmo mai fatto D’Annunzio, se non fosse stato per lui – e forse avevamo qualche dubbio in partenza, ma fin dalla prima prova il testo ci ha sedotto. E il pubblico ha risposto davvero molto. E poi c’è stato Bibi e il Re degli Elefanti, e Di Uomini e Poeti… Secondo me Giorgio Zamboni vedeva lontano, e chissà con che cosa avremmo continuato. Un bell’esempio di collaborazione tra istituzioni – ammesso che noi possiamo considerarci un’istituzione.

Senza dubbio un’istituzione di fatto, come minimo…

Sì, direi che con la Campogalliani Mantova ha un bell’esempio di quello che possono la passione, la volontà, la cultura teatrale in mano a persone che veramente sanno ricreare e diffondere gli onori del palcoscenico. Abbiamo sempre perseguito un’opera di diffusione culturale, e il pubblico di Mantova e provincia ha sempre riconosciuto il nostro impegno. Questo è fondamentale, perché il pubblico per noi è l’altra metà del cielo, e ci ha sempre, ma proprio sempre gratificati e seguiti – e non è cosa da poco. Credo che un po’ ce lo siamo meritato. Lo dico senza falsa modestia, perché la falsa modestia è un peccato quasi capitale. Ci siamo fatti un nome e un seguito – e qui si sperimenta una vita particolare, sembra di vivere due volte.

E con questo abbiamo finito. Grazie, Francesca, e buon lavoro nell’intensissima stagione, nelle celebrazioni del settantennale e negli eventi di Mantova Capitale. A prestissimo. E la settimana prossima tocca a Maria Grazia Bettini.

Ago 5, 2011 - Senza categoria    Commenti disabilitati su In Memoriam – Giorgio Zamboni

In Memoriam – Giorgio Zamboni

Giorgio Zamboni era uno straordinario medico, un filosofo, un cultore raffinato di opera, musica e letteratura.

Era rinascimentale nella varietà, vastità e profondità delle sue conoscenze e dei suoi interessi. Era guidato da un’insaziabile curiosità intellettuale e da una determinazione irriducibile.

 

Amava le storie dovunque le trovasse – all’opera, a teatro, nei film e nei romanzi – e le prediligeva dense, vivide e un po’ sentimentali.

Era un uomo che onorava la sua professione e perseguiva le sue passioni con irrefrenabile intensità.

Ed era il mio mentore. Un amico paterno che mi incoraggiava, credeva nel mio talento, mi spronava ad maiora senza sosta, mi pungolava ad esplorare nuovi territori creativi, e badava a che non mi prendessi troppo sul serio. Tra molte cose, è merito suo se, dopo anni, sono tornata a scrivere teatro.

Ieri mattina il Professore ha ceduto alla malattia che da mesi divorava la sua vitalità, morso dopo morso.

Adesso non c’è più, e voglio ricordarlo con affetto profondo, con rimpianto e gratitudine infiniti – con il mezzo che secondo lui sapevo usare meglio: le parole.

Set 28, 2010 - teatro    3 Comments

Bibi e il Re degli Elefanti

Se volete, posso anche ammettere che, quando parlavo di compagni immaginari, non lo facevo del tutto senza secondi fini…

Gli scrittori sono gente pessima, vero? Ma il fatto è che, ormai in dirittura d’arrivo, c’è questo:

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La storia narrata in Bibi e il Re degli Elefanti è stata desiderata, discussa e sognata ben prima di arrivare sulla carta e sul palcoscenico.

Da sempre credo fermamente nel potere dell’immaginazione che – come gli Inglesi dicono a proposito di una buona tazza di tè – forse non cura nulla, ma di certo giova a tutto, dalla malinconia alla peste nera, passando per l’unghia incarnita e le pene d’amore.

L’idea di Bibi e del suo elefante immaginario è nata discutendo questa teoria con il Professor Zamboni, pediatra acuto e sensibile, cui premeva una storia che raccontasse di malattia e di speranza. L’associazione tra la speranza e l’immaginazione – e ancor più tra l’immaginazione e quella forza di affrontare la difficoltà che genera e sostiene la speranza – è stata per me immediata e istintiva. E se qualche riluttanza mi frenava dallo scrivere in un campo delicato come quello dell’infanzia, la storia che germogliava via via da questi stimoli ha travolto le mie resistenze: nati da un incontro di pensiero e istinto, di memorie e di concetto, Bibi, Bogus e Giovanna la Pulzella chiedevano con insistenza di essere scritti.

Secondo gli studi recenti in materia, i due terzi dei bambini si creano dei compagni immaginari: amici fedeli e rassicuranti da cui ricevere appoggio, complicità e conforto, punti di riferimento all’interno di dimensioni psicologiche chiuse o perdute per gli adulti. Mi sono chiesta quanto più acuto debba essere il bisogno di queste “presenze” – così diffuso tra i bambini sani e felici – per un bambino che si sente derubato della sua infanzia e, forse, tradito dall’impotenza degli adulti di fronte al nemico invisibile chiamato malattia. Bogus e Giovanna non simboleggiano, come teme la mamma di Bibi, una fuga dalla realtà: rappresentano invece la forza interiore dell’individuo, la costruzione di un carattere e la ricerca di una bussola morale. Nei suoi compagni immaginari, senza saperlo, Bibi costruisce non soltanto la sicurezza di cui ha bisogno e un elemento magico che trasfigura la sua situazione, ma anche un senso di ciò che è giusto e sbagliato. Nel momento del bisogno, della sofferenza e dell’incertezza, in Bogus e Giovanna – ovvero nel dialogo con se stessa – Bibi trova coraggio, speranza, bellezza, perseveranza e principi: in una parola, cresce.

La dimensione teatrale restituisce alla vicenda di un piccolo essere umano che sboccia in circostanze dolorose il sogno e la magia sospesa di una favola vista con occhi bambini.