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A Scuola

girlMi sono iscritta a non un uno, ma tre corsi online.

Ogni tanto lo faccio. Le possibilità sono infinite, in ogni genere di campo e argomento, dall’astrofisica alla scenotecnica, dalla storia antica alla pollicoltura.* Poi non è che sia straordinariamente brava in proposito. Sono pigerrima, dispersiva, con una tendenza alla procrastinazione su cui vi ho intrattenuti fin troppe volte. E tutto sommato, va ancora relativamente bene se ci sono tempi, scadenze ed esercizi da consegnare… Se il corso è self-paced – ovvero una serie di lezioni da seguire a discrezione dello studente – le mie possibilità di arrivare in fondo sono bassine, indipendentemente dal mio interesse per l’argomento. Capirete, credo, se vi dico che le lezioni di scrittura teatrale scaricate dal sito del MIT sonnecchiano in un angolo buio del mio hard disk dall’agosto del 2011.

Appunto.

E quindi forse è stato un tantino imprudente, da parte mia, iscrivermi ai tre corsi che vi dicevo.

Uno è una specie di storia performativa dell’Othello di Shakespeare. Come è stata rappresentata la tragedia, in questi quattro secoli? Che cosa sappiamo? Che conclusioni possiamo trarre da atteggiamenti registici, interpretazioni e attualizzazioni? Fascinating stuff.

Poi c’è un’introduzione alla scrittura cinematografica. Secoli fa ne avevo già seguito uno della Scuola Holden. Mi era piaciuto, soprattutto perché avevo trovato una tutor molto in gamba, che mi faceva lavorare un sacco e a cui piaceva quel che scrivevo. Riconosco che quest’ultimo non dovrebbe essere un requisito per valutare un corso e trarne beneficio – ma siamo onesti: chi è che non lavora con più zelo e più gusto quando il suo lavoro viene apprezzato? Adesso trovo che sia ora di rinfrescare l’argomento, dopo quindici anni o giù di lì – e di farlo in Inglese. girls

E questi due sono MOOC, ovvero Massive Open Online Courses. Da un lato hanno di buono i tempi e le scadenze che vi dicevo. Dall’altro, hanno una componente di interazione con gli altri studenti, in cui sono pessima. In teoria l’idea di discutere di quel che studio e imparo mi piace molto; all’atto pratico, forse non so usare bene la roba a forma di forum, ma fatto sta che una discussione tra centinaia di partecipanti mi sfugge rapidamente di mano, e tendo a rinunciarci e a interagire ben poco.

Infine c’è un corso di scrittura teatrale. Ci avevo già provato qualche anno fa, e non mi ero trovata bene con il docente.** Un secondo tentativo altrove era andato meglio, ma non posso dire di averne cavato granché. Adesso ci riprovo. Questo sembra un po’ più avanzato, ha un sacco di esercizi pratici e la possibilità di farseli leggere e commentare… Purtroppo è self-paced e, a peggiorare ulteriormente le cose, ho accesso al materiale vita natural durante. Con i miei precedenti, non metterei la mano sul fuoco.

E poi ce ne sarebbero altri – corsi di storia che m’interesserebbero parecchio… ma ho deciso che prima farò meglio a vedere come me la cavo con questi tre.

Quindi forse farò bene a formulare un’ulteriore buona intenzione per l’anno nuovo: seguire i corsi e finirli. Vi farò sapere, eh?

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* No, davvero: l’Università di Edinburgo ne ha uno su comportamento e benessere delle galline. Non è uno di quelli che ho scelto.

** A parte tutto il resto, leggendo il mio esercizio, si stupì moltissimo del fatto che fosse popolato da due personaggi maschili su due. Perché, essendo una donna, non scrivevo donne? Sessista.

Giu 17, 2011 - anacronismi, cinema, teorie    2 Comments

Il Barone Rosso Meets La Bambinaia Francese

barone rosso, manfred von richtofen, scrittura cinematografica, anacronismiIl Barone Rosso è uno di quei personaggi su cui potrebbero esserci più romanzi e più film di quanti ce ne siano. O forse no.

Junker prussiano, asso per antonomasia della I Guerra Mondiale, un genio nel suo campo, morto giovanissimo in battaglia… sembrerebbe perfetto, no? Solo che poi leggi i suoi diari. Persino attraverso il lavoro del protoeditor che gli fu affiancato, la personalità che emerge è singolare: un rimuginatore introverso, con una passione e un’etica delle battaglie aeree, un rigore quasi monacale nel comando, delle intuizioni tattiche fulminanti e un misto di spavalderia, riservatezza e spleen che è molto attraente ma niente affatto cinematografico.

Quindi non è del tutto sorprendente che gli sceneggiatori non sappiano bene che cosa fare di lui – e i risultati dei rari tentativi tendono ad essere deprimenti.

barone rosso, manfred von richtofen, sceneggiatura, filmDi Richtofen, film muto del 1929 non so proprio nulla, ma mi documenterò. Intanto però posso dirvi che nel grigio Von Richtofen And Brown, del 1971, il Barone è ritratto con una gelida cautela che sconsola. Difficile anche solo interessarsi al suo personaggio. Ma d’altra parte il suo (supposto e probabilmente anche sbugiardato) abbattitore, il canadese Roy Brown, è abrasivamente antipatico. L’intenzione di contrastare il cavaliere del cielo con il rustico ragazzo coloniale che dice pane al pane è assai poco sottile e l’inespressività degli attori, in particolare l’allucinato spilungone John Phillip Law, non giova affatto. Alla fin fine ci si ritrova con un certo numero di duelli aerei (bellini ma anacronistici nella scelta degli apparecchi) e due protagonisti con tanto fascino e tanto spessore combinati quanti ne starebbero sulla punta di un coltello. 

Dopo questo, il Barone compare come figura di contorno in un certo numero di film e telefilm – ora inavvicinabile leggenda vivente, ora mezzo matto sanguinario – e poi più nulla fino al 2008. barone rosso, manfred von richtofen, sceneggiatura, scrittura cinematografica

Nel 2008 esce Der Rote Baron, maxiproduzione tedesca girata in Inglese, in un tentativo di raggiungere un mercato più vasto. Tentativo fallito grandiosamente, visto che dopo essere stato un fiasco in Germania, il film ha avuto pochissimo successo altrove. Non so se in Italia sia mai arrivato nei cinema, ma le recensioni che si leggevano su IMDb erano tali da non far rimpiangere particolarmente il fatto. Ciò non toglie che, vedendolo passare in televisione qualche sera fa, gli abbia dato un’occhiata. Ebbene, c’è un motivo se ha fatto fiasco – e questo motivo è, signore e signori, la Cattiva Scrittura. Cominciamo col dire che, visivamente, il film non è del tutto male. Immagino che il sostanzioso budget sia andato tutto in effetti speciali, perché gli esterni girati nei teatri di posa sono un tantino evidenti, e le scene di massa sono… er, masse piccole. Gli effetti speciali, dal canto loro, sono persino un po’ troppo, con i bi/triplani di tela e legno che fanno acrobazie da F16 e combattono in formazione iperserrata… Dopodiché, onore al merito là dove spetta: costumi e ambientazioni sono molto curati e anche accurati, gli aerei finti a terra sono una bellezza (nonostante siano, ancora una volta, gli aerei sbagliati in più di un caso), e la fotografia fa qualche sforzo per creare un’atmosfera di crescente desolazione e claustrofobia – but more on that later. Gli attori… Il casting è un misto di scelte ragionevolmente felici, approssimazione e nomi stranieri finalizzati alla cassetta ma, a dire il vero, gli attori sono difficili da giudicare, costretti come sono in una sceneggiatura che soffre di molti mali in vari stadi di gravità.

Sgombriamo il campo dalle magagne ovvie: il passo della narrazione è di fatto un saltellon-saltelloni di scene episodiche, mal legate tra loro e in una sequenza che immagino incomprensibile per chi non arrivi con qualche conoscenza della vita del Barone e dello Jasta 11. La caratterizzazione dei personaggi è minima e grossolana – vedansi i quasi macchiettistici Kaiser e Hindenburg, per non parlare del Brown di Joseph Fiennes, che sembra uscito da Cambridge. La storia d’amore fittizia è convenzionale fino alle lacrime, e parrebbe stock Hollywood fare cucinato in salsa tedesca, se non fosse in realtà parte di una colpevole strategia di fondo. Idem per le spaventose libertà storiche – e con questo veniamo alla malattia più grave di questa sceneggiatura: la Sindrome della Bambinaia Francese.

Ne avevamo già parlato, ricordate? La SdBF è la forma più grave e più colpevole di anacronismo: prestare sensibilità del nostro tempo a personaggi di un’altra epoca, ritraendo automaticamente come malvagi i loro contemporanei non anacronistici. Nella sua ansia di mostrare che il Barone era “un ragazzo come noi”, e nel suo zelo missionario antibellico, l’autore/regista Nikolai Muellershoen rende il suo film fasullo, preachy e intellettualmente disonesto.

Ecco che il Barone diventa un improbabile proto-pacifista allegro e compagnone, che ordina ai suoi di abbattere gli aerei nemici rigorosamente senza uccidere il pilota, che va matto per le acrobazie aeree, che fa amicizia con Brown, che matura quando la sua dolce infermiera gli ammannisce un fervorino sulle atrocità della guerra e sulle ingiustizie sociali, che suggerisce a Hindenburg di arrendersi e occasionalmente rimbecca il Kaiser. Ora, non solo nulla di tutto questo è vero, ma tutto ciò travisa completamente la personalità e la mentalità del Barone nell’intento di far passare un messaggio pacifista e un’immagine più “simpatica” dei Tedeschi in guerra. Nel film il Barone e la sua infermiera ragionano come gente del XXI Secolo, e qualsiasi altro punto di vista è trattato come stupido, retrivo e guerrafondaio. Come dicevasi, Sindrome della Bambinaia Francese a uno stadio grave.

E la cosa si traduce in cattiva scrittura perché tutto è sacrificato alla predicazione e alla storia d’amore – ma proprio tutto: accuratezza storica, ritmo, caratterizzazione, tutta una serie di avvenimenti fondamentali della vita del Barone e, incredibilmente per un film su un asso dell’aviazione, persino i duelli aerei, di cui vengono mostrati solo generici spizzichi e bocconi qua e là, senza troppo capo né gran coda.

Ricordo di avere pensato, a suo tempo, che forse una produzione tedesca avrebbe saputo rendere meglio il personaggio. Sbagliavo e non tenevo conto dell’ansia di riabilitazione della Germania. Muellerschoen avrebbe potuto fidarsi dello spettatore, mostrandogli la parabola tragica di un giovanotto che entra in guerra pieno di entusiasmo e spirito patriottico, e continua ad ingoiare lealmente i suoi dubbi mentre il mondo che vuole difendere gli crolla attorno. Invece ha deciso di sbattercelo in testa ripetutamente, il suo messaggio, e al diavolo la storia.

Peccato.

Riuscirà qualcuno, prima o poi, a scrivere il Barone per quello che era – come un uomo del suo tempo, con le sue complessità e non quelle di qualcun altro?  

Lug 6, 2010 - cinema    3 Comments

Galaxy Quest

galaxyquest.jpgSempre per la serie A Me La Fantascienza Non Piace, ho rivisto per l’ennesima volta Galaxy Quest.

Ora, l’unica cosa che posso dire nel tentativo di sembrare un po’ meno dissennata è che GQ non ha nulla a che fare con il lato angosciante del genere: è una fantastica metaparodia di Star Trek, ciò che spiega parecchio riguardo alla mia capacità di guardarlo senza perdere il sonno.

Dico metaparodia, perché GQ non è soltanto una versione buffa di Star Trek à la Spaceballs, ma un amabile e intelligente divertissement su tutto il mondo che ruota attorno a un programma del genere – ed è davvero un mondo bizzarro. Tutto comincia con la serie eponima, grande successo negli Anni Ottanta, poi cancellata, ma assurta a oggetto di culto, con reggimenti di fans che seguitano a incontrarsi in costume per rivedere i vecchi episodi, collezionare modellini e studiare i piani dell’astronave, la NTE* Protector. Ed è proprio a una di queste conventions che si ritrova, diciotto anni dopo la cancellazione della serie, il cast originale. Nessuno di loro ha fatto gran carriera, dopo GQ – probabilmente a causa di GQ. I Nostri sono una fauna variegata: l’ex bambino prodigio che faceva il Piccolo Pilota Prodigio è… be’, cresciuto; la Bellona Pettoruta che ripeteva ogni parola del computer (Sigourney Weaver, of all people!) è diventata cinica; l’ex Ingegnere Capo Scanzonato ha sviluppato problemi di alcol e di autostima; il Prode Capitano è disperatamente ansioso di convincersi che GQ è stata una buona cosa nella sua vita (e forse è l’unico che ancora ne ricava qualche soddisfazione). Il mio prediletto, però, è Alan Rickman, nel ruolo di Sir Alexander Come-Mi-Sono-Ridotto-Così? Dane, un attore shakespeareano inglese finito a interpretare lo Ieratico Ufficiale Scientifico Alieno**.

La faccenda è già piuttosto spassosa così, ma poi le cose cominciano a succedere, e questo litigioso, demotivato gruppo si ritrova più o meno rapito da degli alieni particolarmente ingenui, che non distinguono gli attori dai loro eroici personaggi. E non sarebbe ancora nulla, se gli sprovveduti intergalattici non contassero proprio sui finti eroi per salvarsi dal Malvagio, un lucertolone sadico e genocida, sveglio abbastanza da capire presto come stanno in realtà le cose.  

Seguono improbabilità tecnologiche, fraintendimenti culturali, un diluvio di riferimenti cinematografici e televisivi, azione gratuita, guerra, amore e morte, tropi narrativi come se piovesse (e naturalmente gli attori li riconoscono come tali – solo che stavolta sono veri), e la folgorante idea che a salvare tutto e tutti, alla fine, non siano i Nostri Eroi, ma i fans a casa.

Insomma, GQ non è un film profondo, però ha dalla sua delle buone idee, del sense of humour, attori in gamba*** e, più di tutto, una buona scrittura in grado di giocare con riferimenti culturali, tecniche narrative complesse, showbiz (e, volendo, anche qualche questione filosofica di realtà e non realtà) con disinvoltura spiritosa. Morale: profondo o no, è un film intelligente.

Ce ne fossero!

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* Tanto per capirci: la sigla (che in realtà nella versione italiana è diversa) sta per Not The Enterprise. Capito quello che intendevo?

** E a questo punto chi conosce Star Trek si sta già divertendo più di chi non lo conosce.

*** Oh, Alan Rickman che leva gli occhi al cielo ogni volta che qualcuno (sulla Terra o altrove) gli nomina il Martello di Grabthar! Almeno fino a quando Quellek non va incontro a un destino inaspettato…