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Promessi Sposi, Capitolo XXX

Landsknekt.pngQuesto è un capitolo pieno di Lanzichenecchi, senza che se ne veda mai uno.

No, non è del tutto vero, c’è un fuggevole episodiuzzo che funziona da centro, ma se a questo punto di un romanzo che parla della Guerra di Successione del Ducato di Mantova ci aspettavamo qualche grandiosa e truce scena di scaramucce, saccheggi e violenza varia assortita, ebbene ce l’aspettavamo a torto.

Manzoni essendo Manzoni, le terribili soldatesche luterane non le vediamo affatto: ne anticipiamo l’arrivo, ne sentiamo il passaggio, ne osserviamo l’effetto – tutto attraverso gli occhi, le orecchie e le paure dei nostri personaggi, che non sono gente da campi di battaglia.

Per prima cosa, sentiamo arrivare le schiere in marcia, precedute da una nomea di ferocia distruttiva davanti alla quale chi può fugge. Come Don Abbondio, che discute i suoi terrori per strada, mentre va a rifugiarsi dall’Innominato in compagnia di Agnese e Perpetua. Le sue sono apprensioni vaghe e terrificanti, alimentate anziché fugate dai preparativi marziali dell’Innominato. Perché “i soldati”, si sa, son gente che non ha paura di nulla e di nessuno, che combatte, distrugge e uccide per il gusto di farlo (e per il bottino), che si getta con avido abbandono su ogni accenno d’opposizione. “Non sapete che i soldati è il loro mestiere di prender le fortezze? Non cercan altro; per loro, dare un assalto è come andare a nozze…” E potremmo quasi sorridere dei rabbiosi timori del povero curato, se non fosse per il fuggi fuggi generale e per la guarnigioncella bene armata che l’Innominato si prepara attorno, in quel castello organizzato come una caserma…

E poi, durante i ventitre o ventiquattro giorni passati al castellaccio, giungono le voci, tramite i fuggitivi dell’ultimo minuto, che arrivano terrorizzati e malconci: sotto il tetto dell’Innominato, in relativa sicurezza, si raccontano le gesta infami dei Lanzi, si fa la cronaca del loro passaggio, si comparano fanti e cavalli, si tiene il conto dei reggimenti che vengono e che vanno, si reagisce ai falsi allarmi. Solo una volta, in uno di quei blitz con la sua gente armata, l’Innominato trova davvero dei soldati – ma sono solo saccheggiatori sbandati e alla fin fine ne vediamo solo le schiene in fuga. E però non lasciamoci ingannare dalla meschinità dell’episodio: i Lanzichenecchi son ben altra cosa, un terremoto distante di cui dal castellaccio si sente solo il rombo, come nella cadenza del celebre elenco delle compagnie al ponte di Lecco, serrato e cupo come il rullo di tamburi di una carica: “Passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari; passa Altringer, passa furstenberg, passa Colloredo; passano i Corati, passa Torquato Conti, passano altri e altri; quando piacque al cielo, passò anche Galasso, che fu l’ultimo. Lo squadron volante de’ Veneziani finì d’allontanarsi anche lui; e tutto il paese a destra e a sinistra si trovò libero anch’esso.”

Ma naturalmente non è finita. Sarà passata la tempesta, la gallina tornerà pure sulla via, ma gli augelli han poco da far festa. Quando i nostri tornano a casa, vediamo attraverso i loro occhi la devastazione sudicia e feroce che i Lanzi si son lasciati dietro. Le vigne distrutte, le case spogliate, i saccheggi, gli incendi… E dietro a tutto ciò è in arrivo di peggio: il capitolo si chiude sibillino e minaccioso, preannunciando quella che noi sappiamo essere la peste*. Cue ominous music.

Insomma, il passaggio dei Lanzichenecchi è un altro piccolo capolavoro: narrato obliquamente in un capitolo fatto di battibecchi (tra Don Abbondio e Perpetua) e rimuginamenti (di Don Abbondio), riesce più inquietante nel suo succedersi di hearsay, paure e conseguenze immediate e future, di quanto potrebbe mai essere una fila di descrizioni crude e puntuali. Se è vero che la paura è mancanza di conoscenza, il XXX Capitolo trasforma la ben concreta piaga del passaggio di un esercito seicentesco nel capofila dei terrori indistinti – e per questo peggiori.

Come facesse Leone Gessi (curatore della mia vecchissima edizione dei PS) a definire questo capitolo “divertente” is anybody’s guess.

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* Delizioso lapsus annotato più di vent’anni orsono: “La peste filava nelle strisce dell’esercito imperiale”.

Giu 19, 2010 - Oggi Tecnica    2 Comments

Egli disse, ella disse

Capita di scrivere un dialogo e di essere colpiti all’improvviso da quella che sembra una manifica idea: perché invece di ripetere ad nauseam “A disse” e “B disse” e via così, che è monotono e generico, non uso qualche bel sinonimo espressivo? E/o qualche bell’avverbio? Una giudiziosa combinazione delle due cose non mi darebbe un dialogo più vivace e meglio caratterizzato, oltre che meno banale?

La risposta è no, no, no, mille volte no. Date un’occhiata all’esempio qui sotto. Si suppone che sia una scena d’azione in cui A e B, guidati da D, inseguono dei nemici più numerosi e meglio armati di loro.

“Tra poco saremo al villaggio” annunciò D con sicurezza. “Dopo il villaggio la strada si allontana dal fiume, risale ed entra tra gli alberi. Quando stavo con la zia, scendevamo sempre al villaggio a comprare il sale per la scorciatoia che gira in alto, sopra il bosco” spiegò.

“Scorciatoia sopra il bosco?” ripeté B, rizzando le orecchie.

“Sissignore, si imbocca dopo la curva, non si vede quasi, è un sentierino che sale verso sinistra” rispose lui e, cogliendo al volo l’idea del gigante, esclamò euforico: “Ma, volendo, si può tagliare nel bosco, riprendendo la strada dopo il posto X.”

“Ridiscendere alla strada dopo il posto X? Cos’è questo posto X? E dov’è?” interrogò A.

“Tra, tra… che so, tra quattro, cinque miglia almeno. Lo chiamano il posto X, ma restano solo rovine” D balbettava quasi per l’eccitazione.

“Abbiamo la nostra sorpresa, D, sei un genio!” decise B. Si misero in cammino.

“Ci siamo”  affermò D poco dopo, mostrando un sentiero che saliva ripido sulla sinistra. Salirono.

“Di qua, di qua” sollecitò D, indicando con la mano il limitare degli alberi a destra. “Ecco il posto X” dichiarò soddisfatto, dando l’alt. “La strada è poco lontana, ci si arriva di là” spiegò, indicando la scarpata davanti a loro.

“Abbiamo guadagnato terreno e i carri vanno piano. Abbiamo il tempo per organizzare un’imboscata” valutò B.

“Andate giù a piedi, studiate la situazione e tornate a riferire” ordinò A.

Ecco, non so se mi spiego: dodici sinonimi diversi del verbo dire, per non parlare delle qualificazioni, tra il semi-lirico e il burocratico, il tutto – presumibilmente – nel duplice intento di scongiurare la monotonia e differenziare le voci. Peccato che non funzioni… E’ sabato, siamo in giugno, quindi magari avete una mezz’oretta da dedicare a un paio di istruttivi esperimenti.

Primo esperimento: leggete l’esempio ad alta voce e ascoltatevi per bene, oppure fatevelo leggere da qualcuno, oppure registratevi e ascoltate. Avete colto la dolorosa goffaggine del dialogo? Bene.

Secondo esperimento: copiate e incollate il dialoghetto in un processore di scrittura e sostituite tutti i verbi sottolineati con il buon vecchio “disse”, eliminandoli senza remore quando ce ne sono troppi. Poi togliete di torno i vari soddisfatto, euforico, con sicurezza e compagnia cantante. Adesso rileggete il pezzo: a parte il fatto che scorre meglio, vi pare che le voci siano diverse l’una dall’altra? Sareste in grado di determinare chi sta parlando se non vi venisse detto esplicitamente? No, vero? Appunto.

Il fatto è che da una parte tutti quei bei sinonimi e aggettivi trascinano fuori dalla storia, e dall’altra, senza di essi, il dialogo è pressoché incomprensibile. E allora come si fa? Una volta di più, è questione di mostrare e non dire: dev’esserci un modo per mostrare che D è soddisfatto o euforico, anziché dirlo – attraverso l’azione. Dev’esserci un modo per distinguere D da A e B – attraverso il modo di parlare. Tutto il resto deve essere come un macchinario teatrale: efficiente ed invisibile. Il lettore non deve accorgersi che gli state dicendo che D parla ancora e ancora, o che D è soddisfatto… deve sentire la sua voce, percepire la sua soddisfazione.

Proviamo:

D li guidò fuori dal bosco. “Visto? E’ il posto X,” disse, col fiato ancora grosso per la salita. “Che vi avevo detto? E la strada è proprio qua sotto, guardate.” Indicò col dito il nastro bianco che s’intravedeva tra gli alberi e, quando si voltò a guardare i due uomini, la luce compiaciuta negli occhi di B gli fece allargare il cuore.

Ok, non è da nobel per la letteratura, ma mostra molto più di quanto non dica: D ha fatto la strada poco meglio che di corsa nella sua impazienza, D è compiaciuto di se stesso, D cerca l’approvazione di B – e la ottiene.

Per cui, terzo esperimento: provate a riscrivere tutto il passaggio, dando ad A, B e D delle voci ben distinte, delle azioni che rivelino quello che pensano, dei nomi se volete. Tenete il punto di vista di D (sapete solo quello che D sa, pensa, vede e sente). Poi, se ne avete voglia, ricominciate dal punto di vista di B, e poi ancora da quello di A – ciò che viene detto non cambia, ma le reazioni e le interpretazioni? Per esempio, ha proprio ragione D nel pensare che B sia soddisfatto? E A lo è altrettanto?

“Se ne possono spremere, di esercizi di scrittura, da dieci battute di dialogo,” argomentò soddisfatta la Clarina e, sospirando compiaciuta, annuì a sé stessa, salvò con prudenza il post e lo pubblicò.

Giu 11, 2010 - Oggi Tecnica, scrittura    Commenti disabilitati su Occhi Blu, Capelli Neri, Naso uno.

Occhi Blu, Capelli Neri, Naso uno.

Certe cose sono come salare l’acqua per la pasta: non ci pensi fino a quando non ti tocca farlo, oppure fino a quando non t’imbatti nelle conseguenze degli errori altrui…

Nello specifico, questo goffo riferimento culinario era per parlare della descrizione fisica del personaggio nel cui punto di vista si sta scrivendo. Allora, il problema non si pone quando si scrive in terza persona onnisciente perché il narratore tutto sa e tutto vede, e quindi può benissimo descrivere al lettore ogni personaggio nel momento in cui entra in scena – e questo è uno dei pochissimi compiti che la III Onnisciente facilita al lettore. Per quasi tutto il resto, scrivere una buona, solida III Onnisciente è orribilmente difficile e quindi forse vale la pena di risolvere questo specifico problema e concentrarsi su una voce narrante diversa.

Per esempio una Prima o una Terza Limitata, ed ecco che torniamo alla domanda iniziale: come descrivere al lettore l’aspetto di un personaggio da dentro la sua testa? Perché se scrivo dal punto di vista di Geremia, il lettore può sapere solo quello che Geremia vede, pensa e sente, e siamo onesti: quante sono le probabilità che Geremia spenda del tempo a passare in rassegna i propri tratti fisici?

La III Limitata offre ancora una possibilità di scampo, se la storia non è raccontata completamente dal punto di vista di Geremia: posso aspettare che, nella scena successiva, il punto di vista passi a Yvette, la quale forse vede Geremia per la prima volta e ne osserva occhi, capelli, numero di nasi, statura e tutto il resto. Oppure Yvette conosce benissimo Geremia, ma può avere ogni genere di motivi narrativamente legittimi per scompigliargli il ciuffo corvino, guardarlo nel profondo delle iridi blu o dargli un pugno sull’unico naso…

Se invece sono limitata al punto di vista di Geremia e voglio proprio darne una descrizione fisica, dovrò darmi da fare per trovare una buona ragione. John Olson sostiene che non è poi così necessario descrivere i personaggi: se Geremia ha una voce abbastanza caratteristica, se le sue azioni, i suoi pensieri e le sue parole suggeriscono un minimo di tipo fisico e di età, il lettore sarà perfettamente felice di immaginarsi il personaggio come vuole. A dire il vero, non sono sicura di essere d’accordo. Quando leggevo le commedie di Shaw, per prima cosa andavo a cercare le descrizioni di tutti quelli che dovevano entrare in scena, e restavo molto delusa nei casi in cui non c’erano. Non voglio otto paragrafi di minuzie fisiognomiche, e non voglio un estratto della carta d’identità, ma mi fa piacere sapere come l’autore vede il suo personaggio, grazie. Mi fa assai meno piacere, però, essere trascinata fuori dal punto di vista e dalla storia per ricevere una lista dei connotati di Geremia…

E allora?

Allora bisogna domandarsi come e perché Geremia potrebbe essere indotto a fare considerazioni sul proprio aspetto. Un metodo collaudato sono le speculazioni che il personaggio fa sulle reazioni altrui – specialmente in circostanze inusuali. Diciamo che Geremia vede Yvette per la prima volta dopo essere stato salvato dall’annegamento in un fiume particolarmente fangoso. Diciamo anche che Yvette sia l’incarnazione perfetta della donna dei suoi sogni*, ed ecco che c’è posto per qualche legittima considerazione sul proprio aspetto non precisamente immacolato. “In altre circostanze avrei fatto affidamento sul fascino dei miei occhi blu”, o qualcosa del genere. Tra parentesi, non occorre che la descrizione arrivi tutta in una volta, confezionata in un unico e comodo pacchetto: meglio, molto meglio se i capelli neri e il naso arrivano in momenti successivi e pertinenti, procedendo insieme alla storia invece di fermarla per un’edizione del notiziario descrittivo.

Tutto diventa più facile se i caratteri fisici del personaggio hanno un ruolo nella storia. In Hunting The Corrigan’s Blood, una storia di fantascienza narrata in prima persona, la protagonista-narratrice Cady Drake ha più di un ottimo motivo per descriversi: da un lato, è il prodotto di una teoria genetica passata di moda, in base alla quale la sua esecrabile madre l’ha resa, diciamo così, inconfondibile; dall’altro vive in un futuro in cui alterare radicalmente il proprio aspetto è facile e relativamente economico. L’aspetto di Cady è significativo dal punto di vista concettuale e strettamente narrativo, e il modo in cui lei descrive se stessa nel secondo capitolo è perfettamente funzionale.

Non sempre va così bene, ma in alternativa si può sperare che l’aspetto del personaggio sia così perfetto per il ruolo, o così improbabile per il ruolo da meritare qualche commento. Potete giurare che Geremia non va attorno meditando sulla sua combinazione di colori, ma se è un agente segreto e deve infiltrarsi in Irlanda, potrà ringraziare fuggevolmente il fato benigno che gli ha fatto ereditare gli occhi blu di suo padre e i capelli scuri di sua madre. O in alternativa, se si ritrova paracadutato per errore nello Swaziland, potrà comprensibilmente essere scettico sulle sue chances di mimetizzarsi tra la popolazione locale.

E’ vero, c’è sempre lo specchio. Quante volte abbiamo letto che “Geremia gettò un’occhiata allo specchio, soffermandosi sugli occhi blu, sul naso diritto,” eccetera eccetera? Collaudato anche questo, ma da prendersi con cautela. Onestamente, se un romanzo si apre con una descrizione di qualcuno che si guarda allo specchio, farà bene ad esserci un ottimo motivo per questo, o qualcosa di davvero interessante che interrompe la contemplazione in tempi brevi.

Insomma, alla fin fine si possono trovare diversi modi di introdurre una descrizione fisica, ma l’importante è tenere a mente un paio di cose: attenersi a ciò che il personaggio vede, sente e pensa; avere un buon motivo per ogni dettaglio che si mette sulla pagina; utilizzare i caratteri fisici per far avanzare la storia.

Se non è possibile incorporare nella descrizione almeno due di queste tre caratteristiche, forse è saggio considerare l’opzione Olson e rassegnarsi a non descrivere affatto.

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* Che esempio orribile!! Mi cospargo di cenere il capo per averlo concepito.

Mag 18, 2010 - grillopensante    1 Comment

Il Giappone e io

220px-Great_Wave_off_Kanagawa2.jpg“Ma non ti piace il Giappone?” chiede I., che sta seguendo il mio diario di lettura per L’Eleganza del Riccio.

Allora, chiariamo: ci sono aspetti della cultura giapponese che m’incantano. Per lo più si tratta di aspetti visivi e di mores, come la pittura del periodo Edo, il modo di accostare i colori e le consistenze, la cerimonia del tè, anche nelle sue forme più semplici, la grazia delle giapponesi (la mia compagna di corso M., a Londra, mi chiamava Claire-San e c’è un’adorabile anziana signora in kimono che vedo all’opera a Vienna, e ogni volta mi sorride perché anni fa le ho raccolto la busta degli occhiali che le era caduta per terra), le infinite sfumature dei suffissi di cortesia, il modo in cui imparano a disegnare, i giardini (anche se non vorrei un giardino giapponese), la ferrea solennità dei ritratti degli ammiragli, l’ikebana, l’origami e tutte queste combinazioni di grazia e precisione…

Narrativamente parlando, però, sono un animale occidentale fino al midollo. In una storia ho bisogno – e intendo proprio bisogno – di uno o più archi che conducano da un punto A a un punto B attraverso un concaternarsi logico di cause ed effetti, di azioni e conseguenze e, tra A e B, qualcosa deve essere cambiato (o, se non è cambiato, qualcuno deve pagare il prezzo del mancato cambiamento). La storia che manca di tutto ciò, per me, non è una storia.

E sia chiaro: questa è una preferenza del tutto personale, ma non trovo piena soddisfazione nell’accostamento un po’ vagabondo di elementi pur pieni di poesia e di grazia, nell’inserimento qua e là di elementi squisiti che però non conducono la storia da nessuna parte, nei ritmi dilatatissimi e laschi – anzi, diciamolo: nell’assenza di ritmo narrativo come lo intende l’Occidente.

Una scrittura del genere non mi soddisfa indipendentemente dall’origine: non è che non mi piaccia perché è giapponese, ma queste caratteristiche che compaiono in tanta narrativa e cinematografia giapponese me ne rendono difficile la digestione.

Tutto qui.    

 

Feb 27, 2010 - Oggi Tecnica    Commenti disabilitati su Randy Ingermanson: Il Mercante di Venezia II

Randy Ingermanson: Il Mercante di Venezia II

Riecco Randy, con la seconda parte dell’analisi de Il Mercante di Venezia, completa di considerazioni su Shakespeare, l’antisemitismo e l’arte. [La prima parte è qui]

Il Mercante di Venezia (Parte II)

Shylock.jpgNella seconda metà del Secondo Atto, Bassanio se n’è andato a corteggiare la sua Porzia, e ha successo! Nel frattempo, a Venezia, i termini del prestito scadono e Antonio non è in grado di ripagare Shylock, che quindi chiede di riscuotere la libbra di carne pattuita e si rivolge al Doge per avere giustizia. Quando Shylock sostiene che un annullamento dell’accordo violerebbe la legge su cui si fonda la prosperità di Venezia, il Doge accetta di deliberare sul caso. Intanto, il neo-sposo Bassanio, viene a sapere in che razza di pericolo mortale si trova Antonio, e si affretta a tornare a Venezia con 6000 ducati (di Porzia) per riscattare il prestito del suo amico.

Il DISASTRO n° 3 si produce al processo, quando Bassanio offre a Shylock 6000 ducati – il doppio dell’ammontare del prestito – e Shylock li rifiuta, insistendo che è suo diritto riscuotere la garanzia in natura, ed è questo che avrà: una libbra di carne tagliata dal petto di Antonio. Anche questo disastro è assolutamente critico per la storia: se Shylock accettasse il pagamento, e Antonio si salvasse così facilmente, non solo la storia finirebbe qui, ma anche tutto quello che è successo prima perderebbe di significato. E’ la decisione di Shylock a creare il Terzo Atto: senza di essa, la storia perderebbe tutto il suo interesse.

Nel Terzo Atto, la bella Porzia arriva al processo travestita da giovane avvocato, e assume la difesa di Antonio. Si discute il caso, e Porzia sbalordisce il Doge affermando tranquillamente che la legge è chiara: a Shylock spetta la sua libbra di carne. Ma quando Shylock sfodera il pugnale e si prepara a riscuotere, Porzia gli fa notare che il suo credito ammonta a una libbra di carne e nulla di più: non può prendere nemmeno una goccia di sangue. Shylock perde la causa, ed è condannato a sborsare metà del suo patrimonio. (Poi c’è un buffo epilogo in cui Bassanio ritorna a Porzia senza fede nuziale…)

La storia è perfettamente strutturata in tre atti, con tre disastri equidistanti tra loro, secondo il punto di vista di Bassanio. Come abbiamo visto, Bassanio è il protagonista nominale, ma devo dire che le mie simpatie, più che a lui o ad Antonio, vanno a Shylock. Antonio non perde occasione di comportarsi crudelmente con Shylock, se non quando vuole da lui denaro o misericordia, e non ha nessuna ragione per la sua crudeltà, se non un odio nei confronti dell’Ebreo. Anche Shylock è crudele con Antonio, quando preferisce la libbra di carne al riscatto del prestito, ma ha un motivo ben definito: cerca vendetta per come è stato trattato. Tra i due, Shylock è l’uomo migliore.

Il Mercante di Venezia ha generato un dibattito infinito: Shakespeare intendeva ritrarre gli Ebrei come inferiori e bestiali, facendo di Shylock un esempio archetipico dell’usuraio ebreo assetato di sangue, o voleva denunciare l’antisemitismo del suo tempo mostrandolo in tutta la sua deumanizzante ignominia?

Io sospetto che Shakespeare abbia lavorato un po’ in entrambe le direzioni. Da una parte mostra Shylock come un essere umano vero e complesso, insultato dall’antisemitismo, ingannato dalla figlia, fatto oggetto di sputi, insulti e furti. Questa è una denuncia. D’altro canto, però, Shakespeare caratterizza Shylock sopra le righe, caricando lo stereotipo del “perfido Ebreo” con la pretesa di riscuotere la libbra di carne. Per di più, la struttura della trama chiaramente ha il suo eroe in Bassanio, perché tutti i punti di svolta, che dividono ordinatamente la storia in quattro quarti pressoché equivalenti, sono individuati dal suo punto di vista. Se cerchiamo i punti di svolta che costituiscono i disastri dal punto di vista di Shylock, la suddivisione è molto meno netta e regolare. Da un punto di vista strutturale, non c’è modo di definire Shylock l’eroe di questa storia.

E allora, Shakespeare era antisemita? Io credo di no. Secondo me, le parole sull’umanità degli Ebrei messe in bocca a Shylock sono quelle di un anti-antisemita. Forse fare di Bassanio l’eroe del dramma era una sottile ironia, calcolata per non essere colta dalle masse – e mettere Shakespeare al riparo da reazioni inconsulte delle masse stesse.

Potrei obiettare a me stesso che Shakespeare è stato fin troppo sottile con la sua ironia, tanto che ancora oggi, nel mondo anglosassone, si definisce “shylock” un usuraio assetato di sangue, e non è certo un complimento. Il mio spirito umanitario dice che Shakespeare avrebbe dovuto essere più aperto e coerente nella sua denuncia, ma il mio spirito di narratore dice che, se lo fosse stato, non avrebbe avuto nulla da raccontare, perché tutta la trama dipende da quel DISASTRO n° 3 in cui Shylock rifiuta di essere clemente e pretende l’applicazione della legge.

 Insomma, Shakespeare aveva bisogno di un compromesso per far passare il suo messaggio: “Se ci ferite, non sanguiniamo forse?” Non è che il compromesso mi piaccia, ma da un punto di vista puramente narrativo, non vedo come avrebbe potuto evitarlo.

Se non altro, non è responsabile per quelle povere ragazze a seno nudo nella gelida notte veneziana!

 

Feb 20, 2010 - Oggi Tecnica    Commenti disabilitati su Randy Ingermanson: Il Mercante di Venezia I

Randy Ingermanson: Il Mercante di Venezia I

Rieccoci all’appuntamento con Randy Ingermanson. L’articolo su Il Mercante di Venezia è lungo, e quindi verrà – come dire? – A puntate.

Struttura e Trama de Il Mercante di Venezia

Qualche tempo fa l’insegnante d’Inglese ha raccomandato alla classe di mia figlia (seconda media) di guardare Il Mercante di Venezia, di Shakespeare, e io ho richiesto il DVD su NetFlix. Non la versione con Al Pacino, che è vietata ai minori di diciassette anni non accompagnati, ma quella della BBC, che non ha divieti e, presumibilmente, è più adatta a una dodicenne.

Quando il DVD è arrivato, ero impegnato con uno dei miei innumerevoli progetti, e così mia moglie e i bambini lo hanno guardato da soli. E quando hanno finito, mia moglie mi ha detto che era stato un po’ imbarazzante, perchè “c’erano delle donne molto scollate”. Naturalmente ho voluto rendermi conto, e ho trovato il tempo di dare un’occhiata. La prima cosa che ho notato è stato il divieto ai minori di diciassette anni non accompagnati. La seconda è stata che Shylock era Al Pacino. Il che significa che qualcuno ha sbagliato qualcosa con il mio ordine a NetFlix, e che mia moglie non è molto osservatrice. La terza cosa che ho notato è che le signore in questione non avevano una scollatura particolarmente bassa: non avevano scollatura affatto, povere care. Suppongo che dovessero rappresentare delle prostitute veneziane, e che il regista abbia pensato di aumentare le vendite con qualche seno nudo e un divieto ai minori… Ah, l’arte! 

Ora, sono sposato da un certo numero di anni, ho visto seni nudi in abbondanza, e il punto non è questo: il fatto è che la scena diventa un tantino ridicola. Voglio dire, immaginate Al Pacino che fa la celebre tirata di Shylock sull’essere ebrei in un mondo antisemita: “Se ci ferite, non sanguiniamo, forse? Se ci solleticate, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo?” e via dicendo. E’ una scena potente, forse la più forte dell’intero film, e Al la recita alla grande, davvero con una forza travolgente. Solo che la scena è girata di notte, in una Venezia tutta gelida e nebbiosa: Al indossa un mantello pesante, e tutti gli altri uomini presenti sono coperti da freddo. E poi, sullo sfondo, ci sono queste due ragazze col seno nudo in mostra, e non hanno l’aria di avere freddo. Per niente. Non mostrano nemmeno un brividino, non so se mi spiego: hanno l’aria di stare perfettamente comode, e l’illogicità di quella piccola incongruenza è bastata a trascinarmi fuori dalla storia.

Ed è un gran peccato, perché tutta la mia attenzione doveva essere concentrata su Al: era la sua scena, una scena potente e significativa, e invece il regista mi ha fatto ridere! Ahi ahi… mi sa tanto che il regista ha fatto una cavolata!

Oh be’, passiamo all’analisi della Struttura in Tre Atti & Tre Disastri. La studieremo dal punto di vista di Bassanio, che è l’eroe nominale della storia.

Nel I ATTO il nostro eroe Bassanio chiede al suo amico Antonio un prestito di 3000 ducati, che gli servono per corteggiare la ricca e bella Porzia. Antonio è un ricco mercante, ma tutto il suo denaro è impegnato in una serie di spedizioni mercantili, navi che non faranno ritorno a Venezia prima di un paio di mesi. Allora Antonio si rivolge all’usuraio ebreo Shylock per un prestito. Va detto che Shylock odia Antonio, che di recente gli ha sputato addosso per strada e l’ha chiamato cane.

Il che ci porta al DISASTRO n° 1: Shylock potrebbe rifiutare il prestito, e invece lo concede, chiedendo in garanzia una libbra di carne di Antonio, “vicino al cuore”. Antonio è sicuro di recuperare presto il suo denaro, e quindi accetta i termini del prestito. Questa è la pericolosa decisione che manda avanti il resto della storia: se Antonio rifiutasse l’offerta, tutto finirebbe qui e non ci sarebbe nulla da raccontare. Ma Antonio accetta, e quindi mette sé stesso in pericolo mortale, qualora le sue navi dovessero affondare.

Nella prima parte del SECONDO ATTO, la figlia di Shylock fugge con un amico di Antonio, portandosi anche un bel po’ del denaro di suo padre. Quando Shylock lo scopre, s’infuria parecchio, ma non non può farci nulla: la legge non è di grande aiuto per lui, che è ebreo. Poi arriva la notizia che due delle navi di Bassanio sono affondate, una dopo l’altra, e vediamo alcune scene in cui Porzia viene corteggiata da gente inadatta (vale a dire, gente che non è Bassanio).

Il DISASTRO n° 2 avviene quando un altro usuraio informa Shylock che sua figlia è stata vista a Genova, intenta a sperperare il suo tesoro come se nulla fosse, e che una terza nave di Antonio ha fatto naufragio. Shylock giura di riscuotere la sua garanzia – una libbra di carne di Antonio! Questo disastro impedisce che il Secondo Atto si afflosci nel mezzo.

What next? Randy torna la settimana prossima, con la seconda parte de Il Mercante di Venezia.

Feb 13, 2010 - Oggi Tecnica    Commenti disabilitati su Randy Ingermanson: Orgoglio e Pregiudizio

Randy Ingermanson: Orgoglio e Pregiudizio

Chi l’avrebbe detto? Anche Jane Austen ragionava in termini di tre atti e tre disastri… O, quanto meno, in O&P c’erano tre disastri e tre atti per gli sceneggiatori! Ecco l’analisi di Randy.

Trama e Struttura di Orgoglio e Pregiudizio

Il primo dell’anno, la mia famiglia e io abbiamo finalmente trovato l’occasione di guardare Orgoglio e Pregiudizio. Volevamo farlo da un po’, in realtà, ma capitava sempre qualcosa. Be’, ci è piaciuto un sacco. Il film è molto più breve della versione televisiva della BBC, che dura 5 ore, ma devo dire che sono entrambi eccellenti.

L’eroina di questo film è Elizabeth Bennet, interpretata da Keira Knightley. (So che cosa state pensando, e la risposta è no! Non ho una cotta per Keira Knightley, ed è un puro caso che abbiamo guardato due suoi film di fila. Keira è molto carina, lo ammetto, ma non è carina come mia moglie. Giuro).

Ora, Orgoglio e Pregiudizio non è uno di quei film tutti trama e azione: non ci sono duelli all’arma bianca o inseguimenti in macchina, e nemmeno un elicottero che esplode; solo un sacco di dialogo intelligente preso pari pari dalla grande Jane Austen. E’ un film incentrato sui personaggi, diciamo un film da ragazze. Ciò non toglie che abbia una trama ben definita, e che sia facile individuarne le linee principali usando la Struttura in Tre Disastri, che adesso vi mostrerò insieme alla Struttura in Tre Atti.

INIZIO: Siamo in Inghilterra, alla fine del XVIII Secolo, ed Elizabeth Bennet vive in campagna con i suoi genitori e quattro sorelle, tutte nubili come lei e in età da marito. Mr. Bennet è un gentiluomo non particolarmente ricco, e la volubile e ciarliera Mrs. Bennet vuole disperatamente trovare mariti ricchi e giovani per le sue figlie. Jane, la sorella maggiore, incontra Mr. Bingley, un giovane piacevole e ricco che si è trasferito in campagna da Londra, provvisto di un amico, l’acido Mr. Darcy, ancora più ricco, ma molto meno piacevole. Dapprincipio le cose sembrano mettersi bene per Jane e Mr. Bingley, ma poi…

 DISASTRO n° 1: Mr. Bingley parte bruscamente per Londra, abbandonando la povera Jane senza un motivo o una spiegazione.

MEZZO (I Parte): in conseguenza di questo disastro, prima Jane e poi Elizabeth si recano a Londra. Jane non riesce a incontrare Mr. Bingley, ma in compenso Elizabeth incontra Mr. Darcy, che le piace sempre meno, e a maggior ragione quando scopre che è stato lui a spingere Mr. Bingley ad abbandonare Jane.

DISASTRO n° 2: del tutto inaspettatamente, Mr. Darcy chiede a Elizabeth di sposarlo, confessandole di essere innamoratissimo, nonostante lei gli sia socialmente inferiore. Elizabeth rifiuta sdegnata.

MEZZO (Parte II): sconvolta, Elizabeth torna a casa, a vedersela con la sua bizzarra madre e le sue sorelle minori a caccia di marito. Dopo qualche tempo, parte per un viaggio con una coppia di zii, capita casualmente a visitare la magione avita di Mr.Darcy, mentre lui è assente, e scopre che i suoi servitori lo considerano un uomo generoso e gentile. Il viaggio di Elizabeth è bruscamente interrotto dalla notizia che la sua sorella minore è fuggita di casa con Mr. Wichkam, un ufficiale di scarsa moralità. La famiglia evita a stento uno scandalo quando qualcuno offre a Wickham una somma generosa, purché sposi la ragazza e se ne vada lontano con lei.

DISASTRO n° 3: Elizabeth scopre che è stato Mr. Darcy a pagare Wickham, salvando la sua famiglia dal disonore. Ora si trova in debito verso un uomo con cui credeva di avere rotto ogni rapporto.

FINALE: Mr. Bingley ritorna in campagna e torna a corteggiare Jane, con cui ben presto si fidanza. Nel frattempo Elizabeth ha cambiato opinione su Darcy, scoprendo che la sua maschera gelida nasconde in realtà il classico cuore d’oro e, quando lui le chiede nuovamente di sposarlo, accetta. Il film finisce con il bacio di rito.

Visto come, ancora una volta, i Disastri sono punti nel tempo, ciascuno dei quali effettua la transizione al successivo blocco di tempo?

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Blurb: Randy Ingermanson, romanziere pluripremiato, “Quello del Fiocco di Neve”, pubblica mensilmente The Advanced Fiction Writing E-zine per più di 19,000 lettori. Per imparare mestiere e marketing della narrativa, catturare l’occhio degli editor, e divertirsi facendo tutto ciò, visitate http://www.AdvancedFictionWriting.com.

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