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Nov 24, 2017 - bizzarrie letterarie, elizabethana    Commenti disabilitati su Riveduto E Corretto

Riveduto E Corretto

RestorationTheatre06E dicevamo che, in Compleat Female Stage Beauty, quel che il re vuole non è una storia diversa – ma proprio l’Otello, finale sanguinoso e tutto, con sorprese. Il che è carino e serve bene per quello che Hatcher vuole dire, ma non rispecchia del tutto la mentalità Restoration in fatto di teatro, e di teatro elisabettiano in particolare. Perché in realtà…

Insomma, mettetevi nei panni degli Inglesi post-Restaurazione. Immaginate i teatri che riaprono nel 1660, dopo diciotto anni di guerre civili prima e cupaggine cromwelliana poi. Immaginate di essere assetati di divertimento, di musica, di gaiezza in generale.

E immaginate di ritovarvi per le mani le opere di Shakespeare. Età dell’oro elisabettiana fin che si vuole, ma che diamine: sono passati sessanta, settant’anni, e il gusto è cambiato. Shakespeare, che già cominciava a passare di moda negli ultimi anni della sua vita, a questo punto appare proprio come il relitto di un’era più cruda, più ingenua, più ferrigna…

E allora che si fa? SI rinuncia del tutto e passa oltre? Niente affatto, perché le storie sono notevoli, la poesia a tratti meravigliosa – se solo il tutto fosse un po’ meno antidiluviano in gusto e stile!  Ma a questo c’è rimedio, giusto? In fondo che ci vuole? Basta riscrivere.

Nahum TateE lasciate dunque che vi presenti Nahum Tate, irlandese e futuro Poet Laureate d’Inghilterra. Nel 1681, giovane e già celebre, scopre il Re Lear, e rimane semifolgorato – e la parte operativa è proprio quel “semi”.

Perché, vedete, Tate si accorge subito di essere inciampato in un mucchietto di gemme. Certo sono grezze, queste gemme, e buttate lì a qualche modo – ma così splendenti nel loro disordine che Tate sente l’impellente necessità di rimetterci mano e rimediare ai molti difetti della tragedia. E così ne riscrive una buona quantità, e cassa cosette del tutto secondarie come la parte del Buffone, ma soprattutto riscrive il finale.

Re Lear, lo sapete, è la storia di questo re vegliardo che caccia di casa l’unica figlia che lo ami veramente, ed è prontamente detronizzato dalle altre due figlie malvagie. Seguono guerra civile, accecamenti in scena, lotte fratricide, follia vera e presunta, tradimenti e controtradimenti, crisi di coscienza – e alla fine muoiono tutti. Ebbene, non ci crederete, ma a tutto ciò Nahum Tate riesce ad appiccicare un lieto fine in cui i malvagi seguitano a morire, ma Lear recupera il suo trono e richiama a corte in trionfo la dolce Cordelia, che così può sposare non il re di Francia cui era fidanzata, ma il giovane Inglese di cui è innamorata.

Er… sì.

Ma d’altra parte, tal dei tempi era il costume, e non è che Tate facesse alcunché di inaudito, scandaloso o inusitato… Non solo il tardo Seicento, il Settecento e l’Ottocento traboccano di riscritture creative (per dire, il Macbeth danzante e canterino di William Davenant…), ma la prassi non era nemmeno limitata al teatro, e sconfinava in campo filologico – vedasi Alexander Pope, che nel 1725, nella sua edizione in sei volumi delle opere complete di Shakespeare, non si fa il minimo scrupolo a riscrivere, potare le irregolarità metriche come se si trattasse di un giardino alla francese, cassare un migliaio e mezzo di versi che gli paiono brutti…

Ma non divaghiamo, e torniamo al Re Lear, che la storia è tormentata.

Prima di tutto, bisogna che sappiate che la versione per ottimisti di Tate ha molto successo – tanto da soppiantare quasi completamente l’originale. Quando nel 1755 David Garrick e Spranger Barry si sfidano a colpi di Lear dai rispettivi teatri, in una rivalità tanto accesa e tanto sentita da provocare tumulti nelle strade, non recitavano Shakespeare, ma Nahum Tate.

Barry_002Il che magari rende un po’ strano in quadro di James Barry* che nel 1788 ritrae il finale tragico, ma si sposa perfettamente con la storia di William Henry Ireland che, nel 1794, tra i suoi falsi shakespeariani include un manoscritto “originale” del Re Lear. E anche William Henry non si limita a trascrivere da qualche edizione discesa dal First Folio, ma ci mette del suo – o quanto meno toglie. Toglie tutto lo humour di grana grossa, raffina e purga il Bardo, anticipando i fratelli Bowdler… E la faccenda funziona, perché siamo in piena Bardolatria, e l’Inghilterra Georgiana è ansiosissima di credere al ritrovamento, di scoprire con sollievo che il Cigno di Stratford era più fine e spirituale dei suoi ribaldi curatori postumi.

Allo stesso modo, quando il ferocissimo avvocato e studioso shakespeariano Edmund Malone convince il parroco di Stratford a passare una mano di bianco sull’orrido busto funerario – dipinto a vivaci colori perché tale era il costume nel 1616 – ebbene, quella mano di bianco è il simbolo perfetto dell’atteggiamento dell’epoca: Shakespeare si venera, ma si venera molto meglio riveduto, corretto, intonacato e neoclassico.

E se poi può scapparci il lieto fine, tanto meglio. Erano in tanti a pensarla come il Dottor Johnson, che avendo visto una volta in gioventù il finale tragico, ne era rimasto insopportabilmente sconvolto, e considerava di gran lunga preferibile la versione per ottimisti…

E anche se già Garrick comincia a ripristinare pezzi dell’originale shakespeariano, resinserendo per esempio il Buffone,** bisogna aspettare il 1823 perché Edmund Kean provi a riportare in scena il finale tragico – e comunque non è come se andasse straordinariamente bene. Kean incassa un passabile successo personale nel ruolo, ma nulla di più. Alla fin fine sarà William Charles Macready a spuntarla, ma anche lui – pur con la sua ossessione per il rigore filologico – dovrà provarci due volte, prima nel 1834 e poi, definitivamente, nel 1838.

E quindi, sì: c’è sempre qualcuno convinto di poter fare di meglio – e in definitiva, Shakespeare per primo era un riscrittore sopraffino. Dubito che, considerando le disinvolte pratiche dell’età elisabettiana, si sarebbe stupito o indignato più di tanto sulla sorte del suo Re Lear. Tutto sommato, è perfettamente inutile stupirsi dei ritocchi di Nahum Tate. Semmai, se vogliamo proprio levare un sopracciglio, leviamolo sui 157 anni che l’originale ha impiegato per riprendersi il suo posto – a riprova del fatto che non solo c’è sempre qualcuno convinto di poter fare di meglio, ma è anche del tutto possibile che quel qualcuno trovi ragione presso un sacco di gente, per un sacco di tempo.

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* Magari non sono proprio quei dubbi da dormirci, ma mi sono sempre chiesta: in basso a sinistra, saranno Gloucester ed Edgar con il cadavere di Edmund?

** E prima di commuovervi sulla fedeltà di Garrick al suo Bardo, ricordatevi che Garrick aveva riscritto l’Amleto “per salvare il testo da tutte le assurdità del V atto.”

 

Feb 13, 2015 - Storia&storie, teatro    Commenti disabilitati su La Tragedia Scozzese

La Tragedia Scozzese

MacbethScottishPlayAvete presente la Tragedia Scozzese?

Quella cosa shakespeariana che si rappresenta – facendo i debiti scongiuri – ma non si nomina mai? Mai sul palco – all’infuori di quel che richiede il copione durante prove o spettacolo. Mai, mai, mai dietro le quinte. Ma in platea o in tutto il teatro – almeno non quando attori, regista e tecnici possono sentire.

E tutto perché, a seconda della versione, Shakespeare avrebbe inserito nel testo dei veri incantesimi stregoneschi*, oppure il trovarobe, in mancanza di un calderone adatto, ne avrebbe sottratto uno a delle streghe vere. In either case, per niente divertite, le streghe avrebbero maledetto la tragedia… quando si dice una pessima recensione!  E doveva essere anche una maledizione a effetto rapido, perché narrasi che Hal Berridge, primo interprete di Lady M. nel 1606**, sia morto durante la prima rappresentazione.

Dopodiché bisogna dire che la storia del teatro shakespeariano sia piena di pronunciatori sconsiderati e di increduli puniti, perché alla tragedia scozzese è associato  tutto un catalogo di disastri, a partire dalla rappresentazione datata 1672, ad Amsterdam, in cui il protagonista avrebbe accoltellato il Buon Re Duncan per davvero. O della spaventosa tempesta che infuriò per tutta la durata di una rappresentazione nel 1703. E che dire dei venti morti nei disordini che scoppiarono a New York tra i fan dell’inglesissimo Macready e dell’indigeno Forrest – che recitavano lo stesso ruolo in due teatri diversi? A Laurence Olivier andò abbastanza bene, e il peso di piombo che precipitò dall’impianto luci dell’Old Vic lo mancò di un soffio – ma il Re Duncan e due streghe su tre di una produzione bellica diretta da John Gielgud morirono durante il Blitz. Dopodiché la maledizione si considerò sazia di vite umane, si vede, perché a Charlton Heston non capitò nulla di peggio di una calzamaglia andata a fuoco – con lui dentro – e Sean Connery se la cavò con un’influenza micidiale…

macbeth1Pittoresco. Un filo macabro, se vogliamo, ma pittoresco.

È quasi un peccato che non sia vero nulla…

Nessun ragazzino di nome Hal Berridge risulta nella compagnia di Shakespeare – né in nessun’altra compagnia contemporanea, e la storia non risulta in nessuna fonte dell’epoca. A volte è attribuita a John Aubrey – e in questo caso sappiamo quanto la si possa prendere sul serio. Oserei dire che, se fosse successa una cosa del genere, se ne troverebbe traccia nell’opera di qualche polemista puritano teatrofobo… Per quanto riguarda l’assassinio in scena del 1672, in realtà non c’è nessun M. documentato ad Amsterdam per quell’anno. Ce ne fu una a Londra, una specie di… er, versione musicale con tanto di streghe volanti, in perfetto gusto Restoration. Quindi, magari, rimaneggiamento per rimaneggiamento, è anche possibile che il regicidio avvenisse in scena. E tuttavia, fra gli altri spettatori, c’era anche il pettegolissimo diarista Samuel Pepys: vogliamo pensare che, se un attore avesse usato un pugnale vero per far fuori un rivale in amore nel più pubblico dei modi, Pepys non ce l’avrebbe raccontato? La tempesta del 1703… be’, che dire? La Tragedia Scozzese va in scena da quattro secoli abbondanti: semmai, c’è da stupirsi che abbia incrociato una tempesta sola. I sanguinosi disordini a New York ci furono veramente, ma qualcosa di analogo era successo, per esempio, a Londra a metà Settecento, quando Garrick e Barry si sfidarono a colpi di Re Lear – e a nessuno salta in mente di dire per questo che il Re Lear porti sfortuna. E in quante produzioni cade qualcosa dall’altro, con o senza conseguenze letali? E quanta gente è morta nel Blitz? O prende l’influenza durante uno spettacolo? E la calzamaglia di Heston non prese fuoco per davvero: è solo che per qualche motivo finì impregnata di kerosene, e il kerosene… yes, well.

Macbeth_1884_Wikipedia_cropE quindi signori della giuria, credo che la Tragedia Scozzese si possa senz’altro assolvere da ogni accusa di iettatura – e anzi, che si possa ascrivere la nomea in questione a una combinazione di amore del pittoresco, malignità e al carattere naturale della gente di teatro, cui non pare sano raccontare una storia senza abbellirla almeno un pochino.

Il che non impedisce che in molti teatri, soprattutto nel mondo anglosassone, sia proibitissimo pronunciare il nome che comincia per M., o citare le battute della tragedia in questione al di fuori delle prove e dello spettacolo. I trasgressori vengono spediti fuori dal teatro a pronunciare scongiuri shakespeariani, girare su se stessi, correre attorno all’isolato o a compiere altri esorcismi – credo che ogni teatro abbia il proprio – per poi bussare per essere riammessi.

E sì, è irragionevole e più che un tantino buffo – ma siamo franchi: il teatro non è come il mondo di fuori. Il teatro funziona secondo regole tutte sue, e ci son più cose in scena e dietro le quinte, Horatio , di quante ne sogni la vostra filosofia. Per cui, a parte tutto il resto, perché sfidare sorte, tradizioni e storie?

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* Suona familiare?

** Forse. In realtà, la datazione di gran parte del teatro elisabettiano è a mezza strada fra il sudoku e uno sport violento…