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Mar 9, 2011 - romanzo storico    Commenti disabilitati su Promessi Sposi – Capitolo XXXVI

Promessi Sposi – Capitolo XXXVI

Questo è un capitolo in cui si predica molto: predica (lungamente) il Padre Felice, predica (a più riprese) il Padre Cristoforo e, nel suo piccolo, predica anche Lucia. D’altra parte, è un capitolo risolutivo, se non conclusivo, e sarebbe ben strano che Don Lisander non tornasse su quei temi di provvidenza, misericordia divina, umiltà, perdono, carità e fede che tanto gli stanno a cuore. Per fortuna ci sono redeeming qualities.

Capitolo risolutivo, dicevo. Sottolineato dall’addensarsi delle nubi e dallo scoppiare del temporale, abbiamo qui quello che in termini aristotelici si chiamerebbe il climax del romanzo: il culmine della storia, la risoluzione dell’ultimo ostacolo che separa i protagonisti e il lieto fine. Parlo del voto di Lucia, naturalmente. Una volta sciolto il voto, i due capitoli che restano saranno tutta azione discendente verso la conclusione con tanto di morale, ma le cose fondamentali succedono qui e ora.

Succedono come in un finale d’opera, con tanto di tuoni e fulmini – l’abbiamo detto – e con Renzo che, per entrare nel quartiere delle donne, si lega alla caviglia un campanello da monatto, a mo’ di vaga giustificazione della sua presenza in quel luogo… ma in realtà, il campanello serve ad altro. Serve perché Renzo debba toglierselo in gran fretta dopo essere stato scambiato per un monatto davvero, e perché debba quindi infilarsi tra due casupole, perché debba appoggiarsi a una parete sconnessa e… quale soave voce credete che senta al di là della parete, se non quella di Lucia?

E non storcete il naso all’ennesima miracolosa coincidenza, per favore, perché qui comincia la parte migliore, più viva e più vera del capitolo. Non per l’impossibilmente angelica Lucia, capace solo di difendere il suo voto e d’invocare la Madonna, quanto per Renzo. Qui Renzo fa sfoggio di un’eloquenza ingenua e candidamente astuta, toccando tutti i tasti che sa: la tenerezza, il rimprovero, la supplica, il ricatto morale… come altro definire il modo in cui si appella alle disgrazie che ha patito per Lucia, alla loro vecchia promessa, alla grazia da impetrare insieme per Don Rodrigo morente, al pensiero di Agnese che tanto desidera vederli maritati, alla sua stessa rovina? Renzo promette a Lucia di far spropositi se lei non lo vuole più, e la sfida a dirgli in faccia che non gli vuole più bene in un alternarsi di blandizie e di brontolamenti che è un delizioso, vivido ed efficacissimo capolavoro di caratterizzazione. Par di vederlo, il nostro giovine, con tutto quello che gli passa in viso: trasporto, delusione, rabbia, speranza, lampi d’astuzia…

Nonostante tutto ciò, Lucia non cede, e bisogna chiamare il Padre Cristoforo. Perché Lucia è tanto buona, spiega Renzo, “ma è un po’ fissa nelle sue idee” e in un momento di paura “si è scaldata la testa e si è promessa alla Madonna…” Adoro Renzo, e voi?

Enfin, con l’intervento del Padre Cristoforo e ancora un po’ di prediche miste assortite, la questione è sciolta, i nostri due promessi sono ricongiunti per un congedo frettoloso e pudico, di raccomandazioni scambiate e messaggi affidati, e poi Renzo parte, incurante della burrasca, ansioso di condividere con Agnese le buone notizie.

E mentre parte, ecco finalmente che il temporale scoppia, in parallelo con la rottura della tensione narrativa: ecco la pioggia che scende a lavare via il contagio e a marcare – di fatto – la fine delle tribolazioni dei nostri.

Sì, lo so: ci sono ancora due capitoli, ma se fossimo all’opera il sipario si chiuderebbe qui.

Feb 23, 2011 - romanzo storico    Commenti disabilitati su Promessi Sposi – Capitolo XXXV

Promessi Sposi – Capitolo XXXV

Capitolo pieno di contrasti, questo Trentacinquesimo, di ombre scurissime e di luci violente, alternate con una tecnica che, se l’usasse un contemporaneo, chiameremmo rollercoaster: su e giù per le montagne russe.

Lazz1.jpgSi comincia con un’apocalittica descrizione del lazzeretto come si presenta al primo sguardo di Renzo, una folla di malati e di cadaveri confusi, sopra cui i vivi brulicano e ondeggiano – due verbi che non sollecitano nessuna associazione mentale particolarmente simpatica. Renzo si aggira in mezzo alla confusione, alla sofferenza e allo squallore che non concedono tregua, senza mai trovar Lucia. Persino il clima, con quella che i teorici Di Là Dall’Acqua chiamano sentimental fallacy, si adegua alle necessità narrative oscurandosi e promettendo tempesta.

Poi, del tutto inatteso, primo chiarore: il luogo dove le balie allattano i bambini rimasti orfani con l’aiuto delle capre addestrate all’uopo. E come s’impegna Manzoni a mostrarci questo quadretto, con le amaltee della peste guidate da una specie di goffa tenerezza tutta loro. La scena non è del tutto serena – troppi orfanelli e troppo balie che hanno il latte solo per aver perso un bambino – ma è abbastanza gaia perché Renzo, in mezzo a tanta cupezza, faccia fatica a staccarsene. Lazz2.jpg

Poi il fulmine! Chi ti ritrova il nostro giovine, se non il Padre Cristoforo? Lo intravvede, stenta a credere ai suoi occhi, lo cerca, lo trova… e la consolazione, ci dice Don Lisander, non è intera nemmeno per un attimo, perché visto da vicino, il Padre Cristoforo porta già addosso i segni della malattia.

Ricongiungimento, tuttavia, e scambio di notizie davanti a una scodella di zuppa. Renzo, lo sappiamo, è venuto in cerca di Lucia. Il PC gli concede il permesso di cercarla anche nel quartiere delle donne – raccomandandogli di comportarsi bene con un’insistenza che a me è sempre parsa un po’ fuori luogo… voglio dire: stiamo parlando di Renzo, sarà anche un po’ scriteriato (e lo ha appena ammesso), ma ce lo vedete, voi, ad approfittare del fatto di ritrovarsi nel quartiere delle donne? Mah… Non divaghiamo, tuttavia, perché è in arrivo un’altra discesa.

Bada però, dice il PC, che non è affatto detto che Lucia sia ancor viva. Verissimo, per carità, date le circostanze, ma a Renzo non fa un gran bene sentirselo dire. Alla sola idea che Lucia possa essere morta, tutti i suoi propositi di vendetta si risvegliano. Se non trova Lucia, promette il nostro giovine, troverà quell’altro, e se la farà lui, la giustizia!

Segue ramanzina severissima del Padre Cristoforo: non sa Renzo che in questa maniera si va all’inferno? Che si tolga pure di torno, perché lui non ha tempo per gente che non sa perdonare e cova vendetta. Sciagurato! Et Multa Caetera Similia, con l’effetto di sgomentare e commuovere Renzo. Ma c’è il tranello, perché non appena Renzo si è impegnato a perdonare Don Rodrigo…

Lazz3.jpg… Chi ti produce il PC, se non Don Rodrigo stesso, moribondo e insensibile? Pronto lì perché Renzo, commosso, sopraffatto e ultimamente redento, possa pregare al suo capezzale prima di andarsene in cerca di Lucia, per il bene o per il male, senza più  covar propositi di vendetta.

Noi, naturalmente, sappiamo che la troverà – e se adesso pensate che sia tutto just a little too pat, con tutti i personaggi convenientemente riuniti al lazzeretto per il gran finale, ebbene lo penso anch’io, ma che fa? E’ un finalone efficace e suggestivo, come s’usa all’opera e come un tempo s’usava a teatro.

Ormai, lo sentiamo nell’aria torva e temporalesca, non manca più molto: il destino è sul punto di compiersi. Tratteniamo il respiro e aspettiamo il Capitolo XXXVI.

Gen 26, 2011 - guardando la storia, romanzo storico    Commenti disabilitati su Promessi Sposi – Capitolo XXXI

Promessi Sposi – Capitolo XXXI

Questo è uno di quei capitoli che si considerano noiosi. Ricordo – ormai quasi due anni fa – quando progettavamo questa rilettura dei PS per la UTE, e discutevamo l’opportunità di una lettura più o meno integrale. “Ci sarà qualcosa che potremo sfrondare,” diceva qualcuno, “per esempio quei soporiferi capitoli della peste…” Alla fin fine, lettura integrale è stata, e il primo dei soporiferi capitoli della peste è arrivato. 

La mia prima reazione nel ritrovarlo tra i “miei” capitoli non è stata proprio una triplice capriola di entusiasmo – indipendentemente dalla peste. Voglio dire: per motivi tristemente ovvi, la peste è un irrinunciabile accessorio di tanti romanzi storici e può diventare, a seconda del gusto e delle intenzioni del romanziere, una lettura di estrema sgradevolezza – il che non è il caso nei Promessi Sposi. Quel che smorzava il mio trasporto era, semmai, quest’altro esantema endemico del romanzo storico ottocentesco: la Digressione.

Il romanziere storico si sente, più di altri, in dovere di educare i suoi lettori, non fosse altro che per la necessità di far loro capire che cosa diamine sta succedendo, e allora, ogni tanto, abbandona vicenda e personaggi per un capitolo o due, e si concentra sulla storia. Ricordo ancora con un misto di raccapriccio e d’impazienza le tangenti per le quali parte Victor Hugo – nei Miserabili, per dire. E l’argot parigino, e gli ordini monastici, e le fognature… chi l’ha letto tutto, ma proprio tutto senza saltare nemmeno una pagina, alzi la mano.

Manzoni l’abbiamo già visto uscir di carreggiata – per esempio per cantare le lodi del Cardinal Federigo Borromeo, e diciamocelo: il precedente non ci colma di gioia.

Poi, in realtà, va meglio del previsto – anche molto meglio, a seconda di quanto vi piace sentire nell’ordine una disquisizione teorica e una dimostrazione pratica sulla storiografia di stampo illuminista.

Manzoni comincia con l’obbligatorio cappello, riassumibile come “e ora, brevi cenni sulla peste”, poi passa a lamentare lo stato delle fonti seicentesche: scarse, contraddittorie, confuse, inattendibili… tra memorie, cronache e documenti pubblici, non c’è nulla di esauriente o di certo. L’unica è impolverarsi le dita e spulciare, minuziosi e pazienti, tra le vecchie carte, confrontando le varie versioni, collazionando e correggendo l’una con l’altra, e talvolta stimando il giusto mezzo, e cercando una logica tra quelle informazioni accatastate senza criterio e senza cognizione di causa ed effetto.

Visto l’Illuminista che entra in scena? Riconosce alle fonti originali una “forza viva, propria e, per così dire, incomunicabile”, ma deplora la mancanza di metodo e di rigore con cui sono state composte all’epoca e ingoiate intere nelle opere successive. Dopodiché si mette all’opera e comincia a tracciare la vicenda del propagarsi della peste a Milano e nel Milanese. Ed è una storia ben meschina, di ritardi, di cecità, di pregiudizi, di colpevoli lentezze da ogni parte, mentre il male va “covando e serpendo” nella città. Vero è che all’epoca c’era ben poco in fatto di cure, e la peste era uno dei tanti insondabili terrori di cui era fatta la vita di ciascuno, ma il giudizio severissimo di Manzoni è giustificato: la sola cosa che si sarebbe potuta fare – arginare tempestivamente il contagio – non si fece per una combinazione d’inerzia e di criminale rifiuto dell’evidenza, da parte tanto delle autorità (quasi tutte) quanto della popolazione.

Poi, siamo sempre nelle mani di un narratore con i fiocchi, e quindi assistiamo con inorridito interesse al progresso della peste, quasi di casa in casa, mentre si nega l’evidenza e la si nasconde dietro un susseguirsi di riluttanti ammissioni: nessuna peste, le febbri maligne, le febbri pestilenziali, una specie di peste, la peste sì – ma portata dagli untori.

E il capitolo si chiude con una considerazione sul danno che possono fare le parole e il loro uso – con una concessione alla quasi ineluttabile facilità con cui questo genere di danni si produce, perché è tanto più facile parlare che pensare, e quindi “noi uomini in generale siamo un po’ da compatire.”

Promessi Sposi, Capitolo XXX

Landsknekt.pngQuesto è un capitolo pieno di Lanzichenecchi, senza che se ne veda mai uno.

No, non è del tutto vero, c’è un fuggevole episodiuzzo che funziona da centro, ma se a questo punto di un romanzo che parla della Guerra di Successione del Ducato di Mantova ci aspettavamo qualche grandiosa e truce scena di scaramucce, saccheggi e violenza varia assortita, ebbene ce l’aspettavamo a torto.

Manzoni essendo Manzoni, le terribili soldatesche luterane non le vediamo affatto: ne anticipiamo l’arrivo, ne sentiamo il passaggio, ne osserviamo l’effetto – tutto attraverso gli occhi, le orecchie e le paure dei nostri personaggi, che non sono gente da campi di battaglia.

Per prima cosa, sentiamo arrivare le schiere in marcia, precedute da una nomea di ferocia distruttiva davanti alla quale chi può fugge. Come Don Abbondio, che discute i suoi terrori per strada, mentre va a rifugiarsi dall’Innominato in compagnia di Agnese e Perpetua. Le sue sono apprensioni vaghe e terrificanti, alimentate anziché fugate dai preparativi marziali dell’Innominato. Perché “i soldati”, si sa, son gente che non ha paura di nulla e di nessuno, che combatte, distrugge e uccide per il gusto di farlo (e per il bottino), che si getta con avido abbandono su ogni accenno d’opposizione. “Non sapete che i soldati è il loro mestiere di prender le fortezze? Non cercan altro; per loro, dare un assalto è come andare a nozze…” E potremmo quasi sorridere dei rabbiosi timori del povero curato, se non fosse per il fuggi fuggi generale e per la guarnigioncella bene armata che l’Innominato si prepara attorno, in quel castello organizzato come una caserma…

E poi, durante i ventitre o ventiquattro giorni passati al castellaccio, giungono le voci, tramite i fuggitivi dell’ultimo minuto, che arrivano terrorizzati e malconci: sotto il tetto dell’Innominato, in relativa sicurezza, si raccontano le gesta infami dei Lanzi, si fa la cronaca del loro passaggio, si comparano fanti e cavalli, si tiene il conto dei reggimenti che vengono e che vanno, si reagisce ai falsi allarmi. Solo una volta, in uno di quei blitz con la sua gente armata, l’Innominato trova davvero dei soldati – ma sono solo saccheggiatori sbandati e alla fin fine ne vediamo solo le schiene in fuga. E però non lasciamoci ingannare dalla meschinità dell’episodio: i Lanzichenecchi son ben altra cosa, un terremoto distante di cui dal castellaccio si sente solo il rombo, come nella cadenza del celebre elenco delle compagnie al ponte di Lecco, serrato e cupo come il rullo di tamburi di una carica: “Passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari; passa Altringer, passa furstenberg, passa Colloredo; passano i Corati, passa Torquato Conti, passano altri e altri; quando piacque al cielo, passò anche Galasso, che fu l’ultimo. Lo squadron volante de’ Veneziani finì d’allontanarsi anche lui; e tutto il paese a destra e a sinistra si trovò libero anch’esso.”

Ma naturalmente non è finita. Sarà passata la tempesta, la gallina tornerà pure sulla via, ma gli augelli han poco da far festa. Quando i nostri tornano a casa, vediamo attraverso i loro occhi la devastazione sudicia e feroce che i Lanzi si son lasciati dietro. Le vigne distrutte, le case spogliate, i saccheggi, gli incendi… E dietro a tutto ciò è in arrivo di peggio: il capitolo si chiude sibillino e minaccioso, preannunciando quella che noi sappiamo essere la peste*. Cue ominous music.

Insomma, il passaggio dei Lanzichenecchi è un altro piccolo capolavoro: narrato obliquamente in un capitolo fatto di battibecchi (tra Don Abbondio e Perpetua) e rimuginamenti (di Don Abbondio), riesce più inquietante nel suo succedersi di hearsay, paure e conseguenze immediate e future, di quanto potrebbe mai essere una fila di descrizioni crude e puntuali. Se è vero che la paura è mancanza di conoscenza, il XXX Capitolo trasforma la ben concreta piaga del passaggio di un esercito seicentesco nel capofila dei terrori indistinti – e per questo peggiori.

Come facesse Leone Gessi (curatore della mia vecchissima edizione dei PS) a definire questo capitolo “divertente” is anybody’s guess.

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* Delizioso lapsus annotato più di vent’anni orsono: “La peste filava nelle strisce dell’esercito imperiale”.

Gen 14, 2011 - romanzo storico    1 Comment

L’Ammiraglio Fantasma – Terzo Episodio

1015ddb27d.jpgRiepilogo delle puntate precedenti: nel corso della sua eterna revisione, la Clarina inciampa nell’enigmatica figura di Balta Oghlu Suleyman Bey, ammiraglio rinnegato e degradato. Dall’ombra e dall’oblio dei secoli, Suleyman Bey chiede a gran voce un riscatto postumo, e la Clarina decide di offrirgliene uno nella sola forma che sa: scriverlo in un romanzo, e provvederlo di un punto di vista. Ma le nuove ricerche, destinate ad approfofondire la fin qui trascurata figura, s’interrompono bruscamente di fronte alla laconicità delle fonti occidentali, al riottoso silenzio delle schiere diplomatiche e accademiche turche. E’ dunque finita? La Clarina è sul punto di abbandonare la cerca quando, all improvviso, ecco che un tenue raggio di luce balena all’orizzonte…

Terzo Episodio: ebbene sì, il Museo della Marina di Istanbul ha risposto. Per la prima volta, un’istituzione turca mi ha presa sul serio. Non so chi sia la cortese, competente e disponibilissima persona che debbo ringraziare – e che si firma soltanto a titolo del Museo – ma ha tutta la mia gratitudine. La risposta è molto soddisfacente, alla fin fine: non trovo nulla perché non c’è praticamente nulla. Le fonti principali sono quelle occidentali, mentre da parte turca, tanto i cronisti contemporanei quanto gli storici successivi non si sono disturbati troppo nel tramandare le gesta di un convertito salito in alto e poi precipitato con ignominia… Parte perché tal dei tempi era il costume, parte per prudenza o disinteresse.

Insomma, restano un po’ di particolari da dissotterrare, resta The Crusade Of Varna da reperire, resta forse da spedire gente a Costantinopoli… sorry: a Istanbul, sulle tracce fornitemi dall’anonimo e mai abbastanza lodato funzionario del Museo della Marina, e poi considererò di avere un’esauriente conoscenza dei limiti entro cui posso romanzare.

Adesso andiamo meglio, e ci avviamo verso un finale tanto lieto quanto può esserlo quello di una storia di fantasmi… o forse no, perché proprio mentre scrivo questo, nuovi sentieri sembrano aprirsi, sentieri dannatamente allettanti. A voler vedere, è un gioco che non finisce mai, ma intanto comincio proprio a credere che finirò questo libro.

 

Gen 3, 2011 - romanzo storico    2 Comments

La Clarina E L’Ammiraglio Fantasma – Secondo Episodio

Cerca che ti cerca, alla fine qualcosa ho scovato.

Non che abbia trovato precisamente le informazioni che cercavo – sulle circostanze giovanili e sulla conversione di Suleyman Balta Oghlu ne so più o meno quanto prima – però adesso ho la certezza che l’ammiraglio non è un fantasma.

Quanto meno, so che un’anonima fonte turca del tardo XV Secolo parla di lui: quale che fosse il suo background, nel 1444 era in posizione tale che il sultano Murad (babbo di Mehmed), potesse inviarlo in Ungheria per ottenere la ratifica del futuro trattato di Szeged da parte di Ladislao di Polonia, Janos Hunyadi e il Despota di Serbia. Balta Oghlu aveva un margine di discrezionalità abbastanza ampio da poter negoziare separatamente con il Despota – anche se non si sa come andò a finire.

Sì, d’accordo: sotto la maggior parte degli aspetti ne so quanto prima… però adesso so che BO era un personaggio di fiducia e rilevanza presso Murad, ma perfettamente pronto a cercare il favore del giovane Mehmed dopo la successione. E, cosa più rilevante, so che esistono fonti turche in materia – qualcuna delle quali tradotta in Inglese, bless the University of Manchester! Ciò significa che, se credevo di poter romanzare con qualche libertà, mi sbagliavo di grosso. Ciò significa che ho già scritto al Museo Storico della Marina Turca. Ciò significa che dovrò mettere le mani su un copia di The Crusade Of Varna, di Colin Imber, cosa che apparentemente nessuna biblioteca italiana possiede. Ciò significa che posso cominciare a scrivere al dipartimento interessato dell’Università di Manchester. Ciò significa che forse, dopo tutto, scriverò davvero un articolo per Turchia Oggi. Ciò significa che la caccia ricomincia.

Ancora ben poche sono le certezze, ma un timido raggio di luce rischiara la tenebra fitta che dianzi avvolgeva il misterioso ammiraglio. Rincuorata dal pur flebile spiraglio, cocciuta come un bloodhound che ha annusato la pista, la Clarina stende la mano per scostare l’oscuro sudario d’oblio. Saprà ella far luce sul mistero nonostante la riluttanza di tutti coloro ai quali ha chiesto aiuto? Troverà il libro che le serve? Scoprirà le origini dell’enigmatico Bulgaro?…

Scopritelo nel prossimo episodio de… La Clarina e L’Ammiraglio (Non Proprio) Fantasma!

 

Dic 29, 2010 - romanzo storico    Commenti disabilitati su Se Si Chiama Romanzo, Un Motivo C’è

Se Si Chiama Romanzo, Un Motivo C’è

220px-HisarlarminiatureNusretColpan.jpgTutti sapete che sono cronicamente impantanata nella revisione di un romanzo storico che ha come sfondo l’assedio di Costantinopoli nel 1453. L’ultimo problema in cui mi sono imbattuta (se si esclude il fatto che il romanzo è seriamente intenzionato a diventare una di/trilogia) è il mistero di Balta-Oghlu, l’ammiraglio che (forse) non esiste… Ho smosso mari e monti per cercare notizie di quest’uomo, ho persino rotto le scatole all’Addetto Navale turco a Roma, e in fondo chiedo solo di sapere se ci sono fonti turche che parlino di lui, perché sembrerebbe quasi di no, ma la mia coscienza narrativa si ribella all’idea di romanzare senza sapere su  che cosa sto romanzando…

Poi per Natale ho ricevuto un romanzo intitolato L’Assedio.* Autore Jack Hight. Un po’ per gli impegni festivi e un po’ perché sto finendo a rotta di collo un giallo storico che devo recensire per HNR, non ho ancora avuto il tempo di iniziare la lettura, ma ho sfogliato un pochino, e ho scoperto che ne L’Assedio:

a) Balta-Oghlu non esiste affatto: le battaglie navali sono qualche volta comandate da Mehmed in persona(?) e quella del 20 aprile, in cui l’intera flotta turca non riuscì ad impedire che quattro navi cristiane entrassero nel Corno d’Oro, è anticipata di una settimana e vista attraverso gli occhi del condottiero genovese Giovanni Longo Giustiniani – protagonista del romanzo. In realtà Giustiniani era già in città da prima che l’assedio iniziasse, ma che fa?9788858613115.jpg

b) Longo è anche innamorato di una giovane principessa imperiale bizantina, promessa sposa -alas! – del perfido generale e ministro Luca Notaras. Pur non avendo molta stima di Longo, Notaras nel 1453 era sposatissimo a una matura cugina dell’Imperatore, e quindi non in posizione di essere fidanzato ad alcunchi.

Ora, non dico che il romanzo sia necessariamente malvagio, mal scritto o vago, ma questa rapidissima sbirciatina è bastata per constatare che Hight ha strutturato la sua trama con l’accuratezza storica e il gioioso abbandono di un libretto d’opera**. Comincio a credere che la lettura integrale sarà meno deprimente e più interessante di quanto credessi. Chi lo sa, col tempo potrebbe diventare anche quasi catartico: tutto sommato, col mio ammiraglio inesistente, di che cosa mi preoccupo?

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* Il che, tra parentesi, mi riapre un po’ la questione del titolo, visto che esiste già un altro romanzo intitolato L’Assedio, ad opera di Ismail Kadaré – che, seppur indirettamente, parla a sua volta della caduta di Costantinopoli.

** E ciònonostante, in Inghilterra gliel’ha pubblicato la John Murray, che un tempo era l’editore di Jane Austen, Doyle, Byron, Goethe, Melville e Darwin – anche se adesso è solo un nome  del gruppo Hachette. E ha anche ottenuto una recensione abbastanza buona (seppur con qualche caveat) sull’ultimo numero di HNR. In Italia la traduzione è uscita con Rizzoli.

La (più o meno) Nobile Arte Del Duello

Da HNR, n° 53 (Agosto 2010): Duncan Noble offre dieci consigli per far incontrare lo stocco del vostro Eroe e l’anatomia del vostro malvagissimo Malvagio. Tanto piacere…

BrettDuel.jpg1. Il Malvagio (vale a dire l’antagonista del vostro Eroe, indipendentemente dalla posizione ideologica) è sempre il miglior spadaccino di Francia – o di qualche altro posto altrettanto romantico. Requisiti minimi per aspirare alla carica di Malvagio: un titolo nobiliare, una sfilza di duelli-cum-omicidio a (dis)credito e una risaputa inclinazione per le mosse sleali.

2. Indipendentemente dal periodo storico, tutte le spade sono stocchi (a meno che non si tratti del Medio Evo, che è un discorso a parte – vedi spadone e grosses messer). Fioretti e sciabole? E chi li vuole? Il lettore sa che uno stocco è lungo e letale: basta e avanza.

3. Non importa quanto è lunga la lama: lo stocco si sfodera sempre in un lampo – e nessuno inciampa mai nel fodero. A meno che non stiate scrivendo una parodia, perché allora… è uno spassoso capitombolo che vedo arrivare?

4. Se per caso l’Eroina assiste al duello, deve starsene in un angolo, terrorizzata e impotente, anche se fino a un istante prima era una fanciulla tostissima. Mai e poi mai deve passarle per la mente l’idea di dare una botta in testa al malvagio con qualsiasi oggetto pesante e storicamente accurato le capiti sottomano. Ce li avevano i cric nel XVIII Secolo? No? Peccato.

5. Mezzanotte in una strada buia? E dov’è il problema? L’Eroe ci vede preternaturalmente anche di notte, e presumibilmente anche il Malvagio non se la cava male. Questo non impedirà che l’Eroe possa ruzzolare in un fosso o inciampare nell’eventuale mobilio: basta che si riprenda appena in tempo per sottrarsi allo stocco del Malvagio.

6. Balzi, calpestii e cozzare di lame in abbondanza sono obbligatori. Un po’ di fiatone è più che accettabile, ma non per l’Eroina: lei può solo gemere, strillare e, occasionalmente, esclamare “No!”

RupertVSRassendyll.jpg7. Parlando di fiatone, nessuna mancanza d’ossigeno tratterrà i duellanti dal commentare dettagliatamente la situazione: “Ah! Inutile cercare di avvicinarvi al ponte levatoio/al vostro cavallo/alla finestra!” Oppure c’è sempre l’intramontabile classico: “Avete ucciso mio padre: preparatevi a morire!” Cosa bizzarra: i manuali di scherma di tutte le epoche insistono ostinatamente che non si dovrebbe mai parlare mentre ci si batte – per via della concentrazione o qualche altra sciocchezza del genere. La letale arte del duello è una faccenda lenta e silenziosa? Che barba! Meglio darci dentro con lo spirito.

8. Il corpo a corpo è ESSENZIALE. Avete presente quel momento in cui i duellanti si urtano, fermano il duello e si sibilano insulti a vicenda? “Sei venuto a Nottingham una volta di troppo, Robin Hood!” Ops, scusate: quello era il Medio Evo – niente stocchi.

9. Il Malvagio, avendo una reputazione da difendere, ricorre alle mosse sleali di cui al punto 1. Naturalmente non si trovano nel Decalogo Del Gentiluomo, ma l’Eroe è troppo sveglio/veloce/abile per cascarci. E’ probabile che si sia allenato in segreto (con o senza l’equivalente storico di un maestro Jedi), perfezionando una Micidiale Botta Segreta che abbisogna soltanto della giusta opportunità. Ehi,  chi bussa? Sei tu, Opportunità?

10. Quindi, l’Eroe mette in pratica la Micidiale Botta Segreta e il Malvagio, assunta un’adeguata espressione di dolorosa incredulità, crolla a terra – fulminato. La storia e la medicina insegnano che un duello all’arma bianca tendeva a finire in interminabili e letali emorragie interne o esterne. Shakespeare, che aveva le idee chiare in materia di duelli all’arma bianca, di solito approfittava dell’emorragia per un quarto d’ora di commoventi addii. Avete presente Mercuzio? Ma al giorno d’oggi il mercato vuole azione, non carrettate di recriminazioni, rimpianti e filosofia varia.

Oh, e naturalmente a questo punto l’Eroina si getta tra le braccia dell’Eroe, ignorando tutto il sangue che l’Eroe ha addosso (parte suo, parte del defunto Malvagio), perché lei è tosta e coraggiosa. E quindi tutto è bene quel che finisce bene.

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Duncan Noble, scrittore e schermidore, piazza abbondanti scene di duello in tutti i suoi romanzi romanzi storici e, già che c’è, scrive anche saggistica in materia. Al momento lavora a un saggio divulgativo su spade e spadaccini nell Highlands scozzesi. Chissà se ci sarà anche Alan…

 

Nov 24, 2010 - romanzo storico    2 Comments

Promessi Sposi, Capitolo XXVI

220px-Cardinale%26DonAbbondio.jpgRicordate il Cardinal Borromeo, diffusamente incontrato nel Capitolo XXII? Ebbene, a cavallo tra i capitolo XXV e XXVI lo vediamo mentre riprende e rampogna il povero Don Abbondio per l’infelice parte che ha giocato in tutta la faccenda fin qui.

A Manzoni non era riuscito di rendere simpaticissimo il buon Federigo allora, e quattro capitoli più tardi le cose non migliorano apprezzabilmente. Se ne accorge anche l’autore, che apre il XXVI col seguente retorico dubbio: non ci sentiamo un po’ tutti a disagio con l’eccelso predicar d’amore e carità del CFB? Facciamoci coraggio col considerare che poi lui queste virtù le predicava davvero…

Sì, grazie: l’abbiamo visto nel XXII. Abbondantemente. Resta il fatto che per tutto il dialogo che segue è quasi impossibile non simpatizzare col povero curato in disgrazia, con la sua stizza a distanza nei confronti di Perpetua (che l’aveva detto!), coi suoi sapidi e umanissimi asides:

Anche questa gli hanno rapportata le chiacchierone,” detto di Lucia e d’Agnese;

Ecco come vanno le cose,” diceva ancora tra sé don Abbondio: “a quel satanasso,” e pensava all’innominato, “le braccia al collo*; e con me, per una mezza bugia, detta a solo fine di salvar la pelle, tanto chiasso. Ma sono superiori; hanno sempre ragione. E’ il mio pianeta, che tutti m’abbiano a dare addosso; anche i santi.”

ora vien la grandine,” mordendosi la lingua dopo essersi lasciato scappare che bisognava esser stati al suo posto davanti ai Bravi per capire…

E invece la grandine non viene, perché il CFB usa tattiche assai più sottili. Si turba, s’acciglia, fa mostra di accogliere l’implicito rimprovero: è giusto, nessuno può rimproverare se non con piena cognizione di non avere mai commesso il fallo che rimprovera. Che gli indichi Don Abbondio i suoi (del CFB) falli, e allora se ne potranno dolere insieme…

E che può dire Don Abbondio, se non che per carità! tutti conoscono la virtù somma del CFB… E’ ovvio che il CFB non ha mai conosciuto una debolezza simile a quella di Don Abbondio, non ha né avrebbe mai ceduto alle intimidazioni di nessuno! Vero e certo, nulla da dire – ma è proprio qui che interviene la fallacia logica del CFB, perché diciamocelo: se anche il CFB si fosse trovato di fronte i Bravi di Don Rodrigo (o qualche minaccia equivalente su scala maggiore), che diamine! Era un Borromeo, cugino di un santo in fieri, ben presto un vescovo e poi cardinale. Era un uomo autorevolissimo per nascita, per ruolo, per parentele e per carisma personale. Vien da pensare che non abbia tutti i torti Don Abbondio, con la sua considerazione irrispettosa: il CFB non sa di che cosa parla. Non sa nulla dell’essere piccoli, deboli d’animo, un po’ meschini e tremebondi, tutto sommato facili a colpirsi, e ancor più a spaventarsi. Ha davvero una virtù sovrumana da esibire, il CFB, ed ha ragione nel riprendere Don Abbondio – ma non è davvero un caso di quella suprema virtù del comando: pretendere dagli altri solo ciò che si pretende da se stessi.

Alla fin fine Don Abbondio è contrito, vergognoso, intenerito, dispiaciuto di sé – ma più ansioso di riparare che convinto di avere fatto la scelta sbagliata perché “in mezzo a que’ discorsi, ciò che stava piú vivamente davanti, era l’immagine di que’ bravi, e il pensiero che don Rodrigo era vivo e sano, e, un giorno o l’altro, tornerebbe glorioso e trionfante, e arrabbiato. E benché quella dignità presente, quell’aspetto e quel linguaggio, lo facessero star confuso, e gl’incutessero un certo timore, era però un timore che non lo soggiogava affatto, né impediva al pensiero di ricalcitrare: perché c’era in quel pensiero, che, alla fin delle fini, il cardinale non adoprava né schioppo, né spada, né bravi.”

Segue edificante paternalina sulla possibilità di riparare ai propri errori, e di come quelle rampogne abbiano addolorato il CFB ancor più che Don Abbondio… Come quando eravamo piccoli e, all’occasionale sculacciata, si accompagnava il classico “fa più male a me che a te”. Ci credevate, voi? Nemmeno io e quindi tutti, a proposito del CFB, possiamo concludere con Don Abbondio: “Oh che sant’uomo! ma che tormento!

Del resto del capitolo voglio notare solo due cose: Agnese che si sente fatta donna di mondo dalle circostanze (“[T]i vengo a prender io a Milano; io ti vengo a prendere. Altre volte mi sarebbe parso un gran che; ma le disgrazie fanno diventar disinvolti; fino a Monza ci sono andata, e so cos’è viaggiare. “) e l’ironico accostamento tra il duraturo interesse del Capitano Generale di Milano per i casi di Renzo fuggito nel Bergamasco e il rancore di Roma nei confronti di Annibale – tanto simile a quello tra Don Abbondio e il Principe di Condé all’inizio del Capitolo II.

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* A parte la mia predilezione per l’Innominato (rigorosamente pre-conversione) posso confessare di avere sempre parteggiato per il fratello del Figliol Prodigo e per le novantanove brave pecore piantate nel deserto mentre il Buon Pastore va alla ricerca di quella delinquente della Pecora Smarrita?

 

 

Birra in Bottiglia

dewitt500.gifA Dagger For Two, di Philip Lindsay, è il mio Libro Da Borsetta in carica. Essendo un paperback piccolino e vecchiotto* si presta a stare nelle borsette, in modo da essere a portata di mano per code, attese e ritardi imprevisti. D’altra parte, essendo un libro piacevole ma non la lettura della mia vita, non importa poi troppo se lo leggo a bocconi e spizzichi nel corso di parecchi mesi – che è quello che sta succedendo: sono certa di avere cominciato ADF2 l’autunno scorso…

Ad ogni modo, l’ultimo spizzico di lettura conteneva una scena di folla festante che, nel Rose theatre, attende rumorosamente l’inizio della rappresentazione. Siamo nel 1593, e la traduzione è mia:

… Chiacchiericcio, grida di amici che si cercavano da un capo all’altro del cortile, liti per i dadi e le carte, uno schiacciare di gusci di noce, un masticar di mele, un succhiare di arance, gli schiocchi sibilanti delle bottiglie di birra aperte, i richiami dei venditori ambulanti…

Bottiglie di birra? Bottiglie di birra che si aprono con uno schiocco sibilante nel 1593? All’improvviso l’immagine di un ragazzotto in jeans che apriva una bottiglia di Guinness con l’accendino mi ha scompigliato la scena tardo-cinquecentesca. Ugh, l’anacronismo! ho pensato, arricciando un labbro, e quando ho ripreso la lettura avevo una diversa considerazione del signor Lindsay e della sua storia.

Una volta a casa, però, colta dal dubbio, ho fatto qualche ricerchina, e ho scoperto questa storia: negli Anni Sessanta del Cinquecento, un vicario dello Hertfordshire sarebbe andato a pescare portandosi dietro della birra in una bottiglia di vetro tappata col sughero, e poi l’avrebbe dimenticata sulla riva del fiume. Tornò a riprendersela l’indomani (più per la bottiglia che per la birra, perché il vetro era costoso) e, quando volle aprirla, il tappo esplose via “con rumore di pistola, e non di bottiglia”. Il vicario aveva appena scoperto che la birra sottovetro ri-fermentava. Pittoresco, ma probabilmente non vero. Pare invece che, nella seconda metà del Cinquecento, i birrai inglesi sperimentassero con le bottiglie veneziane, ma probabilmente più per la fermentazione che per l’imbottigliamento di per sé, che non diventò pratica commerciale fino alla seconda metà del Seicento. In compenso, molta della birra che si consumava veniva prodotta in casa, e un libro di consigli domestici del 1615 si spiega alle brave massaie quali precauzioni prendere per conservare la birra nelle bottiglie.

Insomma, è tecnicamente possibile che, nel 1593, qualcuno se ne andasse a teatro con una bottiglia di birra in tasca e la aprisse con tanto di schiocco sibilante, o che le bottiglie si vendessero nel teatro stesso insieme alle arance**, alle mele, alle noci, ma di sicuro il particolare non giova alla credibilità della scena Lindsay parla addirittura di venditori di “birra fresca”, il che doveva significare che qualche locanda di Southwark (il distretto in cui sorgevano molti teatri, compreso il Rose) teneva in fresco una certa quantità di birra imbottigliata, da vendere in loco… Non so, davvero non so, ma in qualche modo mi sembra improbabile – e di sicuro fa sobbalzare il lettore.

Se Lindsay si è lasciato trascinare dall’entusiasmo, allora abbiamo un anacronismo vero e proprio; ma se invece ha pescato il particolare in qualche fonte contemporanea, abbiamo invece un animale di classificazione più difficile, un particolare legittimo ma oscuro&strambo che sembra un anacronismo e, alas, funziona come se lo fosse: una specie di nocebo storico-narrativo***.

Che fare in questi casi – se si è tanto fortunati da accorgersene? Se il particolare è davvero irrinunciabile, bisogna trovare il modo più sottile possibile per spiegare che ha tutti i diritti di trovarsi dov’è. Ma se non c’è modo di spiegare con sottigliezza è meglio rinunciare alla birra in bottiglia, perché non so che cosa sia più irritante: un anacronismo (vero o presunto) o una lezione di storia della birra incuneata a forza in una scena di romanzo.

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* Comprato a Londra, su una bancarella di libri usati, per qualcosa come 50 pence.

** C’entra fino a un certo punto, ma viene in mente Nell Gwynne, l’amante di Carlo II, che aveva cominciato la sua carriera teatrale come orange-girl, ovvero venditrice di arance in un teatro.

*** Come la mente diabolica di Annibale.

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