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Violento E Brutale

james aitcheson, the splintered kingdom, amazon, hnr, recensioniSono lievemente sconcertata.

Nella frenesia da andata in stampa imminente dell’ultimo numero di HNR, mi sono vista affibbiare d’autorità un libro che forse di mio non avrei letto, The Splintered Kingdom di James Aitcheson – secondo volume di quella che diventerà, mi par di capire, una trilogia.

E mi è andata bene, perché perché ci ho guadagnato una piacevole lettura. Avventure alla vecchia maniera nell’Inghilterra post Hastings, con un punto di vista normanno (che non è cosa di tutti i giorni), un sacco di battaglie, imboscate, tradimenti, intrighi e un protagonista benintenzionato con un talento per mettersi nei guai.

Il mezzo bretone Tancred a Dinant vorrebbe tanto essere un buon neosignore del maniero, un buon vassallo, un buon cristiano – ma è troppo ambizioso, collerico e ostinato per non farsi nemici ad ogni passo, e così…

E per di più Aitcheson non scrive per niente male: ha buon ritmo, descrive e caratterizza con efficacia, ha fatto le sue ricerche e le dispensa con giudizio. E per di più ancora, i suoi personaggi hanno idee, certezze, priorità e pregiudizi da XI Secolo.

Insomma, mi è piaciuto abbastanza perché, dopo averlo finito, abbia ceduto all’uzzolo di ordinare subito il primo volume.

E così scrivo una buona recensione per HNR e, nell’atto di spedirla, mi accorgo di avere gettato con troppo entusiasmo la sovraccoperta,* e di non sapere più il prezzo dello hardback, che devo indicare tra i dati del volume.

La cosa semplice da farsi è controllare su Amazon e, già che ci sono, butto un’occhiata alle recensioni. Ce ne sono poche – il libro è appena uscito in Inghilterra e non ancora in America – per lo più entusiastiche. Ma in diverse appare un caveat: il libro è molto violento. Le scene di battaglia sono truculente. La prosa di Aitcheson è brutale. High octane stuff, dice un recensore – e magari non emerge come caratteristica primaria del libro, ma ritorna abbastanza da notarsi.

Ed è qui che mi sconcerto, perché lo sapete che sono squeamish. Non solo ho i miei problemi con la fantascienza, e l’horror è al di là delle mie possibilità, e non leggo storie di fantasmi dopo il tramonto**, ma anche le descrizioni di violenze, torture, battaglie e sanguinosità varie assortite, quando virano sul grafico, mi danno un certo qual mal di stomaco.

Ma con TSK non è successo nulla del genere.

Be’, ok, non c’è nulla di edulcorato, Aitcheson non rifugge gli aspetti meno gradevoli della vita (e morte) nell’XI Secolo – ma non ci sguazza nemmeno. E nonostante il sottotitolo sia 1066: the bloody aftermath, davvero non c’è nessuna truculenza insistita o gratuita. Al punto che persino io posso leggere senza riportarne traumi duraturi…

E allora? Che cos’è che scuote tanto la sensibilità di questi lettori britannici? Che poi sia chiaro, anche loro apprezzano il libro, ma lo individuano come particolarmente violento. Perché mai in cielo e in terra?

E, scartando l’idea di avere sviluppato una nuova soglia di tolleranza al sangue stampato, sono giunta a formulare un’ipotesi.

Il fatto è che Tancred, narratore in prima persona, non mostra la minima remora in fatto di battaglie, uccisioni e spargimento di sangue. Fa quel che è stato addestrato a fare fin da ragazzino con entusiasmo dichiarato e con la certezza di essere nel giusto. Quando non ha modo di andare in battaglia per un po’, ne sente la mancanza. Certo il muro di scudi è una faccenda pericolosa, truce e brutale, certo i nemici fanno più che sul serio, certo si muore, si perdono amici e compagni d’armi, certo gli errori di giudizio, i rovesci della sorte, la paura, l’occasionale sconfitta, la fatica – ma ah, the battle-joy!

Non una volta in quattrocento pagine Tancred attraversa una di quelle crisi di disgusto post-battaglia. La guerra è il suo mestiere, unashamedly. Ed è bravo in quel che fa, e forse ha sviluppato una certa qual dipendenza da adrenalina – anche se di sicuro non la chiama così – e quasi gli dispiace per la gente che non conosce le gioie pericolose della “via della spada.”

Assai poco politically correct, di sicuro.

E allora mi domando se non sia questo il punto – non tanto la violenza in sé, quanto un atteggiamento di fronte alla violenza. Questo gusto della battaglia senza remore e senza un briciolo di condanna, che su di noi gente civilizzata esercita il suo fascino high octane, ma al tempo stesso ci sembra (o quanto meno sentiamo che deve sembrarci) spaventosamente riprovevole, brutale e barbarico?

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* Ho un’avversione per le sovraccoperte. Non m’importa quanto siano ben riuscite, la prima cosa che faccio quando vengo in possesso di un libro in hardback, è liberarmi della sovraccoperta. Se leggo hardback in prestito, tolgo la sovraccoperta mentre leggo, e la rimetto a posto con ogni cura a lettura avvenuta. La sovraccoperta m’intralcia, mi irrita, s’infila dove non dovrebbe.

** Anche se, apparentemente, non ho il minimo problema a scriverne dopo il tramonto. Dev’essere un equivalente letterario del non avere il mal d’auto quando si guida, I guess

Che Cosa Non È Un Romanzo Storico?

hnrmay09cover.jpgC’era una volta, un paio di anni fa, una lettrice (ed ex collaboratrice, se ho ben capito) di Historical Novels Review, che scrisse alla rivista una lettera furibonda, sollevando la questione di che cosa fosse di preciso un romanzo storico – e di che cosa invece non lo fosse affatto. Il romanzo storico è un genere ben definito, sosteneva la signora in questione, al quale non appartengono romanzi rosa in costume, fantasy a sfondo storico, viaggi nel tempo, ucronie e via dicendo.

HNR, rivista angloamericana specializzata, seguiva e segue una politica molto aperta in materia, e rispose alla lettrice sostenendo che negli ultimi anni la definizione del genere si era allargata a comprendere un certo numero di sottogeneri, la cui natura varia selvaggiamente. Fenomeno difficile da ignorare – ma soprattutto, si chiedeva il redattore nella risposta, era saggio e lungimirante volerlo ignorare?

Non è un caso che la discussione sia nata in ambito anglosassone, nel contesto di un mercato editoriale molto più segmentato del nostro, ma l’argomento è interessante. Al di là della politica editoriale di HNR, è assolutamente vero che il romanzo storico, come genere, si è ramificato in modo notevole, negli ultimi otto o dieci anni.

È lontana l’arcadia candida e un po’ strettina in cui Sir Walter Scott, Dumas e Manzoni, con i loro seguaci, imitatori ed epigoni, esaurivano più o meno il panorama. C’era l’ambientazione in secoli passati, c’era una guerra/battaglia/pestilenza/cospirazione/sollevazione armata, c’era una maggiore o minore libertà rispetto alle fonti, c’era un malvagio destinato alla sconfitta, c’era una giovane coppia destinata all’altare, et voilà: romanzo storico.

Per molto tempo, l’unica distinzione era stata quella tra romanzi storici e romanzi storici per fanciulli – alle volte con risultati bizzarri: sapete tutti che questo è a pet peeve of mine, ma davvero: chi può voler considerare Il Signore di Ballantrae di Stevenson un romanzo per fanciulli?).

Arcadia, come dicevo: adesso si può contare facilmente una decina di sottogeneri.

1. Romanzo rosa storico. Oppure romanzo storico rosa, a scelta. E sì, lo so: tutti pensiamo subito a qualche Harmony in cui personaggi dalla mentalità e dal comportamento contemporanei indossano costumi di un’epoca a scelta, e questo è quanto. Ad ovest della Manica, in realtà, si trovano commercializzati come historical romance dei romanzi di caratura molto superiore (per qualità di scrittura e accuratezza di ambientazione), che da noi sfuggirebbero alla classificazione “rosa”, ma in cui l’elemento sentimentale ha un’importanza prevalente.

2. Fantasy storico. Probabilmente, il caso più famoso è il bellissimo Jonathan Strange & il Signor Norrel, di Susanna Clarke, che ipotizza l’impiego della magia a fini militari nel corso delle guerre napoleoniche. Personalmente, trovo irresistibile l’idea dei maghi dell’esercito inglese impegnati a spostare colline, strade, fiumi e villaggi della Spagna per confondere le idee ai Francesi! Ad ogni modo, si tratta di trame che associano elementi fantastici agli avvenimenti storici, oppure creano mondi immaginari basati su un periodo storico. Se vogliamo, il Calvino de Il Cavaliere Inesistente ricade in questo genere. All’interno del quale, in teoria, bisognerebbe distinguere…

3. Horror storico, il cui punto di forza sono gli onnipresenti vampiri, calati in un’epoca a scelta*. Pensate a Intervista con il Vampiro di Anne Rice – ma non dimenticherei nemmeno licantropi, zombie e streghe. 

4. Giallo storico. Questo non ha quasi bisogno di spiegazione: delitti e indagini in qualche epoca passata. Citiamo Il Nome della Rosa di Umberto Eco, e anche le indagini di Fratello Cadfael di Ellis Peters. Persino Agatha Christie si lasciò tentare, già nel 1945, ambientando C’era una volta (Death comes as the end) nell’antico Egitto. Una variante particolarmente fortunata di questo genere vede personaggi storici all’opera come detectives – e per un esempio italiano citerò La Sposa di Annibale, di Guglielmo Colombero – ma la produzione in questo campo è molto varia – dal fratello di Shakespeare a Jane Austen, da Abigail Adams al Dr. Johnson…

5. Romanzo storico militare. Anche questo è piuttosto autoevidente: protagonisti militari e abbondanza di guerre e battaglie. Bernard Cornwell e Valerio Massimo Manfredi rientrano in questo genere. Un sottogenere è costituito dalla cosiddetta Naval Fiction. Ne abbiamo parlato di recente.

6. Multiperiod. Romanzo che alterna vicende accadute in secoli diversi, e più o meno correlate tra di loro. Mi viene in mente il (mediocre) The Intelligencer, di Leslie Silbert, i cui capitoli si dividono tra la Londra elisabettiana di Christopher Marlowe e la Washington contemporanea, con lo stesso mistero al centro. Se posso essere spudorata, il mio Lo Specchio Convesso insegue l’elusivo Ammirabile Critonio tra la Mantova cinquecentesca, la Scozia del XVII Secolo e la Londra di Dickens. Diverso da…

7. Saga familiare, che segue diverse generazioni della stessa famiglia attraverso il corso degli anni (o dei secoli). Rilevante ai nostri fini quando gli anni in questione appartengono a qualche passato, come i cicli dei Courteney e dei Ballantynes di Wilbur Smith e, più vicino a noi, La Spilla di Janesich, di Antonio Della Rocca.  

8. Viaggio nel tempo. Il nostro eroe, per un motivo qualsiasi, volutamente o per caso, si ritrova in un’epoca diversa dalla sua. I risultati possono variare dalle buffe complicazioni (il capostipite è forse Un Americano alla Corte di Re Artù, di Mark Twain), ai cavoli amari, come in Timeline, di Michael Chricton.

9. Romanzo storico per ragazzi. Citiamo R.L. Stevenson con Il Ragazzo Rapito e Lino Piccolboni con I Cannoni di Venezia, autore e titolo che, per una volta ci consentono di sorvolare sul modo in cui, negli autori italiani di questo sottogenere, l’ansia per il politically correct nuoce al rigore storico.  

10. Ucronia. Ovvero, ipotesi di storia alternativa. Il re del genere è Harry Turtledove, il cui romanzo ucronico più conosciuta in Italia forse è Per il Trono d’Inghilterra, ma c’è, per esempio, Roberto Farneti, con la saga di Occidente.

Il mercato americano distingue ancora almeno due sottogeneri: il western storico (devo spiegarlo davvero?) e il romanzo storico cristiano (a forte contenuto spirituale), che in Italia praticamente non esistono. E si possono aggiungere ancora le “psedudostorie”, come L’Isola del Giorno Dopo di Eco, o Il Viaggio dell’Elefante di Saramago, che narrano avvenimenti storici filtrati attraverso una voce autoriale moderna o a-storica.

Se non bastasse, esistono poi romanzi che mescolano vari sottogeneri. Il Teschio di Cristallo di Manda Scott (sì, quello…) è un multiperiod con forti elementi fantasy e una trama pseudogialla. Personalmente non mi azzarderei a definirlo un romanzo storico, ma è pur vero che per metà si svolge nel Cinquecento, e quindi, per dire, rientra nei criteri di HNR, che peraltro lo ha recensito, seppur senza eccessivo entusiasmo.

Insomma, il romanzo storico, come tutti i generi letterari, è in continua evoluzione, in una dialettica continua tra sperimentazione e mercato. E, tornando alla domanda iniziale, che bisogna fare di questa fioritura fuori dalle aiuole?

Ecco, a me sembra che la fioritura sia qui per restare, e che volerla ignorare sia un genere di esercizio singolarmente futile – oltre che miope. A che serve rinchiudere un genere letterario in un quadratino? A mio timido avviso il discrimine è altrove, tra il tentativo di ritrarre in modo onesto e plausibile i modi, gli usi e la mentalità di un’epoca e le collezioni di anacronismi psicologici in crinolina – ma anche questa è una valutazione d’altro tipo, che non può funzionare come criterio pratico per la delimitazione del genere…

E allora trovo ragionevole la definizione di HNR:

Per essere considerato storico ai nostri fini, un romanzo deve essere stato scritto almeno 50 anni dopo gli eventi narrati, o da qualcuno che non era vivo all’epoca in cui gli eventi si sono svolti, e quindi le conosce soltanto attraverso la ricerca.

E la distanza di cinquant’anni può essere arbitraria, ma in fondo è tutto quel che serve: al di là di quel limite c’è spazio per tutte le evoluzioni, gli esperimenti, le ibridazioni e le ipotesi che possono mantenere vivo il genere. 

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*Non credo che sia stato tradotto in Italiano, ma esiste un ciclo di romanzi che ritraggono il Barone Rosso e i suoi piloti come una squadriglia di supervampiri… giuro!

 

 

Noluntas recensisce Gl’Insorti di Strada Nuova

Piccolo post fuori programma per dirvi che Andrea Camillo, redattore di Finzioni Magazine e @noluntas per chi bazzica Twitter, recensisce Strada Nuova sul suo bel blog Noluntas – e usa parole che mi commuovono, per il romanzo e per Senza Errori di Stumpa.

Tra l’altro, Andrea riflette con acume sul rapporto che si crea tra lettore e autore quando il mezzo è il self-publishing accostato a una presenza web, e le sue conclusioni mi piacciono molto.

E dunque merci bien, Monsieur – e la recensione si trova, O Lettori, qui.

Davvero Deprimente

Sotto molti aspetti gli Elisabettiani non erano gente simpaticissima. Erano pieni di pregiudizi sessuali e razziali, spesso intolleranti, spesso spudoratamente crudeli con gli animali e con i loro simili. Dare a persone vissute quattrocento anni fa delle belle opinioni liberali in fatto di omosessualità, femminismo o persino democrazia (che era poco meglio di una parolaccia per l’Elisabettiamo medio) sarebbe tanto sciocco quanto vestirli in cilindro e redingote anziché farsetto e gorgiera, e armarli di Colt 45. Ho fatto del mio meglio per evitare gli anacronismi psicologici, che considero un delitto detestabile e irritante, e tuttavia sarebbe davvero deprimente se si pensasse che condivido le opinioni di certi miei personaggi in fatto di politica o religione, razza o orientamento sessuale.

E questa era Patricia Finney, nella nota dell’autore a Firedrake’s Eye. Condivido ogni parola, compreso il cri de coeur che aleggia, inespresso ma nemmen troppo, nell’ultima riga e mezzo. È chiaro che la cosa davvero deprimente è già successa: è capitato che qualcuno le rimproverasse le opinioni dei suoi personaggi come se fossero sue. Forse qualcuno si è alzato in piedi durante una presentazione per rinfacciarle l’atteggiamento di David Becket nei confronti delle donne. O qualcun altro le ha scritto mail astiose in cui la definisce una persona orribile per l’intolleranza religiosa di cui traboccano i suoi libri…

Ora, vedete, qualche tempo fa sul blog di Aislinn era comparso un altro cri de coeur, un post in cui si lamentava la feroce prontezza di troppi lettori nell’attribuire l’idioletto di un personaggio all’incompetenza grammatical-sintattica dell’autore. E poi a strategie evolutive Davide Mana ne aveva tratto amarognole riflessioni sulla crescente mancanza di fiducia tra lettore e scrittore.

Mancanza di fiducia e di immaginazione e di capacità di astrarre, aggiungerei – e magari si trattasse soltanto del linguaggio. L’avete letta, Finney: il lettore capace di attribuire all’autore il pregiudizio cinquecentesco del suo personaggio esiste. Oh, se esiste.

E qui interviene un altro malanno di natura diversa: la mancanza di prospettiva storica. Forse vi ho raccontato della vispa quindicenne che veniva a lezione di Latino secoli fa e diceva che, se fosse stata un’antica romana, non avrebbe voluto schiavi.

“Li avresti voluti eccome,” le dicevo io.
“Nemmeno per idea! Anche nell’antica Roma avrei avuto le mie idee.”
“Ne avresti avute di tue, ma non quelle che hai adesso. Saresti cresciuta considerando la schiavitù un indispensabile pilastro dell’economia e della convivenza civile. Avresti potuto voler trattare i tuoi schiavi con umanità, ma avresti anche considerato innaturale una vita senza schiavi.”
“Ma non è giusto…”

E, pur essendo la fanciullina ragionevolmente sveglia, non c’era verso di convincerla troppo che, a distanza di secoli, non erano solo modi e costumi ad essere differenti, ma anche l’idea di ciò che era giusto e ciò che era sbagliato.

On the other hand, ci fu una lettrice sperimentale che mi rimproverò aspramente perché nelle mie storie vandeane i sacerdoti impartivano l’assoluzione preventiva prima delle battaglie. Non era colpa mia. Non me l’ero inventato. Alla fine del Settecento era una pratica comune, antica e radicata. La lettrice sperimentale si scandalizzava del fatto che lo raccontassi, perché era sbagliato. Moralmente sbagliato dal suo punto di vista moderno. E sapeva che non sono una persona religiosa, ma…

Ma le sembrava brutto che scrivessi cose del genere. Perché se l’avevo scritto, bisogna dire che lo condividessi – o quanto meno che non lo disapprovassi, visto che questi sacerdoti, per lo più, ricadevano nel campo dei Buoni. 

Il fatto che nessuno, a fine Settecento, considerasse un sacerdote un Cattivo Sacerdote (o una Cattiva Persona, for that matter) perché praticava le assoluzioni preventive – anzi! – non era rilevante. E io, che scrivevo questa gente senza almeno implicarne l’errore morale, dovevo condividere l’errore stesso.

Il che, suppongo, è frutto della convinzione che scrivere sia questione di versare su carta il contenuto delle coronarie e del proliferare di anacronismi psicologici, soprattutto nella narrativa per fanciulli. E il lettore nutrito ad anacronismi psicologici cresce incapace di prospettiva storica e sa identificarsi soltanto con personaggi psicologicamente anacronistici: in un terrificante uroburo narrativo, le Bambinaie Francesi generano innumeri altre Bambinaie Francesi…

E no, non sto cercando di essere catastrofista – è che mi riesce bene, in un mondo in cui Patricia Finney deve scrivere l’introduzione che avete letto per evitare che qualcuno la consideri piena di pregiudizi, intollerante e crudele come gli Elisabettiani di cui scrive.

Il che, se ci pensate, è davvero deprimente.

‘Zounds!

È inoltre consigliabile, scrivendo narrativa ambientata in qualsiasi periodo storico, evitare distorsioni del linguaggio nel tentativo di creare dialogo d’epoca. Se i personaggi della nostra storia non suonavano antiquati ai loro contemporanei, allora non devono suonare antiquati nemmeno a noi. Può benissimo darsi che un giovanotto dicesse al suo benefattore: La vostra benevolenza mi lusinga assai, signore, e son ben conscio della gratitudine che vi spetta”, ma non è così che le sue parole suonavano all’orecchio del benefattore. Quello che il benefattore capiva era: “Grazie, signore, molto gentile.”

E questa è quella Josephine Tey di cui parlavamo qualche giorno fa, nella Nota al suo romanzo The Privateer. Questo significa che, nel 1952, JT anticipava di una buona sessantina d’anni quello che nell’ultimo decennio o giù di lì è diventato il dibattito sul Nuovo Corso del romanzo storico. La faccenda (come molte faccende serie che riguardano la narrativa di genere) è maturata in ambito anglosassone, quando alcuni autori hanno cominciato a scrivere antichi romani e sovrani Tudor che parlavano un linguaggio decisamente ‘XXI Secolo’. L’idea generale, come la zuppa inglese, ha più di uno strato.

Da una parte c’è la volontà di rendere più facile l’identificazione al lettore. Bisogna ammetterlo, non è sempre facilissimo simpatizzare per cinquecento pagine con gente che procede a forza di “Dei possenti!”, “calami” e “guantiere”. Poi sia chiaro, non si tratta di modernizzare i personaggi: mentalità e atteggiamento restano rigorosamente period, ma il trucco sta nel renderli in un linguaggio tale che il lettore contemporaneo non abbia l’impressione di essere appena sbarcato su Marte.

Ed ecco l’altro lato della questione, che ci riporta al discorso di JT: la maniera cinque, sei o settecentesca, non pareva affatto maniera a chi la usava, e pertanto il romanziere storico dovrebbe produrre l’impressione che i suoi personaggi parlino in modo normale. Quando Riccardo III dice “Zounds!”, non dice nulla di particolarmente esotico o pittoresco, si limita a usare un’imprecazione che è moneta corrente ai suoi tempi. E a quelli di Will Shakespeare, se vogliamo, per cui l’esempio non è del tutto calzante, ma avete capito quello che voglio dire. Supponiamo tuttavia che un romanziere contemporaneo riprenda in mano Richard*, e che lo ritragga in un momento di furore: un’imprecazione contemporanea aiuterebbe il lettore a simpatizzare meglio con la sua rabbia? E glielo farebbe sentire più vicino? Più vero? Più vivo?

Quel che è certo è che un linguaggio troppo desueto produce distacco, intralcia l’identificazione e trascina il lettore fuori dalla storia. Not good. Per rendersene conto (e per vedere che JT non era l’unica precorritrice) basta leggere il primo capitolo dei Promessi Sposi, con il supposto scartafaccio secentesco: fittizio senz’altro, ma ricalcato sullo stile dell’epoca e poco meglio che illeggibile. Per renderlo appetibile al lettore, dice Don Lisander, bisogna rivestire la bella storia di parole diverse, parole che si possano capire a prima vista.

E in realtà oggi sono veramente pochi gli autori che riproducono fedelmente la lingua del loro periodo: per lo più, chi rifiuta l’idea del Nuovo Corso cerca una via di mezzo tra comprensibilità e un certo qual gusto d’epoca, il che risulta in una vasta gamma di linguaggi immaginari, più o meno riusciti, più o meno deliberati, più o meno leggibili**.

E allora? Vexata quaestio… Personalmente, confesso di avere sempre avuto un debole per il linguaggio d’epoca***, per le costruzioni desuete, per i vocaboli astrusi e specialistici, ma devo aggiungere anche che non è la caratteristica della mia scrittura che mi ha procurato più lettori. Da un lato, capisco che se voglio ricreare un’altra epoca, renderla viva per il mio lettore, un linguaggio contemporaneo (purché privo di anacronismi) è di sicuro uno strumento potente. D’altra parte, dove va a finire quella specie di “patina del tempo” che contribuisce tanto al fascino di tutto quello che è antico?

Aneddotino. Secoli fa, per una rappresentazione de L’Uomo del Destino, atto unico napoleonico di G.B. Shaw, avevo fatto fotocopiare dei pezzi di mappa catastale, perché servissero da mappe militari. Nonostante avessi preso la precauzione di procurarmi della carta color avorio (un mestieraccio, trovarne in formato A3!), vedermele in mano mi causò un istante di delusione: non avevano un’aria antica… Ovviamente non dovevano averla! Ovviamente Napoleone aveva mappe nuove con sé, magari un po’ sbrindellate e macchiate dall’uso, ma senz’altro non antiche. E però, da un punto di vista scenografico, non sarebbero parse fuori posto tra le crinoline e le spade e le candele, nell’atmosfera d’epoca creata dalla regia?

Ecco, credo che questo sia un po’ il nocciolo del problema: che cosa si vuole, che cosa si cerca in un romanzo storico? Un senso della sostanziale parentela che ci lega a questi antenati, o uno sguardo agli usi, costumi e pensieri di un mondo che il passare dei secoli ha reso estraneo? Il dibattito è ampiamente aperto.

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* Ipotesi tutt’altro che peregrina: nel mondo anglosassone esiste una folta schiera di romanzi riccardiani. C’è persino una Richard III Society, dedita alla riabilitazione storica del povero Richard.

** Per un gustoso simil-mantovano secentesco, La Pantoffola di Matilda, di Stefano Scansani, vale la pena di un’occhiatina.

*** A dieci anni, giocando “a Medio Evo”, ero solita riprendere i miei amici quando per errore si rivolgevano al re con il lei, anziché il voi, che a me sembrava più period… Me lo rinfacciano ancora.

Josephine Tey Alla Riscossa

josephine tey, mondadori, la figlia del tempo, gialliSono o non sono anni che vi dò il tormento a proposito di Josephine Tey?

Perché quando pensiamo al giallo classico inglese tutti abbiamo in mente Agatha Christie, ma c’è anche altra gente – come Ngaio Marsh, come Dorothy L. Sayers e come Josephine Tey.

Josephine Tey in realtà si chiamava Elizabeth Mackintosh, era un’insegnante scozzese – un’insegnante di ginnastica col dono delle storie. Cominciò con il teatro: sotto lo pseudonimo di Gordon Daviot* scrisse numerosi plays di argomento storico e meno storico, in particolare Richard of Bordeaux, che adesso è piuttosto dimenticato, ma all’epoca fu un enorme successo e fece del giovane (e non ancora Sir) John Gielgud una stella delle scene inglesi. josephine tey, john gielgud, richard of bordeaux

E poi al teatro si aggiunsero, sotto il nome di Josephine Tey, una biografia** e i romanzi. Gialli, per lo più, e in particolare le indagini dell’Ispettore Alan Grant. Grant appartiene al genere dell’ufficiale di polizia di buona famiglia: un gentiluomo educato in una public school, dotato di ottime maniere e interessi letterari, amicizie e utili conoscenze in tutto lo spettro sociale – ma non per questo meno tosto. 

josephine tey, mondadori, mike wigginsE naturalmente indaga in quell’Inghilterra che non c’è più – e chissà se ci sia mai stata fino in fondo, ma mi piace pensare di sì – in cui si prende il tè alle cinque, i landruncoli cockney chiamano tutti guv’nor e le celebri attrici portano guanti al gomito e cappelli a tesa larga, un’Inghilterra fatta di paesini di campagna e strade londinesi, teatri shakespeariani e magioni della buona, vecchia e solida gentry. Un’altra celebre giallista, P.D. James, dice che tutto ciò fa dei gialli teyiani quasi dei romanzi storici, con la loro “rievocazione di un’epoca gentile, pacifica e rispettosa delle gerarchie.***” E P.D. James, dopo tutto, quel mondo lo ha conosciuto… quindi forse, almeno in parte è esistito. josephine tey, mondadori, mike wiggins

Ma non divaghiamo. Se torno a parlare di Josephine Tey è perché Mondadori ripubblica alcuni dei suoi romanzi. Li ripubblica negli Oscar – i buoni vecchi Gialli Mondadori, che gialli non sono più, ma fa lo stesso, perché arrivano con delle belle copertine vecchia maniera di Mike Wiggins, illustratore Penguin. Non so dirvi nulla delle traduzioni – opera di gente diversa. Se qualcuno ha commenti da fare in proposito, però, è il benvenuto.

E i libri sono quattro: ci sono tre avventure di Grant – a partire da È caduta una stella (Shillings for candles****, 1933), passando per La strana scomparsa di Leslie (To love and be wise, 1950), fino a La figlia del tempo (The daughter of time, 1951); e poi c’è Il ritorno dell’erede (Brat Farrar, 1949), giallo atipico con un mistero vecchio di otto anni che torna a galla nella maniera più inaspettata. Li trovate tutti qui.

josephine tey, mondadori, mike wigginsE chissà se il vecchio mistero irrisolto di Brat Farrar sia stato una specie di prova generale in vista de La figlia del tempo… Perché ecco, se volete leggere un solo libro de Tey, badate che sia quello. E in realtà, anche se non volete leggere libri di Tey, anche se non v’interessa un bottone della Vecchia Inghilterra, anche se i cozies non sono la vostra tazza di tè – La figlia del tempo vale davvero la pena. Il fatto che nel 1990 la Crime Writers’ Association lo abbia eletto il miglior giallo di sempre può anche non significare molto, ma parliamo piuttosto del fatto che si tratta di libro estremamente singolare, intelligente e ben scritto. Parliamo di come Tey abbia inaugurato il genere del cosiddetto armchair mystery, confinando il povero Grant in ospedale e facendogli dirigere da lì una sorta d’indagine a distanza di secoli sull’omicidio dei Principi nella Torre, i nipoti di Riccardo III. Parliamo di come ciò renda Tey la zia dei gialli storici e la fata madrina di tutti i Riccardiani del vasto mondo anglosassone. Parliamo dell’aguzza analisi della leggenda nera di Riccardo – e di tante reputazioni storiche costruite alla stessa maniera. E se vi pare che tutto ciò suoni noioso, credetemi: non lo è. Già il fatto di dare ritmo a un giallo in cui l’investigatore è a letto con una vertebra fratturata non è impresa da poco. Qualora non bastasse, il giallo diventa una meravigliosa riflessione sulla storia e sulla verità, ed è anche condito di dialoghi scintillanti. Molto vicino alla mia idea di perfezione, grazie.

Semmai vi fosse venuta voglia di leggere La figlia del tempo (e dovreste, se nutrite anche il più pallido interesse per la storia e il modo in cui si costruisce e racconta), qui trovate qualche link: in Italiano e in Inglese, di carta e Kindle…

     

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* Pseudonimo maschile, sì. Si supponeva che il teatro prendesse più sul serio un autore maschio – almeno agli esordi. Singolare come, sotto certi aspetti, gli Anni Trenta fossero ancora Brontë Country, vero?

** Claverhouse, ovvero la vita del pittoresco generale seicentesco John Graham, conosciuto come Bonnie Dundee. Se avete letto Old Mortality di Scott vi sarete imbattuti in lui.

*** Dall’introduzione ai romanzi di Tey pubblicati negli Oscar Mondadori.

**** Nel 1937 uno Hitchcock pre-Hollywood ne trasse (molto liberamente) un film: The girl was young, giunto in Italia come Giovane e innocente.

Ritratto Dell’Artista

E non dico che tutto il mondo sia un teatro affollato di antistratfordiani, ma la sensazione che il povero Will Shakespeare non fosse del tutto qualificato per scrivere ciò che ha scritto dev’essere diffusa – e lo dico sulla base della quantità di Will letterari mostrati mentre non fanno altro che assorbire il loro materiale.

Lo Shakespeare letterario medio, quello che  si trova in un romanzo o a teatro, vive con il taccuino in mano – più o meno metaforicamente – annotando, raccogliendo o rubando ogni spunto che gli passa nel raggio di un miglio.

E non da oggi, se consideriamo Le Voyage de Shakespeare, di Alphonse Daudet, una faccenda a mezza strada tra la storia picaresca e il romanzo di formazione, in cui un giovane Will attraversa l’Europa e tutte quelle esperienze che mancano al figlio del guantaio di Stratford per diventare il Bardo.

In The Dark Lady Of The Sonnets, sconosciutissimo atto unico di G.B. Shaw, la faccenda è più teatrale e più spudorata: il nostro ragazzo incontra sul ponte di Londra la Signora Bruna, un Beefeater e varia altra gente, e per tutto il tempo non fa altro che appuntarsi ogni parola che dicono – irritando tutti da non dirsi.

P. F. Chisholm, che poi è Patricia Finney, nei suoi Carey Mysteries porta occasionalmente in scena un Will di questo genere – solo molto più tecnico e consapevole di quel che fa. A un certo punto Sir Robert Carey racconta del bizzarro piccolo attore della compagnia di suo padre*. Costui, dice Carey, ha l’abitudine di scovare gente di tutte le provenienze (nulla di troppo difficile a Londra) e pagarla un tanto all’ora per ascoltarla parlare o leggere ad alta voce. Per impadronirsi di ritmi, inflessioni e cadenze. He’s odd that way, commenta un perplesso Sir Robert – ma noi capiamo e sorridiamo.

Robert Brustein, in The English Channel, riprende l’idea l’idea di Shaw** con un Will che, in conversazione, continua ad interrompere se stesso e gli altri al grido di “this could be something” ogni volta che riconosce un giro di frase, una possibile trama o un’idea. Dopodiché uno dei suoi interlocutori è Marlowe, che non si diverte particolarmente ad avere la sua conversazione messa in versi – e meno ancora a constatare i piccoli furti di versi del suo ambizioso collega… E se vi chiedete il significato del titolo, ebbene, l’idea è che Shakespeare trasmetta, canalizzi voci e idee del suo tempo – in particolare del defunto Marlowe, il cui fantasma, in una bizzarra cornice di prologo & epilogo, c’informa di aspettarsi che Will continui il suo lavoro.

Ancor più radicale da questo punto di vista è Sarah Hoyt, che in Any Man So Daring ci mostra un prima perplesso e poi terrorizzato Shakespeare che scrive sotto dettatura di Marlowe. Un Marlowe che forse non è proprio morto, ma lo è sotto molti aspetti, e comunque questo è un fantasy piuttosto metaletterario in cui i personaggi fatati del Sogno e della Tempesta prendono vita, sono di grande aiuto e combinano innumerevoli danni, e quindi figuratevi che cosa non può fare un Marlowe tra il defunto e il fatato…

Inutile dire che, in tutto questo, Marlowe invece è sempre perfettamente capace di scrivere da sé, senza un gran bisogno di ascoltare, osservare o prendere a prestito altro che l’occasionale cronaca di Holinshed o atlante di Lonicerus.

Basta vedere certe scene di The Reckoning of Kit and Little Boots di Nat Cassidy, con un vulcanico Marlowe che scrive per tesi e uno Shakespeare a mala pena articolato, ma occupato a raccogliere l’essenza della natura umana. “Stories. People,” spiega in tutto e per tutto Will, accennando con le mani alla folla che lo circonda.

E certo è che, a giudicare dalle sue opere, non si direbbe che quell’egocentrico e ambizioso rimuginatore di Kit Marlowe si sia mai preoccupato soverchiamente di capire o osservare i suoi simili. Non doveva avere un grande interesse per l’aspetto people, quale che fosse la sua passione per le stories. Al punto che in quella bizzarria marloviana che è The Nine Lives of Kit Marlowe, Jay Margrave sente di dover giustificare in qualche modo la nuova umanità del Kit post-1953 – quello che, per intenderci, invece di morire a Deptford sopravvive e scrive l’intero canone scespiriano***. E così, tanto per cominciare, il giovanotto passa abbastanza tempo nascosto, travestito da donna e addestrato a comportarsi come una donna da sviluppare tutta una nuova comprensione per il genere femminile.

Ma eccentricità a parte, bisogna ammettere che stili, maniere e biografie autorizzano questo tipo di caratterizzazione. O forse sto assumendo opinioni bizzarre a mia volta, ma trovo del tutto convincente vedere un Marlowe che essuda e uno Shakespeare che assorbe come una spugna.

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* Carey era il figlio più giovane di Lord Hunsdon, Lord Ciambellano d’Inghilterra e mecenate dei Lord Chamberlain’s Men, la prima compagnia con cui Shakespeare lavorò.

** Direi che mi sono stupita di non trovare Shaw citato tra i precedenti letterari nella prefazione dell’autore – se non fosse che constato quasi quotidianamente la facilità con cui si scrive qualcosa di simile a qualcos’altro – senza averne la più pallida idea. *sospiro*

*** Mai usata in vita mia questa versione italianizzata dell’aggettivo, ma mi sono proposta di fare qualcosa di mai fatto prima almeno una volta al mese, Breakfast-at-Tiffany’s-wise. Ci sono mesi in cui baro un pochino. Scespiriano, scespiriano, scespiriano.

Una Persona Seduta A Scrivere

Jeffrey Sweet offre un sacco di buone ragioni per il fatto che un romanziere difficilmente possa essere un buon protagonista teatrale.

Lo scrittore è, teatralmente parlando, un personaggio statico e passivo, perché il suo mestiere è quello di osservare, elaborare, starsene seduto a scrivere e, nel complesso fare tutto quel che fa d’interessante all’interno della propria testa.

A meno che non uccida qualcuno – o che non risolva delitti* – ma questo è un altro discorso. Nella sua qualità di scrittore, in scena non funziona granché.

Per quanto ciò mi spiaccia in linea di principio, devo ammettere che tutto questo vale anche per i romanzi. Bisogna essere davvero molto in gamba per rendere drammaticamente interessante la scrittura di un libro. Fare della stesura di un romanzo una trama significa avventuarsi su terreno pericoloso, perché una persona seduta a scrivere è… be’, una persona seduta a scrivere. Non precisamente materiale narrativo.

E questo è il motivo per cui, benché ci siano molti libri che hanno scrittori per protagonisti, sono rari quelli in cui la scrittura in sé costituisce la trama principale. Mi viene in mente New Grub Street, in cui parecchi capitoli sono dedicati al più tormentoso attacco di Blocco dello Scrittore che si possa immaginare – tragico addirittura, visto che alla fine Edwin ci lascia persino le penne. È una storia molto triste, ma appunto per renderla pregnante Gissing ha sentito la necessità di farne una faccenda di vita e di morte in senso stretto.

In questo ristretto panorama, i personaggi che scrivono romanzi storici si contano sulle dita di una mano. Un paio di volte. Così, off the top of my head, mi vengono in mente solo due casi, e devo confessare che nessuno dei due mi riempie di gioia.

Uno è Il Manoscritto di Shakespeare, di Domenico Seminerio. Sia chiaro, il libro in sé è tutt’altro che male, ma… Dunque: uno scrittore siciliano si ritrova tra le mani dei documenti cinquecenteschi, il cui succo sembra essere che Shakespeare era in realtà siciliano a sua volta. Scettico fin dapprincipio, il protagonista-narratore si vede commissionare una trattazione romanzesca del materiale** – e qui cominciano i guai. Perché il Nostro, che è un insegnante di lettere in un Liceo, si mette all’opera praticamente senza ulteriori ricerche e armato solamente di qualche libro di storia dell’arte per avere un’idea di abbigliamento e mobilio. Così equipaggiato, dopo varie settimane di lavoro, produce un romanzo storico. Feu! Feu! Feu!

L’altro – e se possibile peggiore – caso è La Storia dell’Assedio di Lisbona, di Saramago. Qui abbiamo uno stimato correttore di bozze che, in un momento di stravaganza, aggiunge un “non” a un saggio di storia medievale, stravolgendo il significato del testo. La casa editrice, invece di richiamarlo, gli commissiona una bella ucronia basata sul suo colpo di testa, ovvero l’ipotesi che, nel 1147, i Crociati si rifiutino di aiutare il Re del Portogallo a riconquistare Lisbona. E anche qui il Nostro si mette all’opera senza nessuna particolare ricerca, viene mostrato mentre s’interroga su come entrare nella mente di gente del Dodicesimo Secolo, poi mentre scrive una scena in cui un armigero e una lavandaia s’incontrano al fiume e, nel giro di non troppo tempo, lo vediamo consegnare un romanzo storico che rende tutti molto felici.

Ecco. In entrambi i casi, confesso di avere letto con estrema irritazione. So che in parte questa irritazione è irragionevole, so che mesi e mesi (o anni) di ricerche e letture non sono nulla che si possa raccontare in un romanzo, so che le complessità di due lunghe stesure non costituiscono buona materia narrativa… Sì, grazie: sono ben consapevole di tutto ciò.

Tuttavia, vedere quello che so essere un processo complicato, affascinante, lungo e occasionalmente tormentoso – nonché un mestiere di precisione, pazienza, curiosità, immaginazione e finezza – ridotto a una rapida compilazione con mezzi di fortuna e motivazione casuale mi irrita nel profondo. Anche perché, diciamocelo: sarebbe stato così difficile dare al professore una laurea in Inglese, o almeno un interesse particolare per il teatro elisabettiano o qualche altro argomento inerente? O fornire il correttore di bozze di un interesse pregresso per la storia medievale? Era proprio necessario implicare che qualsiasi individuo di buona cultura, con o senza esperienza precedente in fatto di narrativa, privo persino di interesse specifico per il genere, possa produrre un romanzo storico pubblicabile in qualche settimana, senza uno straccio di ricerca e senz’altro motivo che una richiesta altrui?

Se leggeste in un romanzo che un orologiaio, da un giorno all’altro e con la minima provocazione, si mette a produrre gioielli, e che imbrocca risultati di qualità professionale al primo colpo – nonostante la mancanza di un briciolo preparazione specifica o di esperienza? O che, dal giorno alla notte, senza addestramento Jedi e senza nemmeno la scusa di un’urgenza improcrastinabile e vitale, un fonditore di campane comincia a forgiare cannoni che funzionano? La considerereste una grossolana e approssimativa improbabilità, giusto?

Appunto.

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* Per fare due esempi che non sono teatrali, ma televisivi, c’importerebbe molto di Castle se, invece di investigare insieme alla sua bella detective, se ne stesse chiuso in casa a scrivere e nient’altro? O anche se, invece di partecipare alla risoluzione dei casi, si limitasse a osservare, quiet and unobtrusive? Se così fosse, la serie si chiamerebbe “Beckett”.

** Stratagemma che, ne abbiamo parlato, è quasi un topos a sé nei paraggi narrativi di qualsiasi teoria controversa o downright balenga.

L’Invasione Degli Ultra-Anacronismi

La mia fede nell’editoria anglosassone sta vacillando un nonnulla. Quando pensavo ai produttori di parallelepipedi over the Channel e Over the Pond, li facevo spudorati e spregiudicati quanto quelli nostrani, ma attenti. Accurati, se capite quel che intendo.

Ma la messe di anacronismi che ho mietuto nel corso dell’ultimo giro di recensioni per HNR mi lascia in una selva di angosciosi dubbi, almeno per quel che riguarda l’Isoletta. La messe copre senza pregiudizi e omissioni molte delle anacronocategorie possibili.

Pensieri: se siamo nel III Secolo a. C., se la narrazione è in terza persona limitata, se si suppone che il punto di vista sia quello di un giovane aristocratico cartaginese, può la Voce Narrante definire una particolare vicenda col medievalissimo termine “ordalia”? Ripetete con me: Bizmillah, no! Mamma mia, mamma mia!

Parole: non sarò certo io a negare che Annibale avesse ogni genere di straordinaria qualità, ma persino nella mia cieca adorazione dubito che fosse un veggente. O un precursore del Vangelo. Per cui, quando definisce il giovane protagonista scomparso e ricomparso un “figliol prodigo”, mi si allappano i denti. Davvero. Idem quando un ufficiale settecentesco parla di “serendipità” vari decenni prima che Horace Walpole nasca, cresca e conii la parola. Anacronismo a parte, poi, ce lo vedete l’ufficiale in questione che parla di “serendipità” con il suo sergente e una vivandiera – e quelli lo capiscono al volo? Ma questo è un peccato di plausibilità, non un anacronismo, per cui stiamo sconfinando. E però lasciatemi anche osservare che un ufficiale di carriera (specialmente uno particolarmente sveglio) non dovrebbe proprio confondere tattica con strategia…

Opere: scrivere un romanzo storico implica il disturbo di farsi un’idea degli usi sociali dell’epoca – e renderli in forma narrativa per il lettore. La gente nel Cinquecento non si presentava a casa della rispettabile giovane vedova conosciuta la sera prima portandole un cesto di frutta; non la conduceva pubblicamente da una sarta per regalarle un vestito nuovo; meno ancora la invitava a cena a casa propria per un tète à tète o la conduceva fuori città in una romantica gita a due. Non faceva nulla di tutto ciò se non intendeva comprometterla – e certo non se aveva intenzione di chiederla in moglie. Se poi la rispettabilità vera o presunta della signora in questione è uno dei cardini della vicenda, trattarne in questo modo disinvolto ottiene un risultato solo: spingere the discerning reader a dimandarsi perché, perché, perché ambientare a metà Cinquecento quella che in definitiva è una storia contemporanea…

Omissioni – as in “omissioni di ricerca”. Perché, nella Napoli del 1564, far mangiare ai protagonisti pomodori a tutti pasti e mettere il calico sugli scaffali dei mercanti di stoffe, quando entrambi non sono documentati nell’Italia meridionale prima del tardo Seicento? E perché mettere in mano a uno scriba del III Secolo a. C. una penna d’oca – svariati secoli prima che l’arnese venga in uso? Anche ammesso di non saperlo, non sono particolari difficili da scoprire…

L’unica cosa che manca (o quanto meno è largamente evitata) è il peccato mortale: quel genere di travesty in cui i personaggi che pensano period sono tutti malvagi e osteggiano l’eroina “appassionata e anticonvenzionale” e, in generale, tutti i buoni che pensano, agiscono e sentono come gente dei giorni nostri*. E questo è già qualcosa, ma non abbastanza. Bisognerebbe che gli autori fossero più attenti – anche se Clio sa che l’anacronismo è una bestiaccia subdola e facile a sfuggire. E però non c’è romanzo storico che non si concluda con una o più pagine di Acknowledgements, in cui l’autore ringrazia legioni di amici, altri scrittori, agnati e cognati, agenti letterari, editor, vecchi professori di storia, esperti, archivisti, bibliotecari e storici di varia natura – tutta gente che “ha letto il libro con lusinghiero entusiasmo e offerto preziose osservazioni.” Possibile che mai nessuno in questo diluvio di gente qualificata in vari gradi e a vari livelli, faccia caso al figliol prodigo o alla penna d’oca? 

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* In realtà questa è una specialità più diffusa al di fuori del mondo anglosassone – ma non sconosciuta over the Channel & over the Pond. Purtroppo l’idiozia da politically correct è un morbo che non conosce confini.

Serendipità Storica

assedio di costantinopoli, mehmed secondo, romanzi storici, diana gabaldonÈ successo di nuovo.

Vi ricordate del mio romanzo/due romanzi/trilogia sull’assedio di Costantinopoli, eterno work in progress? E vi ricordate del mercante d’olio?

Ebbene ieri sera, nel corso di una di quelle campagne notturne a caccia di informazioni oscure, mi è capitato sotto il mouse un articolo di una rivista americana a proposito di Ciriaco da Ancona. Ora, Ciriaco da Ancona era un erudito quattrocentesco, forse precettore del sultano Mehmed e forse no, ma quello che mi ha dato la pelle d’oca è stato trovare, in una nota all’articolo, un riferimento a un segretario greco, al servizio di Mehmed durante l’assedio, di nome Dimitrios Apocaucos Kiritzis. 

Perché il fatto è che la mia prima stesura contiene un segretario greco di nome Demetrios – solo che di Kiritzis non sapevo nulla. A quanto pare è una figura molto oscura, citata in un paio di fonti di scoperta relativamente recente, e non se ne parla in nessuno dei miei autori di riferimento. Il mio Demetrios era del tutto fittizio – o così credevo.

Per cui sì, è remotamente possibile che ne abbia letto di sfuggita in qualche tomo di storia ottomana o bizantina. E poi invece è possibile che sia successo di nuovo quello che Diana Gabaldon chiama historical serendipity, ovvero particolari fittizi che, ex post facto, si rivelano non solo plausibili, ma, in qualche misteriosa maniera, veri.

E se è così, è la seconda volta che succede. E se è la seconda volta che succede, si direbbe che questo libro voglia proprio essere scritto. E se questo libro vuole proprio essere scritto, chi sono io per ignorare tutti questi segni del destino?

E sì, lo so: mi sto incartando in discorsi dalle allarmanti sfumature new age… è che non capita tutti i giorni questa gradevole sensazione di essere sulla giusta strada. Non capita spesso che la storia dia di queste strizzatine d’occhio. Non capita spesso di incappare in serendipità siffatte. Lasciate che mi ci crogioli un po’.

 

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