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Apr 27, 2016 - romanzo storico, Storia&storie, teatro    Commenti disabilitati su A War By Any Other Name

A War By Any Other Name

rosa bianca,york,guerra delle due rose,riccardo iii, shakespeare, sir walter scottPerché, sappiatelo, a nessuno, durante la Guerra delle Due Rose saltò mai in mente di chiamarla “Guerra delle Due Rose”. Asimov*, nella sua Guide to Shakespeare, racconta che gli yorkisti adottarono la rosa bianca a qualche punto della guerra, ma non è che la usassero poi troppo. Per dire, a Bosworth combatterono sotto le insegne personali di Riccardo III, il cinghiale bianco. Quanto ai lancastriani, non c’è nessuna prova che usassero davvero la rosa rossa, anche se è vero che, a guerra finita, Enrico VII vittorioso adottò per emblema la cosiddetta rosa Tudor: una rosa rossa che ne contiene una bianca. rosa bianca,york,guerra delle due rose,riccardo iii, shakespeare, sir walter scott

E allora? E allora passiamo avanti di un secoletto: enter William Shakespeare. Il giovane Will è agli esordi – un attorucolo con un raccapricciante accento dello Warwickshire e delle ambizioni letterarie. Però, pur essendo un provincialotto ineducato, di istinto teatrale ne ha a bizzeffe, e una cosa gli è subito chiara: se c’è un genere che i Londinesi divorano con inesausto appetito, sono le tragedie a sfondo storico. E dunque guardate il nostro giovanotto che si lancia e – forse con la collaborazione di altri, tra cui il ben più celebre coetaneo Kit rosa bianca,york,guerra delle due rose,riccardo iii, shakespeare, sir walter scottMarlowe – scodella le due parti di Henry VI, in cui si drammatizza la guerra civile tra York e Lancaster. E nella I parte c’è questa bellissima scena ambientata in un giardino, in cui cavalieri e baroni e un avvocato fanno una curiosa dichiarazione di lealtà all’una o all’altra parte, scegliendo dai cespugli rose di diverso colore: bianche per gli yorkisti e rosse per i lancastriani. La scena è favolosa, splendidamente congegnata, efficacissima tra le mani di un buon regista – da un punto di vista tanto drammatico quanto visivo. È anche del tutto fittizia – ma per fortuna, come dice Jeffrey Sweet, “Shakespeare non era tipo da lasciare che qualche meschino fatto storico intralciasse i meccanismi del buon teatro.”**

rosa bianca,york,guerra delle due rose,riccardo iii, shakespeare, sir walter scottE comunque di Guerra delle Due Rose nessuno fa motto – né nel giardino né più tardi – ma avanziamo ancora di due secoli e mezzo, fino a trovare un altro autore che ha modellato profondamente la concezione del Medio Evo per i suoi contemporanei e per le generazioni future fino a noi – Sir Walter Scott. Ora, Anne of Geierstein, storiellona magico-cavalleresca ambientata in Svizzera of all places, non è quel che si dice il suo romanzo migliore, ma la presa di Sir Walter sull’immaginazione pubblica è forte: quando, senz’altra base che la scena shakespeariana, i suoi protagonisti inglesi descrivono la guerra civile che li ha costretti all’esilio come Guerra delle Due Rose, l’espressione piace, mette radici tra i lettori di romanzi, poi tra gli studiosi, e infine scivola nei libri di storia, dove prospera ancora. Così come l’immagine scottiana dei Templari corrotti e crudeli. Così come il Riccardo III gobbo e malvagissimo di Shakespeare…

rosa bianca,york,guerra delle due rose,riccardo iii, shakespeare, sir walter scottChe significa tutto ciò? Che la letteratura ha molta parte nel costruire il modo in cui si guarda alla storia. Che, in linea generale, le parole usate con cognizione di causa hanno, se non più forza dei fatti, la capacità di colorare, modificare, condizionare la percezione dei fatti stessi. Che una certezza costruita a teatro e un reputazione distrutta in un romanzo sono molto, molto difficili da riscattare, a dispetto di secoli di seri sforzi accademici. Che il Vecchio Testamento non aveva tutti i torti: saper coniare buoni nomi (e buoni slogan) è un metodo sorprendentemente efficace per plasmare la realtà***.

rosa bianca,york,guerra delle due rose,riccardo iii, shakespeare, sir walter scottalla fin fine è sempre interessante e un po’ terrificante tenere bene in vista il fatto  che, come dice di nuovo Sweet, “tra arte e fatti, l’arte, essendo più vivida, tende a prevalere”.

 

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* Lo sapevate che Isaac dio-della-fantascienza Asimov ha scritto anche un sacco di saggistica? Io l’ho scoperto da poco. Guide to Shakespeare conta ottocento pagine più apparato – due bei tomoni. E’ poco popolare perché “i fan della fantascienza non sanno che fare di questo genere di libri-fermaporte, e gli specialisti non sono mai troppo felici di vedere un outsider in gamba che sconfina nel loro territorio”. (The Tragedy of Isaac Asimov). Qualora foste molto curiosi – e qualora foste disposti a leggervela tutta in Inglese – trovate qualcosa qui: Asimov’s Guide To Shakespeare

** E, detto tra noi, era anche ansioso d’inserirsi nella macchina della propaganda Tudor – il genere di ansia che ti porta ad essere men che scrupoloso con i fatti e le fonti. Riccardo il Gobbo, anyone?

*** O quanto meno, la percezione umana della realtà, il che, si potrebbe azzardare, non è molto distante dall’essere lo stesso, sulla lunga distanza.

Una Persona Seduta A Scrivere

Jeffrey Sweet offre un sacco di buone ragioni per il fatto che un romanziere difficilmente possa essere un buon protagonista teatrale.

Lo scrittore è, teatralmente parlando, un personaggio statico e passivo, perché il suo mestiere è quello di osservare, elaborare, starsene seduto a scrivere e, nel complesso fare tutto quel che fa d’interessante all’interno della propria testa.

A meno che non uccida qualcuno – o che non risolva delitti* – ma questo è un altro discorso. Nella sua qualità di scrittore, in scena non funziona granché.

Per quanto ciò mi spiaccia in linea di principio, devo ammettere che tutto questo vale anche per i romanzi. Bisogna essere davvero molto in gamba per rendere drammaticamente interessante la scrittura di un libro. Fare della stesura di un romanzo una trama significa avventuarsi su terreno pericoloso, perché una persona seduta a scrivere è… be’, una persona seduta a scrivere. Non precisamente materiale narrativo.

E questo è il motivo per cui, benché ci siano molti libri che hanno scrittori per protagonisti, sono rari quelli in cui la scrittura in sé costituisce la trama principale. Mi viene in mente New Grub Street, in cui parecchi capitoli sono dedicati al più tormentoso attacco di Blocco dello Scrittore che si possa immaginare – tragico addirittura, visto che alla fine Edwin ci lascia persino le penne. È una storia molto triste, ma appunto per renderla pregnante Gissing ha sentito la necessità di farne una faccenda di vita e di morte in senso stretto.

In questo ristretto panorama, i personaggi che scrivono romanzi storici si contano sulle dita di una mano. Un paio di volte. Così, off the top of my head, mi vengono in mente solo due casi, e devo confessare che nessuno dei due mi riempie di gioia.

Uno è Il Manoscritto di Shakespeare, di Domenico Seminerio. Sia chiaro, il libro in sé è tutt’altro che male, ma… Dunque: uno scrittore siciliano si ritrova tra le mani dei documenti cinquecenteschi, il cui succo sembra essere che Shakespeare era in realtà siciliano a sua volta. Scettico fin dapprincipio, il protagonista-narratore si vede commissionare una trattazione romanzesca del materiale** – e qui cominciano i guai. Perché il Nostro, che è un insegnante di lettere in un Liceo, si mette all’opera praticamente senza ulteriori ricerche e armato solamente di qualche libro di storia dell’arte per avere un’idea di abbigliamento e mobilio. Così equipaggiato, dopo varie settimane di lavoro, produce un romanzo storico. Feu! Feu! Feu!

L’altro – e se possibile peggiore – caso è La Storia dell’Assedio di Lisbona, di Saramago. Qui abbiamo uno stimato correttore di bozze che, in un momento di stravaganza, aggiunge un “non” a un saggio di storia medievale, stravolgendo il significato del testo. La casa editrice, invece di richiamarlo, gli commissiona una bella ucronia basata sul suo colpo di testa, ovvero l’ipotesi che, nel 1147, i Crociati si rifiutino di aiutare il Re del Portogallo a riconquistare Lisbona. E anche qui il Nostro si mette all’opera senza nessuna particolare ricerca, viene mostrato mentre s’interroga su come entrare nella mente di gente del Dodicesimo Secolo, poi mentre scrive una scena in cui un armigero e una lavandaia s’incontrano al fiume e, nel giro di non troppo tempo, lo vediamo consegnare un romanzo storico che rende tutti molto felici.

Ecco. In entrambi i casi, confesso di avere letto con estrema irritazione. So che in parte questa irritazione è irragionevole, so che mesi e mesi (o anni) di ricerche e letture non sono nulla che si possa raccontare in un romanzo, so che le complessità di due lunghe stesure non costituiscono buona materia narrativa… Sì, grazie: sono ben consapevole di tutto ciò.

Tuttavia, vedere quello che so essere un processo complicato, affascinante, lungo e occasionalmente tormentoso – nonché un mestiere di precisione, pazienza, curiosità, immaginazione e finezza – ridotto a una rapida compilazione con mezzi di fortuna e motivazione casuale mi irrita nel profondo. Anche perché, diciamocelo: sarebbe stato così difficile dare al professore una laurea in Inglese, o almeno un interesse particolare per il teatro elisabettiano o qualche altro argomento inerente? O fornire il correttore di bozze di un interesse pregresso per la storia medievale? Era proprio necessario implicare che qualsiasi individuo di buona cultura, con o senza esperienza precedente in fatto di narrativa, privo persino di interesse specifico per il genere, possa produrre un romanzo storico pubblicabile in qualche settimana, senza uno straccio di ricerca e senz’altro motivo che una richiesta altrui?

Se leggeste in un romanzo che un orologiaio, da un giorno all’altro e con la minima provocazione, si mette a produrre gioielli, e che imbrocca risultati di qualità professionale al primo colpo – nonostante la mancanza di un briciolo preparazione specifica o di esperienza? O che, dal giorno alla notte, senza addestramento Jedi e senza nemmeno la scusa di un’urgenza improcrastinabile e vitale, un fonditore di campane comincia a forgiare cannoni che funzionano? La considerereste una grossolana e approssimativa improbabilità, giusto?

Appunto.

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* Per fare due esempi che non sono teatrali, ma televisivi, c’importerebbe molto di Castle se, invece di investigare insieme alla sua bella detective, se ne stesse chiuso in casa a scrivere e nient’altro? O anche se, invece di partecipare alla risoluzione dei casi, si limitasse a osservare, quiet and unobtrusive? Se così fosse, la serie si chiamerebbe “Beckett”.

** Stratagemma che, ne abbiamo parlato, è quasi un topos a sé nei paraggi narrativi di qualsiasi teoria controversa o downright balenga.

Nov 6, 2011 - cinema    Commenti disabilitati su Brigadoon (Con Crudele Disvelamento Di Finale)

Brigadoon (Con Crudele Disvelamento Di Finale)

Quel che dice il titolo. Se non volete spoiler, guardate il video senza leggere il testo…

Jeffrey Sweet – che ultimamente nomino parecchio – dice che i musical tradizionali (pensate a Broadway o West End)  ricadono in due varianti e mezzo di una tipologia sola: c’è una comunità (coro) e c’è un individuo in contrasto con la comunità (solista). E infatti per definizione il solista canta musica diversa da quella del coro, giusto?

Ebbene, le cose possono andare in tre modi: l’individuo si (ri)concilia con la comunità per il vicendevole beneficio, oppure l’individuo muore nell’affermazioneb (o per causa) della sua diversità, oppure le due cose accadono a individui diversi.

The Company, di Stephen Sondheim, appartiene alla prima categoria: Bob alla fine trova l’amore, per la generale soddisfazione dei suoi amici; Il Fantasma dell’Opera, Sweeney Todd e West Side Story sono tre esempi della seconda varietà, in cui i solisti non fanno una bella fine; Brigadoon cade in between, con l’outsider Tommy assorbito dalla comunità, e l’insoddisfatto Harry che la prende nelle costole mentre tenta di tagliare l’angolo…

Questo è il trailer della versione cinematografica, quella celebre del 1954 con Gene Kelly e Cyd Charisse:

Posso confessare di avere sempre avuto simpatia per il povero Harry Beaton? Oltretutto, il film si discosta dal musical quel tanto che serve per fargli fare una fine rimarchevolmente stupida: invece di precipitare da una roccia, viene scambiato per una pernice – povero Harry!

Oh well… buona domenica!

Ott 28, 2011 - Oggi Tecnica    3 Comments

Trascrivi… Ed Essi Verranno

“Essi” nel senso di “personaggi con una voce propria.”

Nel corso di un seminario sul dialogo narrativo, Elizabeth Sims consigliava di sedersi in luoghi pubblici e ascoltare la gente che parla. E di trascrivere, magari.

“Io lo faccio spesso,” dice. “Mi siedo da solo in qualche Starbucks affollato, fingo di lavorare e in realtà ascolto e annoto. Ho trovato delle gemme, in questa maniera…”

E badate che non si riferisce a gemme di storie, ma gemme di usi colloquiali, espressioni, giri di frase e cose del genere. Il tipo di gemme che, opportunamente lucidate e incastonate nel posto giusto, servono a dare a un personaggio una “voce” individuale e credibile.

Qualcosa del genere consiglia anche Jeffrey Sweet in fatto di teatro: “Non potrò mai raccomandare abbastanza l’utilità di registrare conversazioni e trascriverle.”*

Perché entrambi cominciano col raccomandare di leggere trascrizioni: libri di storia orale, raccolte di interviste, trascrizioni di processi e tutto quello su cui si possono mettere le mani – e non so bene che cosa e quanto si trovi in giro in Italiano. Oddìo, tutte le trascrizioni giudiziarie che si possono volere e anche molte di più, apparentemente, ma pensavo alla storia orale e alle interviste senza interventi cosmetici…

Tolto questo, e al di sopra e al di là, però, Sims e Sweet cantano separatamente le lodi dell’ascoltare conversazione spontanea e trascriverla. Sweet propone un’alternativa per la gente che, come la sottoscritta, è un po’ terrorizzata dall’idea di farsi beccare a trascrivere la conversazione altrui: registrare un talk show e – you guess it – trascriverlo. L’idea di base è, suppongo, che in un talk show non si parli in modo particolarmente sorvegliato… ed è quello che si vuole: conversazione per quanto possibile spontanea**, in cui la gente s’interrompe, usa intercalari, ellissi, sgrammaticature, espressioni peculiari, digressioni.

E, dice Sweet, sarà particolarmente istruttivo notare la scarsità di aggettivi ed avverbi che si usano davvero in conversazione. Gli aggettivi che Twain consiglia di sterminare. Gli avverbi che secondo King lastricano la strada per l’inferno… Questo è un esperimento interessante: ascoltatevi e ascoltate altra gente, e vedrete che parlando si usano altri mezzi per far passare intenzioni, sfumature e colori – tutta la roba che, in un romanzo (e nel teatro di autori inesperti), viene affidata alle bestioline infestanti.

Sweet dice addirittura che l’attore americano medio, quando trova un aggettivo altisonante o un avverbio decorativo, ingrana un riflesso automatico e inserisce un’impercettibile esitazione. Come se il personaggio stesse cercando l’aggettivo o l’avverbio in questione. Affascinante teoria – e istruttiva.

Badate: con questo nessuno vuol dire che si possa ascoltare la conversazione dei vicini di tavolo e piazzarla così com’è in una pagina scritta. Il buon dialogo narrativo (e teatrale), si sa, è pesce già sfilettato: solo le parti buone, accuratamente ripulite da tutto ciò che è innecessario o non significativo.

Jon Dorf propone una versione “per sottrazione” dell’esercizio: ascoltare una conversazione*** e badare tutti gli “Er…” e “Ah,” tutte le ripetizioni, tutte le frasi non terminate, tutto ciò che non aggiunge nulla alla conversazione. E tutti sappiamo che, scrivendo, ogni parola deve servire ad almeno una di due cose: avanzare la trama e/o caratterizzare il personaggio.

E quindi? E quindi la sfida consiste nel bilanciare tra essenzialità dell’informazione e individualità della voce, e il segreto potrebbe risiedere proprio in quei patterns of speech, quelle costruzioni peculiari, quei modi d’interrompersi a vicenda o di implicare strati di conoscenza in comune – quelle gemme che Sims raccoglie da Starbucks.

Insomma, ecco un gioco: ascoltare, annotare, trascrivere. Perché in fondo in scrittura, come in alchimia, nihil ex nihilo fit. Le voci ci sono già, basta catturarle, sfilettarle e combinarle per la bisogna dei personaggi e delle storie.

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* Da The Dramatist’s Toolkit – trad. mia.

** Col che non intendo dire che ci sia alcunché di spontaneo in un talk show dal punto di vista del contenuto, ma la forma dovrebbe essere uncensored e brada quanto basta. E poi non lo so per certo, perché parlo da platanicola poco meglio che ignara. dubito di avere mai davvero guardato un TS per più di un paio di minuti…

*** “La prossima volta che uscite con gli amici, passate un po’ di tempo ad ascoltare davvero, senza dire nulla, e prendete mentalmente nota…” Oh sì, fatelo: è un po’ meno imbarazzante che farsi sorprendere con un taccuino o un registratore, ma è il genere di cose che vi fa considerare distratti e inclini ad attacchi di vaghezza. Then again, i vostri amici non ci faranno caso, perché vi considerano già così. In fondo siete scrittori – vale a dire gente un pochino strana.

Ago 12, 2011 - scrittura, teatro, teorie    6 Comments

Romanzieri A Teatro

Secondo Jeffrey Sweet, i romanzieri a teatro costituiscono una popolazione maldestra e grigiolina – sia come autori che come personaggi.

Non posso dire che la cosa mi abbia colmata di gioia, perché da un lato sono davvero entusiasta delle altre teorie di Sweet, e dall’altro gli argomenti che adduce in proposito sono quanto meno sensati, e in tutta probabilità validi.

Per quanto riguarda la transizione dal romanzo alla scena, Sweet osserva che il romanziere medio, abituato ad avere la parola come unità di base del suo lavoro, fatica ad abituarsi all’idea di dover lavorare su un atomo diverso: l’attore. Un testo teatrale, dice, non è alta letteratura e/o brillante uso della lingua: è un programma di occasioni studiate per consentire all’attore di creare comportamenti atti a catturare l’attenzione e la simpatia del pubblico. Ma il romanziere (o, se è per questo il poeta) medio, abituato ad affidare tutto il suo significato alla parola, fatica a imparare il diverso meccanismo secondo cui il suo significato farà bene ad emergere attraverso il comportamento dell’attore piuttosto che a monologhi in prosa fiorita.

E a dire il vero, il problema sembra affliggere anche lo scrittore più che medio.

Sapevate che Henry James fra il 1894 e il 1895 tentò di dedicarsi al teatro? Non era ancora il romanziere che tutti ammiriamo, ma possedeva già una rispettabile fama di saggista quando scrisse le sue quattro commedie & un dramma. Non di meno, le quattro commedie, che scrisse “leggere” per incontrare quello che credeva fosse il gusto del pubblico londinese, non trovarono un’anima disposta a metterle in scena. Le pubblicò a sue spese in due volumi, ciascuno corredato di una prefazione che, diciamocelo, è di gran lunga migliore delle commedie stesse. Il dramma, Guy Domville, trovò un incauto produttore, debuttò, fu sonoramente fischiato, sopravvisse per cinque settimane e cadde nell’oblio. Dopodiché James decise solennemente di dedicarsi solo alla narrativa – e tutti ne siamo molto felici. Perché il fatto è che, pur teoricamente consapevole delle necessità e convenzioni del teatro, James non sapeva applicarle, mettendo in scena incidenti inadatti o cercando invano di vivacizzarli facendo entrare e uscire i suoi personaggi da un’infinità di porte.

E che dire poi di Foscolo? Foscolo era il poeta che sappiamo, ma quando tentava la via delle scene diventava disastrosamente prolisso e rigido. A differenza di James, Foscolo didn’t give a button per le necessità di attori e impresari, e si ostinava a considerare soltanto la struttura della tragedia classica e il proprio gusto. Risultato, non so se abbiate mai provato a leggere qualcosa come l’Ajace (quello dei Salamini!) o la Ricciarda: gente che entra in scena e si abbandona a quarti d’ora di paludato soliloquio, rimugina, impreca, maledice, si strugge e non fa mai nulla. Ogni tanto qualcuno riferisce qualcosa che è successo, altri esclamano e si torcono le mani e poi giù altri soliloqui… Statico, statico, tre volte statico – e altrettanto unsuccessful. Capite perché gli impresari nominassero l’Ugo nazionale facendo gli scongiuri?

E per una volta non è questione di essere ossessionati dalla fabula: per sua natura, il teatro non dà accesso al paesaggio interiore dei personaggi e al sottotesto se non attraverso il modo in cui i personaggi dicono ciò che dicono. Ora, il playwright può fare due cose distinte in proposito: può lasciare che Cappuccetto Rosso venga in scena e racconti diffusamente al cielo stellato che non ne può più di vivere sotto la campana di vetro delle paranoie di sua madre, oppure può mostrarcela mentre ascolta appena le raccomandazioni della mamma, e quasi le strappa le ciambelle di mano per metterle nel cesto, ansiosa com’è di una giornata di libertà nel bosco… Tolta l’opera lirica e tolto il musical — che funzionano un po’ diversamente — indovinate quale metodo funziona meglio in scena?

Per contro, dice Sweet, c’è altra gente molto adatta alla drammaturgia, perché possiede già la giusta forma mentis: i giornalisti, perché sono abituati a selezionare i dettagli rilevanti di una storia e riportarli con più immediatezza che dettagliate distinzioni psicologiche; e gli attori, perché hanno acquisito la loro formazione creando il comportamente che serve a mostrare il significato del testo — e verificandone di prima mano l’efficacia. E in effetti Dumas Père era forse più giornalista che romanziere quando scrisse i suoi vividi, pittoreschi e immensamente applauditi drammi storici. Si potrebbe dire che siano i suoi romanzi ad avere una notevole dose di teatralità.

On the other hand, Dickens, con un percorso molto simile, e con una indefessa passione per il teatro, con i suoi drammi ottenne un successo piuttosto limitato.

A titolo di parziale consolazione, Sweet conclude che in realtà non c’è nessuna legge di natura per cui un romanziere non possa diventare un buon autore teatrale — a patto che si renda conto di dover imparare a camminare di nuovo, secondo tutt’altri principi. Dove invece resta drastico è sul fatto che, sappiatelo o Fellow Writers, gli scrittori sono pessimi protagonisti a teatro.

Anche qui, la  spiegazione è sensata: che cosa caratterizza uno scrittore? Il fatto di scrivere — ciò che avviene in solitarie e statiche sessioni notturne — e il fatto di osservare (e vampirizzare) l’umana natura — ciò che avviene per lo più nella testa dello scrittore stesso. Entrambi sono affascinanti processi, molto interessanti a leggersi in dettaglio all’interno di un romanzo, ma pressoché impossibili da rendere scenicamente. Provate a pensare a Stingo nell’adattamento teatrale di Sophie’s Choice, o alle varie incarnazioni di Christopher Isherwood nelle diverse versioni teatrali e cinematografiche di Cabaret, e troverete personaggi statici e persino un po’ passivi, gente che osserva invece di muovere dinamicamente il plot.

E qui, onestamente, c’è poco da fare, perché nessuna quantità d’impegno riuscirà a rendere i conflitti intrinseci della scrittura scenicamente utili — se non forse in veste allegorica, il che mi sembra una strada tanto datata quanto rischiosa da intraprendere.

La morale ad uso del romanziere che aspira a scrivere per le scene, stando a Jeffrey Sweet, è duplice: costui/costei farà bene a disporsi a imparare daccapo e, già che c’è, a scegliersi un protagonista che non sia uno scrittore e basta.

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Se siete interessati alla meccanica dei testi teatrali – e ancora di più se ne scrivete, potreste far di peggio che leggere il libro di Sweet. C’è solo in Inglese, ma credetemi: vale assolutamente lo sforzo:

 

E se invece foste curiosi di sapere perché il teatro di James non ha funzionato… be’: