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Mar 7, 2016 - libri, libri e libri    8 Comments

Il Mostro Multicipite

Crowd1La folla è una di quelle cose che supplicano di essere scritte. Trovatemi il romanzo storico che, prima o poi, spesso in qualche momento altamente climatico, non se ne esca con una bella scena di folla in tumulto. D’altra parte, le folle si prestano bene alla bisogna: le folle rumoreggiano, ruggiscono, s’infuriano con facilità, osannano, si fanno trascinare, sbandano sotto la paura, si sollevano, fanno un gran chiasso, festeggiano, assaltano, distruggono, incendiano, portano in trionfo, calpestano, linciano… È come avere un elemento naturale, però senziente (almeno in parte), e con una psicologia tutta sua. Ammettiamolo: una tentazione irresistibile. Per non parlare poi delle battaglie, perché cos’è in definitiva una battaglia, se non folle organizzate in armi che si muovono per nuocersi vicendevolmente?

Ma sorvoliamo su tattica e strategia, per il momento, e concentriamoci piuttosto sulle folle in furia disordinata, i tumulti di piazza, le sollevazioni, i tafferugli.

Francamente, D’Annunzio non è il mio autore preferito, e credo anzi che sia un’eresia grossa se dico che tra i suoi lavori la mia predilezione va alle Novelle della Pescara. In una delle Novelle, La Morte del Duca d’Ofena, la folla assalta il palazzo di un feudatario molto odiato.

“La moltitudine […] irrompeva su per l’ampia salita, urlando e scotendo nell’aria armi ed arnesi, con una tal furia concorde che non pareva un adunamento di singoli uomini ma la coerenta massa d’una qualche cieca materia sospinta da una irresistibile forza. In pochi minuti fu sotto al palazzo, si allungè intorno come un gran serpente di molte spire, e chiuse in un denso cerchio tutto l’edifizio. Taluni dei ribelli portavano alti fasci di canne accesi, come fiaccole, che gittavano su i volti una luce mobile e rossastra, schizzavano faville e schegge ardenti, mettevano un crepitìo sonoro. […] “

Per la gente del palazzo non si mette bene. Il maggiordomo del duca si affaccia al balcone e…

“Un urlo immenso l’accolse. Cinque, dieci, venti fasci di canne ardenti vennero lì sotto a radunarsi. Il chiarore illuminava i volti animati dalla bramosia della strage, l’acciaro degli schioppi, i ferri delle scuri. I portatori di fiaccole avevano tutta la faccia cospersa di farina, per difendersi dalle faville; e tra quel bianco i loro occhi sanguigni brillavano singolarmente. Il fumo nero saliva nell’aria, disperdendosi rapido. Tutte le fiamme si allungavano da una banda, spinte dal vento, sibilanti, come capellature infernali.”

La folla si muove come una forza cieca, come un serpente, e gli occhi luccicanti nelle facce infarinate hanno poco di umano. Tra il duca dissoluto e tirannico e la folla animalesca, l’autore non distribuisce simpatie: registra i colori, le luci, le urla e la paura, e ce li mette davanti agli occhi, vivi e paurosi.Crowd32

Passiamo altrove e in altri tempi: la Milano secentesca di Manzoni, con la folla che assalta la casa del Vicario alle Provvigioni e cerca di abbattere la porta.

“Chi con ciottoli picchiava su’ chiodi della serratura, per isconficcarla; altri, con pali, e scarpelli e martelli, cercavano di lavorar più in regola; altri poi, con pietre, con coltelli spuntati, con chiodi, con bastoni, con l’unghie, non avendo altro, scalcinavano e sgretolavano il muro, e s’ingegnavano di levare i mattoni, e fare una breccia. Quelli che non potevano aiutare, facevan coraggio con gli urli; ma nello stesso tempo, con lo star lì a pigiare, impicciavan di più il lavoro già impicciato dalla gara disordinata dei lavoranti”

Espressivo e pittoresco, assai meno viscerale di D’Annunzio. A Manzoni non importa mostrarci la folla malvagia e pericolosa. Ce la descrive, invece, la analizza, descrivendone gli estremi, i rimestatori e i pacieri, e la massa che si fa manovrare:

“Chi forma poi la massa, e quasi il materiale del tumulto, è un miscuglio accidentale d’uomini che più o meno, per gradazioni indefinite, tengono dell’uno o dell’altro estremo: un po’ riscaldati, un po’ furbi, un po’ inclinati a una certa giustizia, come l’intendon loro, un po’ vogliosi di vederne qualcheduna grossa, pronti alla ferocia e alla misericordia, a detestare e d adprare, secondo che si presenti l’occasione di provar con pienezza l’uno o l’altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, d’applaudire a qualcheduno o d’urlargli dietro. Viva e moia, son le parole che mandan fuori più volentieri; e chi è riuscito a persuaderli che un tale non meriti d’essere squartato, non ha bisogno di spender più parole per convincerli che sia degno d’esser portato in trionfo”.

Vivido e acuto, ma distaccato, e sempre lievemente ironico, Manzoni è pur sempre il nipote degl’Illuministi.

Crowd33Infine, passiamo la Manica per uno dei due soli romanzi storici di Dickens, il poco noto Barnaby Rudge. Barnaby è un semplice che, nel 1780, si trova suo malgrado coinvolto in una sollevazione anticattolica nelle strade di Londra. Ecco quello che Gashford, uno dei malvagi, vede da una finestra:

“Avevano delle torce accese, e si distinguevano bene i volti dei capi. Che venissero dall’aver distrutto qualche edificio era chiaro, e che si fosse trattato di un luogo di culto cattolico si capiva dalle spoglie che portavano a mo’ di trofei, facilmente riconoscibili per abiti talari e ricchi arredi d’altare in pezzi. Coperti di fuliggine, e sudiciume, e polvere e  calce, con gli abiti a brandelli e i capelli scarmigliati, con le mani e i volti insanguinati per i graffi dei chiodi arrugginiti, Barnaby, Hugh e Dennis venivano per primi, con l’aria di pazzi furiosi. Li seguiva una folla densa e furibonda, di gente che cantava e dava urla trionfanti, e rompeva in liti, e minacciava gli spettatori ai lati della strada, e brandiva gran pezzi di legno, su cui scatenava la sua rabbia come se fossero stati vivi, facendoli a brani e gettandoli per aria, gente ebbra, dimentica delle ferite ricevute nel crollo di mattoni, pietre e travi, che portava a braccia, su una porta divelta, un corpo avvolto in un panno tarlato, forma inerte e spaventosa.  Così turbinava la folla: una visione di facce rozze, macchiata qua e là dalla vampa fumosa di una torcia, un incubo di teste diaboliche e occhi feroci, e bastoni e spranghe levate in aria e roteate, uno spaventoso orrore di cui si vedeva così tanto eppure così poco, che pareva breve e interminabile al tempo stesso, così fitto di visioni spettrali, ciascuna incancellabile dalla mente, e tutte insieme impossibili da cogliere a una sola occhiata – così turbinava la folla, e in un istante passò oltre.”

Dickens fa qualcosa di diverso ancora: parte da una descrizione fisica e dettagliata, in cui si riconoscono persone e oggetti, per poi scioglierla gradualmente in una visione da incubo, immagini confuse e spaventose, di durata e consistenza oniricamente incerte.

Insomma: tre autori, tre libri, tre folle impegnate allo stesso modo, ma molto diverse tra loro e, soprattutto, tre sguardi ben distinti. Non viene voglia di provare?

Scusatemi Se Da Sol Mi Presento

jeff vandermeer, prologhi, shakespeare, marlowe, shaw, dickens, manzoni,  Magari l’avrete letto in qualcuno di quegli articoli o post del genere “dieci cose che gli editor non sopportano”, o “dodici modi sicuri per farsi respingere un manoscritto”…

A suo tempo, credo di averne fatto uno anch’io, ma adesso non ho tempo di andarlo a cercare.

Anyway, se avete letto anche solo una lista del genere, odds are che ci abbiate trovato il Prologo.

E sapete che cosa vi dico, tanto da editor quanto da lettrice?

Che è proprio vero: di prologhi non se ne può più.

Che poi, sia chiaro, il Prologo in sé non ha nulla di male. Espediente narrativo mutuato dal teatro*, in base al quale un piccolo non-capitolo introduce atmosfera, precedenti, informazioni che verranno buone poi, chiarimenti dell’autore, esche… cose così.

E mi viene subito in mente una manciatina di prologhi teatrali che adoro –  lo shakespeariano O for a muse of fire dell’Enrico V, oppure l’orgogliosa rivendicazione del Tamerlano senza burle di Marlowe, o le  meditazioni di Shaw in fatto di storia prima di Cesare e Cleopatra…

Quanto a prologhi narrativi… scommetto che non vi stupirete se cito Dickens: it was the best of times, it was the worst of times… E lo scartafaccio secentesco dei Promessi Sposi. O la brevissima, folgorande invocazione agli spiriti che apre Entered from the sun. E, a dire il vero, poco di più.

Perché il fatto è che non è comunissimo trovare un prologo che faccia quel che deve fare: afferrare il lettore per la collottola e trascinarlo dentro la storia – possibilmente con una manciata di domande in tasca. E ciò benché i prologhi siano tornati di gran moda, soprattutto nelle storie di genere.

Non avete idea di quanti prologhi mi siano capitati fra le mani, con una protagonista narratrice che, mentre scappa o si nasconde, ritenendosi in punto di morte, comincia a ripensare a come è arrivata fin lì… Effetto Twilight, naturalmente – e sembra difficile convincere gli (o più spesso le) aspiranti che, qualsiasi cosa si pensi dei vampiri luccicanti, la cosa è già stata fatta, ripetutamente. E quindi adesso, quando vedo un prologo del genere, non sono più catturata, non mi domando che cosa ne sarà della nostra eroina, come ha fatto a trovarsi lì, chi la sta inseguendo… mi limito a levare gli occhi al cielo.

E lo stesso vale per i prologhi incomprensibili e/o aulicissimi, e magari drasticamente diversi dal primo capitolo. E tanto più se poi (e capita, oh se capita) la rilevanza del prologo rispetto alla storia si rivela labile o nulla…

Ho detto che voglio esserci trascinata, nella storia – ma con la forza, non con l’inganno.

E quindi? E quindi un tempo avevo fede nel prologo, e adesso non l’ho più. E quindi, quando sono tentata di iniziare una storia con un prologo, ci penso su due volte. E in genere decido che il prologo in realtà può benissimo diventare un primo capitolo. O, in alternativa, può essere capitozzato senza remore.

Ma se proprio non potessi farne a meno? Se avessi un antefatto che succede troppo tempo prima rispetto all’inizio della storia vera e propria? Se non povressi far funzionare la storia senza stabilire una premessa, seminare un indizio, preparare una sorpresa? Be’, allora credo che terrei presente la rana pescatrice dell’illustrazione lì in cima** (che, tra parentesi, è di Jeremy Zerfoss e viene da Wonderbook: The Illustrated Guide to Creating Imaginative Fiction di Jeff VaderMeer), e baderei bene a concepirlo come un’esca, il prologo: appetitoso, luminescente e irresistibile – proprio davanti alle fauci spalancate della mia storia.

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* E se andate a vedere il dizionario Treccani, difatti, ci trovate solo definizioni di ordine teatrale o figurato – ma nulla di narrativo, se non a margine della sezione “estens. non com.” del lemma.

** Cliccate (orrida parola) per vedere il pescione in tutto il suo istruttivo splendore.

Gen 11, 2012 - libri, libri e libri    4 Comments

Gente Di Un Solo Libro

Non c’è unità d’interpretazione su cosa di preciso volesse dire San Tommaso d’Aquino quando affermava di temere l’uomo di un solo libro – personalmente propendo per la lettura secondo cui una varietà di fonti di conoscenza è sempre più sana, ma in realtà non è questo il punto.

Il punto oggi sono gli autori di un solo libro.

O meglio, bisogna precisare, perché la definizione va presa in senso lato e il genere si differenzia in più di una specie.

emily brontëC’è Emily Brontë, per esempio, che di romanzi ne scrisse davvero uno solo, per il drastico e inoppugnabile motivo che poi morì. Wuthering Heights, inizialmente bollato dai critici come il rozzo sforzo di un illetterato giovanotto dello Yorkshire, fu un successo colossale – in parte forse proprio per le corrispondenze tra l’autrice e i suoi personaggi: una giovane donna solitaria e ostinata, con due sole passioni: la desolazione ventosa delle brughiere e le sue storie… A questa immagine di Emily contribuì non poco Charlotte, che descrisse l’adorata e defunta sorella alla sua prima biografa, Mrs. Gaskell in termini alquanto idealizzati. Ed ecco Emily, the wild child of genius and nature, col suo capolavoro perfettamente spontaneo e irripetibile. Tutto molto romantico, ma leggendo lettere e diari ci si fa l’idea di una ragazza un nonnulla bisbetica, chiusa nel suo mondo immaginario oltre ogni ragionevolezza – per non parlare del fatto che WH fu preceduto da una quantità di scritti giovanili e di poesia. Leggenda e Mrs. Gaskell vogliono che Emily stesse lavorando a un secondo romanzo, il cui manoscritto incompiuto bruciò poco prima di morire. Affascinante ipotesi, ma chi può dire? 379px-Spanish-tragedy.gif

Diverso è il caso di Thomas Kyd, di cui può esserci ogni numero di opere, solo che non lo sappiamo. Thomas Kyd, vedete, era un drammaturgo elisabettiano (e sì: sapevate che saremmo arrivati a queste latitudini storiche, presto o tardi). Kyd era un contemporaneo degli University Wits senza essere uno di loro. Figlio di uno scrivano e in tutta probabilità scrivano a sua volta, non andò mai (gasp!) all’Università e, per quanto ne sappiamo, scrisse una sola tragedia – ma non una qualsiasi. Hieronimo, or The Spanish Tragedy, è la madre di tutte le storie di vendetta elisabettian-giacobine, un affare turgido e truculento come pochi, e un campione d’incassi a suo tempo… E poi che accadde? Possibile che l’uomo capace di travolgere le scene londinesi in questa maniera si fermasse lì…? Be’, poi accadde Marlowe, autore migliore e amico pericoloso – visto che le torture subite nel corso dell’inchiesta sul terribile Kit condussero Kyd a una morte prematura nel 1594. E con la morte venne l’oscurità: non ci ricorderemmo nemmeno di lui, se non fosse per le carte del processo Marlowe e se, a fine Settecento, uno studioso inglese non avesse scovato un’unica e postuma attribuzione secentesca della Spanish Tragedy. Ed è più forte di me: non so scrivere del povero Kyd se non in questi toni vagamente funerei. In realtà ci sono tentativi di attribuirgli altre opere, ed è difficile pensare che non abbia mai collaborato con altri o modificato lavori altrui, ma si sa come va con le attribuzioni elisabettiane, vero? Per tutti quelli che si ricordano di lui, Kyd è solamente l’uomo della Spanish Tragedy.

Manzoni.jpgDi Manzoni, per contro, sappiamo tutto, ma siamo sinceri e brutali: chi si floccipende granché della Storia della Colonna Infame, degli Inni Sacri, del Conte di Carmagnola e anche dell’Adelchi? Sì, tutti abbiamo studiato a memoria Il Cinque Maggio e abbiamo “Ei fu…” piantato tra i lobi come un riflesso automatico, ma in realtà Don Lisander è l’uomo dei Promessi Sposi, pilastro della letteratura nazionale dalle molteplici edizioni, grondante acqua dell’Arno, croce e delizia di generazioni di ginnasiali. Oltretutto, è davvero l’unico romanzo del suo autore, per cui la definizione regge più che in altri casi. carlo collodi, pinocchio

Per esempio ben più che per Collodi, che tutti ricordano solo per Pinocchio, ma che in realtà scrisse treni merci di altra roba. Epperò alzi la mano chi ha mai letto titoli come Il Regalo del Capo d’Anno o La Lanterna Magica di Giannettino… Suppongo che sia un po’ come per quegli attori che interpretano un film di enorme successo e poi non riescono più a scrollarsi di dosso quel ruolo, à la Mark Hamill, per dirne uno.

emily brontë. cime tempestose,manzoni,i promessi sposi,thomas kyd,the spanish tragedy,collodi,pinocchio,pat o'sheaE poi può esserci il caso di gente che, nel bel mezzo di una carriera senza lampi, produce una singola gemma. Vi ricordate di Pat O’Shea, l’Irlandese che scrisse La Pietra Del Vecchio Pescatore? Ecco, Pat O’Shea le provò tutte: era una mediocre autrice teatrale, non combinò nulla come autrice televisiva, produsse un certo numero di racconti senza lode e senza infamia e non riuscì mai a pubblicare il suo romanzo a fumetti. Però poi cominciò a lavorare su un romanzo per bambini basato sui miti irlandesi. Non perché volesse pubblicarlo in particolare – a quello credeva di avere rinunciato – ma perché voleva farlo, per se stessa e per i suoi. E ci lavorò per 13 anni, e alla fine il risultato fu il meraviglioso, incantato, poetico The Hounds of the Morrigan, ovvero La Pietra Del Vecchio Pescatore, uno dei più bei romanzi fantasy che abbia mai letto. Nonché un bestseller internazionale, se ve ne ricordate. E poi, in una svolta à la Emily Brontë, anche la povera Pat O’Shea morì mentre scriveva un seguito – però senza bruciarlo.

Insomma, non sarebbe stata un’autrice di un solo libro, se ne avesse avuto il tempo, e non è che non ci avesse mai provato prima. Lo stesso vale per Emily. E il povero Kyd in tutta probabilità non lo era affatto, né lo erano Collodi e Manzoni, o tutti quegli autori che pur conosciamo per un titolo solo, come Lady Caro Lamb per Glenarvon, o Mary Shelley per Frankenstein

Perché il fatto è, io credo, che nessuno si sveglia una mattina, scrive una gemma di libro out of the blue, depone la penna e non ci pensa più per il resto della sua vita. Per scriver gemme bisogna avere prima scritto molto vetro colorato, e dopo aver scritto una gemma, chi non vorrebbe scriverne altre?

Ex nihilo nihil fit, non credete?

Mar 9, 2011 - romanzo storico    Commenti disabilitati su Promessi Sposi – Capitolo XXXVI

Promessi Sposi – Capitolo XXXVI

Questo è un capitolo in cui si predica molto: predica (lungamente) il Padre Felice, predica (a più riprese) il Padre Cristoforo e, nel suo piccolo, predica anche Lucia. D’altra parte, è un capitolo risolutivo, se non conclusivo, e sarebbe ben strano che Don Lisander non tornasse su quei temi di provvidenza, misericordia divina, umiltà, perdono, carità e fede che tanto gli stanno a cuore. Per fortuna ci sono redeeming qualities.

Capitolo risolutivo, dicevo. Sottolineato dall’addensarsi delle nubi e dallo scoppiare del temporale, abbiamo qui quello che in termini aristotelici si chiamerebbe il climax del romanzo: il culmine della storia, la risoluzione dell’ultimo ostacolo che separa i protagonisti e il lieto fine. Parlo del voto di Lucia, naturalmente. Una volta sciolto il voto, i due capitoli che restano saranno tutta azione discendente verso la conclusione con tanto di morale, ma le cose fondamentali succedono qui e ora.

Succedono come in un finale d’opera, con tanto di tuoni e fulmini – l’abbiamo detto – e con Renzo che, per entrare nel quartiere delle donne, si lega alla caviglia un campanello da monatto, a mo’ di vaga giustificazione della sua presenza in quel luogo… ma in realtà, il campanello serve ad altro. Serve perché Renzo debba toglierselo in gran fretta dopo essere stato scambiato per un monatto davvero, e perché debba quindi infilarsi tra due casupole, perché debba appoggiarsi a una parete sconnessa e… quale soave voce credete che senta al di là della parete, se non quella di Lucia?

E non storcete il naso all’ennesima miracolosa coincidenza, per favore, perché qui comincia la parte migliore, più viva e più vera del capitolo. Non per l’impossibilmente angelica Lucia, capace solo di difendere il suo voto e d’invocare la Madonna, quanto per Renzo. Qui Renzo fa sfoggio di un’eloquenza ingenua e candidamente astuta, toccando tutti i tasti che sa: la tenerezza, il rimprovero, la supplica, il ricatto morale… come altro definire il modo in cui si appella alle disgrazie che ha patito per Lucia, alla loro vecchia promessa, alla grazia da impetrare insieme per Don Rodrigo morente, al pensiero di Agnese che tanto desidera vederli maritati, alla sua stessa rovina? Renzo promette a Lucia di far spropositi se lei non lo vuole più, e la sfida a dirgli in faccia che non gli vuole più bene in un alternarsi di blandizie e di brontolamenti che è un delizioso, vivido ed efficacissimo capolavoro di caratterizzazione. Par di vederlo, il nostro giovine, con tutto quello che gli passa in viso: trasporto, delusione, rabbia, speranza, lampi d’astuzia…

Nonostante tutto ciò, Lucia non cede, e bisogna chiamare il Padre Cristoforo. Perché Lucia è tanto buona, spiega Renzo, “ma è un po’ fissa nelle sue idee” e in un momento di paura “si è scaldata la testa e si è promessa alla Madonna…” Adoro Renzo, e voi?

Enfin, con l’intervento del Padre Cristoforo e ancora un po’ di prediche miste assortite, la questione è sciolta, i nostri due promessi sono ricongiunti per un congedo frettoloso e pudico, di raccomandazioni scambiate e messaggi affidati, e poi Renzo parte, incurante della burrasca, ansioso di condividere con Agnese le buone notizie.

E mentre parte, ecco finalmente che il temporale scoppia, in parallelo con la rottura della tensione narrativa: ecco la pioggia che scende a lavare via il contagio e a marcare – di fatto – la fine delle tribolazioni dei nostri.

Sì, lo so: ci sono ancora due capitoli, ma se fossimo all’opera il sipario si chiuderebbe qui.

Feb 23, 2011 - romanzo storico    Commenti disabilitati su Promessi Sposi – Capitolo XXXV

Promessi Sposi – Capitolo XXXV

Capitolo pieno di contrasti, questo Trentacinquesimo, di ombre scurissime e di luci violente, alternate con una tecnica che, se l’usasse un contemporaneo, chiameremmo rollercoaster: su e giù per le montagne russe.

Lazz1.jpgSi comincia con un’apocalittica descrizione del lazzeretto come si presenta al primo sguardo di Renzo, una folla di malati e di cadaveri confusi, sopra cui i vivi brulicano e ondeggiano – due verbi che non sollecitano nessuna associazione mentale particolarmente simpatica. Renzo si aggira in mezzo alla confusione, alla sofferenza e allo squallore che non concedono tregua, senza mai trovar Lucia. Persino il clima, con quella che i teorici Di Là Dall’Acqua chiamano sentimental fallacy, si adegua alle necessità narrative oscurandosi e promettendo tempesta.

Poi, del tutto inatteso, primo chiarore: il luogo dove le balie allattano i bambini rimasti orfani con l’aiuto delle capre addestrate all’uopo. E come s’impegna Manzoni a mostrarci questo quadretto, con le amaltee della peste guidate da una specie di goffa tenerezza tutta loro. La scena non è del tutto serena – troppi orfanelli e troppo balie che hanno il latte solo per aver perso un bambino – ma è abbastanza gaia perché Renzo, in mezzo a tanta cupezza, faccia fatica a staccarsene. Lazz2.jpg

Poi il fulmine! Chi ti ritrova il nostro giovine, se non il Padre Cristoforo? Lo intravvede, stenta a credere ai suoi occhi, lo cerca, lo trova… e la consolazione, ci dice Don Lisander, non è intera nemmeno per un attimo, perché visto da vicino, il Padre Cristoforo porta già addosso i segni della malattia.

Ricongiungimento, tuttavia, e scambio di notizie davanti a una scodella di zuppa. Renzo, lo sappiamo, è venuto in cerca di Lucia. Il PC gli concede il permesso di cercarla anche nel quartiere delle donne – raccomandandogli di comportarsi bene con un’insistenza che a me è sempre parsa un po’ fuori luogo… voglio dire: stiamo parlando di Renzo, sarà anche un po’ scriteriato (e lo ha appena ammesso), ma ce lo vedete, voi, ad approfittare del fatto di ritrovarsi nel quartiere delle donne? Mah… Non divaghiamo, tuttavia, perché è in arrivo un’altra discesa.

Bada però, dice il PC, che non è affatto detto che Lucia sia ancor viva. Verissimo, per carità, date le circostanze, ma a Renzo non fa un gran bene sentirselo dire. Alla sola idea che Lucia possa essere morta, tutti i suoi propositi di vendetta si risvegliano. Se non trova Lucia, promette il nostro giovine, troverà quell’altro, e se la farà lui, la giustizia!

Segue ramanzina severissima del Padre Cristoforo: non sa Renzo che in questa maniera si va all’inferno? Che si tolga pure di torno, perché lui non ha tempo per gente che non sa perdonare e cova vendetta. Sciagurato! Et Multa Caetera Similia, con l’effetto di sgomentare e commuovere Renzo. Ma c’è il tranello, perché non appena Renzo si è impegnato a perdonare Don Rodrigo…

Lazz3.jpg… Chi ti produce il PC, se non Don Rodrigo stesso, moribondo e insensibile? Pronto lì perché Renzo, commosso, sopraffatto e ultimamente redento, possa pregare al suo capezzale prima di andarsene in cerca di Lucia, per il bene o per il male, senza più  covar propositi di vendetta.

Noi, naturalmente, sappiamo che la troverà – e se adesso pensate che sia tutto just a little too pat, con tutti i personaggi convenientemente riuniti al lazzeretto per il gran finale, ebbene lo penso anch’io, ma che fa? E’ un finalone efficace e suggestivo, come s’usa all’opera e come un tempo s’usava a teatro.

Ormai, lo sentiamo nell’aria torva e temporalesca, non manca più molto: il destino è sul punto di compiersi. Tratteniamo il respiro e aspettiamo il Capitolo XXXVI.

Gen 26, 2011 - guardando la storia, romanzo storico    Commenti disabilitati su Promessi Sposi – Capitolo XXXI

Promessi Sposi – Capitolo XXXI

Questo è uno di quei capitoli che si considerano noiosi. Ricordo – ormai quasi due anni fa – quando progettavamo questa rilettura dei PS per la UTE, e discutevamo l’opportunità di una lettura più o meno integrale. “Ci sarà qualcosa che potremo sfrondare,” diceva qualcuno, “per esempio quei soporiferi capitoli della peste…” Alla fin fine, lettura integrale è stata, e il primo dei soporiferi capitoli della peste è arrivato. 

La mia prima reazione nel ritrovarlo tra i “miei” capitoli non è stata proprio una triplice capriola di entusiasmo – indipendentemente dalla peste. Voglio dire: per motivi tristemente ovvi, la peste è un irrinunciabile accessorio di tanti romanzi storici e può diventare, a seconda del gusto e delle intenzioni del romanziere, una lettura di estrema sgradevolezza – il che non è il caso nei Promessi Sposi. Quel che smorzava il mio trasporto era, semmai, quest’altro esantema endemico del romanzo storico ottocentesco: la Digressione.

Il romanziere storico si sente, più di altri, in dovere di educare i suoi lettori, non fosse altro che per la necessità di far loro capire che cosa diamine sta succedendo, e allora, ogni tanto, abbandona vicenda e personaggi per un capitolo o due, e si concentra sulla storia. Ricordo ancora con un misto di raccapriccio e d’impazienza le tangenti per le quali parte Victor Hugo – nei Miserabili, per dire. E l’argot parigino, e gli ordini monastici, e le fognature… chi l’ha letto tutto, ma proprio tutto senza saltare nemmeno una pagina, alzi la mano.

Manzoni l’abbiamo già visto uscir di carreggiata – per esempio per cantare le lodi del Cardinal Federigo Borromeo, e diciamocelo: il precedente non ci colma di gioia.

Poi, in realtà, va meglio del previsto – anche molto meglio, a seconda di quanto vi piace sentire nell’ordine una disquisizione teorica e una dimostrazione pratica sulla storiografia di stampo illuminista.

Manzoni comincia con l’obbligatorio cappello, riassumibile come “e ora, brevi cenni sulla peste”, poi passa a lamentare lo stato delle fonti seicentesche: scarse, contraddittorie, confuse, inattendibili… tra memorie, cronache e documenti pubblici, non c’è nulla di esauriente o di certo. L’unica è impolverarsi le dita e spulciare, minuziosi e pazienti, tra le vecchie carte, confrontando le varie versioni, collazionando e correggendo l’una con l’altra, e talvolta stimando il giusto mezzo, e cercando una logica tra quelle informazioni accatastate senza criterio e senza cognizione di causa ed effetto.

Visto l’Illuminista che entra in scena? Riconosce alle fonti originali una “forza viva, propria e, per così dire, incomunicabile”, ma deplora la mancanza di metodo e di rigore con cui sono state composte all’epoca e ingoiate intere nelle opere successive. Dopodiché si mette all’opera e comincia a tracciare la vicenda del propagarsi della peste a Milano e nel Milanese. Ed è una storia ben meschina, di ritardi, di cecità, di pregiudizi, di colpevoli lentezze da ogni parte, mentre il male va “covando e serpendo” nella città. Vero è che all’epoca c’era ben poco in fatto di cure, e la peste era uno dei tanti insondabili terrori di cui era fatta la vita di ciascuno, ma il giudizio severissimo di Manzoni è giustificato: la sola cosa che si sarebbe potuta fare – arginare tempestivamente il contagio – non si fece per una combinazione d’inerzia e di criminale rifiuto dell’evidenza, da parte tanto delle autorità (quasi tutte) quanto della popolazione.

Poi, siamo sempre nelle mani di un narratore con i fiocchi, e quindi assistiamo con inorridito interesse al progresso della peste, quasi di casa in casa, mentre si nega l’evidenza e la si nasconde dietro un susseguirsi di riluttanti ammissioni: nessuna peste, le febbri maligne, le febbri pestilenziali, una specie di peste, la peste sì – ma portata dagli untori.

E il capitolo si chiude con una considerazione sul danno che possono fare le parole e il loro uso – con una concessione alla quasi ineluttabile facilità con cui questo genere di danni si produce, perché è tanto più facile parlare che pensare, e quindi “noi uomini in generale siamo un po’ da compatire.”

Promessi Sposi, Capitolo XXX

Landsknekt.pngQuesto è un capitolo pieno di Lanzichenecchi, senza che se ne veda mai uno.

No, non è del tutto vero, c’è un fuggevole episodiuzzo che funziona da centro, ma se a questo punto di un romanzo che parla della Guerra di Successione del Ducato di Mantova ci aspettavamo qualche grandiosa e truce scena di scaramucce, saccheggi e violenza varia assortita, ebbene ce l’aspettavamo a torto.

Manzoni essendo Manzoni, le terribili soldatesche luterane non le vediamo affatto: ne anticipiamo l’arrivo, ne sentiamo il passaggio, ne osserviamo l’effetto – tutto attraverso gli occhi, le orecchie e le paure dei nostri personaggi, che non sono gente da campi di battaglia.

Per prima cosa, sentiamo arrivare le schiere in marcia, precedute da una nomea di ferocia distruttiva davanti alla quale chi può fugge. Come Don Abbondio, che discute i suoi terrori per strada, mentre va a rifugiarsi dall’Innominato in compagnia di Agnese e Perpetua. Le sue sono apprensioni vaghe e terrificanti, alimentate anziché fugate dai preparativi marziali dell’Innominato. Perché “i soldati”, si sa, son gente che non ha paura di nulla e di nessuno, che combatte, distrugge e uccide per il gusto di farlo (e per il bottino), che si getta con avido abbandono su ogni accenno d’opposizione. “Non sapete che i soldati è il loro mestiere di prender le fortezze? Non cercan altro; per loro, dare un assalto è come andare a nozze…” E potremmo quasi sorridere dei rabbiosi timori del povero curato, se non fosse per il fuggi fuggi generale e per la guarnigioncella bene armata che l’Innominato si prepara attorno, in quel castello organizzato come una caserma…

E poi, durante i ventitre o ventiquattro giorni passati al castellaccio, giungono le voci, tramite i fuggitivi dell’ultimo minuto, che arrivano terrorizzati e malconci: sotto il tetto dell’Innominato, in relativa sicurezza, si raccontano le gesta infami dei Lanzi, si fa la cronaca del loro passaggio, si comparano fanti e cavalli, si tiene il conto dei reggimenti che vengono e che vanno, si reagisce ai falsi allarmi. Solo una volta, in uno di quei blitz con la sua gente armata, l’Innominato trova davvero dei soldati – ma sono solo saccheggiatori sbandati e alla fin fine ne vediamo solo le schiene in fuga. E però non lasciamoci ingannare dalla meschinità dell’episodio: i Lanzichenecchi son ben altra cosa, un terremoto distante di cui dal castellaccio si sente solo il rombo, come nella cadenza del celebre elenco delle compagnie al ponte di Lecco, serrato e cupo come il rullo di tamburi di una carica: “Passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari; passa Altringer, passa furstenberg, passa Colloredo; passano i Corati, passa Torquato Conti, passano altri e altri; quando piacque al cielo, passò anche Galasso, che fu l’ultimo. Lo squadron volante de’ Veneziani finì d’allontanarsi anche lui; e tutto il paese a destra e a sinistra si trovò libero anch’esso.”

Ma naturalmente non è finita. Sarà passata la tempesta, la gallina tornerà pure sulla via, ma gli augelli han poco da far festa. Quando i nostri tornano a casa, vediamo attraverso i loro occhi la devastazione sudicia e feroce che i Lanzi si son lasciati dietro. Le vigne distrutte, le case spogliate, i saccheggi, gli incendi… E dietro a tutto ciò è in arrivo di peggio: il capitolo si chiude sibillino e minaccioso, preannunciando quella che noi sappiamo essere la peste*. Cue ominous music.

Insomma, il passaggio dei Lanzichenecchi è un altro piccolo capolavoro: narrato obliquamente in un capitolo fatto di battibecchi (tra Don Abbondio e Perpetua) e rimuginamenti (di Don Abbondio), riesce più inquietante nel suo succedersi di hearsay, paure e conseguenze immediate e future, di quanto potrebbe mai essere una fila di descrizioni crude e puntuali. Se è vero che la paura è mancanza di conoscenza, il XXX Capitolo trasforma la ben concreta piaga del passaggio di un esercito seicentesco nel capofila dei terrori indistinti – e per questo peggiori.

Come facesse Leone Gessi (curatore della mia vecchissima edizione dei PS) a definire questo capitolo “divertente” is anybody’s guess.

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* Delizioso lapsus annotato più di vent’anni orsono: “La peste filava nelle strisce dell’esercito imperiale”.

Dic 14, 2010 - libri, libri e libri    2 Comments

I Promessi Sposi From Abroad

bethroted.jpgDietro consiglio di Renzo, sono andata a spulciare tra le recensioni di The Betrothed (I Promessi Sposi) su Amazon.

Posto che ce n’è solo una trentina (chiaramente non è il libro più letto nel mondo anglosassone), è interessante vedere che cosa ne pensano dei lettori non eccessivamente influenzati dallo status di monumento nazionale  di cui i PS godono da noi – o dalla troppo spesso deleteria lettura obbligatoria imposta a scuola.

A dire il vero, quasi tutte le recensioni iniziano citando la rilevanza storica e letteraria dei PS in Italia, e il fatto che tutti gli Italiani istruiti hanno letto questo libro. C’è persino chi lo consiglia come lettura preparatoria a un viaggio in Italia, sostenendo che è un ottimo argomento di conversazione con gli indigeni… Francamente, se qualcuno di voi ha preso parte o assistito a una conversazione del genere mi piacerebbe averne notizia. E dettagli.

Però, resta il fatto che l’impressione generale dei lettori angloamericani sembra essere di notevole entusiasmo. Un lettore confonde la Storia della Colonna Infame con un incompiuto, e un altro spiega che Renzo è un pescatore, ma sono dettagli trascurabili rispetto alla scoperta che almeno quattro o cinque Americani hanno letto i PS più di una volta. Non conosco le traduzioni che circolano, ma so che le più diffuse sono due, non particolarmente recenti. Nonostante questo, Là Fuori apprezzano la vicenda, i personaggi, il Seicento, l’umanità e lo humor di Don Lisander, e più d’uno si dispiace che un autore così meraviglioso non abbia scritto altri romanzi.

Un lettore paragona l’accuratezza storica di Manzoni a quella di Scott, a tutto vantaggio del Nostro, anche se le lunghe digressioni sulla peste sono considerate una deviazione gratuitina anzichenò dalla storia. A una mente anglosassone contemporanea, il fatto che quasi un quarto del libro sia dedicato a qualcosa che non è la trama del libro appare come una mancanza di purpose e intento*. E’ facile immaginare che Hugo riceva critiche dello stesso genere.

Per quanto riguarda i personaggi, non sorprende che l’Innominato e Gertrude riscuotano particolare simpatia, essendo le figure più strettamente romanzesche. Anche Don Abbondio sembra popolare, e Renzo non dispiace. Lucia viene descritta più di una volta come slightly weak, ma nel complesso Oltreoceano sembrano disposti a simpatizzare con gli innamorati che non riescono a sposarsi, benché siano spesso eclissati da altra gente scritta con più energia.

La trama viene vista (abbastanza a ragione) come un concentrato di elementi tipici del genere: i giovani innamorati, il tirannico nobiluomo con gli scagnozzi, il religioso-mentore con tratti di santità, il religioso connivente col malvagio, la monacata a forza, la guerra sullo sfondo, le sommosse, il malvagio redento… A qualcuno dei miei lettori piacerà sapere che anche all’estero la conversione dell’Innominato (The Unnamed) fa levare più di un sopracciglio**, così come la figura del Cardinal Borromeo e la generale santità di tutti i religiosi provvisti di vera vocazione.

La forte componente religiosa sembra spiazzare-annoiare un po’ qualche lettore (tranne il signore che, avendo letto l’intero tomo mentre era bloccato in un albergo in Asia, è uscito dall’esperienza con una migliore comprensione e maggiore simpatia nei confronti del Cattolicesimo). Non è una gran sorpresa: alzi la mano chi non ha mai, ma proprio mai, levato gli occhi al cielo all’ennesima pia esclamazione sui prodigi della Provvidenza. D’altra parte, alcune delle osservazioni in materia sono stock material, coerenti con l’immagine generale del Cattolicesimo in ambito protestante. A dire il vero, mi aspettavo di peggio.

Si sprecano i paragoni internazionali: Tolstoj, Hugo, Cervantes, Scott – per rilevanza in relazione alla rispettiva identità nazionale o per argomento e portata, ma l’opinione comune sembra essere che Manzoni è un grande scrittore.

Non è particolarmente soprendente nemmeno che il  commento più negativo venga da un Italiano, secondo il quale i PS sono un libro noioso e patetico, che generazioni d’incolpevoli studenti italiani hanno dovuto OBBLIGATORIAMENTE*** leggere e considerare un capolavoro – invece di dedicarsi ai veri capolavori, tipo Shakespeare, Proust e Dostoevskij… Dalla veemenza con cui condanna i PS al cestino della carta straccia, immagino che questo lettore sia molto giovane e/o traumatizzato da insegnanti di Lettere men che ideali.

Una dimostrazione in più del fatto che le letture scolastiche possono fare più danno che beneficio. Mi piacerebbe pescare una trentina di Italiani che hanno letto i PS a scuola e poi non li hanno più sfiorati con l’orlo della veste, e compararne le opinioni con le recensioni degli Inglesi e Americani di Amazon. Scommettete che l’esercizio sarebbe molto istruttivo?

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* Questo, francamente, lo penso un po’ anch’io che – come ognun sa – sono ossessionata dalla fabula.

**  Sono affascinata dall’argomentazione di una signora secondo cui l’entusiasmo del CFB per la conversione dell’Innominato non è vero zelo religioso, ma una dimostrazione dell’irresistibile fascino del potere: al CFB non fa un baffo che altra gente di minor conto al seguito dell’Innominato si converta del pari, perché l’importante è la conversione del pezzo grosso con tante malefatte sulla coscienza…

*** Maiuscole sue.

 

Mar 27, 2010 - musica, Oggi Tecnica, scrittura    Commenti disabilitati su Duetti & Subtesto

Duetti & Subtesto

Facendo seguito a questo post, ecco qui il Capitolo XIX dei Promessi Sposi in tutta la sua gloria. Notate il crescendo di minacce velate – velatissime! – del Conte Zio, la quantità industriale di puntini di sospensione, il modo in cui le cose non dette, ma implicate, pesano quanto le parole vere e proprie. D’altra parte, notate gli a parte del Padre Provinciale, la sua consapevolezza amarognola, il suo fine sarcasmo qua e là (quel “Cospicue!”, e il commento finale sulla bontà della famiglia): tanto subtesto da costruirci un auditorium!

Eppoi, ecco Re Filippo e il Grande Inquisitore (cieco nonagenario), in altrettanto splendore. Francamente, Furlanetto/Salminnen non è la prima  distribuzione dei miei sogni, ma è comunque ottima, e la messa in scena molto buona. Per chi volesse fare confronti, di quest’altra versione con Ghiaurov e Raimondi c’è solo l’audio.

Qui c’è il libretto, che rispetto a Schiller condensa e semplifica assai (e infila qualcuna di quelle perle librettesche, tipo armossi contro il padre), ma combinato alla musica diventa pretty powerful stuff. Notate che per quanto riguarda Carletto, il Re cerca delle rassicurazioni morali e personali, mentre quando si arriva al Marchese si oppone nettamente su basi più sentimentali. In entrambi i casi, l’Inquisitore (c.n.) asfalta scrupoli e obiezioni con la logica corazzata e tetragona al dubbio di una panzerdivision. Notate anche qui l’uso della minaccia, il tentativo di riconciliazione finale di Filippo, il modo in cui il Re viene lasciato in sospeso (Forse!), e la sua amarissima conclusione. Notate tutto ciò in musica, perché qui il subtesto è per lo più affidato alle note. Meravigliose note…

IL CONTE Dl LERMA
Il Grande Inquisitor!

L’INQUISITORE
Son io dinanzi al Re…?

FILIPPO
Si; vi feci chiamar, mio padre!
In dubbio io son,
Carlo mi colma il cor
d’una tristezza amara.
L’infante è a me ribelle,
Armossi contro il padre.

L’INQUISITORE
Qual mezzo per punir scegli tu?

FILIPPO
Mezzo estremo.

L’INQUISITORE
Noto mi sial

FILIPPO
Che fugga… che la scure…

L’INQUISITORE
Ebbene?

FILIPPO
Se il figlio a morte invio,
M’assolve la tua mano?

L’INQUISITORE
La pace dell’impero i di val d’un ribelle,

FILIPPO
Posso il figlio immolar al mondo
io cristian?

L’INQUISITORE
Per riscattarci Iddio il suo sacrificò.

FILIPPO
Ma tu puoi dar vigor a legge si severa?

L’INQUISITORE
Ovunque avrà vigor,
se sul Calvario l’ebbe.

FILIPPO
La natura,
l’amor tacer potranno in me?

L’INQUISITORE
Tutto tacer dovrà per esaltar la fè.

FILIPPO
Stà ben.

L’INQUISITORE
Non vuol il Re su d’altro interrogarmi?

FILIPPO
No.

L’INQUISITORE
Allor son io che a voi parlerò, Sire.
Nell’ispano suol mai l’eresia dominò,
Ma v’ha chi vuol minar
l’edificio divin;
L’amico egli è del Re, il suo fedel compagno,
Il demon tentator che lo spinge a rovina.
Di Carlo il tradimento che giunse a t’irritar
In paragon del suo futile gioco appar.
Ed io, l’inquisitor,
io che levai sovente
Sopra orde vil di rei la mano mia possente,
Pei grandi di quaggiù, scordando la mia fè,
Tranquilli lascio andar un gran ribelle…
e il Re.

FILIPPO
Per traversare i di dolenti in cui viviamo
Nella mia Corte invan cercato
ho quel che bramo,
Un uomo! Un cor leale! Io lo trovai!

L’INQUISITORE
Perchè un uomo?
Perché allor il nome hai tu di Re,
Sire, se alcun v’ha pari a te?

FILIPPO
Non più, frate!

L’INQUISITORE
Le idee del novator in te son penetrate!
Infrangere tu vuoi con la tara debol man
Il santo giogo, esteso sovra l’orbe roman…!
Ritorna al tuo dover;
La Chiesa all’uom che spera,
A chi si pente,
Puote offrir la venia intera;
A te chiedo il signor di Posa.

FILIPPO
No, giammai!

L’INQUISITORE
O Re, se non foss’io con te nel reggio ostel
Oggi stesso, lo giuro a Dio,
Doman saresti presso il Grande Inquisitor
Al tribunal supremo.

FILIPPO
Frate!
troppo soffrii il tuo parlar crudel!

L’INQUISITORE
Perché evocar allor l’ombra di Samuel?
Dato ho finor due Regi
al regno tuo possente…!
L’opra di tanti di tu vuoi strugger, demente!
Perchè mi trovo io qui?
Che vuol il Re da me?

(Per uscire)

FILIPPO
Mio padre, che tra noi la pace alberghi ancor

L’INQUISITORE
La pace?

FILIPPO
Obliar tu dei quel ch’è passato.

L’INQUISITORE
Forse!

(Esce)

FILIPPO
(Solo)
Dunque il trono
piegar dovrà sempre all’altare!

Mar 25, 2010 - grilloleggente    Commenti disabilitati su Promessi Sposi, Capitolo XIX

Promessi Sposi, Capitolo XIX

Oggi XIX capitolo dei Promessi Sposi alla UTE, ultimo per questo Anno Accademico.

Il Capitolo XIX è quello del match Conte Zio – Padre Provinciale dei Cappuccini, ed è una vera e propria gemma, di quelle cose che da sole valgono il prezzo del libro, di quei dialoghi che, per sottigliezza delle intenzioni, tridimensionalità della caratterizzazione e raffinata ironia, mutano momentaneamente ogni altro scrittore in un mostro dagli occhi verdi.

Cominciamo col dire che, quasi tre mesi e tredici capitoli fa, avevamo assistito a qualcosa di simile al palazzotto, tra Don Rodrigo e Fra Cristoforo, ovvero i due diretti interessati. E’ sempre di loro che si parla anche nel palazzo milanese dello zio: in pratica, lo stesso scontro elevato a potenza e condotto a un livello abissalmente diverso. Qualcosa come la differenza tra una rissa in piazza e l’alta politica.

Possiamo dimenticare (anzi, faremo bene a ricordare per amor del contrasto) il sarcasmo rabbioso, le insinuazioni grossolane e le minacce scoperte di Don Rodrigo, come pure la faticosissima umiltà e lo spirto guerrier di Fra Cristoforo. Qui siamo su un altro pianeta: dopo un pranzo di commensali titolati e un sacco di conversazione sulle aderenze della famiglia a Madrid, il Conte Zio fa professioni di amicizia verso l’Ordine Cappuccino in generale e il Padre Reverendissimo in particolare, finge di voler rendere un buon servigio, insinua che il padre Cristoforo debba essere un continuo grattacapo per i suoi stessi superiori…

Il Provinciale non ci casca, e difende la reputazione del suo sottoposto, ma vede addensarsi la tempesta… e non ha torto: per prima, il Conte Zio gioca la carta della sovversione, dipingendo il povero Renzo come un arruffapopoli della peggior specie, e il padre Cristoforo come un connivente. D’altra parte, con quel po’ po’ di precedenti che ha lui stesso…

Il Provinciale para di nuovo la botta: Sua Magnificenza deve pur sapere che a) l’Ordine ha per missione di recuperare i traviati, e b) la vocazione religiosa offre riscatto dal passato, del che Fra Cristoforo è la prova vivente. Il Conte Zio deve allora ricorrere al secondo argomento, rivelando (come se proprio ci si costringesse a malincuore) che tra il frate e Don Rodrigo c’è qualche ruggine. Nessun riferimento a Lucia, o anche solo alla natura della ruggine stessa, per carità. Lo zio, assai più scaltro del nipote, dipinge la faccenda come una questione di puntiglio, scusabile in un giovane nobiluomo scapestrato, ma del tutto fuori posto per un Cappuccino.

Il Provinciale resta sulle sue, avanza cauti dubbi, promette indagini, ma sa già dove vuole andare a parare il suo avversario. E infatti, puntualmente, il Conte Zio si scopre giusto quanto basta: indagini e dubbi? Ma perché mai il Reverendissimo Padre vuole andare a sollevare un vespaio? Perché non possono accomodare la questione tra loro due, senza che degeneri in zuffe, ritorsioni e scandali?

La minaccia è sottile, ma inequivocabile. E’ sicuro che l’Ordine saprebbe difendersi in un confronto, ma ne vale davvero la pena? Non è meglio per tutti tacitare il subbuglio cercando di salvare tutte le capre e tutti i cavoli possibili? Guarda caso, a Rimini vogliono un predicatore per la quaresima, e il padre Cristoforo è proprio quello che ci vuole. “Molto a proposito,” approva il Conte Zio. “E… quando?”

Il Provinciale prova a nicchiare, a prender tempo, a negoziare qualche forma di rispetto che Don Rodrigo paghi all’Ordine, per salvaguardare la dignità dell’abito… Il Conte Zio a questo punto potrebbe anche mostrarsi generoso, ma non lo fa: invece si limita a qualche promessa che più vaga non si potrebbe, e a cedere il passo alla porta. “Conosciamo per prova la bontà della famiglia,” replica amaramente il Padre Provinciale, di fronte all’ennesima promessa vuota di amicizia, di assistenza, di qualsiasi cosa…

Chiaramente, Conte Zio – Padre Provinciale è finita 2- 0.

Niente “verrà un giorno”, niente alterchi, niente vecchi servitori impauriti, niente cappa e spada: solo due canizie, due esperienze, dice Don Lisander, e la canizie laica ha vinto alla grande: con un pranzo e qualche parola, ha spedito Fra Cristoforo a piedi da Pescarenico a Rimini.

Non posso fare a meno di accostare questo dialogo a qualcosa d’altro: il grandioso, corrusco, feroce duetto tra Re Filippo e il Grande Inquisitore (cieco nonagenario) del Don Carlo/Don Carlos di Verdi. L’atmosfera è tutt’altra, molto più cupa e più fatale, (e d’altronde in gioco non c’è il trasferimento di un frate, ma la vita e la morte di due uomini, nonché tutto un sistema di pensiero e il destino di un impero) ma la struttura è poi la stessa: potere temporale e potere religioso che si affrontano. Però nel caso di Verdi/Schiller è il Grande Inquisitore (c.n.) a spingere il suo avversario nell’angolo a implacabili colpi di logica e di dogma. Re Filippo resiste invano. Prima della fine si farà imporre la condanna a morte di non uno, ma due figli: quello di sangue e quello del cuore. “Dunque il trono piegar dovrà sempre all’altare!” conclude amarissimamente il Re.

A quanto pare, non sempre. O, almeno, non nel Seicento milanese di Manzoni, dove l’altare, per evitare guai, piega non di fronte al trono, ma a una corona comitale bene introdotta a Madrid.

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