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Ott 3, 2012 - libri, libri e libri    4 Comments

Il Narratore Antipatico

Un po’ di tempo fa si parlava di narrazioni in prima persona, ricordate?

Nel post in questione dicevo che…

Mi piace condividere lo sguardo del narratore. Mi piacciono le voci narrative individuali che si creano, con i quirks espressivi, le considerazioni personali, gli errori di valutazione e le menzogne.

Ebbene, proprio in questi giorni, E. mi diceva che proprio tutto ciò tende a respingerla anzichenò. Perché, a parte tutto, una voce narrante antipatica è capace di rovinarle anche un libro che altrimenti potrebbe piacerle… 

E. sostiene che il rischio d’insopportabilità scende a livelli minimi con le voci narranti in III – sul che si può discutere – e che un narratore in I, che gliela conta direttamente e lo fa con tutti i suoi quirks e ammenicoli individuali, ha più possibilità di starle sull’anima…

Suppongo che non abbia tutti i torti, perché la forte caratterizzazione può tagliare da entrambi i lati – e devo ammettere che, pur nella mia risaputa debolezza nei confronti delle storie raccontate in I, ho avuto la mia dose di difficoltà con i singoli narratori. Ne ho avute in diversa forma, a ben pensarci. Vediamo un po’ – una piccola fenomenologia del Narratore Antipatico*. lawrence d'arabia

1) Il Guastafeste. Questo è il caso che cita E.: un libro che di suo mi piacerebbe, ma a pagina 10 ho già una tale voglia di strangolare il narratore che la lettura diventa faticosa. Passo troppo tempo a sospirare un narratore e/o protagonista diverso per apprezzare davvero il libro. A me è capitato con La Rivolta nel Deserto. Voglio dire, un Inglese che raccoglie queste tribù litigiose e inefficaci e le conduce attraverso il deserto, da una follia all’altra fino a Damasco – e intanto perde il senso della realtà… È il mio genere di storia. Peccato per Lawrence. Dimenticatevi il Peter O’Toole ingenuo e viepiù allucinato del film: l’originale è puntiglioso, compiaciuto di sé ed egocentrico oltre ogni dire. “Auda disse, Ali suggerì, e il Principe Feisal riteneva, ma poi si fece come volevo io.” In tutto il libro, nessun altro che abbia mai uno straccio di buona idea… Il libro l’ho letto – e più di una volta** – ma mai con il gusto che avrei potuto trovarci, grazie al buon Lawrence. l'eleganza del riccio, muriel barbery

2) La Pioggia Sul Bagnato. Il libro non mi piace affatto, e il narratore in I è solo uno degli aspetti che mi rendono infelice, acida o idrofoba. Come ne L’Eleganza del Riccio. Non so immaginare una voce narrante capace di farmelo piacere, ma di sicuro né la piccola Paloma, finta bambina supponente e finto-ingenua,  né la portinaia Renée, perla di donna mascherata di finto rude candore, hanno fatto alcunché per ammorbidire la mia avversione. Cribbio, son passati più di due anni e detesto ancora libro e narratrici con un livore che sconsola… david balfour, r.l. stevenson, kidnapped

3) Il Guastafeste Apparente. Il narratore non mi piace, ma non è tanto odioso da eclissare i meriti del libro. Come il povero David, che di Kidnapped sarà anche il protagonista nominale, ma è talmente blando, ottuso e benpensante, da indurre nel lettore un forte desiderio di amministrargli un paio di scrolloni per capitolo. E però fa nulla, perché l’avventura in sé, la sgambata attraverso le Highlands e, soprattutto, l’impagabile Alan compensano tutto quanto. D’altra parte qui stiamo parlando di Stevenson, e possiamo tranquillamente assumere che l’effetto sia voluto. O Fanciulli, guardate David, the nice lad che, ci si dice, tutti dobbiamo aspirare ad essere. E poi guardate l’affascinante, pittoresco, temerario, irragionevole, squadrellato Alan…

Dopodiché è chiaro che nessun personaggio può essere simpatico a tutti, e nessun libro può piacere a tutti i lettori, e avversioni e amicizie di carta sono parte integrante del gusto di leggere.

Però è difficile negare che il narratore in I, metaforicamente seduto di fronte al lettore, sia più esposto al rischio di essere a serious nuisance.

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* Involontariamente Antipatico – quello la cui antipatia non è un device narrativo a sé. Quello è un altro discorso.

** Non per autolesionismo, vorrei precisare. Seminario di filosofia della guerra, tesina sul rapporto tra tattica e strategia nella Rivolta…


 

Mag 24, 2010 - grilloleggente    2 Comments

Pag. 319

Finito! Se piace agli dei della letteratura, ho finito L’Eleganza del Riccio.

Allora, ammetto che il finale mi ha sorpresa. Ho temuto abbastanza a lungo che la Portinaia finisse con lo sposare Monsieur Ozu, e…

C’est bien, prima di proseguire lo faccio di nuovo: se non avete letto L’EdR fermatevi qui, volete? Anche se credete di non leggerlo affatto, anche se vi rifiutate a priori di sfiorarlo anche soltanto con l’orlo della veste, questa serie di post è la prova che non si può mai dire. E qualora doveste leggerlo, credetemi, sarete lieti di avermi dato retta e di esservi fermati qui.

Detto ciò, è vero: twist in the tail. La morte di Renée è giunta inaspettata: proprio quando sembrava che la vita della Portinaia fosse destinata a cambiare, ecco che ci si mettono un impulso generoso e un furgoncino della lavanderia. Renée muore serena in quello che forse è il miglior momento possibile, sulla soglia della felice risoluzione. Ho sempre pensato, indipendentemente dal Riccio, che un passo dalla piena realizzazione sia l’apice della perfezione – e che tutto quello che viene dopo tenda ad essere una fregatura. Renée, tutto sommato, non finisce male: è finalmente in pace con sé stessa e con i suoi fantasmi, è rasserenata e raddolcita, ha scoperto di essere capace di amare e ha in mano la promessa della felicità. Risparmiarsi la quotidiana realtà da Mme Ozu, la reazione del condominio, un drastico cambiamento di abitudini a cinquantaquattro anni – o qualunque altra forma di piccola meschinità dovesse seguire il Momento Perfetto non è poi così male, almeno in via teorica. Muriel Barbery regala a Renée la Portinaia la felicità incorrotta, la promessa senza la disillusione, la vigilia senza l’indomani, e non sono cattivi doni da fare a un personaggio.

Mi è piaciuto, allora? Sono disposta a dire che dopo tutto il libro mi è piaciuto più di quanto pensassi?

Temo di no.

Per quanto apprezzi l’impianto concettuale del finale, restano un paio di fatti che me lo inacidiscono alquanto. Per cominciare, il complesso da sorella morta della Portinaia, di cui leggiamo per la prima volta – e del tutto out of the blue – a pagina 280 o giù di lì. C’è il pianto liberatorio con la IDI, apprendiamo che le spinosità di Renée si devono alla morte della sorella sedotta e abbandonata, e la cosa sembra finire lì. Venticinque pagine più tardi, abbiamo un secondo pianto liberatorio, stavolta con Monsieur Ozu in un ristorante giapponese: apparentemente, quello con la IDI non era stata sufficiente. E può darsi che sia solo questione della mia conclamata durezza d’animo, ma questa catarsi a puntate per me non funziona. Finisce con l’annacquarsi, col non essere veramente significativa nessuna delle due volte – al punto che, dopo avere letto la versione sushi, sono tornata indietro a rivedere la versione IDI, perché mi pareva di essermi persa qualcosa. Di essermi persa la rilevanza dell’intera faccenda, ad essere sincera: questa motivazione da melodramma appiccicata sopra tutto questo lungo disquisire di arte, filosofia e camelie mi fa davvero un po’ l’impressione dei cavoli a merenda.

Poi c’è tutto questo repentino affratellamento con la IDI. Possibile che si siano ignorate per dodici anni e all’improvviso vadano da sospettoso vicendevole scrutinio al gemellaggio d’anime in un paio di settimane? Tanto che la Portinaia consideri la IDI una sorta di figlia spirituale e la IDI si senta sconvolta e trasformata dalla morte della Portinaia? Anche supponendo che simili epifanie possano accadere nella realtà (e lo ammetto in via puramente teorica e con un certo scetticismo), in un libro suonerebbero meglio se fossero preparate con qualche anticipo.

E infine, com’era penosamente ovvio fin dal principio, la IDI non si suicida affatto: ha trovato nell’amicizia con la Portinaia il buon motivo per vivere. Posso dire che l’avevo detto?

Quindi, insomma, l’ho letto. L’ho letto tutto, sono partita prevenuta e strada facendo non ho trovato gran motivi per cambiare opinione. E’ senz’altro un libro astuto, ma a parte questo trovo pochi meriti da riconoscere a Mme Barbery. LEdR è una miscela di luoghi comuni, arte&filosofia in pillole, captatio benevolentiae mascherata da tutt’altro e acidità sociale, il tutto confezionato con occhio decorativo e una punta di snobismo.

Evidentemente se si deve giudicare dal successo enorme, la ricetta funziona.

Mag 17, 2010 - grilloleggente    2 Comments

Pag. 198

Tra le prove tutte le sere e l’opera a Zurigo, non ho avuto molto tempo, ma tant’è: pag. 198.

E così Monsieur Ozu è arrivato, e non solo è proprio il regista*, ma essendo un artista giapponese (e non un Occidentale ottuso) ha sgamato Renée al primo colpo. Però, essendo un Giapponese delicato e gentile (e non un villanzone occidentale) ha aspettato qualche giorno prima di sgamarla ancora di più* e invitarla a cena.

A cena, sì. E allora abbiamo assistito a una trasformazione à la Cenerentola, con Manuela (la domestica portoghese, ricordate?) nelle vesti di fata madrina. Come sia andata la cena, ancora non lo so, perché Renée, sulla soglia dell’appartamento di Monsieur Ozu, si è bloccata in estatica contemplazione della copia di una natura morta fiamminga, e questo ha dato la stura a una serie di considerazioni teoriche sull’Arte che Mme. Barbery cerca di contrabbandare come un rallentamento del ritmo narrativo a fini di suspence.

In realtà, Mme Barbery sta tentando di contrabbandare un sacco di cose, a questo punto. Il fatto che proprio Monsieur Ozu venga ad abitare proprio al n° 7 di Rue de Grenelle mi sta anche bene, perché è il genere di straordinario incidente per cui esiste la sospensione dell’incredulità. Che anche lui sia un cultore di Tolstoj, che il gatto Lev compaia proprio al momento giusto, che un’inquilina sia lì per fare proprio la domanda che dà a Renée l’occasione di tradirsi con l’incipit di Anna Karenina, che la prima cosa che si vede aprendo la porta sia una natura morta – genere che Renée ama alla follia, anche se non l’abbiamo mai saputo prima di adesso – be’ tutto questo comincia a sembrarmi un po’ tanto da ingoiare. La mia incredulità comincia a sentirsi precariamente sospesa, e potrebbe franarmi in testa da un momento all’altro.

E poi, naturalmente, c’è l’Insopportabile Dodicenne Innominata. Avete notato che è stata promossa da Dodicenne Innominata a Insopportabile Dodicenne Innominata? Ecco, naturalmente la IDI ha fatto subito amicizia con M. Ozu, il quale, altrettanto naturalmente, l’ha invitata (sola tra i condomini) a prendere il tè insieme alla sua migliore amica, è affascinato dalla sua conversazione e la mette a parte delle sue elucubrazioni sulla Portinaia. Ora, vediamo un po’, risalendo in senso inverso (e saltando la conversazione). La Portinaia, prima di Ozu, la IDI l’aveva nominata una volta per sbaglio. All’improvviso, scopriamo che ci ha fatto su dei pensieri, che le ha visto un libro di filosofia nella borsa della spesa, che la sospetta di non essere quello che vuole sembrare, che la crede dotata dell’eponima eleganza del riccio. A little abrupt. Ma credo che mi si voglia indurre a pensare che la IDI fiorisce sotto la benefica e benevola influenza di M. Ozu, perché altrettanto all’improvviso scopriamo che la IDI ha, dopo tutto, una migliore amica. Stupiti, vero? Dopo essersi atteggiata ad asociale completamente isolata per metà abbondante del libro, la cara ragazzina c’informa dell’esistenza di Marguerite, la sua migliore amica da due anni, mezza francese e mezza nigeriana, “dal punto di vista concettuale e logico non un fulmine”, ma allegra, bella e dalla battuta sempre pronta.

Non so ancora se Marguerite conterà un granché nell’economia generale del romanzo; per adesso sospetto che sia solo parte dell’arredamento. Voglio dire: Monsieur Ozu, lo si è detto, è giapponese, come pure la sua adorabile nipotina Yoko; Marguerite è per metà nigeriana; Paul N’Guyen, il giovane, capace e bel segretario di M. Ozu, è per metà vietnamita**, la domestica Manuela è portoghese, e questi sono (con le note eccezioni della Portinaia e della IDI), i soli personaggi del romanzo provvisti di finezza d’animo, freschezza vitale e bontà di cuore. Capita l’antifona?

Insomma, mi sembra di annaspare vieppiù tra luoghi comuni, luoghi comuni e altri luoghi comuni che né il finto rude candore dell’autodidatta, né la supponenza finto-ingenua dell’infanzia superdotata, né la robusta dose di affettazioni multiculturaliste riescono a rendere meno comuni. E dire che Renée mi piaceva, all’inizio… ma credo di averlo già detto altrove: sebbene mi piaccia essere condotta a spasso per molte pagine, mi aspetto di essere condotta a spasso con garbo, sottigliezza e rispetto, grazie.

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* Se a qualcuno interessasse, Renée si è tradita citando Tolstoj, del che ha dato la colpa a un caso lampante d’insaputo freudiano.

** Renée riconosce alla metà europea di N’Guyen i seguenti meriti: alta statura, zigomi slavi, occhi chiari. Le qualità spirituali sono tutte vietnamite. D’altra parte, nemmeno la mamma del giovanotto è francese, ma bielorussa: chissà se un Bielorusso conta come un Occidentale?

*ETA: Argh! Ennò, no, no! M. Ozu non è il regista, dopo tutto. E’, pensate un po’, un lontano cugino!! Arrossisco fino alla radice dei capelli… potrei dire che sono stata indotta a crederlo, potrei dire molte cose, ma il fatto è che non ho prestato attenzione. Quindi sono qui che pontifico e poi mi lascio sfuggire i dettagli. A riprova della mia buona fede, tuttavia, invece di emendare il post alla chetichella per nascondere la mia storditaggine, ammetto tutto pubblicamente. Deducetene quello che volete: o, per quanto mi sforzi, proprio non riesco a lasciarmi prendere a sufficienza da questo libro, oppure la mia non è un’analisi affidabile. Your choice, a questo punto.

Mag 11, 2010 - grilloleggente    Commenti disabilitati su Pag. 113

Pag. 113

Uffa.

Dopo la meravigliosa – sì, meravigliosa! – scena della seconda nascita di Renée a scuola mi ero illusa: ecco la poesia, ecco la bellezza, ecco che finalmente ci siamo…

E invece no. Archiviata la faccenda in una paginetta, si è tornati a girare in tondo. Kant, il gatto Lev, un condomino, l’altro condomino, i poveri & i ricchi, la Manuela portoghese, il tè al gelsomino, l’ottusità imperante… Ieri sera ho chiuso sull’ampiamente irrilevante sottocapitolo in cui la Portinaia e la diciannovenne Olympe (finalmente una condomina che si salva, ma è una dolce ragazza che vuole fare la veterinaria in campagna) discutono con dovizia di particolari la cistite idiopatica da stress della gatta Constitution.

Questo mi ha fatto sorridere, ma non per meriti del libro in sé: il fatto è che ce l’ho anch’io il gatto con cistite idiopatica da stress*, con pari divertita esasperazione del veterinario e mia.

Detto ciò, tuttavia, nelle ultime tre righe di questo capitoletto è giunta la prima cosa che somigli, anche da lontano, a un svolta della trama: la notizia che la neo-vedova del quarto piano (o è del sesto? Francamente non tengo il conto) vende l’appartamento. Anche senza la quarta di copertina sarei arrivata a dedurre speranzosamente che questo preluda all’arrivo di un nuovo e significativo condomino. Avendo letto la quarta in questione, suppongo che si tratti di Monsieur Ozu. Sarà poi il regista giapponese del cui lavoro la Portinaia è tanto éprise? Sarà un parente? Sarà un omonimo? Stiamo a vedere.

In ogni caso è un Giapponese, e quindi si preannunciano ulteriori diluvi di camelie sul muschio, tè al gelsomino ed altre espressioni di nipponica raffinatezza, perché se qualcosa si è chiarito in queste cento e tredici pagine, è che la Portinaia, la Dodicenne Innominata e Mme. Barbery adorano all things Japanese.

Tant’è che anche l’andamento narrativo di questa storia è molto giapponese**: come si spiegherebbe altrimenti che, a un terzo del libro, non abbiamo ancora fatto altro che predisporre la scena e sistemarci dentro i personaggi? Ripeto: il primo snodo della trama è a pagina 113, e dovete ammettere che, per una persona ossessionata dalla fabula come la sottoscritta, c’è di che lacrimare un pochino…

E intanto lo snodo c’è stato, il che non è una precisa garanzia del fatto che ce ne saranno altri, ma tirem innanz.

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* E guai a chi è anche solo tentato di suggerire che la colpa dello stress sia mia, per averlo chiamato Udrotti.

* Una volta o l’altra vi narrerò l’epica storia di come mi ritrovai esposta a Viaggio a Izu.

Mag 7, 2010 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Pag. 35

Pag. 35

Dunque, l’ho iniziato. L’Eleganza del Riccio, intendo. E a titolo di segno di buona volontà, ci ho anche messo uno dei miei segnalibri preferiti (nastro di seta color porpora con un motivo a foglie)

Solo che, essendo una persona più furba della media, ho qualcosa che se non è un’influenza ci somiglia molto – a maggio! – e quindi al momento non sono una lettrice più fulminea del creato universo.

Quindi, sì: pagina trentacinque in tutto e per tutto. Allora, la Portinaia tutto sommato m’intriga, mentre per ora la voce della Dodicenne Innominata suona… non so, in qualche punto della scala tra fasulla e pretenziosa, ma comunque irritante. Il contrasto tra la vacuità, la meschinità e la grossolanità sostanziale dei ricchi da una parte, e dall’altra l’amore per la conoscenza e la signorilità innata (anche se talora dissimulata) dei poveri mi sembra un po’ insistito. Magari è presto per dire, ma di sicuro è molto insistito nelle prime trentacinque pagine. Sospendiamo il giudizio, e ci mancherebbe.

Di sicuro, per un libro che si scaglia con tanta veemenza contro i luoghi comuni, l’inizio mi sembra singolarmente zeppo di luoghi comuni (l’idiotino di buona famiglia che si gasa leggendo Marx, la grazia inattesa del rugbista maori, la domestica portoghese, l’incompresa profondità dei manga…) ma può ancora darsi che sia un’impressione creata con uno scopo preciso, magari un ribaltamento, un twist di qualche genere. Stiamo a vedere.

Per ora non sono conquistata. Però, prima di chiudere il libro, ieri sera ho dato uno sguardo all’inizio del capitolo successivo: ricordi di scuola della Portinaia, parrebbe. Ripeto: la Portinaia m’intriga. Qui vit verra.

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Oh, e siccome il paragrafo che segue si qualifica come spoiler, i tre o quattro altri platanicoli che, come me, non hanno ancora letto il Riccio, faranno bene a fermarsi qui.

Ad ogni modo, la Dodicenne Innominata ha precise intenzioni suicide, a meno che non trovi qualcosa di tanto bello (umano, animale, vegetale o minerale) da convincerla che vale la pena di vivere. Perché ho il forte, fortissimo sospetto che questo qualcosa finirà con l’essere qualche tipo di amicizia con la Portinaia assetata di conoscenza e bellezza? Hm… talk of telegraphing a story!

Mag 6, 2010 - libri, libri e libri    2 Comments

Bandiera Bianca

E va bene, mi arrendo.

Cedo alla forza dei numeri.

Di solito non leggo i libri circondati da troppo hype. Non ho letto La Solitudine dei Numeri Primi, non ho letto nemmeno un romanzo di Camilleri o di Faletti, ho abbandonato Va Dove Ti Porta Il Cuore a pagina sei, non ho letto Il Codice Da Vinci, ho evitato Baricco per quanto potevo, non ho letto Il Cacciatore di Aquiloni, non ho letto Gomorra… L’ho detto più di una volta: vivo su un platano. E, mi si fa notare, probabilmente sono anche un pochino snob.

Però adesso sono sopraffatta dall’entusiasmo e dallo zelo missionario di troppe persone di cui mi fido letterariamente, tutte convinte che la mia vita manchi di un quid di luce e gioia se non leggo Il Libro. E quindi, dopo molti mesi di fiera resistenza, ecco che capitolo. Mi arrendo senza condizioni, e stasera (prove permettendo) comincio a leggere L’Eleganza del Riccio.

Oddìo, magari proprio senza condizioni no: non cedo con buona grazia, temo. Mi ci sento un po’ trascinata kicking e screaming, e parto prevenuta. Lo so che è pessimo da parte mia, ma non posso tacitare quella vocina subdola che continua a sussurrarmi “non ti piacerà. Non può piacerti. Sai benissimo che non può piacerti, per costituzione, per forma mentis, per spirito di contrarietà. Ti verrà qualche violenta reazione allergica, ci puoi scommettere. A pagina 10 sarai annoiata; a pagina 40 sarai di umore sarcastico; a pagina 65 considererai seriamente di piantare tutto – e sarai arrivata così avanti solo perché, essendoti sbilanciata su SEdS, ti sentirai in dovere di…

Plaf!

E questo era il rumore del cuscino che ho appena schiacciato sulla Vocina Subdola, nel tentativo di zittirla.

Quindi, stasera comincio. E vi farò sapere, vi terrò aggiornati con un bollettino di lettura, perché poi magari sono capace di cambiare idea e trovarlo incantevole – a volte succede anche questo: sono irragionevole, ma non irragionevolmente irragionevole.

E adesso, a noi due, portinaia di Mme Barbery!

Liberamente Tratto

Così, a quanto pare, Muriel Barbery non è soddisfatta del film che hanno tratto dal suo libro L’Eleganza del Riccio, e tiene a farlo sapere.

Non ho visto il film, e devo confessare di non avere nemmeno letto il libro. E’ raro che mi avventuri a leggere un libro circondato da tanto hype… è più forte di me. Non ho letto nemmeno (tremo nello scriverlo) La solitudine dei numeri primi… 

Ma non divaghiamo. Il punto è che solidarizzo cordialmente con la signora Barbery, da lettrice ancor prima che da scrittrice. Mi piacerebbe dire che non guardo mai i film tratti dai libri che mi sono piaciuti, ma non sono così saggia. Li guardo e spesso rimango delusa. Oppure leggo il libro dopo avere visto il film, e scopro che si tratta di tutt’altro.

Per esempio, sapevate che A Colazione da Tiffany non finisce affatto con il gatto ritrovato e Holly e Paul che si abbracciano sotto la pioggia? Oh, proprio no.

Ma pare che agli sceneggiatori tutto sia concesso… be’, in realtà no: fanno quello che fanno (e talvolta commettono le atrocità che commettono) per aderire agli schemi che sono più promettenti dal punto di vista degli incassi… Però viene da domandarsi che cosa sarà parso a Paolo Maurensig, per citarne uno, delle bizzarre (chiamiamole così) modifiche al suo Canone Inverso. Qualcuno, un giorno, mi spiegherà la necessità narrativa dell’aggiungere una figlia e un lager alla vicenda, e di trasformare i baroni austriaci Blau in ricchi ebrei à la Finzi Contini… Senza contare che il David del film non potrebbe essere più diverso dal Kuno del libro.

Perché è vero che comprimere un romanzo in un’ora e mezza di film può richiedere soluzioni drastiche, eliminazione di episodi o frullato di personaggi secondari, ma lo spirito del libro non conta proprio nulla? Una volta che abbiamo il titolo e il nome del protagonista dobbiamo ritenerci contenti?

Prendete La Lettera Scarlatta di Hawthorne, che è una storia molto cupa di colpa, peccato e tradimento cum ostracismo sociale, sine perdono… E prendete l’adattamento cinematografico del ’95, con Demi Moore. No, voglio dire, Demi Moore come Hester Prynne! Già una scelta simile lascia perplessi, ma aggiungeteci una serie di scene di sesso gratuite, un’abbondanza di rivendicazioni simil-femministe (e ricordo che stiamo parlando di una storia ambientata nel XVII Secolo) e un L-I-E-T-O F-I-N-E, e cosa avrete? Di sicuro, Nathaniel Hawthorne che si rivolta nella tomba, e in più un film mediocre.

A volte la questione è tutta diversa. Il Lord Jim di Richard Brooks, tratto da Conrad, si prende una certa quantità di licenze secondarie rispetto al romanzo, per lo più scorciatoie rispetto a rapporti interpersonali che Conrad crea per sovrapposizioni obiettivamente poco adatte ai ritmi cinematografici. Il problema è quando il film perde per strada lo spirito e il significato del romanzo. Invece di una tragedia dell’incapacità di venire a patti con se stessi e con la realtà, ci si ritrova con un’avventurona colonial-nautica. Una delle particolarità di Lord Jim è che si tratta di una trama melodrammatica narrata in modo superbo attorno a un personaggio caratterizzato nel più sottile, dolente e tragico dei modi. Il film coglie il melodramma e manca di gran lunga tutto il resto. Risultato: Peter O’Toole che si aggira per due ore e mezzo tra tolde di navi e palme, con gli occhioni blu sgranati nel vuoto.

Per restare nell’ambito dei miei grudge personali, c’è una versione Anni Quaranta di Kidnapped in cui David ha una decina d’anni anziché diciotto, ed è provvisto di una sorella maggiore (in gonna di tartan, maniche a sbuffo e scialle) che -indovinate un po’ – finisce con lo sposare Alan! Er… sì.

Quando poi si tratta di adattamenti per bambini, si passa ogni limite. La buona, vecchia Disney si è macchiata di una certa quantità di crimini piuttosto eclatanti, come il lieto fine de Il Gobbo di Notre-Dame, o quello de La Sirenetta, tanto per citarne due. Tanto, né Victor Hugo né Andersen possono più protestare… Alexander Lloyd avrebbe potuto, per la macellazione della sua Saga di Prydain ne Il Calderone Magico, e anzi mi chiedo se non l’abbia fatto.

Tutto sommato, però, la Disney non mostra altro che una tendenza recidiva ad addomesticare finali… per restare nell’ambito dei film d’animazione, che dire dell’inqualificabile Il Castello Errante di Howl di Miyazaki? Oh, è tutto molto grazioso, squisitamente disegnato, poetico, delicato… peccato che del romanzo omonimo da cui è tratto conservi il titolo, un certo numero di protagonisti e qualche vago riferimento alla trama, spostati però su una vicenda antimilitarista completamente estranea. Questo perché a Miyazaki stanno a cuore i temi pacifisti e le macchine volanti… E adesso vi state ponendo anche voi la mia stessa domanda, vero? Perché diavolo doveva prendere il titolo e i protagonisti di qualcun altro per raccontare la storia che stava a cuore a lui?

A suo tempo, intervistata in proposito, Diana Wynne-Jones, l’autrice del romanzo, si affrettò a dire che non aveva avuto nulla a che fare con la realizzazione del film. Insomma, se ne discostò quanto poteva, anche se con un po’ meno veemenza di quella che ha usato Muriel Barbery. Tuttavia, immagino che la reazione sia stata la stessa: “So di avere venduto i diritti, ma perché, perché perché hanno fatto questo al mio libro”?

Si può capire che, in queste circostanze, liberamente tratto diventi davvero l’ultima consolazione, a cui aggrapparsi con le unghie e con i denti. E quindi non so che cosa il regista de Il Riccio abbia tradito, se lo spirito, la trama, l’atmosfera del libro o tutto quanto, ma per quel che vale, M.me Barbery, sono con lei.