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Mag 27, 2016 - libri, libri e libri, romanzo storico, Shakeloviana, Shakespeare Year, teatro    Commenti disabilitati su Liste, Pagine, Letture…

Liste, Pagine, Letture…

ShakelovianaVi ricordate di Shakeloviana?

Romanzi, teatro, cinema, radio… A est della Manica fatichiamo a immaginare la quantità di storie che il mondo anglosassone ha dedicato all’uno e all’altro. E non è soltanto una questione di quantità, ma anche di selvaggia varietà: romanzi storici in senso stretto, ça va sans dire, ma anche gialli, ucronie, rinarrazioni, fantasy, spionaggio, metateatro, storie di fantasmi, la Questione del Vero Autore, l’omicidio a Deptford…

A patto che ci fossero in scena Marlowe e/o Shakespeare, andava bene, giusto?

Da un certo numero di anni vado a caccia di queste cose – e poi ci posto su. Molto di questo lavoro (such hardships!) risale al 2014 – anno di Shakespeare & Marlowe – ma poi mi sono detta: perché non continuare? E, già che ci siamo, perché non dedicare alla faccenda una pagina accessibile dalla colonna qui a destra? Da tempo mi proponevo di farlo, e adesso, con l’Anno Shakespeariano, è arrivato il momento.

E sì, il festeggiato deve dividere la lista con Kit Marlowe – ma mettiamola così: nel 2093 Shakespeare si prenderà la sua rivincita.

Per ora, la pagina si trova qui.

Giu 23, 2014 - Shakeloviana    2 Comments

Shakeloviana: The Reckoning Of Kit And Little Boots

indexVi ho mai detto quanto mi piace il modo in cui, nel mondo anglosassone, i Classici magari portano la maiuscola, ma non sono mai relegati sotto una campana di vetro impolverato?

Ecco, questo play è un esempio di quello che intendo. La Resa dei Conti di Kit e Stivalino (e con “Stivalino” s’intende Caligola), è brillante, irriverente, originale – e molto, molto diverso da quello che la frase “un play su Marlowe” tende a farci immaginare.

Nat Cassidy prende Kit subito dopo la coltellata fatale a Deptford, e poi costruisce sulla buona e vecchia idea che prima di morire ci si veda scorrere davanti tutta la vita. Solo che a fare da guida è un Caligola un tantino squilibrato – sul quale Kit aveva accarezzato l’idea di scrivere una tragedia. E onestamente, Caligola sarebbe stato proprio il tipo di personaggio che poteva interessare a Marlowe, così che l’idea di partenza è tanto brillante quanto plausibile, e lo diventa sempre più, mano a mano che Caligola in persona mette in luce tutti i punti di contatto (veri o immaginari o inclinati a 45° e tinti di violetto) tra la sua storia e quella del suo mancato autore. A cominciare da due terribili sorelle, che per tutta la storia si esibiscono in metamorfosi da Anne e Dorothy Marlowe a Drusilla e Livilla, e ritorno. E poi c’è uno Shakespeare a malapena articolato, un bevitore di parole altrui che scrive le sue storie come se dovesse raccontarle ai suoi bambini, e diventa eloquente soltanto per iscritto.

E ci sono questioni di identità, di arte, di umanità, di potere – il tutto servito con abbondanza di dialoghi efficaci e humour nero. Si ride, si sobbalza, si riflette… È possibile che TRoKaLB* non sia , in senso stretto, il mio genere – ma questo va soltanto a dimostrare, una volta di più, che deviando occasionalmente dal proprio genere, si fanno ottime scoperte.

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* No, non me lo sono inventato. Cassidy per primo lo chiama così. O in alternativa TRoK&LB… Tra parentesi, nell’immagine lì sopra, è lui quello nei panni di Kit.

Giu 2, 2014 - Shakeloviana    Commenti disabilitati su Shakeloviana: Un Cadavere A Deptford

Shakeloviana: Un Cadavere A Deptford

E così ritorna anche Shakeloviana… sembra proprio che stiamo ritornando alla normalità, vero?

English: Anthony Burgess visited us at home in...Ebbene, oggi parliamo di Anthony Burgess – che magari tutti conosciamo più che altro per Arancia Meccanica, ma era un poeta, linguista, commediografo, traduttore, critico letterario, compositore (scrisse la sua prima sinfonia a diciotto anni), autore di libretti d’opera e romanziere abbastanza versatile da scrivere romanzi diversissimi tra loro – e uno di questi è A Dead Man In Deptford , pubblicato nel 1993, in occasione del quattrocentesimo anniversario della zuffa fatale chez Mrs. Bull.

In realtà, e non se siamo spaventosamente sorpresi, non furono pochi i romanzi marloviani pubblicati quell’anno – ma questo… ah, questo!

A Dead Man in DeptfordQuesto è pieno di meraviglie e di sorprese, a partire dal linguaggio… pseudoelisabettiano? Semielisabettiano? Metaelisabettiano? Whatever, ma non immaginatevi una di quelle legnose, faticosissime collezioni di calchi, per favore. Au contraire, il linguaggio di Burgess è ricco, vivido, efficace, scintillante, denso… e non so quanto di tutto ciò vada perso se leggete la traduzione – perché, per una volta, la traduzione* c’è: Un Cadavere A Deptford, pubblicato da Garzanti e disponibile su Amazon.it. E poi, linguaggio a parte… be’, non troppo a parte, se vogliamo, in un romanzo a proposito di Kit Marlowe scritto da Anthony Burgess – ma linguaggio a parte, che dire della meravigliosa voce narrante, che esordisce presentandosi come inaffidabile e del tutto incurante della fiducia del gentile (o non troppo) lettore? O della famiglia Marlowe a Canterbury, dapprima così orgogliosa del figlio/fratello destinato a prendere gli ordini, e poi via via dubbiosa, spiazzata e poi scandalizzata da quel che Kit diventa? O della progressione delle illusioni di Kit a proposito di sé stesso, dell’arte, di Tom Walsingham e del mondo in generale? O del dialogo con (forse) Dio nella Cattedrale di Reims?

Ecco, il dialogo con (forse) Dio è una di quelle cose meravigliose che si leggono, rileggono e rileggono ancora, in reverente ammirazione per la combinazione di voci perfette, aerea leggerezza e vertici di acutezza e profondità. Una di quelle pagine che si vorrebbe tanto saper scrivere una volta nella vita…

Ma insomma, si è capito che questo libro mi piace proprio tanto, vero? Naturalmente, il fatto che ci si parli di Marlowe aiuta, ma è davvero una gemma di romanzo storico – magistrale nella narrazione, superlativo nella caratterizzazione dei personaggi e brillante nel linguaggio.

A mio timido avviso, da leggersi, da leggersi, da leggersi.

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* E dico che non so che cosa vada perduto perché non la conosco affatto… magari mi documenterò e vi saprò dire.

 

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Apr 14, 2014 - Shakeloviana    6 Comments

Shakeloviana: Il Libro Dell’Aria E Delle Ombre

Cover of "The Book of Air and Shadows"The Book Of Air And Shadows, di Michael Gruber – che non è stato tradotto in Italia e forse non lo sarà mai – è la prova provata che si può benissimo scrivere da dio e perdersi lo stesso molte cose per strada.

Prima di tutto, confermo che la scrittura è davvero notevole, con quel genere di frasi che torni indietro a rileggerti per il gusto di farlo, tanto sono eleganti e rotonde. E funziona benissimo sia nella parte narrata in prima persona da Jake Mishkin, superavvocato specializzato in diritti d’autore, sia nella porzione di Albert Crosetti, giovane aspirante regista che lavora in un negozio di libri antichi nella speranza di pagarsi, un giorno, la scuola di cinema. Giurerei un po’ meno sull’Inglese elisabettiano delle lettere di Richard Bracegirdle: non suona tanto elisabettiano quanto contemporaneo con uno spelling bizzarro, e questo è il primo difetto. Anche ammettendo che, come dice Josephine Tey, gli Elisabettiani non dovessero suonare antiquati all’orecchio dei loro contemporanei, la loro scrittura deve suonare antiquata ai nostri occhi. Antiquata, non in maschera.

E dapprincipio pensavo che fosse proprio un peccato che Gruber non si fosse disturbato un po’ di più a curare il suo Inglese storico, perché l’idea di un manoscritto shakespeariano ritrovato non sarà originalissima, ma l’idea che il testo perduto fosse il frutto di una cospirazione d’epoca non mi dispiaceva. Insomma, un po’ per l’argomento e un po’ di più per la scrittura (o almeno tre quarti della scrittura) ero assolutamente decisa ad apprezzare questo libro.

Ma poi…

Non credevo che mi sarebbe mai capitato di lamentarmi di troppa caratterizzazione, ma è successo: nello sforzo di rendere i suoi personaggi realistici, Gruber si è lasciato prendere un tantino la mano, methinks. Non c’è dubbio, Jake Mishkin è un personaggio complesso… talmente complesso che ogni tanto le sue divagazioni a proposito di se stesso mettono in stallo la trama per una o due pagine. Talmente complesso che, nonostante il diluvio di tratti di carattere, non se ne trova uno con cui simpatizzare. So di avere detto che non è necessario rendere simpatici i personaggi, ma è invece necessarissimo consentire al lettore di identificarsi con qualcuno, sennò lo si perde per strada. E francamente, è meglio se il protagonista “antipatico” lo è almeno in grande stile. Ma Jake no. Jake è insopportabile, ed è pure meschino. Crosetti lo sarebbe meno, ma è così incomprensibilmente ossessionato dall’odiosa Carolyn Rolly che si perde ben presto ogni tentazione di simpatizzare con lui. Personalmente ho ancora più difficoltà ad immedesimarmi negli stupidi recidivi che negli antipatici. Richard Bracegirdle, la spia seicentesca, è difficile da individuare, con questa voce un poco fasulla. E tutti gli altri… È mai possibile che tutta la (numerosa) popolazione di questo libro abbia un passato che riesce ad essere al tempo stesso improbabile e un cliché? C’è l’autista palestinese che prima era un sollevatore di pesi; c’è il crittografo polacco che prima era un agente segreto; c’è il prete gesuita che prima era un soldato delle forze speciali; c’è la guru della finanza online che prima era un’olimpionica. Considerando anche la quantità di gente che non è affatto chi dice di essere, capirete che cosa intendo quando dico che il tutto è un nonnulla eccessivo.

E poi, quand’anche fossi disposta a perdonare tutto il resto per amore della bella scrittura, ecco che arriva il peccato capitale. L’idea di Shakespeare coinvolto suo malgrado in una cospirazione (che a sua volta non è nemmeno la cospirazione che sembra) non sarebbe male di per sé, ma ho difficoltà ad immaginare il buon Will che, in tutto candore, si fa persuadere a scrivere una tragedia sulla madre decapitata del suo attuale re (per di più mandata al patibolo dalla regina precedente). Utterly unpolitical, e se c’era qualcosa a cui Shakespeare era attento, erano gli umori della corona e del pubblico. Hm… Ma supponiamo ancora di ingoiare intera anche questa, e veniamo al finale. Considerate tutto un lungo libro di misteri, indagini, inseguimenti, sparatorie per strada, omicidi, sparizioni, sostituzioni di persona, ritrovamenti misteriosi, incendi, rapimenti, minacce, attentati… tutto sulle tracce di questo fantasmagorico lavoro shakespeariano mai, ma proprio mai, udito nominare prima. E come va a finire?

(Ecco, se avete anche solo la minima intenzione di leggere il libro… e non è che vi consigli di leggerlo, sia chiaro – ma se volete farlo, forse questo è un buon punto in cui fermarsi.

Otherwise, avanti Savoia.)

La tragedia si trova, ed è effettivamente di Shakespeare. È il ritrovamento letterario del millennio? Manda alle stelle la pressione arteriosa del mondo accademico globale? No, signori, nulla di tutto ciò. Nel più floscio degli anticlimax immaginabili, la cosa verrà probabilmente tenuta segreta, i nostri vastamente antipatici eroi si dividono il cospicuo bottino e se ne vanno, ciascuno per la sua strada, più ricchi di prima ma altrettanto depressi e/o idioti e/o odiosi, e il cielo è grigio sopra New York. Fine.

Soddisfacente? No, vero? Per niente: irritante, confuso e frustrante. Proprio la sensazione con cui ho chiuso The Book of Air and Shadows dopo averlo finito. A quel punto, persino la scrittura vellutata e liscia mi dava l’impressione di avere mangiato troppa mousse al cioccolato.

Peccato.

 

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Mar 31, 2014 - Shakeloviana, teatro    2 Comments

Shakeloviana: Will Shakespeare

Dopo qualche strologamento, ho deciso di iniziare Shakeloviana con un vecchio (1921) play – e no, non è il Marlowe di Josephine Preston Peabody.

In tutta probabilità parleremo anche di quello, benché ne abbia già accennato qua e là, ma per il momento direi che possiamo cominciare con qualcosa che, nonostante il titolo, si occupa di entrambi i nostri festeggiati – e se ne occupa in modo… vogliamo definirlo bizzarro?

Ma sì, diciamo pure bizzarro, e anche ragionevolmente inconsueto. Perché sapete bene che una delle domande senza risposta a proposito del teatro elisabettiano è se Shakespeare e Marlowe si conoscessero e, se non ci sono documenti di sorta a provarlo, le probabilità che si conoscessero sono altine. Voglio dire, colleghi, coetanei e, almeno per un periodo, rivali in un mondo piccolo e denso come la Londra teatrale di un’epoca in qui si viveva gli uni nelle tasche degli altri… Non incomprensibilmente, narratori e autori teatrali hanno sempre abbracciato con entusiasmo l’idea che si conoscessero eccome, perché il gusto di farli interagire fittiziamente non è cosa cui si rinunci con facilità.

English: English novelist and playwright Cleme...Sul tipo di interazione ci sono scuole di pensiero, e Clemence Dane, con il suo Will Shakespeare, an Invention in Four Acts, appartiene a una scuola piccola piccola. Per ora, nel corso delle mie letture, di appartenenti a questa scuola ne ho incontrati soltanto due – ma andiamo con ordine.

Clemence Dane in realtà si chiamava Winifred Ashton, ed era un personaggio piuttosto singolare a sua volta: romanziera, playwright, giallista collaborativa, saggista occasionale, pittrice e scultrice*. Magari qualche volta parleremo di lei, ma per ora limitiamoci a Will Shakespeare, annata 1921, quattro atti scritti in pentametri giambici piuttosto… er, magniloquenti. Il primo atto è ambientato a Stratford, con un giovane Shakespeare irrequieto e visionario e una Anne Hathaway che, all’epoca, sarebbe di sicuro finita al rogo per stregoneria nel giro di tre scene. È un diluvio di inganni, controinganni, ricatti morali, premonizioni e fantasmi… suona gonfio? Lo è – oh, lo è.

Dopodiché ci si sposta a Londra, e s’incontra Marlowe, che è un caro ragazzo di genio, ben contento, nel tempo sottratto a un’ispirazione torrenziale e a una vita sociale intensa anzichenò, di prendere sotto la sua ala quel simpatico campagnolo così promettente. E dunque i nostri due non solo si conoscono, ma sono grandi amici e writing buddies, in una maniera che pochi altri autori hanno considerato anche solo vagamente plausibile…

Ma non è questo che avevo in mente nel parlare di bizzarria. Perché dovete sapere che l’idillio s’interrompe quando entra in scena la Dama Bruna dei Sonetti – qui una Mary Fitton particolarmente ambiziosa e calcolatrice che, pur apprezzando l’omaggio di Will, nutre molto più interesse per il celebre e fiammeggiante Kit.

Mary Fitton

Mary Fitton

E Marlowe finisce per cedere alla tentazione – pur con molte remore e molti patemi – quando la terribile Mary lo raggiunge a Deptford, vestita da ragazzo e sotto il nome di Francis Frizer – con il quale, prima delle scoperte di Leslie Hotson, si credeva di identificare l’assassino di Marlowe. Ma era tutto un equivoco, ci dice Clemence Dane, perché a vibrare la pugnalata preterintenzionale è uno Shakespeare in crisi di gelosia – salvo pentirsene gravissimamente prima di subito.

Ops…

Per una parvenza di soluzione ci vorrà la regina in persona, maternamente addolorata per la morte di Marlowe, ma ancor più maternamente decisa a proteggere Shakespeare – e a bandire da corte Mary-la-tentatrice-infedele-e-senza-cuore che, come ognuno può vedere, è la causa di tutto.

Segue finale  tanto purpureo quanto il primo atto, con uno Shakespeare incatenato alla sua penna, tormentato da rimpianti e rimorsi che riversa nei fantasmi dei suoi personaggi che lo vengono a visitare… Sipario.

Ebbene sì: Shakespeare uccide Marlowe – però non lo fa del tutto apposta, e gli dispiace dannatamente. Ve l’avevo detto che era bizzarro.

A titolo di conclusione, lasciate che vi dica che Will Shakespeare non è un granché. Verboso, melodrammatico e veemente, popolato di gente che declama anziché parlare, con una bella malvagia senza un briciolo di coscienza e nulla che la redima, mi verrebbe da chiamarlo il prodotto di un’altra epoca, ma in realtà non fu mai molto popolare in teatro – salvo ricomparire di quando in quando alla radio o in televisione. Dalla sua ha, trovo, due cose: uno Shakespeare più convincentemente difettato di come lo ritraessero molti contemporanei di Ms. Dane, e un’interpretazione più originale di altre di quel che si sapeva all’epoca sulla morte di Marlowe. Di lì a una manciata d’anni sarebbe arrivato Hotson a chiarire molte cose, ma nel 1921 c’era molto più posto per qualsiasi quantità di speculazione selvaggia – compreso uno Shakespeare omicida preterintenzionale, anche se non credo che la Clemence facesse molto sul serio in proposito.

Casomai vi pungesse l’uzzolo di dare un’occhiata, trovate il testo su Internet Archive, in una varietà di formati.

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* Tre suoi lavori sono esposti alla National Portrait Gallery. Tra l’altro, due ritratti del suo grande amico Noël Coward.

 

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