Mettendo in Scena Marlowe – Atto III
Vi avevo detto che di plays su Marlowe ce ne sono tanti? Be’, era proprio vero. D’altra parte va detto che è un personaggio perfetto: poeta, tragediografo, ateo, spia, irrequieto sotto tutti gli aspetti con un talento per mettersi nei guai… Quindi non c’è da sorprendersi poi troppo se questa faccenda sta diventando una storia in molti atti.
Soprattutto se consideriamo come ai plays che hanno Kit per protagonista, vadano aggiunti quelli in cui il nostro giovanotto ricopre un ruolo più o meno secondario, di solito a lato di Shakespeare.
C’è persino un’opera lirica in proposito: William, musicata dallo svedese Tommy B. Andersson su libretto del parimente svedese Hakan Lindquist nel una dozzina d’anni orsono… Ora, il libretto non l’ho letto, ma da sinossi e interviste mi par di capire che la storia consista nel piazzare uno Shakespeare innamorato in tutti gli snodi della vita di Marlowe. I due si avvicinano gradualmente, il più cinico e fiammeggiante Marlowe comincia a ricambiare, i due cominciano a meditare di unione delle anime, dei corpi e delle penne – ma, prima che ciò possa accadere in pieno, arrivano Deptford e la coltellata fatale.
Un rapporto diametralmente opposto – ma a suo modo non meno stretto – si trova in The English Channel, di Robert Brustein, il cui Will Shakespeare non ha una personalità terribilmente definita. È una sorta di spugna che assorbe (e annota) tutto quello che sente. È una manciata di cera morbida, pronta a modellarsi su qualsiasi forma lo colpisca. È un ladro, dice Kit Marlowe. Un ladro di parole, di espressioni, di sentimenti – e occasionalmente di versi. E lo dice con qualche acidità – ma d’altra parte questo Kit non potrebbe mai essere così neutro e flessibile: un radicale fiammeggiante, è sempre lui a parlare in tutti i suoi personaggi. Marlowe foggia l’umanità a sua immagine e somiglianza, mentre Shakespeare foggia sé stesso in forma di varia e molteplice umanità. E quando Marlowe muore, il suo fantasma inappagato chiede a Will di essere la sua voce, il canale attraverso cui prendono vita le idee che la pugnalata fatale a Deptford ha, so to say, soffocato in culla. E Shakespeare accetta, e tutto diventa una faccenda di rapporto tra artista, ispirazione/i e opere…
Simili e diverse al tempo stesso sono le cose in Shakespeare in Love – e non sto parlando del film, ma della versione teatrale, in cui il ruolo di Kit è più ampio e più fondamentale. Qui Kit è l’amico e il confidente di Will, il cyrano ironico che gli suggerisce parte del sonetto 18 sotto il balcone di Viola, è il punto fermo la cui perdita fa maturare il ragazzo – e alla fine è il fantasma che rimette tutto in prospettiva. E la prospettiva, a differenza del film, non è quella della storia d’amore, ma quella del teatro. Diverso è il rapporto tra i due poeti, ma simile è la funzione di Kit: chiave di volta, ispiratore (più o meno diretto), pietra di paragone, passatore di testimone…
Insomma, può darsi che io sia di parte – ma si direbbe che non sia la sola: anche quando non è protagonista, Marlowe non rimane precisamente nell’angolo, vi pare? Alla fin fine è sempre la morte di Kit a fare di Will l’autore che è: senza Kit non ci sarebbe William Shakespeare – nel bene e/o nel male.