Ieri sera ho visto la registrazione della prima de I Promessi Sposi – Opera Moderna, andata in scena il 18 giugno scorso a San Siro. Ero curiosa e devo dire che non sono rimasta delusa: sembra che finalmente (con appena qualche decennio di ritardo) anche noi arriviamo all’idea che i grandi romanzi possono essere messi in musica – e lo facciamo in uno stile ricco e vivo, un po’ Lloyd Webber e un po’ Commedia dell’Arte.
Lo spettacolo è molto bello a vedersi, con un assaggio iniziale di teatro-nel-teatro, costumi raffinati, luci suggestive, coreografie piene di espressività ed energia e imponenti scene che ruotano per i cambi a vista, funzionali e belle al tempo stesso (chi ha visto Les Miserables riconoscerà qualche somiglianza). Coro e corpo di ballo sono ottimi ed entusiasti, e gl’interpreti variano dal competente al notevole – con qualche punta d’implausibilità: Don Abbondio echeggia un po’ troppo l’interpretazione di Sordi, Don Rodrigo grida più di quanto canti, Agnese ed Egidio appaiono fuori parte, Lucia paga un po’ l’emozione della prima, l’Innominato è il migliore in scena. La regia è serrata e ricca di belle intuizioni che sfruttano al massimo i vasti mezzi a disposizione. Tornerò sull’inizio metateatrale che presenta i personaggi in uno spaccato di prove, e poi citerò in particolare l’incubo di Don Abbondio, Verrà un giorno e la scena che mescola Addio Monti con la sera al villaggio del Capitolo VII. Qualche piccolo eccesso di zelo pedagogico (Lucia in azzurro pallido – quasi un’Alice lombarda – e l’entusiastico uso della macchina del fumo) e gli occasionali scivoloni (i pipistrelli dell’Innominato) si perdonano volentieri di fronte ai bellissimi quadri d’insieme e alla generale ottima qualità della produzione.
La musica di Pippo Flora è mossa, ariosa, accattivante, un po’ ineguale e ricca di spunti. Puccini, Britten, Bernstein, Lloyd-Webber, l’Opera Buffa e il musical italiano aleggiano in un insieme che mescola canti gregoriani e chitarre elettriche, raggiungendo punte entusiasmanti nelle scene corali e rischiando di sfarsi in banalità sentimental-melodiche in qualcuno degli a solo – in particolar modo quando si tratta di Renzo e di Gertrude. Gli echi pucciniani di Lucia diventano quasi un leit motiv, ma d’altra parte tutti i temi ricorrenti sono davvero ricorrenti, in particolare quello della folla, che ricompare spesso e con poche variazioni. E’ senz’altro un elemento di coesione della partitura, ma sfiora da molto vicino il rischio di diventare ripetitivo.
E adesso veniamo al testo di Guardì, sul quale – you guessed it! – si concentrano le mie perplessità. Per prima cosa, riconosco che non era facile condensare i decenni di lavoro di Don Lisander in un ragionevole numero di versi orecchiabili e scorrevoli. Dal punto di vista drammatico non ho nulla da dire: gli episodi sono ben scelti e con qualche soluzione originale (l’incubo di Don Abbondio, per esempio), il ritmo è buono, la logica narrativa ineccepibile. Detto questo, vorrei avere un centesimo per ogni volta in cui qualcuno dice Amore, Potere, Legge, Diritti e Disperato/a/i/e: non dico la cena, ma di sicuro potrei offrirvi l’aperitivo. Per dare a Lucia una voce semplice senza grossolanità, Manzoni aveva ridotto il vocabolario della fanciulla a poche centinaia di parole; Guardì sembra avere applicato il principio a tutto il suo libretto, con particolare enfasi sulla povera gente oppressa e indifesa, la malvagità congenita del potere e tutto il consueto – e non eccessivamente manzoniano -armamentario. Quando il coro di contadine lombarde si è definito “sempre in cerca di una possibile uguaglianza” ho creduto di slogarmi i bulbi oculari… L’inizio soffre alquanto di questa coloritura politica (perfettamente anacronistica per il Seicento dei personaggi e del tutto fuori registro per Manzoni) e non trae gran giovamento dagl’insistiti riferimenti al nonno Beccaria – poi delitti&pene scompaiono, la politica si stempera un po’ e rimaniamo con il lessico striminzito, le rime ripetitive e un paio di caratterizzazioni sommarie: non mi lamenterò dei morosi eponimi (e ammetto che rendere drammaticamente interessante la povera Lucia è a bit of a feat), ma ho da ridire sull’Agnese solo vagamente imparentata con quella del romanzo e la Gertrude ritratta in un tripudio di forzature sentimentali. Infine ci sono alcune cose lievemente buffe, come l’inno a Milano alla fine del primo atto: capisco l’intento di mostrare la meraviglia del giovane provinciale di fronte alla grande città, ma a furia di ecco Milano, dove la vita ti appartiene, dove tutto è bello, mi aspettavo che saltasse fuori Gaber da un momento all’altro…
Ad ogni modo, non lasciatevi ingannare dalla mia incontentabilità in fatto di testi: lo spettacolo è visivamente e musicalmente bello, a tratti emozionante, magnificamente prodotto, bene interpretato, e sprizza energia, entusiasmo e qualità. Spero che avvii una stagione nuova e non cocciantiana per il musical italiano.
A proposito, l’unica nota che mi ha davvero infastidita è proprio questa insistenza nel voler definire IPS un’opera moderna – concetto ribadito dall’onnipresente Baudo in una fulminea intervista post spettacolo: “questo è un musical, ma non in senso negativo,” ha detto il Pippo nazionale, come se il musical fosse un sottogenere deviato e leggermente disdicevole, non arte vera e propria. Non da oggi penso che il musical sia l’erede naturale dell’opera lirica ottocentesca: c’è davvero bisogno di essere schizzinosi in proposito?