E così, con oggi pomeriggio, è finito il mio primo run ufficiale: cinque repliche di Di Uomini E Poeti.
Cinque, non sei, perché la prima è stata cancellata per una combinazione di neve e influenza, ma lo sapete – oh, se lo sapete. A dire il vero non ne potete più di sentirmi parlare di Di Uomini E Poeti, ma portate pazienza ancora per oggi, mentre rimugino di teatro, di scrittura e di massimi sistemi applicati.
Cominciamo col dire che, contrariamente, alle mie pessimistiche previsioni, sono sopravvissuta al run e non sto scrivendo dall’oltretomba. Per questa volta, niente sincopi e niente fama postuma. Ci sono stati brevi momenti di sconforto, si sono intrattenuti fuggevoli pensieri di emigrazione a St. Helena*, si è invocata, senza considerarla seriamente, l’ipotesi di fare harakiri con una matita HB, ma si è trattato di piccoli cedimenti dovuti al meteo e alla proverbiale instabilità degli artisti.
C’è stato il fatto che le prime sono sempre prime, che nevicava e i marciapiedi cittadini parevano fatti di vetro insaponato, che il teatro era mezzo pieno – ma al momento sembrava proprio mezzo vuoto. Nonostante questo, il primo quarto d’ora della prima è stato un quarto d’ora di beatitudine – poi la compagnia si è fatta prendere da un filino di Empty House Syndrome… C’è stata una certa quantità di smagliature, e alla fine non è che il mio primo vero pubblico pagante sia stato calorosissimo.
Dopodiché le cose sono andate germogliando e fiorendo di volta in volta, e i piccoli incidenti come il telefonino dimenticato acceso in tasca da un attore, e la bizzarra non-recensione sulla stampa locale sono stati piccoli incidenti pittoreschi. È stato affascinante sedere in mezzo al pubblico per cinque volte di fila, dividendo la mia attenzione tra quel che succedeva sul palco, le reazioni del pubblico e gli appunti per la riscrittura.
E allora andiamo con ordine.
Come ho detto e detto e detto ancora, questo era il mio primo run. La prima volta che vedevo uno spettacolo – mio o altrui – per cinque volte in dieci giorni. Sapevo in teoria che in teatro mai nulla succede due volte allo stesso modo, ma constatare la pratica, per così dire, sulla mia pelle, è stata un’esperienza elettrizzante. Ad ogni replica si produceva una diversa qualità di tensione e di fluidità, un ritmo diverso, un diverso colore complessivo… “Non ti stufi di vederlo tutte le sere?” mi ha chiesto la bambina di un’amica, sentendomi raccontare della mia avventura. “Oltretutto, lo sai a memoria…” Ebbene, posso confessare che potrei continuare a lungo? Non foss’altro che per vedere in quanti altri modi ogni singolo attore può affrontare ogni singola battuta. Non sempre ho condiviso tutto, non tuttissimo mi è piaciuto ogni volta, ma le possibilità, le possibilità, le possibilità…
Il pubblico, dopo la prima è diventato più caloroso. Immagino che avere sfidato la tormenta per andare a teatro renda esigentissimi e freddini all’applauso**? E comunque, l’ho già detto, la prima non è stata affatto la migliore delle serate – come è collaudata tradizione in teatro. Che posso dire? Son cose che si prendono con più filosofia quando capitano a qualche altro autore. Epperò, la cosa che ho notato di più fin dalla prima sera, è stato il silenzio. DUeP non è il genere di lavoro che ecciti risate o reazioni facilmente registrabili a sipario aperto – ma c’era (caramelle a parte) quel silenzio immobile che significa attenzione. Oppure sonno profondo – ma se non altro nessuno ha russato. E poi, all’uscita, o via mail, o riferiti, o attraverso Twitter, arrivavano i complimenti. So di gente che si è commossa, di gente che è tornata una seconda volta, di gente che ha deciso di rileggere l’Eneide, di gente che era partita prevenuta e poi ha apprezzato… Non è solo merito mio – in teatro non è mai merito di una persona sola e la compagnia ha fatto un lavoro favoloso (con menzione speciale alla regia di Maria Grazia Bettini e al Vario di Diego Fusari) – ma lasciate che mi ci crogioli un pochino. Dopo tutto era la prima volta. E oggi pomeriggio, a teatro finalmente pieno, mi è spiaciuto pensare che era l’ultima volta, che dovrà passare del tempo prima che possa sedermi di nuovo in mezzo a un pubblico silenzioso e immobile – catturato dalle mie parole.
Adesso inizia la riscrittura. Non ho mai assistito alle prove, e quindi non ho mai avuto modo di lavorare insieme alla compagnia. Così ho usato le repliche come workshop, annotando le rigidità e le manchevolezze di cui sulla carta non mi ero accorta, e interrogando gli attori su quel che li rendeva infelici nel testo. Non ho ancora finito con loro, ma ho tutte le intenzioni di farli parlare. E poi riscriverò, allungherò e renderò più liscio l’insieme. Per la prima versione la committenza aveva fissato una durata massima di un’ora, cosa che mi aveva costretta a prendere degli angoli un po’ stretti, qua e là… E se sulla carta era tutto perfettamente logico, una volta in scena ogni spigolo, ogni scorciatoia, ogni semplificazione, tutto è emerso, evidente come una fila di coni segnaletici. Adesso posso sciogliere nodi, sfumare passaggi, sviluppare accenni, e sistemare tutto quello che ho sentito piatto, lacunoso o acerbo nel corso di queste repliche. “Tu sei matta,” mi ha detto D. – che probabilmente non ne può più di Virgilio e compagnia. “Ma allora quand’è che consideri definitivo un testo?” mi ha domandato P. con un’ombra di sconcerto, rigirandosi tra le mani la versione pubblicata di DUeP. “E però, nel frattempo, ci scrivi anche qualcosa di nuovo, vero?” hanno chiesto regista e diversi attori.
E le risposte sono, rispettivamente, che sono matta da legare, che non c’è ancora nulla che abbia scritto e/o pubblicato e sia disposta a considerare definitivo, e che sono tanto, tanto, tanto sollevata e lieta che la compagnia non ne abbia avuto abbastanza di me.
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* O altro luogo isolato e privo di teatri.
** Devo riferire un particolare un nonnulla eerie. Nel mio primo e fallito tentativo di romanzo, c’era un debutto – una prima teatrale in una sera di neve, con il teatro semivuoto, la compagnia di malumore e il pubblico maldisposto, e un mangiatore di caramelle in prima fila. Sapeste com’è strano ritrovarsi nel bel mezzo di un proprio romanzo… C’era persino la signora con le caramelle.