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Mar 14, 2018 - Lingue    Commenti disabilitati su Vocali II

Vocali II

voyelles-rimbaud-arParlavamo di vocali, l’altro giorno – ma erano vocali italiane e francesi: vocali che, più o meno aperte, si pronunciano sempre allo stesso modo. Come, del resto, le consonanti nella maggior parte dei casi.

Ripensavo a Rimbaud, oggi, e mi sono resa conto che, con le vocali inglesi, le cose vanno molto diversamente. Forse conoscete quella vecchia barzelletta da linguisti, secondo la quale la parola fish, in Inglese, si scrive GHOTI.

– GH pronunciato come in laugh;

– O pronunciato come in women;

– TI pronunciato come in motion.

PronunciationIl fatto è che la pronuncia è una delle più serie difficoltà nello studio dell’Inglese. Anche tralasciando il fatto che non ci sono due anglofoni che pronuncino allo stesso modo*, la lingua di per sé non fa molto per essere d’aiuto… Non aiuta affatto, per esempio, che la stessa parola, pronunciata diversamente, abbia due significati completamente diversi, come bow, che pronunciato bou** significa arco o fiocco, e pronunciato bau** significa inchino. E non aiuta il modo in cui a volte l’unico differenza fra due tempi dello stesso verbo sia la pronuncia, come to read, che al presente si pronuncia riid**, e al passato (e come participio) suona rèd**. E aiuta meno ancora il fatto che a volte dipenda dall’origine della parola (sassone o normanna?) – per non parlare del modo in cui i nomi propri sfuggono a tutte le regole… come fa un ignaro straniero a sapere che Shaftesbury si pronuncia Shèsbury? O che Featherstonehaugh si pronuncia come Fanshawe? E non cominciamo nemmeno con la differenza fra British English e American English, per favore.

BeeIl che può sembrare irritante fino a quando non si legge Bee Season, di Myla Goldberg. La protagonista, una bambina di nove anni, si scopre campionessa di spelling, la bizzarra disciplina americana in cui i bambini si sfidano nel dedurre dalla pronuncia il modo in cui una parola è scritta. Naturalmente è qualcosa può funzionare soltanto in una lingua dalla pronuncia tanto duttile e varia come l’Inglese***. Uno degli aspetti affascinanti del romanzo è il modo in cui Eliza vede le parole nella sua mente, come ciascun suono prende forma per lei, facendosi riconoscere. Mi ha affascinata il modo in cui Eliza descrive la differenza tra vocali e consonanti: le consonanti sono ferme e solide, mentre le vocali si muovono tra loro, fluide e iridescenti come un branco di pesci argentati, cambiando continuamente colore ad ogni moto della luce. È un’immagine meravigliosa, tanto da riconciliare con l’esasperante inaffidabilità delle regole di pronuncia inglesi.

E poi ci sono il Professor Higgins e il Colonnello Pickering che, in Pigmalione***, individuano decine di suoni diversi in ogni vocale, e trasformano una fioraia in (simil)duchessa correggendo la sua pronuncia.

school-vissen-3-300x300Insomma, a quanto pare, le vocali francesi risvegliavano nella mente di Rimbaud immagini di cinque colori. Che cosa sarebbe successo se Rimbaud fosse stato inglese?

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* Credo che fosse G.B. Shaw a dire che nessun Inglese può pronunciare una singola parola senza rendere infelice un certo numero di altri abitanti delle isole britanniche… Per non parlare, aggiungo io, di uno straniero che studia l’Inglese. Vi suggerisco una prova: quando credete di conoscere la lingua abbastanza bene, provate a fare conversazione con qualcuno che arrivi direttamente da Liverpool, senza passare dall’università. Se siete come me, dopo le prime due frasi avrete voglia di scoppiare a piangere. Posso garantire che Willy Russell parla del suo musical più celebre come di Blùd Brouders.

** Non sto nemmeno provando a fare trascrizione fonetica: cerco solo di rendere l’idea della pronuncia…

*** In effetti, dal romanzo è stato tratto un film con Richard Gere e (mi pare) Juliette Binoche. È uscito anche in Italia, con il fuorviante, furbastro titolo Parole d’Amore, e ha avuto pochissimo successo. Uno dei motivi è stata, credo, l’incomprensibilità delle gare di spelling da un punto di vista non anglosassone. In effetti non è facile rendere appassionante per un pubblico italiano una scena in cui otto o dieci bambini su un palco si affannano a declamare lettera per lettera come si scrive “internecino” o “sesquipedale”…

**** Di nuovo G.B. Shaw. Oggi va così. Tra l’altro, anche qui si tratta dell’educazione di una Eliza ai suoni della lingua inglese… mi domando se la scelta di nomi della Goldberg contempli un piccolo cenno a Shaw.

Ott 19, 2016 - teatro    Commenti disabilitati su Campogalliani70: Adolfo Vaini

Campogalliani70: Adolfo Vaini

Rieccoci qui con i membri  dell’Accademia Campogalliani. Dopo la presidente e la regista nonché direttore artistico, oggi è la volta di un attore. Andiamo a incominciar…

FofoAdolfo Vaini, cominciamo con la domanda di rito: che cosa ti ha portato al teatro in generale e alla Campogalliani in particolare?

Io ho cominciato a fare teatro a nove anni. Recita scolastica importantissima, che coinvolgeva tutte le scuole di Mantova, circa 400 allievi. Abbiamo fatto due o tre recite al Sociale, e si chiamava Le Diavolerie del Mago Zurlì. Io ero il mago Zurlì, e il maestro mi ha detto: tu quest’anno non studiare, perché devi imparare la parte – e già questo era un’investitura rispetto agli altri. Abbiamo debuttato, e alla prima battuta ho detto “scusate” e sono tornato indietro. Applauso clamoroso. E quello che mi ha colpito di più era che, mentre le comparse erano tutte nei cameroni, io che ero il protagonista avevo un camerino tutto mio, con le caramelle. E poi gli applausi… ah! Che cosa mi ha portato a teatro? La vanità. Poi, quando ho avuto quattordici anni, in parrocchia si sono ricordati di me e mi hanno chiamato in compagnia a fare una parte in una commedia tipica dei repertori parrocchiali: Ho Ucciso Mio Figlio, di tale Pazzaglia, su una vocazione mancata, osteggiata dalla famiglia… Una roba di una drammaticità spaventosa. Cast tutto maschile, perché le donne non erano ammesse. E quello è stato il mio debutto “serio”. Il guaio è che non avevamo un regista vero e proprio, e  quindi non riuscivamo mai a combinare nulla, finché non è arrivato Bissoni della Campogalliani. Poi ho fatto teatro dialettale fino a vent’anni, ma mi andava stretto, perché volevo recitare in lingua. E già quelli della Campogalliani erano venuti a vederci e mi avevano notato, e io avevo chiesto di poter entrare. Prima, in realtà, sono andato al Teatro Minimo da Garilli, perché mi piaceva l’idea di questo teatro impegnato e moderno… Dopo tre mesi sono scappato via, perché erano di una serietà mortale, di una tristezza… sembrava sempre che ci fosse il morto in casa. E invece a me piaceva la compagnia, così dopo tre mesi sono  scappato dalle prove di un testo sui Nazisti, e sono entrato in Campogalliani. Avevo 21 anni – e il bello è che sono uscito dai Nuovi perché non volevo più fare dialettale, e la prima commedia che mi han fatto fare qui è stato Viva Al Cine – in dialetto. Però poi ho fatto gli Innamorati, e ho cominciato ad avere delle parti un po’ importanti. E questo è l’inizio.

Sei qui dal Settantuno – mezza vita. Ruolo preferito in tutto questo tempo?rs_0006_03

In assoluto, sia perché mi permette di dare sfogo alla mia mimica e alla mia voce, e anche filosoficamente come personaggio, Dolittle in Pigmalione. Sono innamorato di Dolittle. L’ho ripreso in mano per la rappresentazione al Sociale, e ho goduto nel ripassare. D’altra parte, sono così, io: nella vita godo con poco o con tanto – l’importante è che non abbia vincoli. Nemmeno il vincolo dei soldi: i soldi li spendo, ne godo, proprio come Dolittle. Mi ci riconosco e mi dà l’occasione di sfoggiare le mie qualità.

E il ruolo che vorresti tanto recitare?

No, mai avuto questo genere di pensieri. L’importante è avere un personaggio che mi obblighi a soffrire per entrarci. Quella è la grande soddisfazione. Se è facile, se è troppo nelle mio corde, non mi soddisfa. Dev’essere qualcosa che mi trasforma, arrivando a capire psicologicamente il personaggio. È qualcosa che mi ha insegnato Grazia (Bettini). Aldo (Signoretti) era un grande regista, ma dirigeva in tutt’altro modo, usava gli attori per cliché: attore comico, attore brillante, attore drammatico… E per tutta la vita si faceva quello, senza cambiare più. Grazia invece no. Presenta personaggi diversi e ci fa lavorare sulla psicologia di ciascuno. Non dice mai di fare l’una o l’altra intonazione, come le scimmie. Bisogna arrivarci, capirlo. Penso che la parte con cui Grazia mi ha cambiato come attore sia stata in Sei Donne Appassionate – praticamente Otto e Mezzo di Fellini. Avevo un personaggio radicalmente diverso da me, per cui ci ho messo molto, mi sono impegnato molto, e alla fine ce l’ho fatta ed è uscito un personaggio meraviglioso. Da quel momento ho cominciato ad amare Grazia non solo come donna e moglie, ma anche come regista, Ma, per rispondere, non ho desideri di fare personaggi particolari. Sono aperto alle scoperte. Spesso, davanti a un personaggio nuovo, mi capita di dirmi che non ho mai fatto niente del genere, che non sarò capace… Ma Grazia mi ha insegnato a superare questi ostacoli e raggiungere buoni risultati.

E invece qual è in personaggio che ti ha dato più difficoltà? Il più faticoso, oppure quello di cui sei meno soddisfatto…

Malvolio-Adolfo-Vaini-369x450Il tuo Virgilio è stato difficilissimo da un punto di vista mnemonico – ma forse… Ecco, nella Finta Ammalata dovevo fare il sordo e renderlo comico. Processo molto lungo e molto difficile, perché non è facile far ridere con la sordità. Difficile. Poi non mi ha dato gran soddisfazione il mio personaggio in Rebecca. Parte secondaria, senza spessore, senza niente… bah. E invece un personaggio che detesto è Malvolio. Non lo vedo, non riesco ad avere simpatia, non ho feeling. Lo faccio, sì – ma non me lo sento addosso. Poi all’inizio ho toppato qualche interpretazione, magari perché diretto male. La direzione è importante, perché raramente un attore riesce a essere anche regista di se stesso, e quindi forse do più la colpa a chi mi ha diretto male. Però posso dire di essere soddisfatto della mia carriera.

***

Il che è un’ottima cosa… anche se devo confessare che a me il Malvolio di Adolfo piace proprio tanto. Per oggi ci fermiamo, ma venerdì Adolfo torna, per parlare ancora un po’ di teatro.

Apr 11, 2016 - gente che scrive, romanzo storico, teatro, Vitarelle e Rotelle    Commenti disabilitati su Maestri di Carta

Maestri di Carta

YodaQualche tempo fa si parlava con un allievo di influenze, divinità e maestri – di quella gente che non s’incontra mai se non per lettura, eppure ha una parte fondamentale nel fare di noi quello che siamo. Almeno dal punto di vista della scrittura. Col che non voglio dire che non succeda anche in altri campi, ma diciamo che gli altri campi son fatti di ciascuno, e limitiamoci al rapporto tra scrittore e scrittore a mezzo libro. Tra l’altro, è precisamente quello di cui si discuteva con l’allievo in questione.

“Scommetto che ci fai un post,” egli disse a conclusione – e io non dissi né sì né no, ma insomma, sappiamo tutti come  vanno a finire queste cose. E soprattutto sappiamo che quando si tratta di SEdS la mia capacità di resistenza è prossima a nulla… Sappi, o Allievo, che se c’è voluto tutto questo tempo è solo perché mi era passato di mente… 

Ma eccoci qui, alla fin fine: sette maestri sette. Sette perché sì – e in un vago ordine cronologico di apprendistato consapevole*.

I. G. B. Shaw. Perché quando avevo dodici anni e mi chiedevano “che cosa vuoi fare da grande?” io rispondevo “la commediografa”. E rispondevo così solo perché allora studiavo francese e non sapevo che esistesse la parola playwright, che mi piace tanto di più – ma non divaghiamo. Volevo tanto, ma in quella maniera informe, you know. Non era che non ci provassi, ma non avevo troppo idea. Poi, nell’estate dei miei tredici anni, entra in scena Shaw, nella forma delle Quattro Commedie Gradevoli, edizione Anni Sessanta, BUR con la copertina rigida – di mia madre. Folgorazione. In particolare Cesare e Cleopatra e L’Uomo del Destino. Teatro a sfondo storico – proprio quello che volevo fare. E la costruzione dei dialoghi, e l’uso delle fonti, e il tratteggio dell’ambientazione storica, e il funzionamento teatrale…

II. Joseph Conrad. In un sacco di modi. La profondità cui si poteva spingere l’indagine psicologica. Le possibilità infinite dei punti di vista. La possibilità di raccontare una storia attraverso l’accumulo di prospettive. La cesellatura di un personaggio centrale. I dubbi e le domande senza risposta. L’intensità. E poi l’uso della lingua – e di una lingua appresa. È in buona parte per via di Conrad che scrivo in Inglese.

III. Patrick Rambaud. Rambaud non se lo ricorda più nessuno, credo. A un certo punto ha letto nella corrispondenza di Stendhal di un romanzo mai scritto. Allora ha preso l’ambientazione (una battaglia napoleonica), ha preso Stendhal in persona, ha preso una manciata di personaggi storici e ne ha cavato un bel romanzo. Nulla d’immortale, solo una buona storia ben raccontata, fedele alle fonti e romanzesca quanto bastava. All’epoca in cui mi trastullavo con l’idea di scrivere romanzi storici ed ero paralizzata dall’incertezza dei confini tra fonti e immaginazione, Monsieur Rambaud è stato piuttosto fondamentale.

IV. R. L. Stevenson. Ah, i narratori di Stevenson, inaffidabili anche quando sembra che non lo siano, sottilmente minati nella loro attendibilità, irragionevoli, opinionated, a volte nemmeno terribilmente intelligenti… O Lettore, a te il delizioso mestiere di trarre conclusioni. E poi Alan Breck e l’Appin Murder – un personaggio minorissimo e un processo celebre ripresi, rivoltati come guanti, dipinti a colori irresistibili e avventurosi là dove in origine si trattava di un figuro losco e di una vicenda cruda e grigia. Ah, saper indurre il lettore a voler credere a me – persino quando sa benissimo di non poterlo fare…

V. Rodney Bolt. Quando uno scrittore mi fa entrare da una porta saggistico-divulgativa con qualche pretesa, poi mi fa sospettare che si tratti di una parodia accademica, e infine mi scodella in pieno romanzo, quando fa tutto ciò con grazia, sottigliezza e intelligenza, quando mi conduce pei prati in questa maniera e non mi irrita nemmeno un po’, tutto quel che voglio è imparare a barare così a mia volta.

VI. Josephine Tey. Anche lei scriveva teatro in una maniera che mi piace molto, ma non è questo il punto. Il punto è La Figlia del Tempo, che è una riflessione sulla storia, il modo in cui si costruiscono, mantengono e smantellano le leggende nere e un sacco di questioni che mi stanno a cuore – ed è scritto nella forma di un giallo originalissimo, popolato di personaggi ben fatti che parlano in dialoghi scintillanti. Tecnica impeccabile, idee, spirito – e soprattuto il modo di raccontare le storie.

VII. Jeffrey Hatcher. Ci voleva qualcuno che mi scrollasse fuori dalla maniera di Shaw, ed è stato Hatcher, che scrive un teatro d’ambientazione storica vivido, spigoloso e pieno di ritmo, appeso a un cambiamento epocale per rendere tutto più irreparabile, thank you very much.

E poi sono sempre la solita che si dà dei numeri e non riesce a tenerli neppure per sbaglio, per cui lasciate che aggiunga ancora Emily Dickinson. E no, non scrivo poesia, ma la densità e iridescenza del linguaggio… non si può scrivere prosa in questo modo, ma il principio mi piace proprio tanto.

E voi, o Lettori? Chi sono i vostri mentori di carta?

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* E niente autori di manuali… Quella è un’altra faccenda. La prossima volta, magari.

Mar 11, 2016 - Storia&storie, teatro, virgilitudini    Commenti disabilitati su Enea nei Balcani, ovvero: l’Illuminazion Tardiva

Enea nei Balcani, ovvero: l’Illuminazion Tardiva

Shaw.jpgConfessione: benché G.B. Shaw sia uno dei miei numi tutelari, e benché nel corso degli anni abbia letto il suo Le Armi E L’Uomo (Arms And The Man) un’infinità di volte, ho impiegato un’invereconda quantità di tempo prima di rendermi conto che la connessione virgiliana andava più a fondo della citazione nel titolo.

Non tantissimo più a fondo, perché l’interesse di Shaw non risiede, come c’era da aspettarsi, nell’obbedienza al volere del fato e nelle magnifiche sorti e progressive di Roma, ma nel demolire l’idea romantica della guerra – non senza lanciare i consueti strali alla società inglese del suo tempo.

Tuttavia, state a sentire: figlia di maggiorente fidanzata (con più soddisfazione della madre che del padre) a brillante e bell’eroe di guerra; arriva estraneo fuggiasco e tutt’altro che sentimentale, ben accolto dal padre; estraneo mostra interesse alla fanciulla con disapprovazione della madre; brillante fidanzato rivela tratti assai meno ideali del previsto, ma non è disposto a cedere fanciulla; estraneo si rivela erede e continuatore di grandi fortune; estraneo e fanciulla convolano.

Poi naturalmente Shaw è Shaw. Il tutto è ambientato in Balcani da semi-operetta, durante la fulminea guerra Bulgaro-Serba del 1885, e i personaggi sono molto più inglesi che bulgari. Raina è una Lavinia solo per posizione: romantica, viziata, manipolatrice – maturerà prima del sipario, ma intanto non aspetta certo che altri decidano per lei. Sua madre Caterina è un’Amata senza tragedia, ossessionata dal passare per una signora viennese e dal maritare Raina al bellissimo e affascinante Sergius. Il maggiore Petkoff è un Latino da macchietta, il padre benevolo e non troppo intelligente, del tutto manovrato dalle sue donne, rassegnato a Sergius per amor di pace e vecchia consuetudine, ma pronto a simpatizzare con Bluntschli, l’Enea della situazione, un mercenario svizzero pratico, efficiente e disincantato – l’antitesi del fiammeggiante, deleterio e bel Sergius/Turno.

Nessuno muore, il duello finale tra i due pretendenti finisce col non farsi, Bluntschli (il cui cognome non è casuale) eredita un impero alberghiero, Caterina non si suicida nemmeno un po’ e persino Sergius trova rapidamente un’altra fidanzata nell’ambiziosa servetta Luka. Ma dopo tutto questa Arms And The Man, per tagliente e caustica che sia, è una commedia. ArmsandtheMan.jpg

Eppure il parallelo è lì, anche se la critica tradizionale sembra ignorarlo allegramente, evidente nella trama, nei personaggi e anche a livello tematico. Se Enea è lo strumento del fato imperscrutabile che cambia le sorti dell’Italia (e del mondo), Bluntschli è l’uomo moderno che rovescia il piccolo mondo balcanico e tradizionale dei Petkoff a colpi di volontà individuale e senso pratico.

Ecco, Mr. Shaw: ci ho messo qualche decennio, ma alla fine sono arrivata.

Mar 23, 2015 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Charlotte, Frances, Rudyard: Relazioni Non Intenzionali

Charlotte, Frances, Rudyard: Relazioni Non Intenzionali

booktiesCapita a volte di leggere qualcosa e riconoscerci l’ombra di qualcosa d’altro.

Una somiglianza nella trama, il profilo di un personaggio, un incidente, un posto… qualcosa che ha l’aria di un’ispirazione o di un omaggio. O a volte di una scopiazzatura – ma questo è un altro discorso.

Forse vi ho già detto di come il Will (Shakespeare) di Robert Brustein in The English Channel a me sembri irresistibilmente simile a quello di Shaw in The Dark Lady of the Sonnets. A parte tutto il resto, lo stesso modo di interrompere se stesso e tutti gli altri per annotare scampoli di conversazione – perché potrebbero tornare buoni…

Solo che tra i precedenti e le influenze del suo play Brustein non cita affatto Shaw.

Oppure, e mi è tornato in mente mentre scrivevo questo post, la somiglianza che a me pare evidentissima tra la Piccola Principessa di Frances. H. Burnett e la vicenda del piccolo Kipling, così come compare nella sua autobiografia, ne La Luce che si Spense e in Bee Bee Pecora Nera. Voglio dire – e lasciate che vi metta qui una tabella:

SaraPunch

Si nota, non trovate? Si nota un certo qual parallelismo nelle due storie. Epperò poi si scopre che, apparentemente, l’ispirazione per Sara Crewe non ha nulla a che fare con Kipling. Pare avere radici, invece, nella Emma di Charlotte Brontë.

No, non mi sono sbagliata, non volevo dire Jane Austen. C’è una Emma brontiana – solo che è incompiuta e poco sconosciuta. C’è questa ereditiera abbandonata in un collegio… E quindi sì, le somiglianze ci sono – ma come la mettiamo con Kipling? In realtà Sara Crewe (in forma di novella a puntate) e Punch arrivano alle stampe lo stesso anno, il 1888 – e anzi, il primo episodio di Sara precede Punch di qualche mese. Ma Punch è troppo autobiografico perché l’ispirazione possa avere funzionato all’altro modo…

Che bisogna pensarne? Che capita di scrivere la stessa storia senza saperlo – cosa di cui sono dolorosamente consapevole dal giorno in cui ho scoperto che W.S. Maugham aveva già scritto quello che mi piaceva chiamare il mio primo romanzo, molti anni prima di me e molto meglio… Capita. A volta sembra impossibile che non ci sia una corrente di ispirazione, un ramo di parentela, un legame di qualche genere… e invece non c’è.

O meglio, c’è – ma non necessariamente quella che saremmo portati a pensare.

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* Il clima inglese… sì.

** E in realtà, da adulta non posso fare a meno di domandarmi: ma possibile che nessun’altra bambina ne faccia mai fatto con i genitori? Insomma, fino a un certo punto, Sara è la star del collegio, l’ereditiera dalle romantiche circostanze di cui la direttrice è sempre pronta a parlare agli altri genitori, perché avere una “principessa dei diamanti” tra le allieve è un motivo di vanto. Poi all’improvviso la rimarchevole ragazzina decade a sguattera maltrattata… Nessuna bambina ne racconta a casa? Nessun genitore leva un sopracciglio? Diciannovesimo secolo, I know, but…

Feb 2, 2015 - libri, libri e libri, teorie    Commenti disabilitati su Pessimi Segni E Vin Passito

Pessimi Segni E Vin Passito

Sabato pomeriggio ero in una vineria in cerca di un passito siciliano. Ho scelto una bottiglia di Grecale – non per un buon motivo, ma perché ha un nome bellissimo. E mentre prendevo la mia bottiglia dallo scaffale ho pensato: “Se qualcuno mi stesse scrivendo, questo non sarebbe un buon segno per la mia aspettativa di vita.”

Certi particolari di caratterizzazione indicano con terrificante certezza che il personaggio in questione non è destinato a una lunga vita felice. Specialmente lunga.

MNY46308Prendete la tosse, per esempio. All’opera, nei romanzi e nei film ormai siamo così assuefatti all’equazione che quando qualcuno tossisce e sopravvive ci restiamo quasi male. Margherita/violetta, John Keats*, Edgar Linton, Louis Dubedat, Ralph Touchett, Doc Holliday… potrei continuare a lungo. E potrei citare un muratore che, tra un mattone e l’altro, mi aggiornava su Angeli e Demoni che stava leggendo. “Ah, ma Kohler ha una gran brutta tosse,” ripeteva ogni volta in idioma locale, scuotendo funereamente la testa.

Ma ci sono altre categorie di goners. Una è costituita dalle Ragazzine Troppo Angeliche Per Vivere. Little Nell, Little Eva, Beth March**… le leggi – così tenere, così preternaturalmente sagge, così adorate da tutti (tranne quelli tra i malvagi che sono anche meschini), le osservi dispensare luce e gioia e redimere cuori durissimi ad ogni passo, ti stupisci che non affoghino nella loro stessa saccarina, ti ritrovi a desiderare di poterle spingere giù dalla massicciata della ferrovia – ma poi ti viene in mente che questi angeli non sopravvivono, e ti consoli: con un minimo di fortuna, te ne libererai abbastanza presto.

In linea generale, anche l’Arcangelo della Rivoluzione non invecchia. Penso a gente come Enjolras de I Miserabili, Gauvain in Novantatre di Hugo, e Victor Haldin del conradiano Sotto Gli Occhi Dell’Occidente… La combinazione di intransigenza e scarso senso pratico tende a condurre alla tomba in tempi rapidi.***

Poi c’è, anche se questo è un caso più specificamente meccanico, la vittima designata nei gialli della vecchia scuola inglese. Prendete i capitoli introduttivi di un qualsiasi romanzo di Agatha Christie, Josephine Tey, N’Gayo Marsh o Georgette Heyer – oppure il primo quarto di un qualsiasi episodio de La Signora in Giallo – e state pur certi che il personaggio che si fa detestare a diritta e a mancina cadrà presto. Il che risponde all’esigenza narrativa di fornire moventi a più gente possibile e a quella morale di offrire qualche whiff di giustificazione all’assassino, ma resta il fatto che, in linea generale, la persona più sgradevole muore.Friends_of_the_ABC

E che c’entra tutto ciò con il Grecale? direte voi.

C’entra, perché un altro, seppur molto meno diffuso, segno poco promettente è una passione per i nomi che va al di là della ragionevolezza pratica. Provate a pensarci: in Un’Anima Non Vile, Konradin von Hohenfels è certo che Alicarnasso debba essere un posto meraviglioso solo sulla base della bellezza del nome. E Konradin si trova di fronte a un plotone d’esecuzione a venticinque anni. In Un Albero Cresce A Brooklyn, Johnny Nolan sceglie di portare la sua nuova sposa a vivere nella buia, malsana e scomoda Bogart Street, per nessun miglior motivo del suo bel nome misterioso, il bog(g)art essendo un folletto particolarmente malevolo del folklore irlandese. Johnny muore poco più che trentenne di polmonite, alcolismo e incapacità di vivere. Hanno Buddenbrook, nel corso dei suoi cupi pomeriggi sul divano del salotto buio, si ripete all’infinito nomi poetici e immaginari per il gusto del loro suono e delle immagini che evocano. Hanno muore adolescente per il tifo. Eccetera****.

Gli dei rendono ciechi quelli che vogliono perdere? Si direbbe che invece gli scrittori diano a quelli che vogliono perdere pessimi polmoni, un carattere angelico o una predilezione per i nomi. 

Oh, e il Grecale era squisito.

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* Sì, lo so: Keats non è un personaggio letterario, ma quanti sapevano come va a finire prima che cominciasse a tossire in Bright Star?

** Beth poi ha anche la tosse…

*** Qualcuno mi dice che fine fa Florian nella Trilogia di Westmark di Alexander Lloyd? Ho letto i primi due volumi, secoli orsono, e poi mi sono stancata, ma a suo tempo ero stupita del fatto che Florian, l’Enjolras della situazione, non l’avesse ancora presa nelle costole…

**** E che dire di Gwendolen e Cecily, decise a non poter amare un uomo con un nome diverso da Ernest? Naturalmente nessuna delle due muore, but lo! la convenzione ha persino una parodia!

Elogio Dell’Espressiva Imperfezione

Questo post, a suo tempo, prendeva le mosse da un sacco di cose: parte di un articolo di Massimo Firpo sull’inserto domenicale de Il Sole 24 Ore, una chiacchierata in proposito con G.S., una vecchia discussione con A., uno sconsolato commento dell’ex-Renzo e, per finire, uno scambio di vedute sulle scelte metriche in un paio di edizioni recenti del Boiardo.

Ingredienti eterogenei, ma vediamo un po’.

Con G.S. si parla spesso di lingue e linguaggi, perché l’argomento piace a entrambi, e così si commentava l’articolo di Firpo che (in risposta a un altro articolo di Sergio Luzzatto), tra l’altro distingueva fra la necessità di un Italiano accademico/scientifico più chiaro e la colpevole esterofilia congiuntivicida; tra la deliberata (e colpevole) nebbia verbale e l’eleganza della consecutio temporum.

Credo che l’ex-Renzo simpatizzasse con Firpo, mentre badava al laureando che, nella sua tesi, usava sistematicamente “è risultato essere” al posto del buon vecchio e semplice “è”… E ho ancora vivido in mente il ricordo del tutor gallese che mi dice come gli studenti italiani battano tutti nel farcire le tesine di costruzioni convolute ed espressioni idiomatiche inutili per raggiungere il wordcount prescritto.

Tuttavia, sospirava G.S., citando Firpo, “sarebbe stato meglio se non avessi detto” non è tanto più bello di “era meglio se non dicevi”?

Temo di avere risposto “secondo le circostanze,” cominciando col distinguere non solo tra lingua parlata e lingua scritta, ma anche tra lingua scritta accademica (nella quale corretezza grammaticale e chiarezza dovrebbero essere priorità gemelle) e lingua scritta narrativa, che sullo stesso gradino della chiarezza mette l’efficacia espressiva. E questo mi ha riportato in mente una discussione vecchia di lustri, in cui A. sosteneva una versione estrema del sospiro qui sopra: “era meglio se non dicevi” è un crimine linguistico che andrebbe punito con impiccagione, annegamento e squartamento. La faccenda era resa ancor più drastica dal fatto che ero stata io a usare un certo numero di orrori del genere in un dialogo all’interno di un romanzo. A. era un purista molto tosto, e disapprovava con foga, incurante del fatto che la mia intenzione fosse quella di riprodure la lingua parlata di un gruppo di contadini vandeani.

“Neanche il parlato dovrebbe essere così,” tuonava A. back in the day, e anche lui aveva in mente l’eleganza della consecutio temporum.

Ma il fatto è che la lingua si evolve continuamente, che la lingua parlata si evolve più in fretta di quella scritta, che la tendenza è verso la semplificazione, che esistono arnesi come i registri linguistici, e che i registri bassi e informali semplificano più degli altri.

Nessuno tiene il discorso sullo stato della nazione nello stesso registro che impiega durante una partita a briscola* – per fortuna. E quando si scrive narrativa, la diversificazione dei registri, delle inflessioni e degli accenti è un mezzo espressivo potente. Queste variazioni servono a rendere il tono alla narrazione, a caratterizzare la voce narrante e i singoli personaggi nel dialogo, a ricreare un luogo o un’epoca, a sfondare la quarta parete, a richiamare una fonte, una convenzione o un genere… e mi viene in mente almeno un caso in cui costituisce il meccanismo della trama – Pygmalion, di G.B. Shaw, incentrato sulla trasformazione fonetica, grammaticale e sintattica di Eliza da fioraia Cockney a plausibile principessa morganatica.

Mi viene in mente anche Stevenson, che creò scalpore dando a Kidnapped un protagonista narrante che parlava Scots English invece dell’Inglese standard. La sua deliberata infrazione a una regola non scritta delle convenzioni letterarie e a un certo numero di regole grammaticali, sintattiche e fonetiche, costituì una svolta epocale rispetto a molti secoli di tradizione che confinavano l’uso letterario delle imperfezioni linguistiche a personaggi minori – spesso con funzioni di comic relief – e aprì molte strade espressive**, alcune delle quali ancora adesso non piacciono troppo agl’irriducibili del Regsitro Unico.

O lei, Barbuto Spettatore che, dopo una rappresentazione di Bibi E Il Re Degli Elefanti, cercò l’autrice e, avendola trovata, la invitò in tutta serietà a stare più attenta ai suoi congiuntivi***, mi creda: l’avevo fatto apposta. La mia esperienza di bambine di otto anni può essere limitata, ma credevo e credo ancora che una di loro, sul punto di piangere e frenetica nel tentativo di non lasciar andare il suo elefante immaginario, non si preoccupi molto della consecutio. Credevo e credo ancora che la bimba dica “Hai detto che non mi lasciavi sola,” e non “hai detto che non mi avresti lasciata sola.”

Col che non voglio dire che la sciatteria linguistica sia una bella cosa, naturalmente – cosa di cui pure mi accusò il Barbuto Spettatore, e per questo sento l’ansia di precisarlo: si spera sempre che sia possibile distinguere tra l’uso approssimativo dell’idioma e l’imperfezione deliberata.

L’imperfezione deliberata è espressiva, è significativa, serve a qualcosa, sta bene dov’è, perché c’è stata messa con uno scopo. Anche se sembra che a volte, quando passano i secoli, non sia più ben chiaro quale fosse questo scopo. E sto pensando a un’imperfezione metrica in particolare, certi endecasillabi dubbi nell’Orlando Innamorato che, a quanto pare, endecasillabi non sono. Qualche anno fa Cristina sentii Montagnani, dell’Università di Ferrara, proporre una soluzione che trovo ancora affascinantissima: con la “sillaba vuota” infilata qua e là per il poema, Boiardo avrebbe voluto richiamare la tradizione canterina, ovvero quei Libri di Battaglia – diciamo una versione pop dei romanzi cavallereschi – che del poema costituivano in parte i precedenti. Nei versi di questi poemi era comune la presenza di sillabe vuote che, come ancora fanno i pupari siciliani, i narratori riempivano battendo le mani o il piede, in una specie di accento non verbale.

A quanto pare, quando lo suggerì nella sua edizione critica nel 1999, la Montagnani fu metaforicamente lapidata da un buon numero di italianisti, che giudicarono l’idea dissennata. Che devo dire? A me piace immaginare un poeta quattrocentesco occupato a lardellare i suoi versi d’imperfezioni metriche nella metaletteraria intenzione di strizzare l’occhio a un genere minore, proponendo la versione colta della versione popolare dei poemi cavallereschi.

Perché la sillaba vuota non può essere ur-metaletteratura? Basterebbe a canonizzare San Matteo Maria Boiardo come patrono degl’infrangitori volontari di regole a fini espressivi.

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* Anche se mi si narra di un anziano avvocato che, in un momento di selvaggio abbandono in una tribuna di stadio, si unì ai tifosi che insultavano cordialmente un attaccante e gridò “Ma perdio, gliela passi, quella palla!” E d’altronde, un’anziana suora del mio collegio universitario, quando perdeva veramente le staffe, ululava “Furore tremendo!” come l’eroina di una tragedia greca…

** A dire il vero, aprì anche la strada a una quantità di irritanti eccessi: non vi mette una certa furia penare su pagine intere di trascrizione fonetica di chissà quale dialetto? Non che sia colpa di Stevenson…

*** Giuro: “Sa, il testo potrebbe essere anche carino, ma non ci s’improvvisa scrittori. Se non ci riesce da sola, può farsi aiutare da qualcuno che le controlli i testi, prima di darli a una compagnia.” Giuro.

Ago 27, 2014 - teatro    Commenti disabilitati su Sipario – Di Carta

Sipario – Di Carta

PdC

No, d’accordo – è presto. Non è come se il Palcoscenico di Carta aprisse i battenti domani mattina, ma intanto ha una casa virtuale, un siterello tutto suo per le informazioni, i contatti e le notizie…

Il debutto vero e proprio sarà all’inizio del 2015, con l’intramontabile Romeo e Giulietta.

Ci stiamo lavorando su. L’idea è di una meravigliosa semplicità, una volta avviata, ma ci sono questioncelle organizzative, sovrapposizioni temporali, considerazioni di varia natura, complessi riti propiziatori… Come dicevo, ci stiamo lavorando su.

I miei associati a delinquere, naturalmente, sono gli amici dell’Accademia Campogalliani, senza i quali certe piccole follie sarebbero impraticabili…

E che devo dire? Non vedo l’ora di cominciare. Seguo con spirito da sorella minore il progetto originario, The Paper Stage – di cui noi siamo il capitolo italiano. Loro, a Canterbury, sono già alla terza lettura: dopo Romeo e Giulietta e l’Ebreo di Malta di Marlowe, il 15 di settembre si cimentano con la deliziosa Gallathea di John Lyly. Noi non seguiremo esattamente le loro orme – perché se volessimo attenerci strettamente al teatro elisabettiano, ci ritroveremmo limitatissimi dalla scarsità di traduzioni disponibili. E poi vorremmo esplorare un repertorio più ampio…

Credo che ognuno di noi stia privatamente compilando un cartellone dei sogni… Scommetto che non vi stupite poi troppo se vi dico che il mio, oltre a un bel po’ di Marlowe e una spruzzatina di altri elisabettiani, contempla il Don Carlos di Schiller, il Ruy Blas di Hugo, Shaw a volontà e altre eccentricità consimili.

E a dire il vero, chi lo sa? Chissà se il Palcoscenico di Carta avrà successo. Chissà se troveremo lettori, ascoltatori, simpatizzanti. Chissà che cosa leggeremo per davvero. Chissà se, su un piano più personale, leggerò anch’io. Di recitare ho smesso definitivamente, ma leggere è un cavallo di tutt’altro colore… chissà.

Nel frattempo, è singolarmente come aspettare una Santa Lucia differita. Ce n’è di che rendere desiderabile persino gennaio – l’orrido lunedì mattina cosmico.

E voi… se siete a Mantova e vi piace il teatro, fateci un pensierino. Non capita tutti i giorni di esplorare certo teatro – e magari farlo da dentro E dovunque siate, nel frattempo, date un’occhiata al sito, volete?

Come La Prendi?

Sono curioso di sapere come prendi il fatto che questa cosa prenda vita in modi non completamente controllabili, o forse del tutto incontrollabili. Sembra che tu la prenda bene,

scriveva A. in un commento a questo post in cui si parlava di Bibi & il Re degli Elefanti e si traevano conclusioni sul recente giro di repliche – e “questa cosa” era l’interpretazione registica dei miei plays.

E il commento mi ha dato da pensare. In effetti, come prendo il fatto che quel che si vede sul palcoscenico finisca quasi sempre con l’essere diverso da quel che avevo immaginato?

Come prendo il fatto che registi e attori afferrino le mie parole e le trascinino in direzioni inattese?

Come prendo questa cosa nuova che germoglia, tridimensionale e variopinta là dove prima c’erano soltanto parole sulla carta? 

Ah, well…

Credo di voler cominciare citando Shaw che, nella prefazione alle Tre Commedie per Puritani, raccontava di avere tirato infiniti accidenti ai pur bravi regista e primattore di una fortunata produzione londinese de Il Discepolo del Diavolo, colpevoli di avere stravolto le sue intenzioni al punto di indurre il pubblico a credere che Dick Dudgeon fosse innamorato di Judith.

Da bambina, quando leggevo Shaw e, a chi mi chiedeva cosa intendessi fare da grande, rispondevo “la commediografa”, la consideravo una specie di cautionary tale, e mi immaginavo a tirare accidenti a registi e attori colpevoli di fraintendimento deliberato e grave…

Ma, a distanza di un quarto di secolo e dopo diversi plays prodotti, devo dichiararmi fortunata: nessuno ha mai stravolto nulla di mio in scena. 

E nonostante questo, e nonostante abbia avuto la fortuna di lavorare sempre con registi bravissimi, se dicessi che è sempre facile, mentirei.

Perché non c’è nulla da fare: nello scrivere del teatro non si può fare a meno di metterlo in scena nel proprio teatro immaginario. Si elucubrano voci, movimenti, scene, luci, costumi e regia completa… E a lavoro finito, quando si consegna il tutto alla compagnia, quel che rimane è un’idea piuttosto precisa del tipo di vita che lo spettacolo dovrebbe assumere.

Solo che poi, nella maggior parte dei casi, non funziona così.

E voi non andate a vedere le prove, perché la regista preferisce non avere autori tra i piedi, e usa motivazioni diplomatiche tipo “non c’è, credimi, nulla di bello come la sorpresa la sera della prima.” Oppure “Voglio che tu veda lo spettacolo solo quando è completo.”

Solo che, ogni tanto, la regista stessa o l’uno o l’altro membro del cast si lasciano sfuggire un particolare…

Ed è diversissimo, ma diversissimo da qualsiasi cosa voi aveste immaginato – e siete così tentati di dirlo… ma in linea generale non lo fate.

A dire il vero, la prima volta non lo fate solo e soltanto perché non vi par vero di scrivere per questa gente, e non avete il coraggio di mettere becco… Però avete misgivings. Temete molto che non sarà come voi credete che dovrebbe essere.

Però poi…

Poi viene la sera della prima, e scoprite che la regista aveva ragione e voi avevate torto – e forse è un bene che non siate mai andati alle prove. Scoprite che il vostro mestiere è fornire la storia, le parole, e soprattutto le occasioni perché gli attori possano comportarsi in modo significativo. Il comportamento significativo, i colori e la magia in generale sono affare della compagnia.

Sono loro a portare in vita quel che avete scritto – e che diamine! Loro lo fanno da decenni, hanno le idee chiare su che cosa produrrà quali effetti sul pubblico. Sanno come cavare il meglio teatrale da quello che avete scritto. Sanno come tradurre in tre dimensioni il vostro linguaggio.

Lo sanno così bene che quello che hanno fatto finisce col prendere completamente il posto di quello che avevate immaginato.

Sul serio: mi ricordo a malapena il Bogus-ombra, serioso e un po’ solenne, che avevo immaginato scrivendo Bibi. E dapprincipio ero davvero perplessa nello scoprire che il mio impalpabile elefante sarebbe stato un attore in scena, con un costume di panno e la proboscide… E invece è perfetto, e il play ha tutto da guadagnare dal Bogus buffo e tenero e concreto, perché il mio era l’elefante immaginario visto da un’adulta – ma in scena è andato il compagno immaginario di una bambina. Infinitamente più teatrale ed efficace.

Magnifico, no? 

E molto istruttivo. E appagante – non avete idea di quanto.

E così, credo che alla fin fine la risposta sia questa, A.

La prendo con qualche trepidazione ogni volta, perché si tratta di lasciare ad altri il compito di soffiare nelle narici delle mie statuine d’argilla. E la prendo con infinito entusiasmo, perché – per quanto mi piaccia scrivere romanzi – credo che nulla batta l’aprirsi del sipario e il veder succedere quello che si è creato.

 

Annibale, Di Nuovo?

“Non ti andrebbe di riscrivere un po’ il Somnium?” mi domanda allegramente G.-La-Regista.

Me lo domanda così, come se niente fosse, mentre camminiamo sotto la neve dopo che ho fatto una visita a sorpresa alla compagnia.

“Perché sai, ho ripreso in mano il romanzo proprio ieri pomeriggio, e anche solo spulciando qua e là ci ho ritrovato tante cose che mi piacciono da matti, e che sono rimaste fuori dalla versione teatrale… Adesso che non abbiamo più il problema delle scuole e il limite di tempo, perché non lo riprendi in mano?”

E io non so se G. abbia ben chiaro che razza di bomba abbia sganciato, perché…

Ma cominciamo dall’inizio – e poi no, nemmeno quello. Cominciamo di lato.

Se avete mai presentato un libro, o se avete mai avuto la ventura di lasciarvi scappare che scrivete, odds are che qualcuno prima o poi vi abbia chiesto quanto impiegate a scrivere un libro. Quanto meno, a me capita tutto il tempo, e rispondere a proposito del Somnium Hannibalis può essere divertente o imbarazzante, a seconda dell’interlocutore. Perché l’ineludibile verità è che a scrivere SH ho impiegato più o meno vent’anni.

E adesso sì che cominciamo dall’inizio, e dalla Clarina sedicenne che, dopo avere divorato tutto il G.B. Shaw della ben fornita libreria di casa, decide di provarci e scrive a matita su fogli gialli a quadretti… Annibale – dramma storico in un prologo, tre atti e un epilogo.

Sì, davvero. E no, non ridete. Oppure ridete pure – a distanza di vent’anni e rotti ci rido anch’io, e all’epoca mio padre non finiva di divertircisi. Io però lo prendevo molto sul serio. E lo finii, sapete? Fu la prima cosa più lunga di un raccontino che finii sul serio.

Che dire? Se davvero l’imitazione è la forma più sincera di adulazione, lo spirito di Shaw aveva di che sentirsi molto lusingato. E da qualche parte devo averli ancora, i foglietti gialli a quadretti con il mio primo dramma scritto a matita. Quel che ricordo con vera felicità di quella stesura è che ero capace di lavoraci, in piena concentrazione, nel bel mezzo di qualsiasi grado di casino. E adesso smetto di sdilinquirmici, ma abbiate pazienza: è un bel ricordo.

Poi, in sporadici e successivi sussulti di buon senso, eliminai l’epilogo. E poi il prologo. E poi un atto. E poi un altro. Arrivando a Pavia da matricoletta, mi portai dietro un atto unico. Ed era ancora un atto unico quando partii per Cardiff – solo che era stato trascritto su foglietti azzurri. Sempre a quadretti. E si svolgeva tutto la sera dopo la battaglia di Canne.

Maarbale, e la vittoria, e nimini dii nimirum dederunt, e perché diavolo dopo Canne non aveva attaccato Roma? Perché il punto era quello: sapevo bene che c’erano tutte le buone e solide ragioni strategiche del mondo per non cacciarsi ad assediare una città murata in territorio ostile, eppure l’idea che la tentazione dovesse pur essersi presentata, e poi nulla, mi dava i brividini alla schiena.

Avete presente quando sapete, proprio sapete con assoluta certezza di avere una buona idea per le mani – solo che sappiate darle la forma giusta? Ecco, così. Peccato che la forma giusta continuasse a sfuggirmi. Ho perso il conto delle stesure di quell’atto unico. Ho anche quelle, da qualche parte. Foglietti azzurri in una copertina ad anelli azzurra, pieni di cancellature e correzioni. Sapevo quel che volevo, solo che non riuscivo a dargli la forma che avevo in mente.

E immaginatevi gli anni che passano, le stagioni che si succedono e la Clarina che, tra Cardiff, Pavia, la Vandea e Londra, decide che forse dopo tutto la sua strada non è il teatro, ma il romanzo storico. Fast forward un certo numero di anni, mentre scrivo tutt’altro, eppure, eppure… Annibale resta sempre lì, tra le quinte, in attesa che mi decida a farne qualcosa.

Ma in realtà nel frattempo è diventato difficile. Non che sia mai terribilmente facile, ma Annibale è peggio della media. Se non fosse buffo, direi quasi che non riesco ad essere debitamente lucida…

Finché, dopo due volumi di Vandea e il Rinascimento mantovano, dopo la Francia seicentesca e Costantinopoli moribonda, ecco che arriva la folgorazione: Annibale, sì, ma in forma di romanzo. E comincio a strologarci su, e prendo… come chiamarla? Una deviazione? Immagino di sì. Una consistente deviazione: un metaromanzo su… er, gente che non scrive su Annibale. 

I know, I know... Eppure anche quello aiuta. Mentre scrivo di gente che esplora l’idea da vari punti di vista e poi rinuncia per un motivo o per l’altro, in qualche modo mi convinco. Prima di tutto, mi convinco a leggere e studiare di più in proposito, perché a teatro non c’è davvero bisogno di ricostruire minutamente un mondo – basta suggerirlo – ma un romanzo è un’altra faccenda. 

E così si legge in abbondanza e in varie lingue, ci si documenta e si strologa, e si scoprono varie cose. Come la vecchiaia passata presso Re Antioco, ospite di lusso, pericoloso e inascoltato. O come il probabilmente apocrifo episodio del giavellotto scagliato dentro le mura prima di allontanarsi per sempre da Roma… Apocrifo finché si vuole, ma indicibilmente bello.

E allora…

Ma no, che diavolo. È tardi, devo precipitarmi al seggio, da brava piccola segretaria. Mi perdonate se per oggi mi fermo qui?

Ci sarà una seconda puntata di questa storia: giungerà la nostra eroina alla conclusione di riscrivere il Somnium? Staremo a vedere. 

Staremo a vedere tutti, credetemi…

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