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La Sindrome Del Nome Ricorrente

NamesJAAncora nomi. La Sindrome Del Nome Ricorrente in realtà non è una malattia specifica – è un sintomo che capita agli scrittori per le ragioni più diverse.

Pare che Jane Austen spendesse un sacco di tempo nello scegliere i nomi dei suoi personaggi maschili, cambiandoli più volte mentre scriveva – salvo poi riutilizzare spesso gli stessi: Charles, Henry, Frederick, John, William, James e George ritornano in quasi tutti i romanzi. E non è che la upper-middle class e landed gentry inglesi dell’epoca fosse incline a usare nomi eccentrici, ma bisogna supporre che quella manciata di nomi alla Zia Jane piacessero davvero. Incidentalmente erano tutti nomi appartenenti ai suoi numerosi fratelli… E non contenta di questo, nell’incompiuto The Watsons si era scelta una seconda eroina di nome Emma.

Anche Stevenson doveva avere una fantasia limitata in fatto di nomi: la popolazione di Treasure Island contiente ben quattro John (Silver, Trelawney e due marinai) e due Richard. Per cui interrogarsi sulla presenza di due Christina nell’incompiuto Weir of Hermiston diventa quasi buffo. E i due James in due libri diversi (Jim Hawkins e il Master of Ballantrae) passano quasi sotto l’uscio, no?

NamesAlexiosNaturalmente tutto ciò avveniva prima che i manuali di scrittura prosperassero consigliando di evitare come la peste nomi troppo simili tra loro. Questa è una faccenda su cui tendo ad essere of two minds: da un lato voglio dar credito ai miei simili di saper distinguere fra due personaggi nonostante un’iniziale in comune – dall’altro… be’, non si sa mai, vero? E in linea generale, better be safe than sorry, e nel mio eterno lavoro in corso sulla caduta di Costantinopoli sto ancora cercando un nome per un ufficiale bizantino che non può più chiamarsi Alexios, essendo il coprotagonista veneziano nomato Alvise.

Tuttavia, quando si scrivono romanzi storici, capita di non poterci fare molto: pensate a Vingt Ans Après, in cui compaiono il Principe di Condé, suo fratello il Principe di Conti e poi il Coadiutore Gondi… Ammetto che un nonnulla di confusione può sorgere, ma non è come se Dumas avesse avuto scelta.

Un caso peggiore se l’è trovato davanti Peter Wheelan, con il suo dramma storico The School of Night. Trovandosi NamesWhelannella necessità documentata di avere due Thomas in scena, ha scelto la soluzione spudorata: ne ha aggiunto un terzo fittizio – in realtà Shakespeare sotto falso nome – ha affidato a Marlowe un commento infastidito in proposito (What, is all the world named Tom, these days?) e una sbrigativa suddivisione in Tom, Tam e Thomas. Non sono certa di trovare l’insieme convincentissimo, ma ammetto che era interamente necessario, visto che a teatro non si può nemmeno tornare indietro di qualche pagina per ricapitolare chi è chi.

Poi ci sono casi in cui si può solo immaginare un’antipatia da parte dell’autore, come i Simon di Josephine Tey. Di Josephine Tey/Gordon Daviot ho letto, tra romanzi e lavori teatrali, una decina di titoli, e mi sono imbattuta in tre Simon. Il Simon del semigiallo (con agnizioni e controagnizioni) Brat Farrar, rampollo della landed gentry, è un affascinante manipolatore, parimenti privo di carattere, backbone e senso morale. Il Simon del dramma storico riccardiano Dickon è un paggio avido e voltagabbana, con un gusto per i risvolti più crudeli delle politiche di corte. E il Simon dell’atto unico Barnharrow è un essere velleitario, ansioso e petulante – che si lascia trascinare dal fanatismo altrui, con conseguenze fatali. Personaggi abbastanza diversi, nel complesso, accomunati dal senso morale di una traversina ferroviaria e dal fatto di essere prole degenere di ottime famiglie che non hanno fatto nulla per meritarli. Difficile non pensare a un’incoercibile avversione per il nome. Non ho mai letto una biografia della Tey abbastanza dettagliata da sapere se ci fosse nella sua vita un Simon a giustificare la faccenda, ma sarei curiosa.

Così come sarei curiosa a proposito di Agatha Christie, i cui (non numerosissimi) Michael tendono a essere vittime o assassini. Anche gli aviatori della zia Agatha tendono a morire presto, e quello, si sa, è in tenero omaggio al primo e fedifrago marito Archie Christie. E quindi una certa tendenza alla vendetta per iscritto c’è: chi sarà mai stato il Michael in questione?

E comunque va a sapere. Battezzare un personaggio è una faccenda complicata e laboriosa, e a volte c’è gente che si rifiuta di avere una voce o di essere scritta come si deve finché non si ritrova con il nome giusto. Suono, associazioni mentali, plausibilità storica, geografica e sociale, simpatie e antipatie, precedenti letterari – ci sono treni merci di motivi per scegliere o non scegliere un nome. E magari può capitare che, dopo averne trovato uno che va proprio bene, sembri uno spreco usarlo una volta soltanto?

Gen 4, 2017 - considerazioni sparse, gente che scrive    Commenti disabilitati su L’Anno di…

L’Anno di…

endsy“E come te la caverai, Clarina, adesso che l’Anno Shakespeariano è finito?”

Ed è vagamente possibile che la domanda in questione mi sia stata rivolta con un nonnulla di sollievo… Dopo due anni Shakespeariani (di cui uno anche Marloviano) in rapida successione, you know…

Well, che devo dire? Se proprio volessi, potrei dire che nel Diciassette cade il 430° anniversario del Tamerlano (probabilmente di entrambi i Tamerlani) di Marlowe. E il 420° delle shakespeariane Allegre Comari di Windsor – nonché del primo ritiro dalle scene di Edward Alleyn…

Insomma, se volessi, potrei andare allegramente avanti per la mia strada. E badate, probabilmente ci andrò – almeno un pochino. Però…

Però non sarà tutto e solo Shakespeare&Marlowe. Si dà il caso che il Diciassette sia il 350° anniversario della nascita di Jonathan Swift – del quale, devo confessare, non sono certa di avere tantissimo da dire, ma magari sarà l’occasione per qualche rilettura.

janeE, più significativamente, si dà il caso che sia anche un anno decisamente austeniano: il bicentenario della morte della Zia Jane, nonché della pubblicazione di Nothanger Abbey e di Persuasion, per cui aspettatevi una certa quantità di Jane Austen.

Che altro? Ancora un paio di bicentenari riguardano il Rob Roy di Scott e il Manfred di Byron – ma non è come se stessi promettendo alcunché in proposito.

Per il resto, continueremo a occuparci di teatro, di libri, di storia e di storie, di scrittura . Ci occuperemo ancora del Palcoscenico di Carta. Ci saranno debutti e piccoli bollettini, ed esperimenti ogni tanto, e cose così – con occasionali digressioni in direzioni non necessariamente prevedibili.

E detto questo, salpiamo, volete? La rotta tracciata non sembrerà particolarmente audace, ma andiamo a vedere se, dopo tutto, non possiamo trovare qualche sorpresa su e giù per queste rotte dall’aria consueta.

Vento in poppa, calma di mare (o forse non proprio), e felice traversata!

Ago 1, 2014 - libri, libri e libri    2 Comments

Dal Lato Sbagliato Della Coperta

Vi ricordate quando parlavamo delle potenzialità narrative degli orfani? Be’, c’è un’altra categoria di personaggi altrettanto dotati in fatto di conflitto originario, ma di solito più complicati: i figli illegittimi.

Possono essere anche orfani, o credersi orfani – e poi scoprirsi provvisti di uno o più genitori, oppure non sanno chi sono, o lo sanno e si risentono… C’è tutta una fenomenologia, ma una cosa è costante: sono malaggiustati. Degli outsider tormentati dal rancore, dal senso d’ingiustizia, dallo stigma sociale… Conflitto a palate!

E non è detto che siano teneri e simpatici come gli orfani – almeno non in tutte le epoche.

EdmundIn età elisabettiana, per dire mica tanto. Prendiamo un autore a caso – Shakespeare.* Per un intelligente, saggio ed energico Faulconbridge, abbiamo l’invidioso e manipolatore Don John in Molto Rumor per Nulla, l’intrigante, rancoroso Edmund in Re Lear, e Calibano della Tempesta, che è proprio un mostro. E in linea generale, nel teatro elisabettiano e giacobita, l’illegittimità tende ad essere sinonimo di cattivo carattere, sregolatezza e morale periclitante nella migliore delle ipotesi, con punte di malvagità pura e semplice.

Ma a questo punto, stiamo parlando di bastardi di sangue reale o molto nobile, giovanotti a un invalicabile passo da un titolo o da una corona, pieni di risentimento e di ambizioni frustrate…

Bisogna aspettare il Settecento di Fielding, per trovare un Tom Jones, trovatello e commoner, illegittimo, ma di buon cuore e principi fondamentalmente sani, al contrario del legittimissimo fratello adottivo, che è un ipocrita di tre cotte. Inutile dire che all’epoca l’idea risultò piuttosto scandalosa – ma la romanticizzazione un po’ risquée dell’illegittimità era dietro l’angolo.

Non ancora in Jane Austen – o non proprio, se consideriamo che l’Emma eponima si considera molto longanime nell’incoraggiare la povera Harriet, di dubbia nascita, ad aspirare a un buon matrimonio… Il fatto è però che le idee di Emma in proposito si rivelano malguidate. In realtà Harriet rimane “improponibile” per un gentiluomo, e alla fine troverà “il suo posto” sposando un contadino ricco.

L’idea che persino l’ombra dello scandalo basti a rovinare una donna e le sue prospettive matrimoniali è ancora in pieno fulgore nei tardi anni Trenta dell’Ottocento, quando la Rose Maylie di Oliver Twist, pur essendo uno di quei miracoli di perfezione femminile che solo Dickens, non può sposare il gentiluomo Harry, perché la sua nascita è dubbia. E sia chiaro, la zia di Harry ha cresciuto Rose e la adora – solo che non si fa. Ci vorrà l’orgia di agnizioni del finale per far trionfare l’amore entro i confini della proprietà sociale.

Andrà meglio, in Casa Desolata, a Esther Summerson, che pur illegittima ha ben due uomini ansiosi di sposarla, e può godere di un lieto fine. Non a caso, tuttavia, il lieto fine arriverà soltanto dopo che entrambi i suoi discutibili e adulteri genitori saranno morti. Un prezzo da pagare c’è sempre… Antony

E la romanticizzazione che si diceva? Be’, tende a riguardare per lo più i personaggi maschili. Come l’Antony di Dumas Père (che di figli illegittimi ne sapeva qualcosina), cupo eroe byroneggiante, reietto dalle reazioni un tantino incontrollate – ma lo si deve capire: fuori dalla società, fuori dalle convenzioni… Non a caso, Dumas Fils, esemplare di prole illegittima, scriverà a sua volta un dramma intitolato Le Fils Naturel – ma con una visione meno romantica, e una decisa rivendicazione dei diritti dei figli naturali.

Victor Hugo nel 1828 mette nella sua Marion Delorme un altro di questi giovanotti illegittimi e fiammeggianti: Didier è di quei primi amorosi e grandiloquenti con vocazione al martirio (proprio e altrui). Una trentina d’anni dopo, con il dramma di Fantine e Cosette nei Miserabili, Hugo mostrerà di saper dipingere l’illegittimità in colori meno melodrammatici e più dolorosi. E se, di nuovo, Didier-il-romantico è un uomo, e Cosette-la-rovinata è una donna, è anche vero che l’irregolarità di Cosette viene ingoiata intera dal pur rigido Monsieur Gillenormand prima quando l’alternativa è perdere di nuovo Marius, e poi quando la fanciulla si rivela ereditiera.

Alla fine dell’Ottocento, l’illegittimità di Billy Budd non è il tema centrale della novella omonima, però di sicuro è la circostanza originaria che dà a Billy la sua sconcertante (e alla fin fine letale) combinazione di fascino e candore.

Ma ci vorrà il Novecento perché la narrativa esplori davvero la situazione dei figli illegittimi dell’uno e dell’altro sesso – gente con una situazione non solo socialmente insanabile, ma psicologicamente distruttiva. Pensiamo allo Zenon Ligres di Marguerite Yourcenar, a perenne caccia di qualcosa che lo affranchi o compensi. O al Razumov di Conrad, così fatalmente ansioso di essere accettato dal padre naturale e dal suo ambiente. O il Michael del desolato The Gardener, insicuro nonostante l’affetto con cui è stato cresciuto dalla zia. O, con un taglio più leggero per genere, ma non per esito, il Meurig di Ellis Peters, più fedele dei parenti legittimi al maniero e al nome che non può ereditare. Il Jean/Kack Dunois di Shaw, il grande amico di Santa Giovanna, lo troviamo un caso senza complicazioni, perfettamente aggiustato nel suo ruolo – ma stiamo parlando di un personaggio piuttosto minore, un simpatico sidekick di sangue reale, cui non si possono dare tormenti privati che distraggano il pubblico dalla Pulzella: l’illegittimità di Dunois è puramente storica e incidentale, e possiamo considerarla irrilevante. Se davvero vogliamo qualcuno cui vada relativamente bene, c’è l’André-Louis Moreau del sabatiniano Scaramouche, che colla sua illegittimità viene a patti nelle turbolenze livellatrici della Rivoluzione – salvato probabilmente, come ci viene quasi promesso fin dalla prima riga del romanzo – dal suo sense of humour…

imagesMa può anche darsi che André-Louis sia solo più fortunato in fatto di contesto, e più abile a nascondere il suo disagio. In generale, se gli orfani hanno conflitto in abbondanza, i figli illegittimi  – almeno fino alla prima metà del Novecento – ne hanno ancora di più, meno risolvibile, dalle conseguenze più amare e più inestirpabili. Per loro, alla situazione dolorosa e alle difficoltà economiche, si aggiungono problemi d’identità negata e sradicamento – combinati con un rifiuto sociale, più o meno esplicito, che chiude la maggior parte delle strade. Non è un caso se il tema ritorna così spesso in letteratura, e se gli esemplari della specie che godono di lieto fine si contano sulle dita di ben poche mani.

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* Dite la verità: vi aspettavate Marlowe, vero? E invece no…

Iconoclastia Spicciola

Qualche giorno fa ho preso dell’iconoclasta.

Ammetterete che non capita tutti giorni – almeno non in questo secolo – che una persona (diciamo che si chiami B.) vi guardi con astio e vi dica: “Sai che cosa sei tu? Un’i-co-no-CLA-sta!”

E il motivo per cui B. mi ha dato dell’iconoclasta è che mi sono rifiutata di stracciarmi le vesti perché P.D. James ha scritto un seguito giallo di Orgoglio e Pregiudizio.

Ora, non ho letto Death comes to Pemberley, o quanto meno non ancora, ma avrei mezza intenzione di farlo – e l’intenzione è mezza soltanto perché le recensioni non sono terribilmente incoraggianti. In tutta probabilità un tentativo lo farò. Ehi, si tratta pur sempre di Aunt Jane e P.D. James: non può non valerne la pena, almeno un pochino.

Quanto al considerarlo un sacrilegio, mi dispiace, o B., ma proprio non mi ci so indurre. E nemmeno a considerare DCtP nient’altro che una bieca operazione commerciale volta a speculare sulla generale passione per Lizzie Bennet… A parte tutto, credo che P.D. James non abbia bisogno di speculare su alcunché: lei è, you know, P.D. James.

Ma non mi stupirei di scoprire parecchia gente che la pensa come B. e grida all’iconoclastia, al sacrilegio e alla speculazione. Parecchia gente italiana – e badate, non ne faccio una gran colpa né a B. né ad altri. Il fatto è che siamo stati allevati nell’immobile e acritica venerazione degli Autori di Capolavori, nei confronti e a proposito dei quali non è concesso muovere lobo cerebrale…

Abbiamo già parlato in passato del modo in cui questo atteggiamento scolastico scoraggi l’entusiasmo per la lettura più di qualunque altra cosa, vero? Perché a parte tutto, se di fronte al Capolavoro possiamo soltanto annuire, abbacinati dalla sua marmorea e inscalfibile perfezione, se è peccato mortale esercitare anche la minima briciola di spirito critico in proposito, è ovvio che finiremo con l’annoiarcene presto…

Ma di questo abbiamo già parlato più di una volta, e non è questo il punto. Il punto, per tornare a P.D. James, è che di questa qualità marmorea dei Capolavori fa parte la certezza che sia sacrilegio riprenderne in mano i personaggi e la storia e farne qualcosa di diverso. Omaggio, parodia, pastiche, seguito, rivisitazione… quel che volete. E più è diverso il qualcosa, più è grave il sacrilegio. 

Guardate invece Shakespeare. Guardate il modo in cui nel mondo anglosassone si tiene vivo l’autore-monumento per eccellenza.

Shakespeare si rivisita in laboratori teatrali per gli studenti con difficoltà di apprendimento – e mi dispiace davvero molto di avere smarrito il link all’articolo su questo bellissimo progetto, ma lo ritroverò.

Shakespeare si sceneggia in Kill Shakespeare, un fumetto alquanto dark, in cui otto o dieci personaggi sopravvivono alla morte in scena e decidono di vendicarsi del loro autore.

Shakespeare si inclina a quarantacinque gradi, tinge di violetto e trasforma in To Be Or Not To Be: That Is The Adventure, ovvero un Amleto in versione libro-game, in cui si sceglie il proprio personaggio e si attraversa la tragedia – anziché limitarsi a guardarla o leggerla.

Shakespeare si mette in parodia all’insegna del nonsense come fa la Reduced Shakespeare Company

E credete che Oltremanica e Oltretinozza per questo ci si straccino le vesti? Ma nemmeno per idea. O meglio, ovviamente c’è chi lo fa, ma a Londra trovare i biglietti per The Complete Works of William Shakespeare (Abridged) della RSC è più complicato di una cerca medievale, e l’Amleto in versione Scegli-La-Tua-Tragedia, una volta avviato su Kickstarter, raccoglie mezzo milione di dollari (più o meno trenta volte la cifra prevista in origine), e Kill Shakespeare induce critici e studiosi di cose elisabettiane a tirarsi oggetti pesanti a proposito della qualità dei dialoghi…

Capite? That is the question: se il linguaggio pseudo-shakespeariano del fumetto sia abbastanza buono, non se  Del Col e McCreery abbiano profanato in qualche modo la Sacralità del Bardo.

Ecco, è questo il punto. Il punto è che Shakespeare è materiale estremamente vivo nel mondo anglosassone. È vivo anche perché trattarlo come tale non è peccato mortale. È vivo anche perché ci si fanno cose buffe, cose irriverenti, cose originali. E d’altra parte, si continua a farci cose buffe, irriverenti e originali perché è vivo…

E intanto Dante e Manzoni se ne restano venerati e marmorei, studiati a scuola e segretamente detestati – e difesi a spada tratta con malguidato e soffocante zelo. Una ventina d’anni fa il Giornalino pubblicò le deliziose parodie dantesche di Marcello Toninelli, e ricordo alti lai non del tutto dissimili da quelli accordati in tempi recenti agli spot danteschi della TIM…

Il che significa che qualcosetta ogni tanto tenta di muoversi, ma non, non, non abbastanza. Ci vorrebbe altro che qualche isolata parodia per liberare dalla polvere e dalla venerazione i nostri autori-monumento – e tenerli vivi…

 

Sorcery & Cecelia – Il Gioco Delle Lettere

caroline stevermer, patricia wrede, sorcery & cecelia, fantasy storico, reggenza, jane austen, georgette heyerSorcery & Cecelia, The Enchanted Chocolate Pot, di Caroline Stevermer e Patricia Wrede, è un libro delizioso.

Sorcery & Cecelia è un fantasy storico ambientato in un’Inghilterra Reggenza in cui la magia è un dato di fatto, e i maghi notevoli fanno parte del Royal College of Wizards e/o dello stato maggiore del Duca di Wellington.

Sorcery & Cecelia, se a questo punto siete tentati di chiedervelo, precede di sedici anni il notevolissimo Jonathan Strange & Mr. Norrel, di Susanna Clarke – che in qualche modo gli somiglia, ma nemmeno troppo.

Sorcery & Cecelia è deliziosamente austenesco e heyeresco, avendo per protagoniste due giovani cugine della upper middleclass, una a Londra per la sua season, l’altra in campagna a scoprirsi un inatteso talento magico. E ciascuna delle due si ritrova alle prese con un diverso giovanotto tanto fascinoso quanto esasperante, ma anche con gente molto malvagia e molto potente. Per non parlare del bricco da cioccolata. Che è magico per sbaglio. E azzurro. Molto azzurro.

Sorcery & Cecelia è un romanzo epistolare, scritto in via epistolare.

Sorcery & Cecelia è stato scritto per gioco, e la nota conclusiva delle due autrici non è meno deliziosa del libro.

Insomma, a quanto pare, Caroline Stevermer aveva imparato il Gioco delle Lettere da Ellen Kushner, e ci aveva sporadicamente giocato per anni, fino a quando le capitò di parlarne ad un gruppetto di scrittori. Il Gioco delle Lettere, non sarete troppo sorpresi di scoprirlo, consiste nello scambiarsi lettere in character – non necessariamente raccontando una storia. Si finge di essere due personaggi e ci si scrive e risponde senza mai uscire da dietro la maschera. Caroline Stevermer avanza l’ipotesi che si tratti di uno strumento di studio del personaggio nato ad uso degli attori teatrali. Converrete che ha anche tutta l’aria di un magnifico gioco per scrittori*, e in effetti i commensali di Caroline, quelli cui le capitò di parlarne, rimasero affascinati. La più affascinata di tutti era Patricia Wrede, che subissò Caroline di domande in proposito e poi le diede il tormento finché non riuscì a convincerla a giocare. Allora Patricia rimuginò sulla faccenda e, poiché entrambe amavano il fantasy storico e la Reggenza, creò Cecelia, Kate e la loro Inghilterra immaginaria ma non troppo. E Caroline rispose, e poi entrambe ci presero gusto oltre ogni dire e, trattandosi di due romanziere, in men che non si dica, si ritrovarono tra le mani un romanzo.

Un romanzo pubblicabile. Un romanzo delizioso. Un romanzo che uscì per la prima volta nel 1988, rimase pressoché introvabile fino al 2003, fu ristampato, proseguì per altri due volumi, e finalmente ora arriva in edizione Kindle.

Traduzioni italiane? Manco a parlarne, si capisce, ma vale la pena di leggere l’originale, con le sue due voci ben distinte e perfettamente accostate, con la sua commistione di balli da Almack’s e stregoneria riprovevole, sedute dalla sarta e omicidi magici, eterodosse proposte di matrimonio e sacchetti di erbe magiche per scacciare i malefici… Una volta di più, nessuno sta cercando di conquistare il mondo, e la magia è una faccenda perfettamente mondana, un’arte che s’impara, si usa e si abusa, un mezzo ragionevolmente utile sui campi di battaglia e pericoloso nelle mani delle femmes fatales senza scrupoli.

Un altro fantasy fuori da quelli che da queste parti si cerca di far passare per confini – con un attraentissimo gioco in regalo, for good measure.

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* Mi viene in mente, scritto alla stessa maniera, Freedom And Necessity, di Emma Bull e Steven Brust.

Si Eseguono Rammendi, Orli E Cuciture.

Con l’eccezione del Marchese di Lantenac in Novantatré, Victor Hugo aveva per massima di mandare i suoi protagonisti al camposanto prima dell’ultima pagina. E a dire il vero, non solo i protagonisti, visto che nell’Hugo medio si fa prima a contare i sopravvissuti che i trapassati…

Ma a Victor Hugo pareva di seguire così i suoi personaggi fino alla fine, di non lasciare domande senza risposta, di non abbandonare la sorte della sua gente immaginaria al caso.

O – anche se questo non poteva saperlo – agli autori di sequel.

Perché non c’è nulla da fare: lasciare in pace i classici è quasi impossibile. Prima o poi la tentazione di metterci penna è più forte di ogni altra considerazione. E siamo sinceri: non vi siete mai domandati che ne sarà di Isabel Archer dopo l’ultima pagina di Ritratto di Signora? O che cosa farà Orazio dopo il funerale di Amleto? O che ne sarebbe stato di Grantaire, se non fosse morto con Enjolras a barricate cadute? O come crescerà Alice dopo il Paese delle Meraviglie? O come sarebbe invecchiato Julien Sorel se non fosse stato condannato a morte? O da dove saltavano fuori di preciso Fagin, Jago e Brian de Bois-Guilbert?

Io sì, lo confesso. Tutto il tempo. E a quanto pare sono in buona compagnia, visto il diluvio di seguiti, antefatti, rinarrazioni, stravolgimenti – e fanfiction, ma questa è un’altra faccenda. Parliamo di narrativa pubblicata: romanzi che riprendono un classico e ci danzano attorno in vari possibili modi.

Il più ovvio è il seguito. Si prende la storia dove l’autore l’ha lasciata e si va avanti – perché onestamente non c’è lieto fine che tenga: che cosa succede dopo? Tra gli autori più saccheggiati a questo proposito c’è Jane Austen, e non è nemmeno troppo sorprendente. Visto che tutti i suoi romanzi si chiudono con un matrimonio, la domanda “e come funzionerà il matrimonio in questione?” viene quasi da sé. Per cui c’è tutta un’abbondanza di romanzi che esplorano in ogni possibile luce (dal giallo all’erotico, passando per la saga generazionale) le vicende matrimoniali delle eroine austeniane – in particolare Lizzie Bennet in Darcy, ma non solo. Mi viene in mente una cosa di cui non ricordo né titolo né nome, la cui protagonista è Susan, la sorella minore dell’insopportabile Fanny di Mansfield Park. Ma poi ci sono anche Georgiana Darcy (la timida cognatina pianista di Lizzie), le altre sorelle Bennet, Marianne ed Elinor Dashwood e chi più ne ha più ne metta.

Anche Dickens ha avuto la sua parte, con Evrémonde, di Diana Mayer, che si concentra sul figlio di Charles e Lucie Darnay – ma non prima di averci mostrato Charles prigioniero e in attesa di esecuzione. Yet again. Considerando che ho sempre trovato due processi capitali nel corso di una decina d’anni un’improbabilità non indifferente, confesso di non essere ansiosissima di leggere un seguito che ne impila un terzo sulla testa del povero Charles – ma resta il fatto che il seguito c’è.

Così come c’è Scarlett, il seguito ufficiale di Via Col Vento, che la Margaret Mitchell Foundation commissionò ad Alexandra Ripley, con discutibile successo. Non ho letto, e mi si dice che sia così così, ma non negate: tutti ci siamo chiesti che cosa avrebbe fatto Rossella l’indomani, che era un altro giorno…

E, ironicamente, il drastico metodo di cui dicevamo, non è bastato a salvare Hugo dai seguiti. François Cérésa ne ha pubblicati addirittura due a I Miserabili, mostrando ai lettori come, dopo la purissima fiamma della passione adolescenziale, Mario e Cosetta non fossero poi fatti per intendersi troppo*. Ma forse questo non sarebbe bastato a sollevare le proteste dei lettori e dei discendenti di Hugo: ci voleva la ricomparsa dell’Ispettore Javert. Ma come? Non si era suicidato? Ebbene no, dice Cérésa: ci aveva ben provato, ma era stato salvato all’ultimo momento.

Forse ancora più diffusi sono gli antefatti. Come si è arrivati alla situazione di partenza? Che cosa ha reso il tale personaggio così come lo conosciamo? Cosa è successo prima? E allora ecco Finn: a novel, che racconta le vicende dell’eponimo Huckleberry prima di Tom Sawyer, o Peter and the Starcatchers, che segue Peter Pan… be’, immagino tra Kengsington Garden e L’Isola Che Non C’è. O ancora Flint and Silver, di John Drake, che immagina la storia dei due pirati in questione prima di Treasure Island, operazione simile a quella autorizzata nel 1924 dagli eredi di Stevenson per Portobello Gold. Parte antefatto e parte rinarrazione di Jane Eyre è Wide Sargasso Sea, di Jean Rhys, che racconta la storia di Bertha Mason: come è finita nella soffitta la moglie pazza e piromane di Mr. Rochester? E simile in intento è La Bambinaia Francese** di Bianca Pitzorno, che invece si concentra sulla dolce amante francese di Mr. Rochester. Si direbbe che la caratterizzazione del protagonista maschile come abbandonatore seriale di donne abbia scatenato gli istinti rinarrativi di un sacco di gente.

O forse non solo di quello si tratta, visto che JE conta ogni genere di rinarrazioni, dal fantascientifico Jenna Starborne, al goticone Rebecca (che ha a sua volta un seguito: Mrs. DeWinter), al giovanilistico Jane, al vampiresco Jane Slayre, in cui l’eroina è una cacciatrice di vampiri part-time. Oh, never look so shocked. Non avete mai sentito parlare di Pride, Prejudice and Zombies? O di Sense, Sensibility and Sea Monsters? Mescolare classici e paranormale è l’ultima moda in fatto di rinarrazioni – e sia Grahame-Smith che Winters ci mettono tanta ironia da dipingerci un ponte, sconfinando decisamente nella parodia.

Un altro filone rinarrativo, meno recente ma duraturo, è quello di prendere un personaggio minore e mostrare la storia dal suo punto di vista. Vi dicevo che Wide Sargasso Sea e La Bambinaia Francese cominciano come antefatti e poi approdano qui, e lo stesso vale per La Vera Storia del Pirata Long John Silver (Björn Larsson) e Jacob T. Marley (W. Bennet) che, ci crediate o no, racconta Canto di Natale attraverso gli occhi del defunto socio di Scrooge – quello con le catene. Rinarrazione in senso più stretto, per tornare a Jane Eyre, è Rochester, che è esattamente quel che dice l’etichetta: la stessa storia, raccontata da Mr. R. Qualcosa di simile (anche se si tratta in realtà di un’operazione leggermente diversa) ha fatto anche Stephen Lawhead, che ha preso la storia di Robin Hood, l’ha spostata nel Galles e l’ha raccontata tre volte, incentrandola prima sul protagonista, poi su Will Scarlet e poi su Frate Tuck. E immagino che in questa categoria ricada anche Gertrude and Claudius, un punto di vista alternativo su Amleto, immaginato da John Updike.

Poi ci sono i cosiddetti companion books, come March, in cui Geraldine Brooks segue le vicende del padre delle Piccole Donne nella Guerra Civile, ovvero quel lato della storia che nel romanzo arriva solo sotto forma di lettere e cattive notizie. Non la stessa storia – ma qualcosa di tanto strettamente correlato da avere un’influenza sulla storia del romanzo ed esserne influenzato.

E infine voglio citare una forma più metaletteraria del gioco: la storia del romanzo fusa in un modo o nell’altro con la vita del suo autore – nella forma di incidenti più o meno autobiografici, più o meno reali, che possono averla ispirata. È il caso di Foe, in cui Coetzee fa incontrare (De)foe e un’ulteriore compagna di naufragio di Robinson Crusoe, oppure di Becoming Jane Eyre, che Sheila Kohler intesse intorno al periodo in cui Charlotte Brontë scrisse il suo romanzo più celebre.

E dunque vedete che non c’è limite a quel che si può fare a partire da un buon vecchio classico. Funziona? Dipende – ma il genere ha i suoi limiti. Da un lato, chi ha amato l’originale può riservare al rimaneggiamento reazioni che vanno dal disprezzo preconcetto allo sdegno più incendiario, mentre chi non ha letto o non ha conservato un particolare attaccamento, tende a nutrire un interesse limitato. Dall’altro, lavorare su un altro libro richiede un serio lavoro di equilibrismo tra omaggio e originalità – tanto in forma quanto in sostanza. Uno dei problemi più diffusi è il perenne tentativo di imitare lo stile dell’originale, operazione né facile né sempre necessaria. All’estremità opposta della gamma, interviene il livore, quando non si tratta tanto di omaggio quanto di catarsi. Se una delle principali debolezze del Marley di Bennet è quella di suonare terribilmente come un Dickens annacquato, d’altro canto la Pitzorno, nella sua ansia di correggere politicamente le innumeri riprovevolezze di Jane Eyre, fa della Bambinaia una raccapricciante collezione di anacronismi psicologici***…

Ma ci sono anche le gemme, e in ogni caso, nonostante tutte le difficoltà e i limiti, non vedo all’orizzonte un declino del sottogenere. Dopo tutto, la pulsione ad aggiustare, abbellire, ricamare, inclinare a 45° e tingere di violetto le storie è vecchia come l’umanità – e guai se non fosse così, o che ne sarebbe della letteratura?

E voi? Se vi saltasse l’uzzolo di continuare, spiegare, riraccontare o altrimenti riprendere in mano un classico, che cosa fareste?

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* E a dire il vero, chi è che, leggendo come la felicità per Cosetta fosse ascoltare Mario che parlava di politica, e per Mario ascoltare Cosetta che parlava di nastri, ha pensato che tutto ciò fosse una solida base per un matrimonio felice e duraturo?

** Sì, sì, sì: quella Bambinaia Francese. Ho le mie ragioni.

*** E sì, sì, sì: sapevate che ci sarei arrivata. E ve l’avevo detto, che avevo le mie ragioni…

Mag 4, 2011 - libri, libri e libri    2 Comments

Dieci Anni Con Amazon

Dieci anni fa, come oggi, ho ordinato il mio primo libro su Amazon. Ero internettizzata da poco, la rete era ancora hic sunt leones, e stavo scoprendo con entusiasmo crescente la posta elettronica – ma comprare libri a distanza sembrava una cosa davvero marziana. Poi il mio amico A. – che essendo un ingegnere era più tecnologico di me – ne cantava talmente le lodi…

Non so se vi rendiate ben conto. All’epoca, dopo alcuni felici anni trascorsi tra Pavia, Cardiff e Londra, ero appena tornata a vivere in un posto dove la libreria più vicina è a venti chilometri di distanza, e quando ci sei arrivata non è che si facciano proprio sempre in quattro per procurarti quel che cerchi, specie se è in Inglese. Io pensavo con feroce rimpianto al Delfino di Piazza della Vittoria e ai vari bookshops della mia vita recente, e all’improvviso, secondo A. c’era un accettabile next best thing

Oh, la prima visita su Amazon.com, questi scaffali virtuali colmi di ogni bendidio, con le immagini delle copertine e le recensioni… mi sentivo tanto Ali Baba! E ricordo benissimo di avere impiegato quasi due ore a scegliere il mio primo acquisto: The Juvenilia of Jane Austen and Charlotte Bronte, edizione Penguin, £ 10,76 più, presumo, spese di spedizione. E ricordo l’arrivo del pacchetto una settimana esatta più tardi, e la felicissima lettura*, e l’appagante sensazione di avere di nuovo a portata di mano un posto dove procurarmi i libri che volevo, non quelli che trovavo.

Negli ultimi dieci anni sono stata un’acquirente fedele di Amazon nelle sue varie branches internazionali: Amazon.com, Amazon UK, occasionalmente Amazon France e, dallo scorso anno, Amazon Italia. In realtà le Poste Italiane hanno fatto del loro meglio per rovinare questo felice idillio, ma devo dire che ho sempre trovato un ottimo servizio, e tutte le volte in cui i libri sono andati effettivamente persi (perché è capitato, and not just once), tanto Amazon propriamente detta quanto i vari dealers sono sempre stati prontissimi a rispedire senza la minima difficoltà. Posso forse registrare la volta in cui, ad acquisto pagato, un dealer mi ha informata che dei due volumi di The Elizabethan Stage di E.K. Chambers che avevo ordinato, ne aveva uno soltanto. Fortunatamente era quello di cui avevo più bisogno, e siccome non si trovavano altre copie, mi sono fatta rifondere il volume mancante e sono andata avanti. Oppure potrei raccontare l’occasionale squabble con il venditore che non vuole tre stelline di feedback, perché tre stelline contano come un voto negativo, e allora non è giusto, e posso per favore rimuovere il feedback…

Ma fa nulla: nel complesso Amazon mi ha resa e ancora mi rende molto felice. Ah, il senso di vacanza di quando arriva un pacco di libri! Tra l’altro, molto opportunamente, proprio ieri ne è arrivato uno. A dire il vero è in ritardo, ma arriva così a proposito che glielo si può perdonare.

E a titolo di festeggiamento del decennale, avendo io scoperto (meglio tardi che mai!) che Somnium Hannibalis è in vendita su Amazon, credo  che infilerò qui questo:

Grazioso, vero? E so di essere del tutto spudorata, ma se qualcuno di voi avesse voglia di passare di là e lasciare una recensione, sarei molto grata.

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* Periodo di marmellata di rose, tra l’altro, e ancora adesso associo il profumo in questione a(gl)i Juvenilia.

Feb 18, 2011 - Spigolando nella rete    1 Comment

Jane Austen Nell’Era Della Playstation

Non è che non avessi mai visto giochi per il computer ispirati a romanzi, ma di questo Matches And Matrimony che B. mi segnala, devo proprio mettervi a parte.

PPgame1.pngCi credete? Un gioco di simulazione che combina tre romanzi di Jane Austen in una caccia al marito perfetto… Mi par di capire che si vestano i panni virtuali di Lizzie Bennet di Orgoglio e Pregiudizio, senza per questo trovare le proprie scelte ristrette a Mr. Darcy. Il promo su Amazon spiega che ci si potrebbe anche interessare a Mr. Bingley (il che fa capire perché, sulla scheda-personaggio di Jane Bennet ci sia una specie di termometro dell’amicizia…) e in una schermata si nominano il Colonnello Brandon di Ragione e Sentimento e il Capitano Wentworth di Persuasione

Dopodiché mi par di capire che si svolgano varie attività per migliorare le proprie statistiche (con valori come forza di volontà, spirito, gentilezza, talento e via dicendo) e si interagisca con gli altri personaggi, perseguendo la domanda di matrimonio da parte del corteggiatore preferito. PPgame2.png

La parte seria di me scuote la testa, ma in realtà già m’immagino legioni di Janeites che giocano furiosamente – le une intente ad accaparrarsi Mr. Darcy, altre (che non lo hanno mai sopportato) ansiose di fornire Lizzie di un marito diverso, altre ancora in deliquio all’idea di soffiare il buon Bingley all’angelica Jane – in una versione contemporanea e molto meta dell’esperimento di Mrs. Oliphant.

PPgame3.pngMi piacerebbe dire che qualche ragazzina, dopo avere giocato, andrà a leggersi i libri, ma non sono sicura di crederci fino in fondo – anche se devo dire che nel mondo anglosassone O&P e R&S sono di una popolarità biblica (anche grazie a fortunati adattementi cinematografici e televisivi) e pure molto letti. Per di più, non passa numero di HNR senza che si recensisca almeno un seguito, rielaborazione o pastiche austeniano. Si direbbe che, al di là della Tinozza, le lettrici siano frustrate dalla scarsa produttività della Zia Jane, e insaziabilmente affamate di opere derivate. Probabilmente non è un caso che Matches And Matrimony sia disponibile solo negli Stati Uniti.

Che devo dire? L’idea di una Janeite seduta al computer in abito di mussola a vita alta, occupata a maritarsi a colpi di mouse, mi diverte enormemente…

 

Gen 28, 2011 - libri, libri e libri    3 Comments

Le Fragole Della Signora Elton

jane-austen.jpgAh, Jane Austen, scrittrice meravigliosa e, quando vuole, fine umorista! E sperimentatrice, anche. Volete vedere uno stream-of-conversation? Volete un pezzettino di caratterizzazione superlativa? Volete una sorridente, piccola indagine sulla natura umana? Ebbene, allora, seguiamo i personaggi di Emma, e in particolare la detestabile Signora Elton, invitati nel magnifico giardino del Signor Knightley per una giornata di piccola agricoltura: la raccolta delle fragole, appunto. Per chi non avesse letto Emma, la Signora Elton è la moglie del Vicario, una detestabile, garrula e pretenziosa creatura, con un’alta opinione di sé e maniere atroci, molto condiscendente nei confronti di tutti – e in particolare dell’eroina eponima, la nubile Emma.

E adesso, fragole (traduzione mia):240px-Illustration_Fragaria_vesca0.jpg

La Signora Elton, in tutto il suo apparato di felicità, con il suo cappello a tesa larga e il suo cestino, era  prontissima a guidare tutti nel raccogliere, nell’accettare e nel discutere – e a nessuno era consentito di parlare o pensare ad altro che alle fragole – e alle fragole soltanto. “Il frutto migliore d’Inghilterra – e piacciono a tutti – e fanno così bene! Ma che magnifiche aiuole, e della migliore qualità – e che delizia raccogliersele da soli – e il solo modo di godersele davvero – e la mattina è il momento migliore – e non ci si stancherebbe mai – e tutte le qualità sono buone – ma le fragoline di bosco sono infinitamente superiori – e non c’è paragone – e le altre si possono a mala pena mangiare – e le fragoline di bosco sono così difficili da trovare – e quelle del Cile sono preferibili – ma quelle selvatiche sono le più saporite – e il prezzo delle fragole a Londra – e che abbondanza attorno a Bristol – e a Maple Grove – e la coltivazione – e quando rifare le aiuole – e non ci sono due giardinieri che dicano la stessa cosa – e non c’è una regola assoluta – e non c’è modo di far cambiare idea a un giardiniere – e che frutto delizioso – ma da mangiare in piccole quantità – e non buone come le ciliegie – e mirtilli più dissetanti – e l’unico fastidio è doversi chinare per raccoglierle – e che sole cocente – e che stanchezza mortale – e non si resiste – e bisogna andarsi a sedere all’ombra.

emmabrockwc2.jpgIn poche righe Zia Jane cattura l’universale esperienza della raccolta delle fragole, con l’entusiasmo che declina mano a mano che il sole comincia a scottare e le ginocchia a protestare – e il carattere della Signora Elton, con la sua conversazione che procede fatua, sentenziosa e inarrestabile: non vi sembra di sentirla mentre conciona a voce troppo alta di fragole, fragole e nient’altro che fragole, impermeabile ai piccoli sospiri e al levare di occhi al cielo degli altri giardinieri dilettanti?

Ah, Jane Austen!

Ott 29, 2010 - grilloleggente    4 Comments

Qualcuno Mi Spieghi Twilight

Confession time. Sto leggendo Twilight, di Stephenie Meyer.

Qualifichiamo: lo sto leggendo più o meno per scommessa – o meglio, sto cercando di leggerlo, ma è davvero, davvero faticoso. E’ faticoso perché sono più o meno a metà e ancora non è successo nulla. Ma nulla. O meglio, è successo che (Isa)Bella Swan, diciassettenne goffa e inconsapevole del suo fascino*, si è trasferita dalla solatia Arizona in un posto piovosissimo dello Stato di Washington (credo – ma potrei sbagliarmi) e si è ritrovata in classe con un ragazzo bellissimo e misterioso. Fatale attrazione reciproca. C’è il piccolo particolare che lui è un vampiro, ma Bella, che all’inizio sembrava possedere qualcosa di vagamente simile a una personalità, è così persa dietro al giovinotto che i lunghi canini e le malsane abitudini alimentari le fanno un baffo.

Come sapete, sto combattendo una dura battaglia contro lo snobismo di genere, il mio prima di tutto. E così, quando un’amica e collega d’Oltreoceano mi ha regalato la versione elettronica di T. completa di scommessa dai circostanziati (e tecnicissimi) termini, ho cominciato con le migliori intenzioni di non avere pregiudizi.

Anche perché Randy Ingermanson ha scritto un’interessante analisi del Romanzone Più Amato Dalle Adolescenti, mettendone in luce un particolare aspetto di solidità narrativa di cui una volta o l’altra parleremo: la coerenza interna delle premesse paranormal/vampiresche.

E il primo capitolo o giù di lì, tutto sommato, mi aveva fatto dire “Be’, dopo tutto c’è di peggio.”

Sia chiaro: le motivazioni di Bella appaiono fumosette anzichenò fin dall’inizio, ma la voce narrante (seppur non proprio diciassettennissima) non era del tutto male, con una certa asciuttezza e un genere di sarcasmo self-deprecating

Ma questo accadeva, appunto, attorno al primo capitolo.

Adesso, qualche centinaio di pagine più tardi** sono un tantino idrofoba. A parte la quantità industriale di coincidenze di improbabilità e di forzature su cui poggia la trama (se vogliamo proprio chiamarla così), a parte l’infallibile e adolescentissima maniera in cui piove sempre al momento giusto, a parte la ripetitività della vita scolastica descritta in puntiglioso dettaglio***… a parte tutto ciò, in chiusura del capitolo terzo ero già repleta e satolla di sentir insistere sulla preternaturale goffaggine fisica di Bella e – ancora di più – sulla perfetta, sovrumana, abbagliante bellezza di Piccoli Vampiri Crescono.

i_libri_preferiti_da_edward_e_bella.jpgAnche perché non c’è granché d’altro: l’immediata elettricità che cresce rapidamente in reciproca attrazione, la supina adorazione di Bella, che smette di ragionare, smette di pensare, smette di fare qualsiasi cosa non sia struggersi per Edward, e questa inspiegata propensione della fanciulla a mettersi nei guai/attirare pericoli. Mi auguro vivamente che quest’ultimo particolare venga spiegato e si evolva in qualcosa di simile a una trama, ma comincio a disperare.

Ciò detto, Twilight ha uno straordinario successo – tanto da generare non solo una serie di film, ma anche qualcosa che non so come definire se non come una specie di indotto. Mi si dice che Across The Pond sia in vendita un tripudio di guide, istruzioni, libri di ricette per organizzare la perfetta festa di Halloween ispirata alla saga della Meyer, e ho visto personalmente un ebook di ricette per fare dolcetti con nomi come Bella’s First Kiss e simili. Sul nostro lato, Mondadori ha pensato bene di capitalizzare sul successo di Twilight pubblicando nuove edizioni tascabili di classici della letteratura con copertina nera e tanto di bollino rosso fuoco che recita “I Libri Preferiti di Bella e Edward”. Se siete curiosi di sapere chi hanno scomodato, ve lo dico io: Shakespeare, Emily Bronte e Jane Austen, per dire. E una breve ricerchina in rete mi ha condotta su un sito pieno di entusiastici commenti divisibili in tre filoni: a) Corro a comprarli! b) Che bella idea per avvicinare i giovani alla letteratura! c) gente più sana che leva un sopracciglio all’idea che Shakespeare abbia bisogno di essere sponsorizzato da Bella e Edward****.

Insomma, le ragazz(in)e sono in delirio – e io vorrei capire bene perché. A metà libro, mi pare che il fenomeno Meyer si spieghi molto meno di altri casi editoriali paragonabili. Qualsiasi altra cosa si possa pensare di loro e della loro scrittura, bisogna ammetterlo: Dan Brown prende temi controversi e ci costruisce attorno trame adrenaliniche, mentre J.K. Rowling ha avuto una brillante idea di partenza e, almeno per un certo numero di libri, l’ha sviluppata in modo fantasioso e avvincente.

Ma Twilight? Supponiamo pure che la bigia vita quotidiana di Bella (scuola, compiti, qualche lavoretto di casa, una spedizione in città con le compagne di classe…) sia il genere di realtà da cui milioni di adolescenti sognano di evadere. E poi? Milioni di adolescenti sognano di aspettare passivamente l’arrivo di un moroso da urlo – meglio se non del tutto raccomandabile – dal quale lasciarsi proteggere e salvare ogni volta che si ritrovano (altrettanto passivamente o per semi-attiva stupidità) nei guai?

Perché questa storia non somiglia a niente come a una gigantesca fantasia collettiva in cui una Mary Sue che si crede ordinaria viene scelta dal Principe Azzurro problematico e ne diventa del tutto succube – un inno alla passività completa.

Lo ammetto: non ho più sedici anni da molto tempo e quindi forse mi sfugge qualcosa. Ma mi piacerebbe capire.

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* Of course. E altrettanto naturalmente, questo fascino è notevole…

** Non so di preciso: Kindle dà una percentuale invece di un numero di pagina…

*** Biologia, trigonometria, lettere, educazione civica e ginnastica: ma non studiano altro nei licei americani?

**** Sì, lo so: manca una -d- eufonica. Mondadori’s wording, not mine.

Pagine:12»