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Scusatemi Se Da Sol Mi Presento

jeff vandermeer, prologhi, shakespeare, marlowe, shaw, dickens, manzoni,  Magari l’avrete letto in qualcuno di quegli articoli o post del genere “dieci cose che gli editor non sopportano”, o “dodici modi sicuri per farsi respingere un manoscritto”…

A suo tempo, credo di averne fatto uno anch’io, ma adesso non ho tempo di andarlo a cercare.

Anyway, se avete letto anche solo una lista del genere, odds are che ci abbiate trovato il Prologo.

E sapete che cosa vi dico, tanto da editor quanto da lettrice?

Che è proprio vero: di prologhi non se ne può più.

Che poi, sia chiaro, il Prologo in sé non ha nulla di male. Espediente narrativo mutuato dal teatro*, in base al quale un piccolo non-capitolo introduce atmosfera, precedenti, informazioni che verranno buone poi, chiarimenti dell’autore, esche… cose così.

E mi viene subito in mente una manciatina di prologhi teatrali che adoro –  lo shakespeariano O for a muse of fire dell’Enrico V, oppure l’orgogliosa rivendicazione del Tamerlano senza burle di Marlowe, o le  meditazioni di Shaw in fatto di storia prima di Cesare e Cleopatra…

Quanto a prologhi narrativi… scommetto che non vi stupirete se cito Dickens: it was the best of times, it was the worst of times… E lo scartafaccio secentesco dei Promessi Sposi. O la brevissima, folgorande invocazione agli spiriti che apre Entered from the sun. E, a dire il vero, poco di più.

Perché il fatto è che non è comunissimo trovare un prologo che faccia quel che deve fare: afferrare il lettore per la collottola e trascinarlo dentro la storia – possibilmente con una manciata di domande in tasca. E ciò benché i prologhi siano tornati di gran moda, soprattutto nelle storie di genere.

Non avete idea di quanti prologhi mi siano capitati fra le mani, con una protagonista narratrice che, mentre scappa o si nasconde, ritenendosi in punto di morte, comincia a ripensare a come è arrivata fin lì… Effetto Twilight, naturalmente – e sembra difficile convincere gli (o più spesso le) aspiranti che, qualsiasi cosa si pensi dei vampiri luccicanti, la cosa è già stata fatta, ripetutamente. E quindi adesso, quando vedo un prologo del genere, non sono più catturata, non mi domando che cosa ne sarà della nostra eroina, come ha fatto a trovarsi lì, chi la sta inseguendo… mi limito a levare gli occhi al cielo.

E lo stesso vale per i prologhi incomprensibili e/o aulicissimi, e magari drasticamente diversi dal primo capitolo. E tanto più se poi (e capita, oh se capita) la rilevanza del prologo rispetto alla storia si rivela labile o nulla…

Ho detto che voglio esserci trascinata, nella storia – ma con la forza, non con l’inganno.

E quindi? E quindi un tempo avevo fede nel prologo, e adesso non l’ho più. E quindi, quando sono tentata di iniziare una storia con un prologo, ci penso su due volte. E in genere decido che il prologo in realtà può benissimo diventare un primo capitolo. O, in alternativa, può essere capitozzato senza remore.

Ma se proprio non potessi farne a meno? Se avessi un antefatto che succede troppo tempo prima rispetto all’inizio della storia vera e propria? Se non povressi far funzionare la storia senza stabilire una premessa, seminare un indizio, preparare una sorpresa? Be’, allora credo che terrei presente la rana pescatrice dell’illustrazione lì in cima** (che, tra parentesi, è di Jeremy Zerfoss e viene da Wonderbook: The Illustrated Guide to Creating Imaginative Fiction di Jeff VaderMeer), e baderei bene a concepirlo come un’esca, il prologo: appetitoso, luminescente e irresistibile – proprio davanti alle fauci spalancate della mia storia.

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* E se andate a vedere il dizionario Treccani, difatti, ci trovate solo definizioni di ordine teatrale o figurato – ma nulla di narrativo, se non a margine della sezione “estens. non com.” del lemma.

** Cliccate (orrida parola) per vedere il pescione in tutto il suo istruttivo splendore.

Set 5, 2012 - editing, elizabethana, teatro    Commenti disabilitati su Piccolo Bollettino Notturno

Piccolo Bollettino Notturno

E anche Send Me Away (ovvero Deptford Parte I) è a posto.

Mi piaceva quando l’ho scritta e mi piace ancora. Buon ritmo, buone voci, buon conflitto. Peccato che serva più che altro da rampa di lancio per l’arrivo di Will nella scena successiva e per l’omicidio in quella dopo… Così l’ho potata da 1700 a 1200 parole, e adesso è più ragionevole.

Siccome non si butta mai nulla, tuttavia, ho salvato a parte parecchie battute cassate, che andranno benissimo per un altro play che sto progettando.

E che, a dire il vero, stavo progettando già da prima… ma questa è letteralmente un’altra storia.

Comunque, le mie intenzioni di finire la seconda stesura prima del Festival sono andate a farsi benedire, e per il resto della settimana il tempo da dedicare alla revisione sarà pochino…

On the other hand, si è già visto che a volte, meno tempo c’è più si combina, giusto?

Stiamo a vedere.

Ritratto Dell’Artista

E non dico che tutto il mondo sia un teatro affollato di antistratfordiani, ma la sensazione che il povero Will Shakespeare non fosse del tutto qualificato per scrivere ciò che ha scritto dev’essere diffusa – e lo dico sulla base della quantità di Will letterari mostrati mentre non fanno altro che assorbire il loro materiale.

Lo Shakespeare letterario medio, quello che  si trova in un romanzo o a teatro, vive con il taccuino in mano – più o meno metaforicamente – annotando, raccogliendo o rubando ogni spunto che gli passa nel raggio di un miglio.

E non da oggi, se consideriamo Le Voyage de Shakespeare, di Alphonse Daudet, una faccenda a mezza strada tra la storia picaresca e il romanzo di formazione, in cui un giovane Will attraversa l’Europa e tutte quelle esperienze che mancano al figlio del guantaio di Stratford per diventare il Bardo.

In The Dark Lady Of The Sonnets, sconosciutissimo atto unico di G.B. Shaw, la faccenda è più teatrale e più spudorata: il nostro ragazzo incontra sul ponte di Londra la Signora Bruna, un Beefeater e varia altra gente, e per tutto il tempo non fa altro che appuntarsi ogni parola che dicono – irritando tutti da non dirsi.

P. F. Chisholm, che poi è Patricia Finney, nei suoi Carey Mysteries porta occasionalmente in scena un Will di questo genere – solo molto più tecnico e consapevole di quel che fa. A un certo punto Sir Robert Carey racconta del bizzarro piccolo attore della compagnia di suo padre*. Costui, dice Carey, ha l’abitudine di scovare gente di tutte le provenienze (nulla di troppo difficile a Londra) e pagarla un tanto all’ora per ascoltarla parlare o leggere ad alta voce. Per impadronirsi di ritmi, inflessioni e cadenze. He’s odd that way, commenta un perplesso Sir Robert – ma noi capiamo e sorridiamo.

Robert Brustein, in The English Channel, riprende l’idea l’idea di Shaw** con un Will che, in conversazione, continua ad interrompere se stesso e gli altri al grido di “this could be something” ogni volta che riconosce un giro di frase, una possibile trama o un’idea. Dopodiché uno dei suoi interlocutori è Marlowe, che non si diverte particolarmente ad avere la sua conversazione messa in versi – e meno ancora a constatare i piccoli furti di versi del suo ambizioso collega… E se vi chiedete il significato del titolo, ebbene, l’idea è che Shakespeare trasmetta, canalizzi voci e idee del suo tempo – in particolare del defunto Marlowe, il cui fantasma, in una bizzarra cornice di prologo & epilogo, c’informa di aspettarsi che Will continui il suo lavoro.

Ancor più radicale da questo punto di vista è Sarah Hoyt, che in Any Man So Daring ci mostra un prima perplesso e poi terrorizzato Shakespeare che scrive sotto dettatura di Marlowe. Un Marlowe che forse non è proprio morto, ma lo è sotto molti aspetti, e comunque questo è un fantasy piuttosto metaletterario in cui i personaggi fatati del Sogno e della Tempesta prendono vita, sono di grande aiuto e combinano innumerevoli danni, e quindi figuratevi che cosa non può fare un Marlowe tra il defunto e il fatato…

Inutile dire che, in tutto questo, Marlowe invece è sempre perfettamente capace di scrivere da sé, senza un gran bisogno di ascoltare, osservare o prendere a prestito altro che l’occasionale cronaca di Holinshed o atlante di Lonicerus.

Basta vedere certe scene di The Reckoning of Kit and Little Boots di Nat Cassidy, con un vulcanico Marlowe che scrive per tesi e uno Shakespeare a mala pena articolato, ma occupato a raccogliere l’essenza della natura umana. “Stories. People,” spiega in tutto e per tutto Will, accennando con le mani alla folla che lo circonda.

E certo è che, a giudicare dalle sue opere, non si direbbe che quell’egocentrico e ambizioso rimuginatore di Kit Marlowe si sia mai preoccupato soverchiamente di capire o osservare i suoi simili. Non doveva avere un grande interesse per l’aspetto people, quale che fosse la sua passione per le stories. Al punto che in quella bizzarria marloviana che è The Nine Lives of Kit Marlowe, Jay Margrave sente di dover giustificare in qualche modo la nuova umanità del Kit post-1953 – quello che, per intenderci, invece di morire a Deptford sopravvive e scrive l’intero canone scespiriano***. E così, tanto per cominciare, il giovanotto passa abbastanza tempo nascosto, travestito da donna e addestrato a comportarsi come una donna da sviluppare tutta una nuova comprensione per il genere femminile.

Ma eccentricità a parte, bisogna ammettere che stili, maniere e biografie autorizzano questo tipo di caratterizzazione. O forse sto assumendo opinioni bizzarre a mia volta, ma trovo del tutto convincente vedere un Marlowe che essuda e uno Shakespeare che assorbe come una spugna.

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* Carey era il figlio più giovane di Lord Hunsdon, Lord Ciambellano d’Inghilterra e mecenate dei Lord Chamberlain’s Men, la prima compagnia con cui Shakespeare lavorò.

** Direi che mi sono stupita di non trovare Shaw citato tra i precedenti letterari nella prefazione dell’autore – se non fosse che constato quasi quotidianamente la facilità con cui si scrive qualcosa di simile a qualcos’altro – senza averne la più pallida idea. *sospiro*

*** Mai usata in vita mia questa versione italianizzata dell’aggettivo, ma mi sono proposta di fare qualcosa di mai fatto prima almeno una volta al mese, Breakfast-at-Tiffany’s-wise. Ci sono mesi in cui baro un pochino. Scespiriano, scespiriano, scespiriano.

L’Impresario

Se c’è qualcuno a cui dobbiamo più che ad altri quel che si sa oggi sul funzionamento pratico del teatro elisabettiano, quello è Philip Henslowe.

Sì che sapete chi è – anche se credete di non averlo mai sentito nominare. Avete mai visto Shakespeare in Love? Sì? E allora avete già incontrato il nostro uomo: è il proprietario del Rose, uno dei due impresari cui il giovane Will ha venduto l’ancora inesistente lavoro che poi diventerà Romeo And Juliet. Il fatto che Henslowe sia interpretato da Geoffrey Rush aiuta. Così come aiutano alcune favolose battute che Tom Stoppard ha scritto per lui*.

Come molta gente che compare in quell’incantevole film, Philip Henslowe è esistito davvero. Era il figlio di un guardiacaccia del Sussex, approdato a Londra attorno al 1570 per diventare apprendista e poi mastro tintore. Dopodiché, l’uomo aveva il bernoccolo degli affari e cominciò a diversificare, occupandosi, oltre che di tinture, di amido, legname, pegni, bordelli, proprietà immobiliari, usura, combattimenti di animali e commercio di pelli di capra. Il fatto che un individuo di tanti e discutibili interessi fosse anche fabbriciere e sovrintendente al sollievo dei poveri della sua parrocchia e ottenesse un paio di incarichi minori a corte non è particolarmente strano – solo molto elisabettiano. Nel 1587, già che c’era, costruì il Rose, uno dei primi grandi teatri permanenti al di là del Tamigi, e cominciò a farci lavorare la Compagnia dell’Ammiraglio, capitanata dal giovane e già celeberrimo Ned Alleyn – a sua volta legato al più sensazionale autore del momento: Christopher Marlowe. Boom.

Francamente non credo che Henslowe fosse motivato da un travolgente amore per le arti. Aveva soltanto il dono di riconoscere un settore redditizio quando ne vedeva uno: quelli che non conoscono stagioni, come usura e prostituzione, e quelli che si stavano espandendo con i mutamenti del gusto e del costume, come amido e teatro. Henslowe era un uomo d’affari accorto e attento, abituato a badare ai suoi conti con pugno di ferro – e fu così che si guadagnò la gratitudine imperitura dei posteri: con i suoi Diari. In realtà si tratta di un registro del Rose, che copre il periodo 1592-1609. Dalle sue pagine** apprendiamo che Henslowe ebbe a libro paga ventisette tra i maggiori autori del tempo, ma non Shakespeare – almeno non direttamente. E scopriamo come funzionavano le collaborazioni e le riscritture, e che una compagnia poteva pagare di più per un singolo costume  femminile che per il testo di una tragedia, e che a fine Cinquecento gli effetti speciali erano già una fiorente industria… Si tratta di una lettura affascinante, piena di dettagli pratici e di tocchi di colore. Per citarne uno, mi ha sempre divertita il fatto che, quando era in collera con Ben Jonson, Henslowe lo definisse “Il muratore”, in non proprio benevolo riferimento all’apprendistato giovanile di cui il buon Ben non andava per nulla fiero.

Henslowe morì nel 1616, ricco sfondato, appagato nel suo sogno di diventare sovrintendente degli orsi reali e del tutto ignaro di avere lasciato alla posterità un documento così prezioso – anche se in realtà qualche debito di gratitudine va anche a Ned Alleyn, che di Henslowe era genero ed erede (avendone sposato la figliastra Joan), e che ne conservò il diario in mezzo alle sue carte.

Philip Henslowe in tutta probabilità non era una cara persona. Vari contemporanei lo descrivono come duro, avido e privo di scrupoli***. Però a questo usuraio, tormentatore di debitori e tenutario di bordelli dobbiamo molte tessere di quel pittoresco mosaico che possiamo ricostruire come palcoscenico per i più grandi autori del suo tempo. Senza di lui, il modo in cui capiamo Shakespeare, Marlowe e i loro contemporanei sarebbe più limitato. Potremmo quasi definirlo un involontario Heminges/Condell del dietro-le-quinte. Somewhat fittingly, non è debito da poco.

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* La mia preferita (cito a memoria): “La condizione naturale del teatro è un susseguirsi di ostacoli insormontabili sulla strada del disastro inevitabile. Poi alla fine, in qualche modo, tutto si sistema. Come avviene? Non si sa – è un miracolo.” So true. oh so very true.

** In origine il registro apparteneva al cognato di Henslowe, un ricco fabbricante d’armi. Poi passò di mano – ed è divertente immaginare Henslowe che, facendo visita al cognato, inciampa in un enorme registro scartato per qualche ragione. “Ve ne fate nulla di questo, Ralf? E allora, se non vi dispiace, lo prendo io. Che cosa me ne faccio? Oh, non si sa mai – può sempre venire utile…”

*** Non sono certa che la sua apparente propensione a prestare denaro ai suoi autori sia una circostanza attenuante – a parte i commenti caustici che tendevano ad accompagnare il prestito, stiamo parlando di un usuraio: dubito molto che lo facesse per pura bontà di cuore.

Feb 25, 2011 - Poesia    2 Comments

Nei Versi Sciolti Si Può Inciampare

Sapendomi incuriosita dalla tecnica poetica legata all’Inglese, M.J. mi segnala un sito – il cui link verrà forse in seguito. Non ora, e forse in futuro, per un motivo specifico.

Quando l’ho visitato seguendo la segnalazione di M.J., ho trovato con delizia una serie di spiegazioni molto chiare di tipi di metro e generi relativi. Scopro che, accanto a forme meno inattese, esistono cose con nomi come Teacup Dictionary e Kyrielle. Incantevole! Sì, forse qua e là semplificano un tantino, ma come introduzione mi sembra perfetta…

…Finché non inciampo nella pagina del Blank Verse, o verso sciolto. Versi non rimati, spiega PD, spesso (ma non sempre) pentametri iambici. Il primo a introdurre il Blank Verse è stato Shakespeare.

Come, prego? Shakespeare?

Ed è qui che tiro il freno a mano, perché è una bugia grossa come una casa. Se c’è stato un iniziatore del BV è stato Marlowe, e nemmeno lui l’ha inventato  del tutto. Già prima di lui qualche autore aveva usato davvero una successione di pentametri iambici tutti uguali. Marlowe creò il BV inglese inserendoci movimento e varietà attraverso una serie di accorgimenti tecnici che spezzavano la regolarità dei versi, non solo modificandone il ritmo, ma rendendolo adattabile alla situazione drammatica.

Poi è vero che Shakespeare ha portato la tecnica a incredibili vertici di raffinatezza, ma lo ha fatto partendo dal lavoro di Marlowe.

La falsa attribuzione mi ha lasciata perplessa, e mi ci avrebbe lasciata anche se Kit Marlowe non fosse la mia ossessione in carica. Devo dedurne che i redattori di PD non sappiano la storia della letteratura? E allora perché dovrei fidarmi della loro guida alla poesia? Devo dedurne altrimenti che la sappiano benissimo, ma abbiano ipersemplificato perché il lettore medio conosce Shakespeare e non ha mai sentito nominare Marlowe? E perché vorrei fidarmi della guida alla poesia di chi non crede che un aspirante poeta possa fare un piccolo sforzo di pensiero e di memoria? In fondo basterebbe molto poco: “Il BV fu introdotto per la prima volta da Marlowe e poi perfezionato da Shakespeare.” Troppo difficile?

Adesso sono costretta a decidere se trovare questa gente antipatica o se diffidare anche delle loro tazze di tè e delle loro kyrielles…

Feb 3, 2011 - guardando la storia    Commenti disabilitati su Quel Che Non Si Sa

Quel Che Non Si Sa

La vita di Shakespeare è uno di quegli argomenti su cui la relativa scarsità di documenti ha scatenato da un lato una frenesia di ricerca, e dall’altro un’ancor più sfrenata tendenza alla speculazione.

william-shakespeare.jpgA partire dalla tendenza a dubitare che Shakespeare fosse davvero Shakespeare, non c’è aspetto della sua scarsamente arredata biografia che non sia stato oggetto delle teorie più selvagge: di che origine era veramente? Che educazione ha ricevuto in realtà? Dove diamine era negli Anni Perduti? Con chi ha collaborato? In quali ruoli recitava? Ha veramente scritto lui le opere che gli sono attribuite? Com’è possibile che nel suo testamento non si nomini nemmeno un libro? E via dissezionando, scartabellando, interpretando e controiterpretando, romanzando…

Uno dei punti oscuri che tanto solleticano gli affetti da scespirite è il suo rapporto con Marlowe. Coetanei e colleghi com’erano, in un luogo, un’epoca e un ambiente in cui tutti vivevano nelle tasche di tutti gli altri, non c’è una singola prova documentale del fatto che si conoscessero. Possibile?

Ovviamente, un simile buco nero è un’irresistibile tentazione per una fauna che spazia dallo spulciatore di archivi addottorato in paleografia e diplomatica dell’era Tudor al supposto sensitivo, dal romanziere allo sceneggiatore hollywoodiano – e come potrebbe essere altrimenti? Quello che non si sa non è qualcosa che non si sa e basta: è un’irresistibile caccia al tesoro.Marlowe.jpg

I risultati… come dire? I risultati variano. Research-wise, si indaga puntigliosamente la verosimiglianza di qualche collaborazione nei primi anni (ricordiamoci che Marlowe era già il prodigio del teatro londinese quando Shakespeare era appena arrivato dalla campagna) si analizzano a non finire quei pochi versi di Misura Per Misura che sembrano proprio alludere a Marlowe e alla sua morte, e se non si sta attenti si finisce col sostenere che Marlowe non era morto affatto, solo fuggito sul Continente a scrivere le opere che poi Shakespeare pubblicava a suo nome… Tra i due estremi resta una quantità di più o meno plausibili ipotesi basate sul fatto che è difficile che non si conoscessero. Se poi si apprezzassero a vicenda, o chi appressasse chi, diventa di nuovo materia per i romanzieri. A giudicare da Misura Per Misura, parrebbe che Shakespeare ammirasse Marlowe – o almeno il suo lavoro – ma è molto possibile che Marlowe, Master of Arts, guardasse dall’alto in basso l’uomo di Stratford, e lo considerasse un campagnolo illetterato.

Tra l’altro, sarebbe difficile immaginare due personaggi più diversi: da un lato Kit Marlowe, fiammeggiante, sregolato, insolente, apertamente ateo, violento… dall’altro Will Shakespeare, metodico, quieto, timorato di Dio e buon amministratore delle sue finanze e della sua carriera.

Il che, tra l’altro, ci riconduce al punto di partenza: è proprio vero che di Shakespeare sappiamo relativamente poco? Tutto considerato, non proprio. Forse non sappiamo tantissimo del massimo scrittore della sua epoca, ma questa è una percezione più tarda: in vita, e specialmente prima dei trentacinque o quarant’anni, Shakespeare era solo uno dei tanti playwrights – merce comune e neanche troppo raccomandabile. In compenso, sappiamo più o meno quello che ci si può aspettare di sapere di un Elisabettiano di costumi morigerati, frequentazioni non troppo scandalose e ragionevole prosperità, che non è mai stato in prigione, ha avuto poco a che fare con i tribunali e non ha mai dato al Consiglio Privato ragione di occuparsi di lui.

Di Marlowe sappiamo molto di più, è vero, ma lo sappiamo perché Kit aveva un’incoercibile tendenza a mettersi nei guai, duellava per strada, irritava il senato accademico, finiva in prigione, frequentava gente pericolosa, lavorava come spia, proclamava ai quattro venti qualsiasi idea blasfema o sediziosa gli passasse per la mente, falsificava denaro, scriveva tragedie controverse e attaccava briga nelle Gonzaga11.jpgtaverne. Non è un caso se Shakespeare è morto nel suo letto, anziano e ricco – mentre Marlowe ha preso la fatale coltellata prima di compiere trent’anni.

E in vista di tutto ciò, sarà un piacere cominciare oggi un corso chiamato Shakespeare e il suo tempo presso la Libera Università del Gonzaghese. Un piccolo corso concepito come una storia: Di due poeti, pari in dignità, nella bella Londra dove ha luogo la nostra storia, monta la rivalità antica – e molto inchiostro e sangue finto inondano le scene dei teatri…*

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* Con molte scuse a William Shakespeare: la tentazione era proprio troppa.

Gen 17, 2011 - grilloleggente    2 Comments

Libri Che Non Si Vogliono Finire

Ecco, Christoferus, or Tom Kyd’s Revenge, di Robin Chapman, è un libro di cui avrò nostalgia.

Sì, sì, sì: è ancora un altro romanzo su Marlowe, ma ha una premessa inconsueta, un protagonista/narratore con una favolosa e individualissima voce, un punto di vista diverso dal solito e un finale così così.

Ed è anche un caso di libro iniziato con scarsa fiducia e poi divorato a velocità ineguale, oscillando tra l’Avido Galoppo, il Passo Trattenuto (“Non voglio finire troppo presto!”) e il Piccolo Trotto in ammirazione del paesaggio.

Per farla breve, non ho mai considerato Thomas Kyd il più interessante tra i drammaturghi elisabettiani: l’idea diffusa è quella dell’Autore Di Un Solo Titolo (The Spanish Tragedy, molto truculenta), una brava e lamentosa persona ai margini del suo ambiente per mancanza di un titolo accademico e di una personalità fiammeggiante, implicato suo malgrado nei guai di Marlowe, indotto ad incriminare il suo più celebre e brillante collega a forza di tortura… non precisamente un eroe da romanzo, vero?

E invece Robin Chapman cambia le carte in tavola, facendo di Tom Kyd un uomo fascinoso e brillante, un autore di successo, amico, amante e sodale artistico di Marlowe, traditore involontario sotto i terribili ferri di Topcliffe, e intento a vendicare sé stesso e il defunto Kit. Gli scrittori sono una genia di perfidi manipolatori: la storia di Christoferus non è sempre  del tutto credibile – alla luce delle fonti – ma è così ben raccontata che si chiude volentieri un occhio e ci si lascia trascinare. Fino al finale, un po’ blando, un po’ irrisolto e con qualche libertà storica di troppo. Il finale non è il più piacevole dei risvegli, ma a maggior ragione ci si dispiace di avere finito il libro, dopo trecento e tante pagine trascorse in una magnifica Inghilterra elisabettiana, intensa, dorata e pericolosa, popolata di gente affascinante e infida, retta su una combinazione di menzogne, paura e splendore… E con la desolante certezza che nessuna rilettura potrà mai più essere come la prima volta.

Ecco, Chapman ha fatto un buon lavoro.

Tutti abbiamo, almeno una volta, iniziato un libro senza aspettarcene granché e poi siamo stati travolti e catturati.

Tutti abbiamo assaggiato un’atmosfera così densa e vivida che finire il libro è stato come lasciare un posto reale – e poi sentirne la mancanza, tanto da faticare un po’ ad abituarsi alla lettura successiva.

Tutti ci siamo innamorati della voce di un narratore.

Tutti siamo stati sorpresi, scettici, incantati nostro malgrado da una nuova luce gettata su un argomento che credevamo di conoscere. Qualche volta siamo stati convinti, qualche volta no, ma non importa – basta che ci siamo ricordati che c’è sempre un altro possibile punto di vista.

Tutti abbiamo perdonato qualche difetto grosso come la provincia di Modena perché il libro ci piaceva troppo per fare storie – e così abbiamo riaggiustato la nostra incredulità e l’abbiamo sospesa un po’ più in alto.

Tutti abbiamo ansiosamente valutato lo spessore di ciò che ci restava da leggere, e trovato scuse per prolungare la lettura, rallentando sempre di più il ritmo, mano a mano che le pagine ancora ignote diminuivano di numero.

Robin Chapman mi ha messa in tutte queste situazioni contemporaneamente: sono grata, seccata, incantata, divertita. E anche un pochino gelosa.

Dic 10, 2010 - bizzarrie letterarie    Commenti disabilitati su Una Specialità Inglese: Lo Scrittore-Spia

Una Specialità Inglese: Lo Scrittore-Spia

Francis_Walsingham.jpgL’Inghilterra possiede questa ineguagliata tradizione di spie che erano anche scrittori/scrittori che erano anche spie. Ad avere la brillante idea, a quanto pare, fu Sir Francis Walsingham, ideatore* del servizio segreto della Grande Elisabetta nel secondo Cinquecento. All’epoca, con Maria di Scozia ancora viva, la paranoia principale aveva per oggetto i Cattolici e le loro cospirazioni. Tutta paranoia non era, i complotti c’erano (anche se spesso erano più che altro avventure di gente sprovveduta), i Gesuiti inviavano i loro missionari a celebrare messe clandestine per i criptocattolici inglesi, e istruivano i loro allievi nei seminari in Francia. Walsingham voleva occhi e orecchie in quei seminari, ma dove trovare giovani istruiti e in grado di farsi passare per cattolici? Risposta: nelle Università, naturalmente!

Così, Sir Francis e i suoi cominciarono a reclutare tra Oxford e Cambridge ventenni intelligenti e più o meno al verde, con una buona conoscenza di Latino e Teologia. Kit Marlowe, irrequieto, più brillante della media, squattrinato e ansioso di dar prova di sé, fu in tutta probabilità uno dei corrieri di Marlowe.jpgWalsingham, abbastanza utile e/o abbastanza imprevedibile perché nel 1587 il Consiglio Privato facesse pressioni per lui sul Senato Accademico di Cambridge. Ma Kit non fu il solo: altri quattro o cinque autori contemporanei meno noti si contano sui registri paga del servizio segreto – tutti autori di teatro o poeti, tutti di backgrounds simili a quello di Marlowe: popolani o borghesi con un’educazione universitaria, talento da vendere e più ambizioni che denaro o connessioni. Che cosa portasse tanti scrittori a lavorare per Walsingham è materia di dibattito. Pura e semplice flamboyance? Mancanza di scrupoli? Nessuna reputazione da perdere? Gusto per l’avventura e il proibito? Bisogno cronico di denaro? Varie combinazioni di tutto quanto, direi.

Marlowe è forse il più celebre del gruppo e le ipotesi su di lui abbondano, più o meno plausibili: corriere, informatore, agente provocatore, falso seminarista a Reims, falso falsario a Vlissingen, coinvolto nel Babington Plot, poi assassinato perché diventato scomodo… Tutto molto romanzesco, tutto supportato da qualche documento, nulla di provato.

Daniel_Defoe.jpgUn secoletto più tardi troviamo Daniel Defoe, che nella sua avventurosa vita conobbe di tutto – dal Grande Fuoco di Londra al commercio di vini sul Continente, dalla gogna alla fabbricazione di mattoni, dalla Monmouth Rebellion alla celebrità letteraria, dal servizio governativo alla prigione – trovò anche il tempo di lavorare nell’intelligence di diversi governi, tanto i Tories quanto i Whigs. Dei suoi predecessori elisabettiani, Defoe conservava il fatto di essere un viaggiatore e un poliglotta, e la sua mentalità di scrittore ne faceva un buon osservatore dell’umana natura.

Viaggiatore, poliglotta e osservatore era anche William Somerset Maugham, Maugham.jpgfigura meno audace ma altrettanto complessa. Piccoletto, complessato, infelice e balbuziente, Maugham aveva più di quarant’anni allo scoppio della I Guerra Mondiale. Troppo vecchio per arruolarsi, voleva nondimeno fare la sua parte. Cominciò come guidatore di ambulanze (come molti altri scrittori della sua generazione), ma fu ben presto reclutato dal Servizio Segreto per raccogliere informazioni, dalla Svizzera in un primo momento e poi in Russia. Nel ’17 il suo incarico era quello di mettere in atto l’appoggio britannico al governo provvisorio – che aveva i suoi guai con i Bolsevichi – e contrastare la propaganda pacifista tedesca volta a far uscire la Russia dalla guerra. Maugham era un osservatore profondo e un buon manipolatore, ma il compito era arduo anche per lui. Tutti sappiamo come andò a finire, ma il nostro scrittore-spia sostenne sempre che, con sei mesi di tempo in più, avrebbe potuto ottenere il suo scopo. Maugham inaugurò un altro aspetto della tradizione, trasformando letterariamente la sua esperienza in una serie di racconti che hanno per protagonista Ashenden, commediografo inglese dalla doppia vita di agente segreto. Ashenden è elegante, sofisticato e non perde mai il suo aplomb…

ian_fleming.jpgVi ricorda qualcuno? Ian Fleming, forse, che con il nome in codice 17F lavorò per il servizio segreto della Marina inglese durante la II Guerra Mondiale. A quanto pare era più un ideatore di piani che un raccoglitore d’informazioni. Alcuni vennero scartati perché brillanti in teoria ma scarsamente pratici (ciò è molto da scrittore, nevvero?), compreso un falso incidente con scambio di equipaggi per recuperare informazioni sul celeberrimo codice Enigma. Altri furono messi in atto e funzionarono. Addirittura, pare che Fleming fosse tra gli ideatori di Mincemeat, l’operazione che lasciò Tedeschi incerti fino all’ultimo se difendere Sicilia o Normandia. Negli Anni Cinquanta, anche lui cominciò a scrivere, creando il suo sofisticato e flemmatico James Bond, l’uomo dei drinks agitati e non mescolati.

Insomma, cinque secoli di tradizione vogliono gli scrittori inglesi – specie se poliglotti e abituati a viaggiare – adatti al lavoro dell’agente segreto. Si direbbe che una buona istruzione, uno studio dell’umana natura e l’abitudine a concepire storie siano una combinazione che piace al Servizio Segreto di Sua Maestà.

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* E molto spesso anche finanziatore: la Buona Regina Bess aveva l’abitudine di pretendere che i suoi sudditi pagassero da sé i servizi che le rendevano.

Ott 21, 2010 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su A’ Chacun Son Métier

A’ Chacun Son Métier

Qualche tempo fa me l’ero presa con Judith Cook e il suo romanzo The Slicing Edge of Death. Ricordate?

Adesso sento di dover riparare in parte a ciò che ho scritto allora. O meglio: sono ancora convinta che TSEoD sia un romanzo molto mediocre, ma sto leggendo un altro libro della Cook sullo stesso argomento, solo che questa volta si tratta di divulgazione storica, ed è tutto un altro mondo. The Roaring Boys è una specie di biografia collettiva di Shakespeare, Marlowe, Greene, Jonson, Kyd, Nashe, Dekker e compagnia. La Londra elisabettiana, i suoi protagonisti e la sua atmosfera sono ricostruiti con una vividezza, un’energia e un’efficacia favolose. Qua e là forse Cook sposa delle datazioni un po’ eccentriche, ma di sicuro la qualità della scrittura è stratosferica.

E allora? E allora, la signora Cook era un’ottima divulgatrice alla quale, nel quarto centenario della morte di Marlowe, un editore ha proposto: perché, Judy, non provi a scriverci un romanzo? Con la tua conoscenza del periodo e dei fatti, che ci vuole? E lei purtroppo ha accettato, senza considerare che ci voleva la tecnica del romanziere – che lei non possedeva. E non c’è nulla di male.

Oddìo, di male, se vogliamo, c’è questo: che se avessi letto TSEoD prima di ordinare TRB, non avrei sfiorato TRB nemmeno con l’orlo della veste, avrei archiviato Cook come una romanziera da dimenticare e non avrei mai scoperto l’eccellente divulgatrice.

Quello che voglio dire è che, per la maggior parte, gli scrittori non sono universalmente eclettici: hanno campi di preferenza, generi ideali e terreni che farebbero meglio ad evitare. Per quanto adori Kipling, temo che i romanzi lunghi non fossero la sua produzione migliore – e a maggior ragione trovo terribilmente ingiusto che sia conosciuto più per Kim e per i Libri della Jungla che per i suoi meravigliosi racconti e ancora più meravigliose poesie.

Tolstoj, al contrario, mi travolge nei romanzi e non mi convince affatto nei racconti: è come se la costrizione del formato ridotto non gli consentisse di spiegare per bene le ali. Non è del tutto sorprendente, se si considera che stiamo parlando dell’uomo che ha scritto Guerra e Pace – un mondo intero chiuso tra due copertine. Leggete un Padre Sergio, e ditemi se non ci sentite un certo qual senso di soffocamento.

Per Conrad la faccenda era diversa. Conrad ha scritto capolavori (per conto suo) e libri singolarmente brutti (spesso in collaborazione con Ford Madox Ford), ma una cosa è certa: con pochissime eccezioni, appena una storia d’amore occupava la scena Conrad cominciava ad inciampare. Se ne accorgeva anche lui, se lo diceva da solo: in una letttera descriveva l’amore come il suo uncongenial theme, un tema con cui si ritrovava. Provate a confrontare le vertiginose caratterizzazioni di Lord Jim o di Kurtz con l’improbabile melodramma di Vittoria o La Freccia d’Oro.

Marlowe, per parte sua, non aveva una gran mano nel caratterizzare i suoi personaggi femminili. Zenocrate, Olimpia, Zabina, Abigail e Bellamira, le regine francesi – sono tutte personaggi piatti, poco più che funzioni narrative senza troppa personalità. Isabella, regina d’Inghilterra nell’Edoardo II, comincia allo stesso modo e poi si trasforma (senza transizione!) in una completa arpia. Elena di Troia nel Doctor Faustus è una specie di comparsa. Niente da fare: i contrasti, i chiaroscuri violenti, la grandiosità, l’afflato poetico, la profondità, Marlowe li teneva tutti per i suoi protagonisti maschili.

Il che non toglie che questi signori fossero grandi, grandissimi scrittori – ciascuno con i suoi cavalli di battaglia, ciascuno con i suoi punti deboli. Tito Livio diceva (per bocca di Maarbale) che a nessuno gli dei hanno dato troppo. Probabilmente è vero – è solo che bisogna scrivere molto e in molte direzioni, prima di scoprire che cosa gli dei hanno dato e cosa no.

Set 17, 2010 - libri, libri e libri    2 Comments

La Forza dell’Incompiuto

Credo che fosse Paul Taylor, il coreografo, a dire che non esistono opere incompiute, solo lavori in corso.

Sarà, ma quando l’autore è defunto e il libro non è finito, è un pochino difficile continuare a considerarlo work in progress… Poche cose sono frustranti come un romanzo che s’interrompe senza che la storia sia terminata, con la certezza che nessuno la terminerà mai più. Oddìo, qualche volta qualcuno la termina, ma chi ha mai letto Il Silmarillion completato da Guy Gavriel Kay senza domandarsi come lo avrebbe davvero voluto Tolkien?

La stessa cosa vale per Hero and Leander di Marlowe: checché ne dicano legioni di cospirazionisti, dubito che Kit si aspettasse davvero di morire a Deptford, lasciando incompiuto il suo luminoso e stravagante* poema narrativo. George Chapman lo terminò, ma Chapman era un poeta d’altra lega e tutt’altro genere di personaggio, un uomo di mezza età oppresso dai debiti e dalle cause, disperatamente ansioso di patrocinio e con un talento disastroso nello scegliersi mecenati destinati al disastro politico o a una morte prematura… Sono seriamente tentata di pensare che, nonostante Museo e Ovidio fossero le fonti di entrambi, il risultato sarebbe stato molto diverso senza la fatale coltellata.

Molto più frustrante è Il Mistero di Edwin Drood, l’ultimo e incompiuto romanzo di Dickens, che è anche un giallo – o quanto meno il protagonista eponimo sparisce (presumibilmente assassinato) e non c’è il minimo indizio di come dovesse risolversi la vicenda. Invecchiando, Dickens aveva cominciato a progettare i suoi romanzi con più cura, annotandosi gli sviluppi effettivi o possibili con vari capitoli di anticipo, ma non nel caso di Edwin Drood, accipicchia! Vero è che John Jasper promette male assai e sembra un candidato perfetto al ruolo di assassino, ma con Dickens non si poteva mai dire per certo, e chi lo sa? La cosa buffa è che dal mezzo libro è stato tratto un musical nel quale, a un certo punto, si fa votare il pubblico in sala per scegliere il finale. Anche quello è un modo, immagino.

Conrad, per fortuna, non lasciò incompiuto nulla di particolarmente memorabile: The Sisters riprende l’eroina del (bruttino) The Arrow of Gold, e benché Stephen sia un protagonista promettente, non si ha la sensazione di essersi persi un capolavoro. Non sapere come finisce Suspense forse è un po’ peggio, ma potrebbe essere una mia impressione, perché ho un debole per le storie ambientate in epoca napoleonica. Ad ogni modo sono frustrazioni puramente narrative, perché i capolavori erano già saldamente terminati da anni.

Lo stesso si potrebbe dire di Jane Austen, ma non nego che mi sarebbe piaciuto leggere fino in fondo Sanditon e, soprattutto, The Watsons. L’edizione critica che ho letto avanzava due tipi di dubbio sul secondo: forse la zia Jane aveva l’impressione di ripercorrere terreno già coperto in Orgoglio e Pregiudizio, o forse si era stancata della genteel poverty delle sorelle Watson, la cui posizione sociale sembra abbastanza simile a quella di una Jane Fairfax in Emma… Sia come sia, è un peccato. Meno gravi sono i numerosi lavori giovanili lasciati a mezzo – esercizi di stile ed esplorazione di temi che poi torneranno nei romanzi. Semmai, mi spiace di non sapere come finisce The Three Sisters, delizioso abbozzo di romanzo epistolare. Confesso di averne iniziato, qualche anno fa, una riduzione teatrale. Magari un giorno la finirò, non fosse altro che per portare a una conclusione la vicenda di Mary, Sophy e Georgiana.

Stendhal è tutta un’altra questione. Lucien Leuwen avrebbe potuto essere un altro Le Rouge et le Noir. C’è di nuovo la provincia francese descritta in chirurgico dettaglio, c’è un protagonista più ingenuo di Julien e più ragionatore di Fabrice, c’è un’innamorata di famiglia ultra-realista – il che promette guai a venire… Dover lasciare tutto a metà è veramente un’enorme delusione.

Stevenson di incompiuti ne ha lasciati due: The Weir of Herminston e St. Ives – quest’ultimo terminato da un altro romanziere, e siamo sempre al dubbio di cui si diceva: la storia è finita, grazie, ma è come l’avrebbe finita Stevenson? Una di quelle cose che non sapremo mai, nel bene e nel male. Il rovello resta, ma resta anche spazio per la speculazione. Si può leggere tutto Stevenson e farsi la propria idea su come sarebbe dovuta finire la vicenda di Jacques. E già che si è lì, ci si può domandare anche perché mai in ciò che resta di The Weir, debbano esserci due differenti personaggi chiamati Christina.

Perché bisogna anche considerare questo: se un romanzo sussiste incompleto, di sicuro non è come il suo autore avrebbe voluto presentarlo ai lettori. Non solo ne manca un pezzo, ma è anche una prima stesura, materia grezza che avrebbe richiesto ancora molto lavoro e – in tutta probabilità – anche cambiamenti sostanziali. Forse non è nemmeno del tutto giusto pubblicarlo… non è difficile immaginare Stevenson che si rivolta nella tomba all’idea del suo abbozzo incompiuto, della sua prosa non rifinita, delle sue due Christine, del suo Archie ancora approssimativo esposti alla lettura per cui non erano pronti.

In considerazione di questo, e di quanto mi irriti una storia lasciata a metà, ogni volta mi ripropongo di non leggere più incompiuti. E ogni volta cedo e leggo lo stesso, pur sapendo che detesterò arrivare al punto in cui lo scrittore si è fermato per cause di forza maggiore o per noia. In parte è il desiderio di vedere lo stadio intermedio, dare un’occhiata al dietro le quinte, cogliere un ombra del metodo creativo che sta dietro i romanzi finiti; in parte è qualcosa d’altro.

Una volta, a Edimburgo, ho visto una scultura che consisteva in tre punte che sembravano doversi toccare e non arrivavano a farlo. Non ricordo l’autore e nemmeno il titolo, ma ricordo di essere rimasta a lungo a fissare le tre punte, affascinata dal movimento incompiuto, dal contatto sfiorato ma non raggiunto. Quel non-finito sembrava pieno di forza e di possibilità. La stessa forza e la stessa abbondanza di possibilità, credo, che continuo a cercare – against my better judgement – in ogni romanzo incompiuto che prendo in mano.

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* Basti per tutto il resto la descrizione del velo di Hero, ricamato a fiori talmente realistici che la fanciulla passa il suo tempo a cacciare via le api…

 

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