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Cose Che Noi Semiumane Non Possiamo Nemmeno Immaginare

Rant ahead, vi avverto.

Il 30 luglio è morta Maeve Binchy, un’incantevole romanziera irlandese, autrice di deliziose storie come Light a Penny Candle (uscito in Italia come L’Amica del Cuore) o Whitethorn Wood (Il Bosco dei Biancospini) – e molti altri.

La signora Binchy raccontava storie d’Irlanda con una grazia sorridente e acuta, era tradotta in una quarantina di lingue e nel corso della sua carriera ha venduto qualcosa come 40 milioni di copie. Era anche, a detta di chi la conosceva, una persona straordinariamente carina e tutti la ricordano con affetto e rimpianto.

Poi in mezzo a tutto ciò è piombata Amanda Craig.

Amanda Craig è a sua volta una romanziera, e ha pensato bene di ricordare l’adorabile Maeve con un articolo sul Telegraph, in cui si domanda se il fatto di non avere avuto figli non l’abbia penalizzata come scrittrice.

O meglio – anzi peggio: se Maeve Binchy fosse stata una madre, non sarebbe stata una scrittrice migliore?

[And now, all toghether: But why, of course!!!]

Perché, sapete, è ovvio che una scrittrice senza figli è straordinariamente privilegiata nella sua possibilità di dedicarsi solo alla scrittura – però le manca e le mancherà sempre… che cosa, di preciso?

Ecco, l’argomento di Craig è questo: la Scrittrice Senza Figli (henceworward known as SSF) può essere capace di immaginare la maternità, di farlo molto bene, di scriverne divinamente, MA non è una madre, e quindi le manca non solo l’esperienza diretta, ma anche una sorta di Empatia Superiore e Illuminata Comprensione dell’Umana Natura che viene soltanto con la Maternità. 

Quindi la SSF ha tutto l’agio di sfornare romanzi come se piovesse, ma di certo si tratta di lesser fare, in confronto alle poche, sudate, illuminate opere che una Madre può faticosamente cesellare tra un pannolino e una visita dal pediatra. Lesser fare, perché alla SSF mancano sia l’Esperienza Essenziale Nella Vita Di Una Donna che l’Aura che da quell’Esperienza viene…

Certo, concede Craig, bontà sua,

Maeve Binchy non ha avuto bisogno di sperimentare la maternità per scrivere d’amore e d’amicizia in un modo che ha affascinato milioni di lettori…

MA…

…se l’avesse fatto, avrebbe potuto scavare più a fondo, magari affascinando meno, ma illuminando di più.

Ecco, furore tremendo.

Furore per Maeve Binchy (che delicata e affettuosa maniera di ricordarla!), e più in generale per tutto quel che c’è di sbagliato, offensivo e deprimente in questo atteggiamento.

Dunque avere dei figli è la singola cosa più importante che una donna può fare?
Dunque la maternità è l’unica esperienza che consente di capire e narrare il mondo?
Dunque una SSF è solo un grazioso accessorio e un’artista minore, capace magari di affascinare ma giammai di illuminare?*
Dunque, per contro, una scrittrice è investita della mistica capacità di illuminare nell’istante in cui partorisce?
Dunque la Maternità è la sola esperienza di cui valga davvero la pena scrivere?

E mi piacerebbe pensare che si tratti di un caso isolato di idiozia e cattivo gusto – limitato ad Amanda Craig e alla redazione Libri del Telegraph, ma purtroppo non è così. Se siete donne senza figli sopra i trenta, scrittrici o meno, odds are che qualche variante di questa conversazione l’abbiate avuta: Ah, ma tu non sei madre, per cui… Ah, ma tu non puoi capire… Ah, si vede che non hai figli… Ah, non sai cosa vuol dire… Sempre intendendosi che dobbiate per forza essere donne minori, un pochino inutili e, se la mancata maternità non è la tragedia della vostra vita, anche del tutto aride.

E se poi, oltre ad aver superato la trentina senza produrre prole, avete anche la pretesa di scrivere, rientriamo in territorio Craig: ma come vuoi poter scrivere di queste cose, tu che non hai figli? Al che tendete a rispondere rivendicando la capacità di osservare, astrarre e trasporre che è propria dell’artista: Shakespeare non era né era mai stato una ragazzina di quattordici anni, e non per questo pensiamo che gli mancasse qualcosa per scrivere Giulietta, giusto?

Ma questa risposta non basta con Craig. Craig va oltre. Craig riconosce che “scrivi di quel che sai” è una massima sopravvalutata, e che l’osservazione esterna può consentire di scrivere di un argomento con finezza e lucidità somme. Però non basta. Non basta perché manca irreparabilmente un che di viscerale e non ben definito, un Qualcosa-qualcosa che soltanto la Maternità conferisce.

Se Jane Austen avesse avuto figli, non si sarebbe concentrata tanto su corteggiamenti e bisticci. Se le sorelle Brontë avessero avuto figli, avrebbero scritto di pannolini e coliche anziché di cupi manieri e brughiere squassate dal vento. Se Virginia Woolf avesse avuto figli, si sarebbe occupata di cose più importanti che non i fiori di Mrs. Dalloway e i pennelli di Lily Briscoe. E questo, sostiene Craig, avrebbe fatto di loro altrettante scrittrici migliori.

Che se poi seguiamo il ragionamento fino in fondo, tutta una letteratura incentrata sulla maternità dovrebbe essere pienamente comprensibile soltanto alle madri… a meno di assumere che noi childless people siamo assetati di quel po’ di luce che possiamo suggere dalla letteratura stessa. In fondo la Scrittrice Madre illumina, giusto? E chi necessità di luce più di noi tragiche e/o vacue mezzedonne? O forse, in realtà, noi childless people non contiamo poi granché, e quindi poco importa quel che leggiamo?

E sì, lo so, sto diventando un nonnulla acida, ma mi irrita profondamente essere considerata una mezza persona perché non ho figli. Vedermi bollare per estensione anche come una mezza scrittrice sul Telegraph… ecco, di questo proprio non sentivo la mancanza.

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* E, signori uomini, ce n’è anche per voi. Perché nella spensierata (e non-significativa) facilità della sua vita, una SSF è proprio come uno scrittore maschio. Anche voi siete gente di seconda scelta che non partorisce, non comprende, non illumina…

 

Esserci O Non Esserci

shakespeare, amleto, fantasmi, eleanor prosser, vincent price, john gielgud, laurence olivier, richard burtonQuesto è il problema. Se sia meglio portare il fantasma in scena come uno spirito incarnato o suggerire la sua incorporeità per mezzo di luci blu, velari e macchina della nebbia – o magari non mostrarlo affatto. Spettro, apparizione, voce disincarnata, ossessione folle – e con un’idea registica dire che si è messo fine al dibattito sulla natura dell’ectoplasma vendicativo…

Perché il fatto è, vedete, che quando Shakespeare scrisse il suo Amleto, i fantasmi nell’Inghilterra riformata erano una vexata quaestio. Per i cattolici, naturalmente, erano anime del purgatorio, tornate a chiedere preghiere, esigere vendetta o sistemare faccenduole lasciate indietro. Ma la riforma aveva fatto piazza pulita di purgatorio, limbo e altre consimili sistemazioni provvisorie: una volta morti si ascendeva o si sprofondava in luoghi da cui nessuno tornava più.shakespeare, amleto, fantasmi, eleanor prosser, vincent price, john gielgud, laurence olivier, richard burton

Però i fantasmi c’erano – pochi dubitavano dell’esistenza di apparizioni spettrali. Il problema era come spiegarle… La risposta protestante era, come spesso accadeva, il diavolo. Non di fantasmi si trattava, ma di forme create illusoriamente (o abitate – su questo non c’era accordo) dal demonio al fine di sconvolgere le menti più impressionabili*, spingerle a compiere azioni riprovevoli come la vendetta e/o il suicidio e, già che ci si era, rastrellarne le anime.

Ma questi erano gli strologamenti dei teologi e dei re**, e l’opinione generale era che le anime dei morti tornassero indietro eccome. Magari non erano affatto raccomandabili, magari avevano davvero a che fare con il diavolo, ma erano propio fantasmi.

shakespeare, amleto, fantasmi, eleanor prosser, vincent price, john gielgud, laurence olivier, richard burtonE la questione cessa di sembrare di lana caprina quando si guarda che cosa ne fa Shakespeare, portando in scena il fantasma di Amleto senior. Bernardo e Marcello, i primi a vederlo, non sanno bene che cosa pensarne ma, a ogni buon conto, chiamano e mandano avanti Orazio, perché Orazio sa il Latino e quindi è in grado di conversare con l’apparizione – e presumibilmente scacciarla, se necessario.

Orazio ha studiato a Wittemberg, e quindi arriva armato di accademico, filosofico e teologico disprezzo per tutto l’armamentario superstizioso medievale***. E infatti parte arringando lo spettro come se fosse un diavolo… E bisogna dire che allo spettro non piace molto essere perentoriamente invitato a parlare “per il cielo!”…

Questo potrebbe significare che si tratta in effetti di un diavolo cui non piace sentir nominare le cose superne, oppure che si tratta di un fantasma legittimo, offeso dal sospetto di Orazio. La faccenda rimane ambigua in una maniera che doveva essere accettabile per il Master of Revels e molto eccitante per un pubblico elisabettiano.

Diavolo? Fantasma? Fantasma? Diavolo?shakespeare, amleto, fantasmi, eleanor prosser, vincent price, john gielgud, laurence olivier, richard burton

La cosa buffa è che il filosofico Orazio si converte subito all’idea del fantasma, mentre Amleto, com’è nel suo stile, dubita. Ci saranno anche più cose in cielo e in terra che in tutta la filosofia di Orazio, ma perbacco, questa preoccupante apparizione vuole spingere il nostro tetro giovanotto a commettere peccato… diavolo o fantasma? Fantasma o diavolo?

E poi tutti sappiamo come va a finire.

Ora, la complessiva ambiguità dell’ectoplasma danese incarnava senza scioglierlo uno dei grandi dubbi dell’epoca, e l’Inglese medio si riconosceva nel rovello di Amleto: è o non è un fantasma? Defunto in cerca di giustizia (of sorts) o diavolo tentatore? È più indegno trascurare la volontà del trapassato o rischiare l’influenza diabolica? Eccetera, eccetera.

shakespeare, amleto, fantasmi, eleanor prosser, vincent price, john gielgud, laurence olivier, richard burtonIn termini di pratica teatrale, la faccenda si traduceva in un attore in armatura che entrava in scena (da destra o da sinistra?), faceva le sue declamazioni con voce stentorea**** e poi si affrettava a cambiarsi per interpretare un’altra particina o due.

E così rimase per vari secoli, e ci vollle il Novecento perché qualcuno cominciasse a porsi la questione in termini più registici che teologici.

Intanto, qualunque cosa l’apparizione fosse, bisognava in qualche modo segnalarne il carattere preternaturale. La voce da stentorea cominciò a farsi eterea ed echeggiante, la presenza scenica si sciolse in diluvii di nebbia, garze, tulli, luci blu, nebbia artificiale, ombre, proiezioni e – al cinema – trasparenze e doppie esposizioni.shakespeare, amleto, fantasmi, eleanor prosser, vincent price, john gielgud, laurence olivier, richard burton

Per esempio, nella versione olivieriana del 1948, il fantasma è un’armatura dalla celata semichiusa, avvolta in vortici di nebbia. Ricordo di avere visto, a Cardiff negli Anni Novanta, una produzione studentesca in cui il fantasma se ne stava dietro un canovaccio nero. Al momento giusto, un piazzato bianco illuminava l’attore, per dare l’impressione di un’immagine sfocata che emergesse dal buio. 

shakespeare, amleto, fantasmi, eleanor prosser, vincent price, john gielgud, laurence olivier, richard burtonOra, non è che questo ingentilimento e questa rarefazione dello spettro avessero eliminato del tutto l’opzione diavolo-cadavere-animato/posseduto, che ricompariva periodicamente nella forma di fantasmi-scheletri o fantasmi-zombi. E tuttavia, la tendenza ebbe uno sviluppo logico in altre direzioni: lo spettro scomparve del tutto quando i registi cominciarono a ipotizzare che non fosse un fantasma affatto – ma un caso di possessione, una proiezione dell’inconscio di Amleto o un sintomo della sua follia.

Per esempio, a New York nel 1964, John Gielgud diresse Richard Burton in una produzione quasi ghost-less: al momento fatale, un’ombra indistinta si proiettava sullo scenario, e Burton/Amleto faceva conversazione con la voce del regista in quinta – una soluzione di cui Gielgud era particolarmente orgoglioso. Ma la storica del teatro Eleanor Prosser era meno entusiasta:

Tutti i versi erano squisitamente salmodiati nel tono tremulo di un santo morente – tutti tranne quelli troppo spudoratamente rivoltanti oppure osceni. Quelli – la descrizione dell’avvelenamento e l’immagine della lussuria che si pasce di letame – erano cassati. Ma in queste produzioni moderne, abbiamo mai modo di essere davvero spaventati o scossi da quel che il Fantasma dice, e da come lo dice?*****

E poi, nel 1980, Vincent Price interpretò a Londra un Amleto interamente senza fantasma. Le battute del defunto babbo le diceva lui, con una voce diversa

[U]n grugnito tipo teatro Noh, che suonava come un tritarifiuti shakespeariano,

ricorda l’attore e regista shakespeariano Paul Whitworth, prima di esprimere tutta una serie di dubbi: c’è il fatto che scegliere proprio Vincent Price per una faccenda di (forse) possessione sembrava singolarmente poco sottile; c’è il non del tutto trascurabile particolare che anche Bernardo, Francesco, Marcello e Orazio vedono il fantasma senza che Amleto sia nei paraggi; c’è la conseguenza che così Amleto, anziché scivolare gradualmente nei guai di una causa che si presenta con qualche merito di giustizia, appare fin dall’inizio matto da legare e matto da legare rimane fino alla fine.

E non so quali e quanti Amleti abbiate visto in vita vostra, ma sono certa che le apparizioni del fantasma variavano attraverso tutta la gamma – a riprova del fatto che, se gli Elisabettiani non avevano le idee chiare in fatto di spettri, non le abbiamo del tutto nemmeno noi. Anima in pena, diavolo, follia, inconscio represso? L’ambiguità deliberata di Shakespeare in proposito lascia spazio alle interpretazioni – anche quelle che non avrebbero avuto un senso definito a cavallo tra Cinque e Seicento.

La cosa importante è che il Fantasma non è una pittoresca particina secondaria, né un comodo device letterario. Nato come espressione di un dilemma che la riforma protestante si trascinava dietro come le catene di Marley, rimane un fulcro concettuale di tutto il dramma: la risposta registica alla domanda “che cosa è il Fantasma?” la dice lunga su chi è Amleto – e su chi siamo noi che ne interpretiamo la storia. 

È davvero calzante, non credete, che proprio questo fosse il ruolo in cui Shakespeare saliva in scena a incontrare il suo pubblico? 

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* Tra l’altro, un temperamento malinconico (leggi depressivo, in modern parlance) esponeva particolarmente a questo genere di attacchi. Amleto, per dire.

** Per dire, Giacomo VI e I era un appassionato (e bilioso) demonologo, ossessionato da streghe, diavoli e apparizioni, su cui scrisse abbondantemente – e si capisce che l’opinione di un re tendeva a fare testo. Poi viene da chiedersi se, quando era ancora solo VI, detestasse il conte di Bothwell perché lo riteneva uno stregone, o se dicesse che era uno stregone perché lo detestava…

*** Disprezzo molto elisabettiano e riformato, si capisce.

**** Leggenda e il solito Aubrey vogliono che Shakespeare recitasse il ruolo del fantasma – dal che i biografi deducono che non dovesse essere un attore straordinariamente bravo, ma possedesse polmoni di tutto rispetto.

***** Eleanor Prosser, Hamlet and Revenge, 1971. (Traduzione mia)

Davvero Deprimente

Sotto molti aspetti gli Elisabettiani non erano gente simpaticissima. Erano pieni di pregiudizi sessuali e razziali, spesso intolleranti, spesso spudoratamente crudeli con gli animali e con i loro simili. Dare a persone vissute quattrocento anni fa delle belle opinioni liberali in fatto di omosessualità, femminismo o persino democrazia (che era poco meglio di una parolaccia per l’Elisabettiamo medio) sarebbe tanto sciocco quanto vestirli in cilindro e redingote anziché farsetto e gorgiera, e armarli di Colt 45. Ho fatto del mio meglio per evitare gli anacronismi psicologici, che considero un delitto detestabile e irritante, e tuttavia sarebbe davvero deprimente se si pensasse che condivido le opinioni di certi miei personaggi in fatto di politica o religione, razza o orientamento sessuale.

E questa era Patricia Finney, nella nota dell’autore a Firedrake’s Eye. Condivido ogni parola, compreso il cri de coeur che aleggia, inespresso ma nemmen troppo, nell’ultima riga e mezzo. È chiaro che la cosa davvero deprimente è già successa: è capitato che qualcuno le rimproverasse le opinioni dei suoi personaggi come se fossero sue. Forse qualcuno si è alzato in piedi durante una presentazione per rinfacciarle l’atteggiamento di David Becket nei confronti delle donne. O qualcun altro le ha scritto mail astiose in cui la definisce una persona orribile per l’intolleranza religiosa di cui traboccano i suoi libri…

Ora, vedete, qualche tempo fa sul blog di Aislinn era comparso un altro cri de coeur, un post in cui si lamentava la feroce prontezza di troppi lettori nell’attribuire l’idioletto di un personaggio all’incompetenza grammatical-sintattica dell’autore. E poi a strategie evolutive Davide Mana ne aveva tratto amarognole riflessioni sulla crescente mancanza di fiducia tra lettore e scrittore.

Mancanza di fiducia e di immaginazione e di capacità di astrarre, aggiungerei – e magari si trattasse soltanto del linguaggio. L’avete letta, Finney: il lettore capace di attribuire all’autore il pregiudizio cinquecentesco del suo personaggio esiste. Oh, se esiste.

E qui interviene un altro malanno di natura diversa: la mancanza di prospettiva storica. Forse vi ho raccontato della vispa quindicenne che veniva a lezione di Latino secoli fa e diceva che, se fosse stata un’antica romana, non avrebbe voluto schiavi.

“Li avresti voluti eccome,” le dicevo io.
“Nemmeno per idea! Anche nell’antica Roma avrei avuto le mie idee.”
“Ne avresti avute di tue, ma non quelle che hai adesso. Saresti cresciuta considerando la schiavitù un indispensabile pilastro dell’economia e della convivenza civile. Avresti potuto voler trattare i tuoi schiavi con umanità, ma avresti anche considerato innaturale una vita senza schiavi.”
“Ma non è giusto…”

E, pur essendo la fanciullina ragionevolmente sveglia, non c’era verso di convincerla troppo che, a distanza di secoli, non erano solo modi e costumi ad essere differenti, ma anche l’idea di ciò che era giusto e ciò che era sbagliato.

On the other hand, ci fu una lettrice sperimentale che mi rimproverò aspramente perché nelle mie storie vandeane i sacerdoti impartivano l’assoluzione preventiva prima delle battaglie. Non era colpa mia. Non me l’ero inventato. Alla fine del Settecento era una pratica comune, antica e radicata. La lettrice sperimentale si scandalizzava del fatto che lo raccontassi, perché era sbagliato. Moralmente sbagliato dal suo punto di vista moderno. E sapeva che non sono una persona religiosa, ma…

Ma le sembrava brutto che scrivessi cose del genere. Perché se l’avevo scritto, bisogna dire che lo condividessi – o quanto meno che non lo disapprovassi, visto che questi sacerdoti, per lo più, ricadevano nel campo dei Buoni. 

Il fatto che nessuno, a fine Settecento, considerasse un sacerdote un Cattivo Sacerdote (o una Cattiva Persona, for that matter) perché praticava le assoluzioni preventive – anzi! – non era rilevante. E io, che scrivevo questa gente senza almeno implicarne l’errore morale, dovevo condividere l’errore stesso.

Il che, suppongo, è frutto della convinzione che scrivere sia questione di versare su carta il contenuto delle coronarie e del proliferare di anacronismi psicologici, soprattutto nella narrativa per fanciulli. E il lettore nutrito ad anacronismi psicologici cresce incapace di prospettiva storica e sa identificarsi soltanto con personaggi psicologicamente anacronistici: in un terrificante uroburo narrativo, le Bambinaie Francesi generano innumeri altre Bambinaie Francesi…

E no, non sto cercando di essere catastrofista – è che mi riesce bene, in un mondo in cui Patricia Finney deve scrivere l’introduzione che avete letto per evitare che qualcuno la consideri piena di pregiudizi, intollerante e crudele come gli Elisabettiani di cui scrive.

Il che, se ci pensate, è davvero deprimente.

Rimuginando Su Librinnovando ’12

L’edizione romana di Librinnovando – o quanto meno il convegno, cui ho assistito sabato 28 aprile all’Università di Tor Vergata – è stata istruttiva.

Cominciamo dicendo che, com’è piaciuto agli dei dell’editoria, non sono pervenuti cinguettii indignati in difesa del profumo della carta – o quasi.* Il che, sospetto, conferma la mia teoria secondo cui molti cinguettatori s’indignano sulla sola base dei Trending Topics, e allora – a parità di occhiata volante – un titolo provocatorio come #byebyebook è destinato a scatenare molta più furia di un neutrale e tecnico #librinnovando…

Ciò detto, è stato interessante passare dal Cosa? dell’edizione milanese di novembre al Come? di questa volta. Posto che qualcosa sta succedendo in campo editoriale – qualcosa di cui forse non capiamo ancora bene la portata e le prospettive – come diamine possiamo applicare, integrare e far funzionare queste innovazioni e novità (hardly the same thing, if you get my drift…) all’università, nelle biblioteche, nelle scuole, nella promozione alla lettura, nelle politiche delle case editrici…? Come dovrà/potrà cambiare la pratica in tutti questi ambiti? E, per dirla con la direttrice del Cepell Flavia Cristiano, come si riuscirà ad abbracciare le potenzialità del cambiamento senza perdere per strada la lettura complessa?

Le risposte – o i tentativi di risposta – sono stati vari e diversi.

E devo dire che Gino Roncaglia, pur illuminante nel tratteggiare il quadro della situazione, non è stato incoraggiantissimo. La gente legge meno, ha detto. Il lettori forti consumano meno carta stampata, ha detto – il che non dovrebbe significare necessariamente che leggano meno, perché c’è una fetta di consumo che si sposta sul digitale, ma in realtà in Italia c’è una diminuzione in termini assoluti. Questo non succede, ha detto Roncaglia, dove c’è un ecosistema digitale ben sviluppato su cui i lettori possono spostarsi. Ma in Italia questo meccanismo non funziona, perché i grandi editori stanno reagendo con scoordinato terrore e i piccoli editori non hanno i mezzi e la visibilità per le loro sperimentazioni, e perché l’information literacy è di là da venire e richiederebbe infrastrutture e competenze che non ci sono… Siamo in ritardo, ritardo, ritardo – e i numeri della lettura calano.

Che ci si può fare?

Le risposte più promettenti sono arrivate da progetti già in corso, da realtà che, con le unghie e con i denti, si ritagliano avamposti d’esplorazione in questa terra incognita. E, badate, non parlo di progetti editoriali.

Parlo di Dianora Forza-della-natura Bardi, a capo della sperimentazione didattica digitale del Liceo Lussana di Bergamo, un esperimento interessantissimo che consente ai fanciulli di studiare ed elaborare una pluralità di fonti – cartacee e digitali – imparando metodo e rigore mentre studiano. Non son tutte rose e fiori, se la Prof. Bardi deve ancora lamentare la difficoltà di convincere i docenti a formarsi – eppure che meraviglia sentire un metodo didattico digitale basato su approfondimento, elaborazione originale e “più lettura e studio di prima”, anziché sulla modularizzazione estrema… **

Parlo poi di Luciana Cumino della Biblioteca di Cologno Monzese, dove sperimentano con il prestito digitale  – non solo l’ebook, ma anche l’ereader – e, mentre lo fanno, studiano accuratamente l’evolversi del rapporto tra il lettore e la lettura, tra la lettura e il mezzo, tra l’utente e la biblioteca***, tra la biblioteca e l’editoria… È probabile che questo modello di prestiti gratuiti non possa continuare indefinitamente, se le biblioteche devono restare aperte, ma questa fase di sperimentazione e studio fornirà di certo indicazioni fondamentali per la direzione in cui l’istituzione biblioteca potrà e dovrà evolversi. Detto fra noi, non sono affatto certa che sia una questione di togliere di mezzo i libri fisici per far spazio alla gente – e meno ancora di escogitare nuovi nomi, come ha suggerito Antonella Agnoli. Devo confessarlo: much as I love names, quando Agnoli ha suggerito di ribattezzare le biblioteche “Piazze del Sapere”, non ho potuto evitar di pensare a Robespierre e al suo culto dell’Essere Supremo…

E parlo anche dell’ormai buon vecchio LiberLiber (ma a me piace tanto anche il nome originario, Progetto Manuzio), che per primo ha creato una biblioteca digitale gratuita in Italia, o di OilProject, una sorta di scuola virtuale basata su mutuo insegnamento per mezzo di video tutorials e discussioni in chat.

Tutta gente agguerrita, piena di idee e con gli occhi bene aperti. Ma in tutto questo, gli editori dove sono?

Ecco, l’impressione che ho ricavato da Librinnovando è che gli editori annaspino – i piccoli come i grandi, seppure in maniere diverse.

Quadrino di Garamond va a caccia di facili applausi (“Basta con la scuola dei primi della classe e dei somari! La scuola dev’essere luogo di e per ogni conoscenza!” Punti esclamativi miei – ma insiti nel tono). Andrea Libero Carbone di :duepunti edizioni assume quell’aria di superiore disapprovazione che a tanti (specialmente piccoli) editori piace riservare al self-pub, e dà voce alla certezza che nessun self-publisher sia in grado di offrire un prodotto di qualità al lettore – ed eFFe è diventato uno dei miei eroi, intervenendo dalla platea per pizzicare ALC e tanti suoi colleghi su questa mistica dell’editoria… Manicardi di Barabba Edizioni è un simpatico personaggio che pubblica per hobby, ammonisce editori e self-publishers alike in parabole fantasy e lo fa con un irresistibile accento carpigiano – ma non si può considerare un editore a nessun effetto pratico. Brugnatelli di Mondadori propone un modello di autopubblicazione appoggiato a una community/workshop di scrittori non dissimile da quel che già fanno Penguin e Harper Collins e con un nod ideale al progetto 826 Valencia, ma non lo sa difendere da obiezioni talvolta più ideologiche che sensate.

Perché diciamolo: l’idea Mondadori non ha nulla di così profondamente malvagio in sé, ma offrire il fianco alle accuse di volerla passare per qualche tipo di no-profit è stata un’ingenuità incomprensibile. E badate bene, non lo sarebbe stata in un mondo in cui fosse possibile rispondere: certo che Mondadori vuole guadagnarci – e perché no? Mette in vendita dei servizi, cerca di farlo a un buon livello e secondo una certa ottica, vuole creare un ambito in cui lavorare su quella qualità che si dice essere fuori dalla portata del self-publisher medio… whatever – ma a qualche genere di prezzo.

Ecco, in Italia questo non si può dire – almeno non ad alta voce, così come è bad ton suggerire che attorno alla letteratura giri un’economia, o che chi scrive possa volersi aspettare qualche genere di ritorno economico. Insomma, perdonate se adesso viro un pochino verso il rant, ma la mia parte anglosassone s’infuria all’idea che in Italia, a livello editoriale così come a livello tecnico, sia anatema dire che la scrittura è un mestiere. E di conseguenza Brugnatelli non sa né può difendersi come sarebbe logico fare. E no: non ho davvero nessuna simpatia per Mondadori, ma non ne ho nemmeno per chi mi etichetta come sciatta e incapace sulla fiducia***, né per chi siede nel foro e lamenta la calata dei barbari, né per chi sventola il mito della scrittura ispirata e spettinata e pura da contatti con il crasso e vile mercato.

E quindi?

E quindi credo che Roncaglia e Calvo abbiano ragione: l’editoria sta reagendo nel panico più scomposto – chi all’avvento del digitale tout court, chi all’emergere del self-publishing. Forse l’editoria spera che passi tutto. Forse sta digerendo il fatto che per ora il digitale non crea nuovi lettori – ne sposta soltanto. Forse sta cercando di decidere se può perdere un tram che in Italia è ancora parecchie fermate indietro – dopo tutto la fetta di mercato degli ebook è ancora sotto il punto percentuale.

L’impressione è che siamo in ritardo, ritardo, ritardo – e che ci resteremo a lungo. E però a Librinnovando c’era gente su cui pare di poter contare per qualcosa che non sia starsene seduti ad aspettare i barbari. Alla fine della giornata me ne sono venuta via con aspettative deluse e aspettative nuove o rinnovate. Ci sono le scuole istituzionali e virtuali che formano nuove generazioni di lettori e alfabetizzano i cosiddetti nativi digitali. Ci sono le biblioteche che si ripensano nel contesto nuovo. Ci sono quegli scrittori che stanno facendo della rete un luogo di sperimentazioni letterarie e culturali.**** C’è la gente di Librinnovando che ha l’enorme merito di tener viva la discussione in proposito. E si spera che ci siano i lettori, che negli ultimi decenni non hanno avuto troppo spazio per discriminare, ma possono imparare a farlo, se solo se ne vedranno offrire l’occasione.

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* Salvo forse quando Brugnatelli di Mondadori ha detto che la difesa del profumo della carta è vastamente dissennata – e anzi, certe combinazioni di carta, colla e inchiostro riescono anche a puzzare. Questo ha scatenato a small volley, ma molto più ironico che altro. E – forse sarò cinica – credo che, se l’avesse detto chiunque altro in sala, non ci sarebbe stato nemmeno quello.

** E a questo proposito devo dire che Quadrino di Garamond non mi ha convinta particolarmente nel suo appassionato plea in favore di una conoscenza che non significa “ripetere, ma creare, condividere, collaborare.” All very well (uno slogan del genere non poteva non piacere – e difatti è piaciuto molto), ma dov’è che si parla di consolidare? Non so, ma non riesco a non dubitare che un’estremizzazione di questa teoria, presa da sola, finisca col rendere tutta la conoscenza effimera…

*** Perché dopo tutto sono una self-publisher, ricordate?

**** E quello di Roncaglia è stato, temo, l’unico accenno all’esistenza del fenomeno. E qualcuno ha anche lamentato l’assenza degli scrittori – con l’eccezione di Sergio Covelli, presente in veste di self-publisher e guerilla-marketer. Magari la prossima volta…

Apr 23, 2012 - elizabethana, grillopensante    4 Comments

Un’Iniziazione Shakespeariana

Sera estiva, calda e appiccicosa. Le luci si spengono, con i loro aloni affollati di zanzare e il chiacchiericcio si disfa in uno strascico di bisbigli. Tra gli alberi sul fianco della collina tutt’attorno al teatro si sentono frinire i grilli – questione di un attimo. Uno di quei lunghi attimi calcolati per rompersi quando il pubblico si è dimentcato di respirare – il genere di cose di cui, a undici anni, ancora non so nulla.

La lama di luce livida e il colpo della botola che si apre succedono nello stesso istante – poi le streghe si arrampicano in scena in un turbinio di stoffa nerissima e risate, e si accucciano attorno al calderone…

“Cominciamo bene,” mormora A., seduta alla mia destra. E ha più ragione di quanto possa immaginare.

L’ho detto: ho undici anni, ed è il mio primo Macbeth. Il mio primo Shakespeare. La mia prima volta al Teatro Romano di Verona. La mia prima regia men che tradizionale. So chi è Shakespeare, ma non ho mai visto nulla di suo, e la mia esperienza di cose che si vedono su un palcoscenico è limitata a qualche spettacolo per bambini e all’opera, dove tutto si prende molto alla lettera. Non sono preparata a vedere una storia di re scozzesi trasformata – distillata in una faccenda di scene vuote, ombre, luci taglienti e gente vestita di nero.

Non sono affatto certa che mi piaccia poi granché. Anzi, a dirla tutta, sono un nonnulla delusa. È tutto così truce e buio, senza un’ombra di tartan, senza una spada, senza niente di quel che mi aspettavo… E poi, un po’ per volta, senza niente a distrarmi, mi lascio catturare dalle parole. Non soltanto dalla storia, ma dal modo in cui le parole rendono la storia diversa dal suo riassunto sul programma di sala. Streghe, profezia, regicidio, follia, sconfitta – sì, d’accordo. Ma la paura, lo stridere degli uccelli notturni, i fantasmi, le macchie di sangue, il frusciare minaccioso delle fronde del bosco di Birnam… è tutto nelle pieghe delle parole.

E badate, non è che esca dal teatro convintissima di quel che ho visto. Ho ancora solo undici anni, e una debolezza per le scene dipinte e i costumi period, e tutto sommato spero che il teatro non debba essere sempre così. Eppure, quando mio padre mi chiede se mi è piaciuto e rispondo di sì, non è una completa bugia. Forse non mi è piaciuto nel senso abituale del termine, ma è stata un’iniziazione. Una finestra aperta su qualcosa che non capisco fino in fondo, ma che ha l’aria di essere significativo. Qualcosa che ha a che fare non solo con le storie, ma con il modo in cui le storie si raccontano. Qualcosa che sono intenzionata capire – e imparare, se posso.

Adesso, a più di venticinque anni di distanza, so che quella sera a Verona Shakespeare mi ha insegnato la forza delle parole. Una produzione altrettanto spartana di un lavoro meno significativo mi avrebbe soltanto annoiata, ma siccome le parole di Shakespeare erano così potenti, la bambina che ero aveva colto l’essenza della tragedia – e anche qualcosa d’altro. Una vaga impressione che, indipendentemente dall’interpretazione moderna del regista e degli attori, attraverso le sue parole, persino in traduzione, Shakespeare parlasse ancora a cinque secoli di distanza.

Era tutto molto vago allora, lo ammetto, ma era destinato a consolidarsi, far talea e svilupparsi in vari articoli della mia fede nelle parole, in fatto di storia, letteratura e scrittura. Non male, per una serata a teatro, direi.

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Con questo post (bilingue) SEdS partecipa al progetto Happy Birthday Shakespeare, dello Shakespeare Birthplace Trust. Per una settimana a partire da oggi, bloggers di tutto il mondo posteranno ogni genere di rimuginamenti shakespeariani.

Dieci Rimuginamenti Pedagogici Assortiti

Se dovessi definire il mio rapporto attuale con le scuole, credo che mi chiamerei una aunteacher.

Ci sono gli insegnanti preposti all’apprendimento e alla disciplina quotidiani, e poi c’è quella che arriva a primavera con il laboratorio collaterale e (si spera) interessante, quella che induce i fanciulli a scrivere, a fare un pochino di teatro, a leggere, a guardare la storia (sempre si spera) in modo diverso… Sempre con l’insegnante titolare accanto, comunque: un’insegnante-zia.

Per cui è molto probabile che molte cose della vita scolastica d’oggidì mi sfuggano: in fondo, vo carotando di qua e di là e tutto quel che vedo sono fette di discenza e docenza, cunei di vita sui banchi tra la quinta elementare e la terza media. Lo dico per invitarvi a prendere i miei rimuginamenti con quel tanto di sale.

E i miei rimuginamenti, in ordine sparso, sono questi:

1) Ho questa abitudine di esordire dicendo che la storia non è una serie di date o un elenco di episodi, ma una corrente complessa, in cui circostanze, decisioni ed eventi a monte influenzano circostanze, decisioni ed eventi a valle… No, non lo dico in questi termini, ma il concetto è quello – e ogni volta trovo reazioni miste dalla folgorazione ai blank eyes, passando per una vasta gamma di stadi di sorpresa e incomprensione. L’idea a me non pare terribilmente esoterica, ma per qualche motivo sembra riuscire sempre nuova ai fanciulli…

2) Qualcuno un giorno mi spiegherà cose come il bollino giallo affibbiato alle innocue indagini di Jessica Fletcher. Parental guide? Qualcuno teme che gli implumi s’impressionino all’idea dell’omicidio? Lo chiedo considerando il vivace dibattito scatenato in una quinta elementare dai due seguenti quesiti: ma dove lo ha trovato Annibale il veleno con cui si è ucciso? E quando ha perso l’occhio dopo il passaggio degli Appennini, vuol dire che l’occhio è proprio caduto di suo, o glielo hanno levato con un coltello?* Anche il particolare degli orci pieni di serpenti e scorpioni ha avuto molto successo. 

3) A volte, specialmente alle medie, c’è molto silenzio – e dubito di annoiare la classe… “Niente affatto,” mi ha detto di recente una giovane insegnante. “I ragazzini non si annoiano in silenzio: lo fanno rumorosamente. Se c’è silenzio è un buon segno. Vuol dire che li hai interessati.” O forse narcotizzati? ho pensato – ma non ho avuto il coraggio di chiedere…

4) Poi ci sono le classi che proprio non seguono – e in effetti quelle sono rumorose. Per quanto si faccia, dica, supplichi e minacci, loro chiacchierano. “Non sono abituati ad ascoltare un’ora di spiegazione,” mormora sconsolato il docente di turno. E poi “Non sono abituati a rispondere alle domande.” E ancora”Non sono abituati a leggere un testo/vedere un film e discuterne, individuare le informazioni rilevanti, elaborare…” Peggio ancora: “Non sono abituati a chiedere spiegazioni su quello che non hanno capito.” E a me viene tanto da chiedermi che cosa di preciso siano abituati a fare…

5) Certe cose non cambiano mai: è sempre stato ed è ancora del tutto inutile domandare “avete capito?” Invariabilmente i fanciulli annuiscono come un sol fanciullo e guai ad assumere che sia vero. “Voi (III Media) studiate Inglese, vero? siete capaci di leggere le didascalie in inglese o avete bisogno di traduzione?” “Capacissimi, prof.” Fermo il film sulla prima didascalia e di nuovo chiedo se hanno capito. Venticinque teste annuiscono simultaneamente – ma non è che mi fidi tantissimo. “Ottimo. Traducete.” Silenzio siderale. “Non avete detto di avere capito?” Un ragazzino alza la mano e m’informa che il titolo della didascalia, A Curious Case, significa “Un caso curioso.” “Ottimo,” dico io. “E di che si tratta?” È il turno di una ragazzina reiterare il concetto che si tratta proprio di un caso curioso. “E fin qui ci siamo. Che genere di caso curioso?” Terzo ragazzino: “chiaramente qualcosa che ha a che fare con un caso curioso, prof – ma mi sfuggono i dettagli.” Già… 

6) Con omologhi di altra provenienza si discuteva qualche giorno fa sul cinismo dei fanciulli, e dicevo che dalle mie parti sono abbastanza candidi perché l’occasionale piccolo cinico strappi ancora una risata, come la volta in cui domandai a una V Elementare perché mai i romanzi di Sherlock Holmes fossero narrati dal Dr. Watson e non da Holmes stesso. “Perché così, se si sbaglia, Holmes può dire che non è colpa sua e non lo denunciano,” rispose un pargoletto… Ripeto: non è la norma – anche se ci sono insegnanti che fanno del loro meglio. “Ascolta, Diego, che la signora spiega come si scrivono i libri – così da grande puoi farlo anche tu e guadagnare un sacco di soldi.” Oppure: “No, nessuno di voi farà l’archeologo da grande: non vi ricordate che cosa vi ha detto la signora del Gruppo Archeologico? Che gli archeologi guadagnano poco o niente.” Perle raccolte in altrettante V Elementari…

7) Certe volte invece è proprio colpa mia. “Avanti, ragazzi: ho detto di dividere il foglio in quattro colonne. Non è fisica dei quanti!” E un fanciullo: “Ma quanti cosa, prof?” Non sono certa di poter sperare che stesse scherzando, ma non ha tutti i torti neanche mia madre, quando mi chiede se mi venivano i crampi a dire che non era fisica nucleare. E questo è un piccolo episodio pittoresco, ma in realtà ho fatto anche di peggio. Per esempio, ho scelto per il mio laboratorio dickensiano Oliver Twist e Le Due Città. E sì, l’ho fatto perché volevo trovarci un pochino di gusto anch’io – ma mi rendo conto che sono una delinquente. Le Due Città? Come, come, come ho potuto pensare che dei quattordicenni potessero simpatizzare con Sydney Carton? E infatti sono punita, e i fanciulli non capiscono nemmeno che è lui il protagonista del libro… Serves me right.**

8) Quando l’insegnante, nel presentarmi alla classe, dice che scrivo, le cose cominciano – e spesso proseguono – meglio. L’idea piace ai fanciulli e, presto o tardi, arriva il momento in cui accantonano il progetto in corso per far domande sui miei libri. Ce n’è una che ritorna sempre – in due forme diverse a seconda della fascia di età. Alle elementari “Come ti è venuto in mente di scrivere un libro?” Alle medie hanno già assorbito dagli adulti la formula “Come è nata questa passione per la scrittura?” E io credevo che la seconda fosse a conversation piece, il genere di domanda che fa la vicina di tavola occasionale cui gli amici comuni hanno detto che scrivi – oppure quella infallibile della signora seduta in prima fila alle presentazioni… Invece la forma infantile mi fa pensare che sia una naturale curiosità: com’è che uno prende su e si mette a scrivere?

8bis) Che cosa leggono i ragazzini adesso? Harry Potter e Geronimo Stilton, lo so. Ma a parte quello? Proprio più nemmeno un classico? Mai? Su settanta e rotti quattordicenni, una soltanto ha mai aperto un libro di Dickens – e solo perché ha iniziato Oliver Twist in vista del laboratorio. E so di aver recentemente lamentato la ghettizzazione di Dickens come autore per l’infanzia – but still. Non c’è nulla che io citi e loro riconoscano. Mai. Da un lato, mi sento molto vecchia, dall’altro devo proprio chiedermelo: che cosa diamine leggono?

9) Un’altra cosa che credevo era che questa generazione fosse molto informatizzata e capace di usare un computer nel sonno. Invece, informata che la scuola non ha i mezzi per distribuire fotocopie, mando il materiale con una settimana di anticipo – e l’insegnante mi rassicura sull’esistenza di un sistema di distribuzione a base di posta elettronica e chiavette. Invece, otto giorni più tardi, la posta non è arrivata, le chiavette non hanno funzionato e solo il 4% dei pargoli ha letto quel che doveva leggere. Può darsi che sia soltanto ilcanemihamangiatoilcompito 2.0, oppure in queste ridenti plaghe i nativi digitali non sono poi così digitali.

10) Nonostante tutto, fare laboratori didattici mi piace da matti. Constatare la personalità distinta di ogni classe come gruppo – nonché la relazione tra insegnante e personalità della classe – vedere come la gente sveglia e interessata prima o poi venga a gravitare attorno all’attività, cogliere il momento in cui cominciano a fidarsi, cominciano a voler impressionare l’aunteacher, vedere come finiscano con l’entusiasmarsi e mettercisi d’impegno è sempre una soddisfazione.

Non credo che potrei insegnare sul serio. Non ho la pazienza e la metodicità per farlo e finirei molto presto in carcere per omicidio plurimo aggravato dai futili motivi. Ma L’occasionale laboratorio è un genere di varia, istruttiva, a tratti frustrante, always challenging esperienza cui mi dispiacerebbe rinunciare.

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* La risposta “probabilmente nessuna delle due cose – ha solo perduto la vista da un occhio”  li ha delusi molto.

** E quindi, quando ieri mattina, dopo quattro settimane de Le Due Città, e dopo avere appena finito di vedere il film, una fanciullina ha chiesto al suo compagno di banco chi fosse quella Mme Defarge che continuavo a nominare, non avrei dovuto farmi venire un travaso di bile, vero?

Mar 21, 2012 - grillopensante, Poesia    9 Comments

(Prima)vera Poesia

Credete di poter sopportare una reminiscenza?

Stiamo parlando di venticinque anni orsono – proprio come oggi. Mi si affibbiò un tema sulla primavera, perché allora l’11 novembre si faceva il tema su S. Martino e le castagne, a settembre si raccontavano le vacanze, il 19 marzo si parlava del papà e il 21 marzo, invariabilmente, di primavera.

Il tema che ho in mente era più avventuroso del consueto, e richiedeva di aggiungere alla prosa un po’ di poesia. Le nostre impressioni personali e i nostri sentimenti – in versi.

E la piccola Clarina – che allora le poesie credeva di scriverle, ma rigorosamente in privato e mai si sarebbe sognata di esporle a scuola – si rifiutò di prendere la faccenda sul serio. Però, siccome il tema voleva prosa&versi, anziché sdilinquirsi sui fiori e le rondini, fece dell’ironia su allergie da pollini, piovaschi e altre amenità stagionali – prima in prosa e poi in quelli che le piaceva considerare ottonari.

Poi intendiamoci – non è che non mi sdilinquissi su fiori e rondinelle, anzi. Avevo una vena altamente sentimentale, nella mia infanzia. Però la tenevo per me e per i membri più anziani della famiglia, quelli che non mancavano mai d’impressionarsi e di dire cose come “che bambina!” o “che testolina d’oro!” Piccola potevo essere, ma ero già una spudorata pescatrice di complimenti – e bisogna dire che sulla bontà della mia vena altamente sentimentale nutrissi già qualche dubbio.

Ad ogni modo, la filastrocca. Non credo fosse nulla di che, però ricordo che ero molto soddisfatta dei miei ottonari in rima baciata, e del fatto che fosse ironica. Mia nonna mi aveva recentemente introdotta al Giusti, you know

Ma temo di dover dire che non andò molto bene. L’insegnante non apprezzò. Disse che non prendevo sul serio la faccenda in particolare e la scuola in generale. Non era rispettoso nei confronti suoi e dei miei compagni che avevano scritto poesie “vere”.

Quest’ultima rampogna mi indignò da non dirsi: la maggior parte delle poesie “vere” consisteva nell’andare a capo a strani intervalli e, nella migliore delle ipotesi, nell’occasionale sole rimato con le viole. Io avevo fatto gli ottonari, dannazione, ed erano tutti rimati, e avevo fatto dell’ironia! Perché la mia non era una poesia “vera”?

Fastforward all’anno scorso e a un piccolo premio letterario locale dove, per una serie di circostanze bizzarre, mi ritrovo in giuria. Ci sono sezioni separate per prosa e poesia, e io provo a dire che per la seconda non sono competente, ma niente da fare, e mi ritrovo a giudicare anche lì. Consapevole dei miei limiti, me ne sto zitta abbastanza a lungo mentre il limitato numero di componimenti meritevoli viene scremato e s’individuano i vincitori. Passato quello, però si viene alle menzioni e, tra le valanghe di gente che va a capo a strani intervalli, si sdilinquisce sulla primavera e il suo primo amore e rima cielo e fiori di melo, compare una faccenda bizzarra, un notturno con uno schema di rime sofisticate e tutta una serie di rimandi ottocenteschi. E mi punge vaghezza di dire che meriterebbe una menzione.

“Ma non è originale! Questo verso è copiato da Leopardi!”

“Ma quest’altro è manzoniano.”

“Ma quest’altro è dannunziano…”

Dico che sì. Appunto. Non è plagio – più o meno consapevole. Sono echi inseriti apposta, è una specie di pastiche fatto con una certa consapevolezza tecnica…

E  c’è questa signora che mi guarda con aria gelida e dice che non capisce bene. “Lei la giudica  meritevole, questa cosa del tutto formale?”

E un’altra signora chiosa che non si tratta di “vera poesia”, e io mi sento di nuovo sui banchi di scuola – però adesso sono attrezzata e mi lancio in una disquisizione su come la forma sia sostanza, e su come a differenziare la poesia dalla prosa sia la tecnica più che i fior di melo e la disposizione random delle parole sulla pagina… E cito il rigore tecnico dei grandi poeti, e mi rifiuto di ammettere che casualità e sentimento frullati insieme producano poesia.

Alla fin fine il notturno finisce menzionato, ma le due signore mi portano ancora rancore – un po’ come io ne porto un filo all’insegnante dopo un quarto di secolo…

Lo so, lo so: è partita come una reminiscenza ed è finita in un rant – ma mi irrita nel profondo questa diffusa convinzione che per scrivere poesia basti aprirsi le coronarie e spargerne il contenuto a manciate sulla pagina – badando di andare a capo spesso.

Una Persona Seduta A Scrivere

Jeffrey Sweet offre un sacco di buone ragioni per il fatto che un romanziere difficilmente possa essere un buon protagonista teatrale.

Lo scrittore è, teatralmente parlando, un personaggio statico e passivo, perché il suo mestiere è quello di osservare, elaborare, starsene seduto a scrivere e, nel complesso fare tutto quel che fa d’interessante all’interno della propria testa.

A meno che non uccida qualcuno – o che non risolva delitti* – ma questo è un altro discorso. Nella sua qualità di scrittore, in scena non funziona granché.

Per quanto ciò mi spiaccia in linea di principio, devo ammettere che tutto questo vale anche per i romanzi. Bisogna essere davvero molto in gamba per rendere drammaticamente interessante la scrittura di un libro. Fare della stesura di un romanzo una trama significa avventuarsi su terreno pericoloso, perché una persona seduta a scrivere è… be’, una persona seduta a scrivere. Non precisamente materiale narrativo.

E questo è il motivo per cui, benché ci siano molti libri che hanno scrittori per protagonisti, sono rari quelli in cui la scrittura in sé costituisce la trama principale. Mi viene in mente New Grub Street, in cui parecchi capitoli sono dedicati al più tormentoso attacco di Blocco dello Scrittore che si possa immaginare – tragico addirittura, visto che alla fine Edwin ci lascia persino le penne. È una storia molto triste, ma appunto per renderla pregnante Gissing ha sentito la necessità di farne una faccenda di vita e di morte in senso stretto.

In questo ristretto panorama, i personaggi che scrivono romanzi storici si contano sulle dita di una mano. Un paio di volte. Così, off the top of my head, mi vengono in mente solo due casi, e devo confessare che nessuno dei due mi riempie di gioia.

Uno è Il Manoscritto di Shakespeare, di Domenico Seminerio. Sia chiaro, il libro in sé è tutt’altro che male, ma… Dunque: uno scrittore siciliano si ritrova tra le mani dei documenti cinquecenteschi, il cui succo sembra essere che Shakespeare era in realtà siciliano a sua volta. Scettico fin dapprincipio, il protagonista-narratore si vede commissionare una trattazione romanzesca del materiale** – e qui cominciano i guai. Perché il Nostro, che è un insegnante di lettere in un Liceo, si mette all’opera praticamente senza ulteriori ricerche e armato solamente di qualche libro di storia dell’arte per avere un’idea di abbigliamento e mobilio. Così equipaggiato, dopo varie settimane di lavoro, produce un romanzo storico. Feu! Feu! Feu!

L’altro – e se possibile peggiore – caso è La Storia dell’Assedio di Lisbona, di Saramago. Qui abbiamo uno stimato correttore di bozze che, in un momento di stravaganza, aggiunge un “non” a un saggio di storia medievale, stravolgendo il significato del testo. La casa editrice, invece di richiamarlo, gli commissiona una bella ucronia basata sul suo colpo di testa, ovvero l’ipotesi che, nel 1147, i Crociati si rifiutino di aiutare il Re del Portogallo a riconquistare Lisbona. E anche qui il Nostro si mette all’opera senza nessuna particolare ricerca, viene mostrato mentre s’interroga su come entrare nella mente di gente del Dodicesimo Secolo, poi mentre scrive una scena in cui un armigero e una lavandaia s’incontrano al fiume e, nel giro di non troppo tempo, lo vediamo consegnare un romanzo storico che rende tutti molto felici.

Ecco. In entrambi i casi, confesso di avere letto con estrema irritazione. So che in parte questa irritazione è irragionevole, so che mesi e mesi (o anni) di ricerche e letture non sono nulla che si possa raccontare in un romanzo, so che le complessità di due lunghe stesure non costituiscono buona materia narrativa… Sì, grazie: sono ben consapevole di tutto ciò.

Tuttavia, vedere quello che so essere un processo complicato, affascinante, lungo e occasionalmente tormentoso – nonché un mestiere di precisione, pazienza, curiosità, immaginazione e finezza – ridotto a una rapida compilazione con mezzi di fortuna e motivazione casuale mi irrita nel profondo. Anche perché, diciamocelo: sarebbe stato così difficile dare al professore una laurea in Inglese, o almeno un interesse particolare per il teatro elisabettiano o qualche altro argomento inerente? O fornire il correttore di bozze di un interesse pregresso per la storia medievale? Era proprio necessario implicare che qualsiasi individuo di buona cultura, con o senza esperienza precedente in fatto di narrativa, privo persino di interesse specifico per il genere, possa produrre un romanzo storico pubblicabile in qualche settimana, senza uno straccio di ricerca e senz’altro motivo che una richiesta altrui?

Se leggeste in un romanzo che un orologiaio, da un giorno all’altro e con la minima provocazione, si mette a produrre gioielli, e che imbrocca risultati di qualità professionale al primo colpo – nonostante la mancanza di un briciolo preparazione specifica o di esperienza? O che, dal giorno alla notte, senza addestramento Jedi e senza nemmeno la scusa di un’urgenza improcrastinabile e vitale, un fonditore di campane comincia a forgiare cannoni che funzionano? La considerereste una grossolana e approssimativa improbabilità, giusto?

Appunto.

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* Per fare due esempi che non sono teatrali, ma televisivi, c’importerebbe molto di Castle se, invece di investigare insieme alla sua bella detective, se ne stesse chiuso in casa a scrivere e nient’altro? O anche se, invece di partecipare alla risoluzione dei casi, si limitasse a osservare, quiet and unobtrusive? Se così fosse, la serie si chiamerebbe “Beckett”.

** Stratagemma che, ne abbiamo parlato, è quasi un topos a sé nei paraggi narrativi di qualsiasi teoria controversa o downright balenga.

Mar 7, 2012 - grillopensante, teatro    4 Comments

Cri De Coeur

Aninha torna in scena domani sera al Teatro Monicelli di Ostiglia, in una versione completamente rinnovata, con la bravissima Giulia Bottura nel ruolo eponimo e tutta la banda di Hic Sunt Histriones.

Le prove sono state (stanno essendo, in verità) rough going, tra il burrascoso e il pittoresco.

In parte è colpa mia, mi si dice, perché ho insistito per cambiare parte delle musiche di scena fino all’ultimo momento – e soprattutto, mi si dice, perché dopo una sessione di prove più cruenta della media, me ne sono uscita con questo inqualificabile cri de coeur (che riporteremo in forma di discorso diretto perché possiate apprezzarne appieno il devastante impatto):

“Certo che Anita e Garibaldi mi sono proprio antipatici…”

Ecco. E l’ho detto perché è proprio vero. Mi sono antipatici entrambi, anche se ammetto che forse avrei potuto aspettare un momento più tranquillo per farlo. Ma tant’è, ho dei nervi anch’io, e l’ho detto. La cosa ha prodotto un istante di silenzio denso da galleggiarci, e dieci paia d’occhi spalancati a dimensione piattino da tè.

“Ma… ma se ci hai scritto su!” ha boccheggiato qualcuno.

E io, ancora più imperdonabilmente ho detto che in principio fu la commissione…

Ecco, a quanto pare, questo è il genere di cose che non si dovrebbe dire. Ai lettori, a quanto pare, piace immaginare che ogni parola che si scrive sia frutto di appassionato trasporto nei confronti dell’argomento – nonché di profonda adesione morale ed emotiva. E guai a dire che non è così.

“Non devi dire queste cose,” mi rimbrotta R. che sospetto capisca bene un certo genere di lettore. “A parte il fatto che ti considerano falsa e mercenaria, non a tutti piace vedere i giocattoli smontati.”

E posso ammettere che non a tutti piaccia vedere i giocattoli smontati. È vero, e prometto di avere maggior considerazione per questa legittimissima esigenza in futuro.

Quanto all’apparire falsa e mercenaria, però, parliamone. Lo scrittore non è colui che s’innamora del soggetto X e ci versa quantità industriali d’inchiostro (con maggiore o minore competenza). Lo scrittore è colui che scrive. Che esplora per iscritto. Che esplora  sé stesso, il mondo, la condizione umana, la storia, whatever. Il processo di esplorazione è importante quanto e più del soggetto. Il fatto di esplorare fatti che non apprezza o idee che non condivide, non lo rende falso: lo rende capace di astrarre e di ricreare qualcosa d’altro da se stesso. Di concedere altri punti di vista. Di comprenderne e rappresentarne meglio che può le ragioni. Magari di cambiare idea in proposito – oppure no, ma intanto ha indagato idee diverse e le ha esposte all’indagine altrui*.

Il fatto di fare tutto ciò su commissione è una prostituzione della propria arte? Nonsense. Si parvissima licet, vogliamo discutere di quanti Caravaggio sono stati dipinti su commissione e quanti per puro capriccio d’ispirazione? La commissione non sminuisce l’artista o l’opera. La commissione propone all’artista un soggetto su cui esercitare le sue capacità di tecnica e d’ispirazione. Se poi si tratta di un soggetto cui l’artista non si sarebbe accostato di suo, tanto meglio: la commissione paga le bollette e allarga gli orizzonti.

Non mi sento né particolarmente falsa né molto mercenaria per aver scritto Aninha. Non più falsa di quanto sia nello scrivere qualsiasi cosa che non sia un’autocertificazione.

Il mio mestiere non è mostrare adesione sentimentale a quel che scrivo – ma raccontare storie in maniera interessante e intellettualmente onesta. E visto che ho cercato di descrivere Aninha come ho immaginato che percepisse se stessa, lasciate che mi senta a posto con la mia coscienza in questo specifico caso.

Dopodiché, faccio buoni propositi: pur continuando a giocare alla mia maniera, cercherò di non smontare troppi giocattoli in pubblico. Con l’eccezione di Senza Errori di Stumpa, si capisce – ma non precipiterò mai più nello sconforto e nella diffidenza innocenti attori e innocente pubblico.

O almeno quasi mai più.

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* Uno dei complimenti che prediligo è quando qualcuno mi dice che, per colpa mia, è andato a rispolverare l’Eneide, Tito Livio, le memorie di Garibaldi…

Dickens Ad Uso Dei Fanciulli

Parliamo di Dickens, volete?

Che cosa avete letto ? Che cosa avete letto di vostra volontà? Che cosa vi è stato propinato nell’infanzia? Che cosa vi è piaciuto? Che cosa avete detestato? E Dickens è ancora presente nelle biblioteche scolastiche dei vistri figli?

Chiedo perché ieri una persona adulta e ragionevolmente scolarizzata, nel sentirmi dire che leggo volentieri Dickens, mi ha chiesto se non sia un autore per ragazzi. Al momento ho levato le sopracciglia, ma bisogna ammettere che la Persona Adulta ha delle ragioni per pensare quel che pensa – ragioni del tutto indipendenti dal pubblico per cui Dickens scriveva i suoi romanzi.

In effetti, considerate tre cose:

1) Oliver Twist è un libro bruttarello, con abbondanti dosi di tutti i difetti del primo Dickens e l’occasionale scintillio (le scene di folla, Fagin… mica tanto di più, a mio timido avviso).

2) Le Due Città è un bel libro di un autore maturo, con qualche difetto dickensiano e l’occasionale indulgenza all’overdramatic – ma parecchie spanne al di sopra dei casi dell’insopportabile Oliver.

3) Nondimeno da noi – dove Dickens non è l’istituzione che è nel mondo anglosassone – tutti conoscono e molti hanno letto Oliver Twist, mentre Le Due Città è, generalmente parlando, terra incognita.

Ciò accade in buona parte perché OT è un cosiddetto classico per l’infanzia e, come tale, non passa quasi anno senza che qualcuno ne sforni una nuova edizione, con o senza corredo di note esplicative, spunti per la discussione e “approfondimenti per l’attualizzazione delle tematiche”. In realtà, Dickens non scriveva per l’infanzia, ma il protagonista bambino ha sdoganato per decenni il romanzo in tutte le biblioteche scolastiche e, se c’è da fidarsi del catalogo ISBN, questo ha portato a una ventina di edizioni* solo dal 2000 a oggi. Per contro, nello stesso periodo, de Le Due Città, si conta solo l’edizione Frassinelli del 2000. Prima di allora, l’ultima edizione italiana sembra risalire al 1987 – a meno di considerare l’edizione economica (250 pagine per 2000 Lire) della Newton, che però recuperava la veneranda traduzione di Spaventa Filippi, ricomparsa nel 1994, poi nel 2008 e di nuovo quest’anno.

Il risultato è una percezione diffusa di Dickens come autore per ragazzi, sulla base di un paio di romanzi- e spesso le versioni abridged di un paio di romanzi, the other being David Copperfield** – e di Canto di Natale, il solo titolo dickensiano che batta in popolarità Oliver Twist dalle nostre parti.

Apparentemente il resto (con la possibile e relativa eccezione de Il Circolo Pickwick) è un nonnulla fuori moda – un’edizione a decennio quando va bene. E per Le Due Città, che per di più è un Dickens atipico, asciutto e senza bambini, non va benissimo.

Dopodiché, questo è l’anno dickensiano, e se siete curiosi di vedere la Rivoluzione Francese secondo Dickens, questa storia di fanatismo e abnegazione, crudeltà e redenzione, sullo sfondo di una Storia cupa, tempestosa e inesorabile, potete trovare in libreria non una, ma due edizioni fresche: la Newton, che rispolvera ancora una volta il venerabile Spaventa Filippi, e la Mondadori, che riprende la traduzione di Mario Domenichelli (datata, se non mi sbaglio, 2000) e la correda di “uno scritto di Stefan Zweig”.

E lo dico di nuovo: è l’anno dickensiano. Potrebbero esserci modi peggiori per celebrarlo che avventurarsi per sentieri meno battuti, lasciar perdere gli orfanelli e sfatare il mito che stiamo ricordando un autore per fanciulli.

Allora, Dickens: Che cosa avete letto ? Che cosa avete letto di vostra volontà? Che cosa vi è stato propinato nell’infanzia? Che cosa vi è piaciuto? Che cosa avete detestato? E Dickens è ancora presente nelle biblioteche scolastiche dei vistri figli?.

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* C’è stato un picco nel 2005, in corrispondenza dell’uscita del film di Polanski. E parlo solo di traduzioni diverse, perché poi Mondadori, BUR e DeAgostini seguitano a sfornare riedizioni delle traduzioni di Dettore e Oddera come se piovesse.

** Un tempo era abbastanza gettonato anche La Piccola Dorrit – e un giorno qualcuno mi spiegherà il criterio in base al quale si riteneva d’ammannire agli implumi un romanzo così cupo e claustrofobico, seppure in forma abridged.