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Giu 15, 2010 - grillopensante, sport    2 Comments

Italia – Paraguay 1 a 1

So di avere già postato in materia, ma devo ribadire e aggiungere qualche cogitazione.

Premettiamo che la mia conoscenza del calcio, se vogliamo proprio chiamarla così, è completamente basata su una manciatella di partite Italia-Qualcun Altro una volta ogni quattro anni, e si può descrivere nel modo seguente: mi agito quando c’è melée davanti a una porta, e capisco se è la nostra porta o quella altrui dal colore della maglia del portiere. Fine.

Ciononostante, una volta ogni quattro anni riscopro il fascino e il dramma insiti nel guardare ventidue energumeni in mutande che rincorrono una palla. Ieri sera guardavo Italia-Paraguay, e mi sono accorta che mi mangiavo le unghie. Ho trattenuto il fiato, sobbalzato, incitato, strillato (spaventando a morte il povero Udrotti…), ci sono rimasta malissimo quando il Paraguay ha segnato, ho esultato quando hanno segnato i nostri e ho sperato fino alla fine che segnassero ancora. Gente più saggia di me ha detto che tutto sommato va bene così, che l’Italia ha giocato bene e che non era poi così importante vincere stasera… sarà anche vero, ma per me, che non distinguo le finezze di un buon gioco e non ho la più pallida idea di come funzioni un girone, la partita di stasera si riduceva a una faccenda puramente istintiva, e l’istinto era di quel genere che vuole la vittoria, non il pareggio.

Tutto questo è interessante dal punto di vista di qualcuno che scrive spesso di battaglie. Voglio dire, per forza di cose (e, sospetto, per mia fortuna) non farò mai esperienza diretta di una battaglia. Se voglio vedere da vicino l’istinto di prevalere, lo scontro, la folla che perde la testa, si entusiasma o s’infuria, dove la posso trovare? A una partita di calcio o al Palio di Siena, immagino. Pasolini diceva che il calcio è l’ultima vera rappresentazione sacra del nostro tempo, e posso anche essere abbastanza d’accordo. Ancora di più, però, penso che sia – insieme a un certo numero di altri sport – un sostituto socialmente accettabile della guerra, un terreno per sfogare e convogliare istinti che non si possono (né dovrebbero) eliminare dalla natura umana.

Tutto ciò fa di una partita di calcio un’esperienza estremamente istruttiva per uno scrittore, e nemmeno su un piano solo, visto che consente non soltanto di osservare all’opera certi meccanismi primari, ma anche – con un minimo d’impegno o anche senza – di sperimentarli direttamente su se stessi.

Quindi intanto si prosegue con i Mondiali, ma l’autunno prossimo voglio proprio affrontare i perigli dello stadio e andare a vedere come funziona per davvero, non sulla poltrona del soggiorno e con il gatto sulle ginocchia.

 

Mag 21, 2010 - grillopensante, memories, teorie    Commenti disabilitati su Viaggio a Izu

Viaggio a Izu

Questa storia risale alla mia vita precedente, ma rimane indicativa del mio rapporto con la letteratura giapponese…

Ero stata invitata a “un evento teatrale in un giardino, una cosa che deve assolutamente tenersi al tramonto” e, incautamente**, avevo detto di sì. Ieri sera, trascinandomi appresso M., ci sono andata. M., dato il dettaglio del tramonto, temeva vagamente che ci saremmo ritrovati a dar retta a qualche matto che crede di vedere le fate… alla fin fine, non aveva proprio tutti i torti. A parte il fatto che solo in loco abbiamo scoperto che l’invito contemplava una quota di partecipazione di 10 euro a cranio, c’era una tizia, un’organizzatrice, che si comportava come una sacerdotessa di Apollo in procinto di officiare, e che ci ha sgridati più di una volta perché non eravamo disciplinati e ha ripreso molto severamente la gente che è arrivata in ritardo…

Alla fine (con mezz’ora di ritardo sull’ora prevista e, cosa che ha mandato fuori dai gangheri la piccola pizia, sul tramonto), ci hanno riuniti in un giardino, fatti sedere e ammoniti di starcene in religioso silenzio. Per terra c’erano una stuoia giapponese, uno sgabellino di legno e varie ciotole coperte. Dopo un po’, da quella che in un primo momento avevamo preso tutti per un oleandro tardivamente coperto per l’inverno, è saltato fuori un attore vestito più o meno da Giapponese il quale, dopo essersi piazzato sulla stuoia, ha cominciato a recitare un racconto giapponese, appunto. Come avevamo appreso dai fogli che ci erano stati distribuiti, si trattava di Viaggio a Izu.* Devo dire che l’attore era molto bravo, molto immedesimato e molto raffinato. Persino l’accento francese, pur nettissimo, non era affatto fastidioso. Solo che…

Confesso che avevo già cominciato ad allarmarmi quando avevo letto sul foglietto esplicativo che occorreva “dimenticare i ritmi del racconto occidentale”… Forse sarebbe stato più pertinente dire che occorreva dimenticare la nozione di ritmo affatto. Il racconto si è rivelato un’incredibile pezza non solo senza ritmo, ma senza trama, tutto uguale e pure banalotto. Suppongo che fosse delicatissimo e poetico e tutto quello che si può volere ma sinceramente, quando ho visto sull’orologio di M. che erano le nove e i personaggi erano ancora a Shimoda, mi è venuta una certa qual malinconia. Se il racconto si chiama Viaggio a Izu era segno che dovevano arrivare a Izu, e invece dopo un’ora erano soltanto a Shimoda, che non è Izu… poi ho afferrato che Izu non è una città, ma una regione che comprende Shimoda, per cui a Izu c’erano già, grazie al cielo… nondimeno c’è voluta un’altra mezz’oretta… e intanto faceva sempre più freschino e le zanzare e le pampogne volavano tutt’attorno… Enfin, per il sollievo generale, il protagonista è rimasto senza soldi e ha preso, sia pur tra mille patemi, la nave che doveva riportarlo a Tokio. Allora abbiamo applaudito tutti compuntamente, abbiamo rimesso in moto le membra intorpidite, ricacciato in sede le mandibole slogate nello sforzo di non sbadigliare…

Ci sarebbe stato anche il rinfresco, ma noi ce ne siamo venuti via digiuni perché ci pareva di esserci rinfrescati abbastanza.Tra parentesi, perché mai fosse così indispensabile tenere tutto l’ambaradan proprio al tramonto non è stato chiaro per nessuno. Il commento di M., appena fuori portata uditiva del resto della comitiva, è stato che uno di questi giorni mi strangolerà lentamente…
Comunque è stato istruttivo, su un duplice fronte: da un lato, è evidente che l’eccesso di rarefazione, poesia e delicatezza è soporifero, specie se dilatato oltre ragionevolezza; dall’altro, catch me again ad accettare certi inviti senza informarmi minutamente sul come, il cosa e il perché!!
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* Nel frattempo ho scoperto che si tratta di un racconto di Yasunari Kawabata. All’epoca, evidentemente, ero troppo esulcerata per preoccuparmi di annotare chi fosse l’autore.
** Nella mia vita precedente usavo un sacco di avverbi.

Mag 18, 2010 - grillopensante    1 Comment

Il Giappone e io

220px-Great_Wave_off_Kanagawa2.jpg“Ma non ti piace il Giappone?” chiede I., che sta seguendo il mio diario di lettura per L’Eleganza del Riccio.

Allora, chiariamo: ci sono aspetti della cultura giapponese che m’incantano. Per lo più si tratta di aspetti visivi e di mores, come la pittura del periodo Edo, il modo di accostare i colori e le consistenze, la cerimonia del tè, anche nelle sue forme più semplici, la grazia delle giapponesi (la mia compagna di corso M., a Londra, mi chiamava Claire-San e c’è un’adorabile anziana signora in kimono che vedo all’opera a Vienna, e ogni volta mi sorride perché anni fa le ho raccolto la busta degli occhiali che le era caduta per terra), le infinite sfumature dei suffissi di cortesia, il modo in cui imparano a disegnare, i giardini (anche se non vorrei un giardino giapponese), la ferrea solennità dei ritratti degli ammiragli, l’ikebana, l’origami e tutte queste combinazioni di grazia e precisione…

Narrativamente parlando, però, sono un animale occidentale fino al midollo. In una storia ho bisogno – e intendo proprio bisogno – di uno o più archi che conducano da un punto A a un punto B attraverso un concaternarsi logico di cause ed effetti, di azioni e conseguenze e, tra A e B, qualcosa deve essere cambiato (o, se non è cambiato, qualcuno deve pagare il prezzo del mancato cambiamento). La storia che manca di tutto ciò, per me, non è una storia.

E sia chiaro: questa è una preferenza del tutto personale, ma non trovo piena soddisfazione nell’accostamento un po’ vagabondo di elementi pur pieni di poesia e di grazia, nell’inserimento qua e là di elementi squisiti che però non conducono la storia da nessuna parte, nei ritmi dilatatissimi e laschi – anzi, diciamolo: nell’assenza di ritmo narrativo come lo intende l’Occidente.

Una scrittura del genere non mi soddisfa indipendentemente dall’origine: non è che non mi piaccia perché è giapponese, ma queste caratteristiche che compaiono in tanta narrativa e cinematografia giapponese me ne rendono difficile la digestione.

Tutto qui.    

 

Mag 15, 2010 - grillopensante    Commenti disabilitati su Storie nelle Storie

Storie nelle Storie

Siccome ieri sera sono andata a vedere e sentire (ho sempre difficoltà a scegliere il verbo giusto per l’opera) Thomas Hampson che cantava l’Evgeni Onegin di Tchaikovskij, si discuteva se si tratti o meno di una storia di presunzione punita.

Sì, naturalmente, perché Evgeni – per ennui o poco meglio – rifiuta con supponenza l’amore della giovane e ingenua Tatjana quando la conosce in campagna, ma poi, ritrovandola maturata, raffinata e principessa a Mosca, è lui a innamorarsi e lei a rifiutarlo. Evgeni capisce troppo tardi che sono proprio le qualità della ragazzina di campagna a fargli amare la principessa, ma lei adesso è la moglie leale di un altro uomo. Per cui sì: lui si credeva molto dappiù, ed è punito con perfetto contrappasso.

“Ma come, non è una storia d’amore, allora?”

Ecco, è questo il punto. l’Onegin è anche una storia d’amore, anzi, più d’una considerando anche Olga e Lenskij; ed è anche una storia di amicizia (Evgeni e Lenskij), di rimorso, di peso delle convenzioni sociali, di rinuncia, di maturazione, di occasioni perdute…

Le buone storie tendono a non essere mai storie di una cosa sola. La complessità che fa di una storia un piccolo mondo nasce dalla stratificazione di temi diversi e correlati, dall’incrociarsi e ostacolarsi (più o meno volontario) degli scopi contrastanti di diversi personaggi, e dal modo in cui ciascun aspetto illumina o modifica parzialmente gli altri.

Il povero Lenskij è un poeta e sogna un idillio campagnolo con Olga, la sorella allegra di Tatjana. Nel primo atto Evgeni non sa troppo bene che cosa vuole, ma la sua annoiata vaghezza di propositi finirà per scontrarsi tragicamente con il sogno di Lenskij. Tatjana, considerata una specie d’intellettuale da amici e vicini, appare ad Evgeni come il prototipo della piccola provinciale cresciuta a romanzi. Il fatto che Evgeni incarni l’uomo ideale che Tatjana ha atteso e sognato rende ancora più amaro il gelido rifiuto di lui… E via dicendo, in un continuo intersecarsi di prospettive. Ed è questo che fa dell’Onegin una buona, soddisfacente, ricca e commovente storia.

Non tutte le storie complesse sono necessariamente belle, ma di sicuro una storia di cui, alla domanda “di che cosa parla?” si può rispondere con una parola soltanto, faticherà molto di più a catturare il cuore del lettore – e a tenerlo prigioniero.

 

Arte & Mestiere

Più o meno sapevo che questo post avrebbe avviato un principio di dibattito, perché l’argomento tocca corde tese (molto tese) tra l’immaginario collettivo e la cruda realtà, o almeno una certa percezione della cruda realtà.

L’idea generale sembra essere che la scrittura consista nell’aprire il proprio cuore e versare il contenuto sulla carta. Messy, se lo chiedete a me, e del tutto irrealistico, ma profondamente radicato. Per contro, il concetto che scrivere sia un mestiere che s’impara, che ha i suoi principi, le sue teorie, le sue astuzie, le sue tecniche e i suoi strumenti, fa inorridire molta gente. Addirittura, come si evince dai commenti a questo post altrui, l’uso di strategie viene visto come qualcosa di sleale o disonesto.

Credo che sia necessario fare una distinzione: da un lato c’è la tecnica della scrittura propriamente detta, dall’altro c’è il mercato editoriale.

La tecnica è la cosa che, quando abbiamo sedici anni e riempiamo vecchie agende di racconti scritti a biro, ci fa rabbrividire. Non c’è da stupirsi visto che viviamo in una temperie culturale istericamente ansiosa di porre tutta l’enfasi possibile su spontaneità, istinto, ispirazione e natura. Poi qualcuno dovrebbe prendersi la briga di spiegarci, mentre cresciamo, che spontaneità, istinto, ispirazione e natura da soli non bastano. Nemmeno il talento basta, se vogliamo perché, come l’elettricità, se non è incanalato, disciplinato e convogliato attraverso i giusti strumenti, non accenderà mai nessuna lampadina. Qui, badate bene, non stiamo parlando di genio, che segue regole tutte sue e non è classificabile. Parliamo invece di una combinazione di attitudine, gusto e immaginazione, che deve essere educata e disciplinata. Disciplina, altro tabù culturale: guai a dire che la pratica dell’arte richiede disciplina… o meglio, questo non è del tutto vero. E’ generalmente accettato che eseguire lavori altrui richieda applicazione e fatica. Tutti si aspettano grandi quantità di pratica e di sforzo da una ballerina classica o da un pianista, ma quando dall’esecuzione si passa alla creazione, ecco che torna alla ribalta l’immagine dell’artista libero, spontaneo e spettinato che lavora febbrilmente sotto la spinta irresistibile dell’ispirazione. Ebbene, sorpresa: l’immagine è carina, ma fasulla. Narrare una storia è una questione di logica, di causa ed effetto, di conseguenze e di estrema consapevolezza. Narrarla bene, poi, richiede di saper calcolare con accettabile precisione l’effetto di ogni singola parola, figura retorica e frase. E questi sono strumenti che s’imparano. S’imparano leggendo molto, provando a riprodurre, sperimentando strade nuove, leggendo ancora, studiando, scrivendo e riscrivendo, rileggendo ad alta voce, leggendo ancora un po’ studiando ancora di più… E’ il lavoro di una vita, se si fa sul serio. Ma, così come c’è differenza tra chi strimpella il pianoforte per il proprio piacere e chi si esibisce come concertista, allo stesso modo c’è differenza – una differenza nettissima – tra l’impegno richiesto a chi scrive per sé e chi pubblica.

E questo ci porta al mercato. Il mercato è molto, molto competitivo. Il mercato dovrebbe fornire una forma di selezione naturale. Il mercato non sempre funziona come dovrebbe, almeno non dappertutto e non a tutti i livelli. Il mercato non è una sudicia invenzione dei nostri tempi barbari e globalizzati – il mercato è sempre stato recipiente e stimolatore dell’arte, fin dalla prima occasione in cui qualcuno è stato pagato per una creazione artistica. Provate a contare quanti Caravaggio sono stati dipinti su commissione, e quanti perché il pittore si era svegliato in preda una piena alluvionale di spontaneità, istinto, ispirazione e natura.  Ma non divaghiamo e torniamo alla scrittura. Il mercato essendo quello che è, gli scrittori sviluppano strategie che integrano nella scrittura forme, diciamo così, di marketing. I Tre Ganci sono una di queste strategie, e il loro scopo non è quello di costringere con l’inganno l’ignaro lettore-pastorello a spendere i suoi sudati quattrinelli una porcheriola rilegata in brossura, ma di catturare l’attenzione di un potenziale acquirente bombardato da un’enorme quantità di offerte. L’onestà in scrittura è questione dai molteplici livelli, perché se non mi piacesse essere condotta in tondo per un po’, non leggerei romanzi, ma mi aspetto di essere condotta in tondo con finezza, grazie. Tuttavia, è onesto offrire sempre la migliore scrittura che si è in grado di produrre, in termini di struttura e di stile. Ciò detto, però, l’attenzione del lettore va guadagnata e mantenuta. Catturare il lettore, trascinarlo dentro la mia storia, tenercelo fino alla fine e lasciarlo andare desideroso di averne ancora, non è disonesto: è il mio mestiere. Cosa mi fa presumere che il mio stile, per quanto mi sforzi, sia così superiore a quello di chiunque altro da darmi l’incondizionata attenzione del lettore senza nessuno sforzo? Beata ingenuità, direi, e forse un soffio di presunzione.

Insomma, nel momento in cui decido di pubblicare una storia, essa assume una sua forma di vita indipendente da me. Dal punto di vista di questa vita, quanta gente legge la mia storia, quanta gente la legge fino in fondo, quanta gente la apprezza davvero, non sono questioni irrilevanti: sono rilevantissimi numeri che il mio libro dovrà contendere ad altri libri a colpi di molti tipi di superiorità e di appeal. E dunque, se voglio mandarlo Là Fuori, devo anche equipaggiarlo per la lotta.

Apr 22, 2010 - grillopensante    Commenti disabilitati su Il Fascino Perverso Della Fantascienza

Il Fascino Perverso Della Fantascienza

A sei anni, durante una vacanza al mare, approfittai di una distrazione dell’allora Maggiore per sottrargli un Urania intitolato Tra gli orrori del Duemila. Pessima idea. Trent’anni più tardi, ricordo vividamente i terrori notturni generati dallo scenariaccio post-nucleare, e ricordo anche  il povero allora Maggiore che rifilava l’Urania incriminato al figlio quindicenne di amici: “Prestito? No, è tuo e guai a te se lo restituisci – non lo voglio più vedere in vita mia!”

Fu una vacanza molto insonne per tutta la famiglia, e segnò l’inizio del mio pessimo rapporto con la fantascienza. Voglio dire: ci sono voluti anni e una specie di ricatto prima che mi azzardassi ad avvicinarmi a Guerre Stellari (G-U-E-R-R-E S-T-E-L-L-A-R-I!!!), non so contare le notti di sonno che ho perso grazie a Il Pianeta delle Scimmie – quello originale, con Charlton Heston – il solo pensiero di Philip K. Dick mi dà la tachicardia, e non mi sono mai azzardata a leggere Aasimov*. Rendo l’idea?

ddp.jpgPerché poi, visto che le distopie mi angosciano e gli scenari postapocalittici mi tormentano per anni a seguire, io sia in realtà attratta dal genere, è uno di quei misteri che lascio a gente più sveglia di me. Se avessi un briciolo di buon senso, quando mi hanno regalato Gli Dei di Pietra di Jeanette Winterson avrei sorriso con garbo, infilato il libro in uno scaffale molto in alto e fatto del mio meglio per dimenticare che era lì, giusto?

Invece no, l’ho iniziato, giusto per vedere com’era**, ed era notevole. Molto notevole. Così sono andata avanti, trascinata dalla scrittura piena d’increspature e d’ombre***, dal futuro inquietante e plausibile, dalla vena sardonico-disperata di Billie, dalle meravigliose descrizioni dei pianeti leggendari, dal campo di libri/meteoriti perdti nello spazio, dalle pagine di poesia che tappezzano l’astronave del capitano Handsome…

Non l’ho ancora finito – e sì: mi rendo conto di quanto sia ridicolo recensire un libro prima di averlo finito, grazie – e ad essere franchi, ogni volta che lo metto giù e deglutisco il groppo familiare di leggera angoscia mi dico che basta così. A che pro rendermi infelice leggendo una storia che non mi piace nemmeno e che quasi di sicuro finirà col darmi gl’incubi? Anzi, diciamolo: una storia che me li ha già dati?

Risposta a): perché è un libro pensato, costruito e scritto divinamente, pieno di idee brillanti, di poesia inattesa, di spunti aguzzi. La fantastica scena in cui Spike si dichiara spudoratamente a Billie, e la loro comunicazione telepatica si mescola alle spiegazioni di Handsome su come eliminerà i dinosauri dal Pianeta Azzurro, vale da sola il prezzo del libro. Ogni parola conta, pesa e luccica e, a quanto pare, sono disposta a stare male pur di leggere roba scritta così.

Risposta b): perché quei pianeti morti, quei posti abbandonati per sempre, quel vuoto senza confini, l’ipotesi di quel futuro in cui tutto ciò che conosciamo sarà irrecuperabilmente perduto, sono raffigurazioni narrative di certe mie paure profonde, e qualche parte di me pensa che ci siano modi peggiori di una storia per affrontare certe proprie paure profonde. Adesso, per favore, questa non prendetela per più personale di quanto sia: è tutta la Storia che l’umanità si racconta storie spaventose/terrificanti/angoscianti per questo specifico motivo.

Insomma, non sono sicura che finirò Gli Dei Di Pietra, ma ciò non m’impedisce di consigliarlo a chiunque digerisca la fantascienza: per la scrittura, per la traduzione, per le domande su che cosa ci renda esseri umani, per il pianea chiamato Eco… Unico caveat, per la seconda parte non mi prendo responsabilità; per gl’incubi, ho già avvertito.

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* E non cominciamo nemmeno a parlare dei deprimentissimi anime giapponesi in materia. Porto ancora del serio rancore all’ex di un’amica, che anni fa è riuscito ad infliggermi quasi un terzo di Akira contro la mia espressa volontà. Ora, non voglio discutere se Akira sia o meno un capolavoro, dico solo che il genere mi rende molto infelice, e che il B. aveva l’animo del torturatore.

** Ridete pure: in pieno giorno, come se si potessero applicare le stesse tattiche alle storie di fantasmi e alla fantascienza! Certe volte sono puerile.

 *** Bella, bella, bella traduzione di Chiara Spallino Rocca.

Apr 10, 2010 - grillopensante, musica    2 Comments

Libretti

Qualcuno, forse, un giorno mi spiegherà perché i libretti d’opera italiani debbano essere così surrealmente magniloquenti.

Partiamo con un esempio eclatante: il libretto originale francese del Don Carlos di Verdi e la sua traduzione italiana.

L’Infant est un rebelle armé contre son père* si potrebbe quasi usare in conversazione, ma come si può non sussultare un pochino ogni volta che Re Filippo si lamenta che L’Infante è a me ribelle, armossi contro il padre? E sì, lo so che in traduzione succedono cose bizzarre, tanto più se bisogna restare nei tempi di una musica composta su un testo in un’altra lingua, ma davvero non c’erano alternative al tradurre Tais-toi prètre! con Non più, frate? Ma bisogna dire che de Lauzières e Zanardini, nel tradurre dal Francese, hanno abbondato in eccentricità. Come altro definire l’epico emistichio (tre-quarti-stichio, in realtà) Ver voi il pensier schiude i vanni? Considerate che “ver” vorrebbe un accento circonflesso per indicare che sta per “verso”, e che i vanni sono ali, e che tutta la faccenda significa semplicemente “penso a voi”. E ad essere sinceri, a me piace molto anche il popolino madrileno che definisce se stesso Il popolo ultor.

Ma in fondo, stiamo parlando di opera, quella forma d’arte teatrale piena di gente che, con tutti i suoi decibel, ulula “Non sappia il ver” a un metro e mezzo dalla persona che il ver non deve saper, e che, ferita a morte** o all’ultimo stadio della tisi, canta per un quarto d’ora prima di defungere***. Diciamo pure che all’opera la sospensione dell’incredulità gioca un ruolo maiuscolo – e, se vogliamo, non c’importa poi troppo di sentire e vedere assurdità quando sono messe in musica sublime.

Tuttavia, nulla impedisce di conservare un barlume di senso dell’umorismo, anche se il mio mentore operistico inorridisce ogni volta che sogghigno. Il mio mentore è di quelle persone che non battono ciglio di fronte ai vari Taciturna ed erma pace qui spira, Egra reietta dal sole, e Nefario silenzio, di cui Tobia Gorrio**** ha lardellato La Gioconda di Ponchielli, da cui riporto un piccolo scambio tenore-soprano:

Enzo – I tenebrori del tuo mister saprò. Parla…

Gioconda – No.

Enzo – Parla.

Gioconda – No.

Ammetto che in musica è un’altra cosa, ma di per sè… Anche perché poi, nel giro di dieci versi, Enzo chiama Gioconda “iena furibonda” e “fanciulla santa” in rapida successione, per poi concludere che “Sulle tue mani l’anima tutta stempriamo in pianto…”

Però devo ammettere che Francesco Maria Piave, librettista verdiano, ha un genere di talento che mi commuove ancora di più. Come quando, ne La Forza del Destino, Don Alvaro balza in scena pindareggiando così: Ah! Per sempre, o mio bell’angiol/ Ne congiunge il cielo adesso!/ L’universo in questo amplesso/ Io mi veggo giubilar. Ma Leonora non è da meno, quando si lamenta del fatto che tutti sappiano la sua orrida storia: mio fratel narrolla! o quando, più tardi, minaccia “andrò per balze gridando aìta”.

Il Nobel per l’Incomprensibilità, comunque, Piave lo vince con Ernani: nelle prime due scene del III Atto riesce a concentrare le seguenti tre perle:

1) Gli Elettor… raccolti cribrano i diritti a cui spetti… la corona.

2) Tre volte il bronzo ignivomo alla gran torre toni.

3) Cimbe natanti sovra il mar degli anni.

Per la cronaca: 1) Gli elettori vagliano chi abbia più diritto al trono; 2) Si sparino tre colpi di cannone; 3) Piccole imbarcazioni sul mare della vita. Eh?

D’altronde, Piave è anche il librettista della Traviata. Alzi la mano chi non ha mai levato le sopracciglia di fronte al surreale Al natio fulgente sol/ Qual destino di furò? Ma poi Alfredo nega riedere in seno alla famiglia, e meco t’assidi, e seguirammi, e… Piave è sempre Piave. Adoro Piave.

Chiudo dicendo che il mio gatto si chiama Udrotti. Come nel Marin Faliero*****: – Anche un’ora! e udrotti, o perfido,/ steso al suol chieder pietà. Che poi, a dire il vero, “udrotti” c’è anche in Alfieri (più di una volta) e in Pellico, e forse anche altrove. Ma il nome del mio gatto viene dal libretto.

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* Atto IV nella versione in cinque atti, atto III nella versione in quattro. Il Don Carlos è fatto così: ha versioni a non finire.

** Vigoleno di Verlasca, Festival Verdiano 2005, Ernani. All’ultimo atto, come ognun sa, Ernani si accoltella, e poi canta ancora a lungo. “Però!” commentò un anziano signore dietro di me, “el canta, per un che s’è apena tirà na cortlada!” E il suo altrettanto anziano amico rispose: “Eh, as ved ch’el ne s’è mia ciapà al polmon…” State seri, voi!

*** Stavo per scrivere “defungere in posa decorativa,” ma poi ci ho ripensato: in realtà molto dipende dalla stazza dell’interprete. Ho visto una rappresentazione dei Due Foscari in cui, nella scena del carcere, una comparsa/secondino ha portato al tenore una sedia al momento giusto perché potesse svenirci sopra. Quando Foscari Fils si è ripreso e il tenore si è alzato, via la sedia. Very helpful.

**** Che era poi sempre Arrigo Boito.

***** Libretto di Bidera, non di Piave, lo ammetto.

Apr 5, 2010 - grillopensante    Commenti disabilitati su Creatività E Altre Faccende Amene

Creatività E Altre Faccende Amene

Forse è un filino bizzarro, ma quando mi è stato chiesto di raccontare in una forma qualsiasi il mio rapporto con la creatività… be’, per prima cosa ho fatto il genere di smorfia che si fa nel mordere una fetta di limone: “creatività” è una parola che mi piace fino a un certo punto. Mi sembra un po’ uno di quei porte-manteau tra l’altisonante e il sentimentale che si usano per dire tutto e nulla in particolare. Ad ogni modo, non divaghiamo: quando mi è stato chiesto di parlarne, invece di scrivere qualcosa ho messo insieme questo piccolo video:

 

Sì, lo so: l’audio potrebbe essere migliore, ma l’arnese è stato prodotto in tempi disperatamente brevi, e con mezzi limitati. Figuratevi che ho registrato tutto con il microfono della webcam… avete il permesso di sghignazzare ad libitum. Per di più, non lo considererei una trattazione esauriente del tema: solo una rappresentazione di un aspetto del processo creativo, l’eterna insoddisfazione che ci si accompagna. In fondo, perché l’Essere Umano crea, se non per procurarsi qualcosa che non c’è?

Mar 2, 2010 - grillopensante, pennivendolerie, Somnium Hannibalis    Commenti disabilitati su Didattica – Teatro 0-0

Didattica – Teatro 0-0

L’ennesima richiesta richiesta di modifiche al testo da parte degli Histriones è degenerata in weekend (lungo) di massiccia riscrittura. Confesso di avere dormito assai poco, da giovedì a questa parte.

E’ andata a finire che ci eravamo lasciati con una pièce funzionale, molto didattica e rigorosamente cronologica, e la notte scorsa alle quattro meno venti ho spedito alla compagnia un testo alquanto modificato: niente più elefanti, niente più Alpi, niente più Capua, niente più Taranto, niente più veterani numidi e colonne d’oro… Il tutto asciugato a una domanda (perché Annibale non ha preso Roma dopo la battaglia di Canne?) e a una risposta che non è storica, ma è poetica.

Stasera, alle prove, sono arrivata in ritardo apposta, e ho trovato gli Histriones schierati attorno al tavolo, che rimuginavano sul testo nuovo e, palesemente, nutrivano propositi omicidi. Be’, la regista no: la regista è entusiasta. Dice che adesso è teatro. Il committente (sì, c’è un committente) non è felice. Dice che sarà anche teatro, ma non è più un’esperienza didattica. Gli attori sono divisi: per lo più preferiscono la stesura nuova, ma mi odiano un pochino perché credevano di dover studiare qualche modifica, non un testo nuovo…

Ora, io so benissimo che il committente ha ragione. Il progetto contemplava fin dal principio una fruizione scolastica, e quindi richiedeva una narrazione della storia di Annibale che fosse cronologica e di facile comprensione. Lo so bene, e lo sapevo anche mentre scrivevo la mia nuova stesura. Lo sapevo al punto che, negli intervalli ho anche preparato le modifiche che mi erano state richieste sulla versione vecchia.

Diciamocelo: la stesura nuova è stata una piccola follia, fatta perché è più bella, perché è come l’avrei voluta dall’inizio. E fatta anche per dimostrare che non era colpa mia se la versione originaria suonava come una versione dal Latino. Se in quaranta minuti devo comprimere una dozzina di scene cum voce narrante, è ovvio che non posso ambire a vette di profondità e scavo psicologico, ma non mi sentivo molto creduta. E allora ho fatto questa cosa con meno scene, meno gente, meno proiezioni alle spalle, meno orpelli in generale, e più Annibale.

Ora non so come andrà a finire: ci siamo lasciati discutendo, e il committente deve interpellare altra gente coinvolta nel progetto, e comunque c’è sempre la versione modificata. Però… Suono molto perfida se dico che sono contenta di avere scritto la nuova stesura, di avere gettato nel panico la compagnia e il committente? Forse non se ne farà nulla, ma ho visto molte occhiate concupiscenti piovere sulla mia stesura scritta di notte. Quella non didattica, quella teatrale. Quella bella.

 

Feb 25, 2010 - grillopensante, scrittura    Commenti disabilitati su Cambiamento Irreversibile

Cambiamento Irreversibile

Holly, la mia writing teacher americana, dice che a dare spessore al conflitto e alle motivazioni dei personaggi è il cambiamento irreversibile.

Per capirci, supponiamo che Janey si faccia inavvedutamente tingere i capelli di rosa shocking: tutti (lei compresa) trovano che stia malissimo, e lei è molto angosciata dalla faccenda, la sua migliore amica la prende in giro, il suo ragazzo le dice ripetutamente quanto poco le doni quel colore… Sì, il conflitto c’è, ma poi i capelli crescono, Janey se li taglia molto corti, trova che il nuovo stile le doni assai, fa pace con l’amica del cuore e con il ragazzo… fine. Non precisamente una storia di spessore, giusto?

Supponiamo, tuttavia, che il meschinissimo datore di lavoro di Janey colga il pretesto dei capelli rosa per licenziarla (diciamo che J. lavorasse per un’impresa di pompe funebri: il rosa shocking è singolarmente indatatto, giusto?), che l’amica del cuore la prenda in giro piuttosto crudelmente davanti a tutti, che il litigio con il ragazzo si faccia drastico… Dopo averci pianto sopra ed essersi commiserata un po’, Janey decide che forse aveva sbagliato tutto fin dapprincipio: con la supposta amica c’era in realtà solo un legame superficiale, e a pensarci bene, il ragazzo non aveva mai tollerato troppo che lei facesse alcunché senza la sua approvazione. E il lavoro… era sicuro, era tranquillo, ma era veramente quello che voleva? E da qui si apre ogni genere di possibilità: Janey, con i suoi capelli rosa, potrebbe fare la cameriera in un pub intanto che cerca un lavoro di suo gusto, potrebbe decidere di lasciare definitivamente il ragazzo prepotente che pure ama molto*, potrebbe trovare il coraggio d’inseguire i suoi sogni, fare un provino per un musical, fare della gavetta, trovare le amicizie e l’amore della vita… D’accordo, nemmeno questo vincerà il Nobel per la letteratura, ma di sicuro il conflitto è un po’ più consistente, giusto?

E il punto è che nel primo caso sapevamo tutti (e Molly per prima) che i capelli rosa sarebbero stati un problema transitorio; mentre nel secondo caso i capelli rosa sono altrettanto transitori, ma scatenano una serie di effetti irreversibili: il licenziamento, la rottura con l’amica, il rivelarsi della vera natura del giovanotto… Molly non può tornare indietro, e quindi il modo in cui va avanti diventa all’improvviso molto più interessante.

Poi non è così semplice, in realtà.

In Via col Vento, la Guerra di Secessione sconvolge il mondo di Rossella. Però, mentre tutto le frana attorno, lei si rifiuta di accettare l’irreversibilità del cambiamento: vuole ricostruire Tara com’era prima, continua a credere che Ashley finirà con l’amarla, in pieno bombardamento di Atlanta vuole soltanto tornare a casa, passa allegramente sopra due successive vedovanze e tre maternità, si affanna per recuperare la sua vita agiata e felice…  Il punto del conflitto è proprio questo: Rossella vs. i cambiamenti irreversibili. Nemmeno si accorge di cambiare (e in parte maturare, ma non molto) a sua volta, tanto è occupata a rivolere tutto com’era prima.

Per contro, in Lord Jim, nessuno sembra considerare irreversibile il guaio di Jim, tranne lui. Sì, è vero, la sua patente di ufficiale mercantile è perduta dopo l’incidente del Patna, ma forse si sarebbe potuto evitare anche quello, se solo si fosse difeso affermando di avere obbedito agli ordini. Tuttavia, a Jim importa meno della patente che della macchia indelebile sulla considerazione che ha di se stesso, ed è da quella macchia che scapperà per tutta la sua vita, sempre nella direzione più sbagliata possibile, finendo col perdere rovinosamente anche la redenzione che pure si è procurato. E’ Jim a considerare irreversibile il cambiamento, e a bruciare dietro di sé, uno dopo l’altro, ponti che sarebbero ancora perfettamente utilizzabili.

E in generale, la letteratura è piena di gente che cerca di riportare le cose com’erano, di recuperare quello che ha perduto: le loro storie ci toccano e ci coinvolgono di più se non è possibile. E allora, o i nostri eroi riescono a ottenere qualcosa d’altro, e abbiamo un lieto fine; oppure non ci riescono. Oppure ancora muoiono nel riuscirci: come Maggie e suo fratello Tom che, nel Mulino sulla Floss, superano l’astio che li aveva divisi solo sul punto di morire insieme.

E quindi, forse, qualificherei l’affermazione: a dare spessore al conflitto (e di conseguenza alle storie) può essere sì il cambiamento irreversibile, ma anche la tensione fra il cambiamento irreversibile e la volontà dei personaggi di recuperare ciò che il cambiamento irreversibile ha spezzato.

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* Bisogna assolutamente che lo ami, e possibilmente che lui abbia anche delle buone qualità che rendano difficile lasciarlo, sennò dov’è il conflitto? Nella peggiore delle ipotesi, può avere plagiato Janey, o può avere il modo di ricattarla… Oh, dear. Sto degenerando in direzioni vieppiù d’appendice, vero? Questo esempio dei capelli rosa non mi fa bene.

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