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La Sindrome Del Nome Ricorrente

NamesJAAncora nomi. La Sindrome Del Nome Ricorrente in realtà non è una malattia specifica – è un sintomo che capita agli scrittori per le ragioni più diverse.

Pare che Jane Austen spendesse un sacco di tempo nello scegliere i nomi dei suoi personaggi maschili, cambiandoli più volte mentre scriveva – salvo poi riutilizzare spesso gli stessi: Charles, Henry, Frederick, John, William, James e George ritornano in quasi tutti i romanzi. E non è che la upper-middle class e landed gentry inglesi dell’epoca fosse incline a usare nomi eccentrici, ma bisogna supporre che quella manciata di nomi alla Zia Jane piacessero davvero. Incidentalmente erano tutti nomi appartenenti ai suoi numerosi fratelli… E non contenta di questo, nell’incompiuto The Watsons si era scelta una seconda eroina di nome Emma.

Anche Stevenson doveva avere una fantasia limitata in fatto di nomi: la popolazione di Treasure Island contiente ben quattro John (Silver, Trelawney e due marinai) e due Richard. Per cui interrogarsi sulla presenza di due Christina nell’incompiuto Weir of Hermiston diventa quasi buffo. E i due James in due libri diversi (Jim Hawkins e il Master of Ballantrae) passano quasi sotto l’uscio, no?

NamesAlexiosNaturalmente tutto ciò avveniva prima che i manuali di scrittura prosperassero consigliando di evitare come la peste nomi troppo simili tra loro. Questa è una faccenda su cui tendo ad essere of two minds: da un lato voglio dar credito ai miei simili di saper distinguere fra due personaggi nonostante un’iniziale in comune – dall’altro… be’, non si sa mai, vero? E in linea generale, better be safe than sorry, e nel mio eterno lavoro in corso sulla caduta di Costantinopoli sto ancora cercando un nome per un ufficiale bizantino che non può più chiamarsi Alexios, essendo il coprotagonista veneziano nomato Alvise.

Tuttavia, quando si scrivono romanzi storici, capita di non poterci fare molto: pensate a Vingt Ans Après, in cui compaiono il Principe di Condé, suo fratello il Principe di Conti e poi il Coadiutore Gondi… Ammetto che un nonnulla di confusione può sorgere, ma non è come se Dumas avesse avuto scelta.

Un caso peggiore se l’è trovato davanti Peter Wheelan, con il suo dramma storico The School of Night. Trovandosi NamesWhelannella necessità documentata di avere due Thomas in scena, ha scelto la soluzione spudorata: ne ha aggiunto un terzo fittizio – in realtà Shakespeare sotto falso nome – ha affidato a Marlowe un commento infastidito in proposito (What, is all the world named Tom, these days?) e una sbrigativa suddivisione in Tom, Tam e Thomas. Non sono certa di trovare l’insieme convincentissimo, ma ammetto che era interamente necessario, visto che a teatro non si può nemmeno tornare indietro di qualche pagina per ricapitolare chi è chi.

Poi ci sono casi in cui si può solo immaginare un’antipatia da parte dell’autore, come i Simon di Josephine Tey. Di Josephine Tey/Gordon Daviot ho letto, tra romanzi e lavori teatrali, una decina di titoli, e mi sono imbattuta in tre Simon. Il Simon del semigiallo (con agnizioni e controagnizioni) Brat Farrar, rampollo della landed gentry, è un affascinante manipolatore, parimenti privo di carattere, backbone e senso morale. Il Simon del dramma storico riccardiano Dickon è un paggio avido e voltagabbana, con un gusto per i risvolti più crudeli delle politiche di corte. E il Simon dell’atto unico Barnharrow è un essere velleitario, ansioso e petulante – che si lascia trascinare dal fanatismo altrui, con conseguenze fatali. Personaggi abbastanza diversi, nel complesso, accomunati dal senso morale di una traversina ferroviaria e dal fatto di essere prole degenere di ottime famiglie che non hanno fatto nulla per meritarli. Difficile non pensare a un’incoercibile avversione per il nome. Non ho mai letto una biografia della Tey abbastanza dettagliata da sapere se ci fosse nella sua vita un Simon a giustificare la faccenda, ma sarei curiosa.

Così come sarei curiosa a proposito di Agatha Christie, i cui (non numerosissimi) Michael tendono a essere vittime o assassini. Anche gli aviatori della zia Agatha tendono a morire presto, e quello, si sa, è in tenero omaggio al primo e fedifrago marito Archie Christie. E quindi una certa tendenza alla vendetta per iscritto c’è: chi sarà mai stato il Michael in questione?

E comunque va a sapere. Battezzare un personaggio è una faccenda complicata e laboriosa, e a volte c’è gente che si rifiuta di avere una voce o di essere scritta come si deve finché non si ritrova con il nome giusto. Suono, associazioni mentali, plausibilità storica, geografica e sociale, simpatie e antipatie, precedenti letterari – ci sono treni merci di motivi per scegliere o non scegliere un nome. E magari può capitare che, dopo averne trovato uno che va proprio bene, sembri uno spreco usarlo una volta soltanto?

Lug 17, 2017 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Cappa (estiva) & Spada

Cappa (estiva) & Spada

Achard“Com’è, o Clarina, che non fai più quei post d’inizio estate in cui consigliavi letture vacanziere?”

Vero – un tempo facevo questa cosa, e poi non l’ho fatta più… E ho paura di non farla nemmeno quest’anno, non tanto per malvagità o terribile pigrizia – quanto per motivi linguistici: arrossisco nel confessar di leggere talmente poco in Italiano, che non ho granché da consigliare…

Però ho qualcosa da farvi vedere – che potrebbe tradursi in una lista di letture estive oppure no, ma è eminentemente estiva nella sua natura.

Allora, dovete sapere che qualche tempo fa, mentre lavoravo a un progetto non Gerardnarrativo, mi sono imbattuta in una collana di romanzi avventurosi che la Mondadori pubblicò tra il 1933 e il 1935, chiamata Romanzi di Cappa e Spada. Armi e Amori. La collana conta trentaquattro titoli, con qualche classico del genere in mezzo a parecchie faccende oscure & dimenticate. C’è una certa quantità di historicals di Arthur Conan Doyle, primo tra tutti il meraviglioso Gérard*. Poi ci sono titoli minori di qualche autore celebre, come i due Dumas e la baronessa Orczy (meglio nota per il ciclo de La Primula Rossa). E poi ci sono autori che ormai ammontano quasi a una bizzarria bibliografica, tanto sono dimenticati come W.H. Ainsworth, contemporaneo e rivale di Dickens, autore del terribile L’Ammirabile Crichton, come Amedée Achard, iperattivo autore francese cui si attribuisce (erroneamente**) la definizione del genere “cappa e spada” e il buon Maquet, il collaboratore di Dumas padre, che ogni tanto scriveva anche in proprio.

MaquetMolti di questi autori di cappa e spada erano gente incredibilmente prolifica, con dei trenta o quaranta titoli accanto a rispettabili carriere più o meno d’altra natura. Achard era un giornalista e autore teatrale, Maquet lavorava appunto con il già straripante Dumas, Hauff era l’istitutore dei figli del ministro Von Hugel nonché un autore di fiabe (e morì a venticinque anni, quindi fece davvero tutto molto in fretta), Doyle aveva il suo daffare con Sherlock Holmes…

Ogni volume – o piuttosto numero, perché la collana si considerava un periodico – includeva, oltre al romanzo, “problemi polizieschi, varietà, passatempi, ecc.” (il n° 30 contiene persino una novella della Christie) e costava 2 lire.

Tre soltanto i romanzi italiani, uno dei quali di Alfredo Pitta, inoltre traduttore della maggior parte dei titoli inglesi, francesi e tedeschi***.

Il catalogo è una meraviglia: il solo elenco dei titoli è sufficiente a risvegliare l’undicenne che è in tutti noi – e spedirlo in soffitta a cercare spada di legno e mantello fatto con la tenda della nonna.

1. Giachetti, Cipriano, La tabacchiera dell’imperatore

2. Dumas, Alexandre père, Le due regine

3. Maquet, Auguste Jules, Gerardo di lavernie

4. Maquet, Auguste Jules, Il buffone gentiluomo

5. Maquet, Auguste Jules, La caduta di Satana

6. Maquet, Auguste Jules, La conquista di Parigi

7. Haggard, H. Rider, Iduna la bella  

8. Achard, Amedée, I leoncelli

9. Achard, Amedée, Il Figlio del falconiere

10. Achard, Amedée, Il serpente  

11. Achard, Amedée, Il vello d’oro  

12. Achard, Amedée, Le lame rosse  

13. Achard, Amedée, Un guascone a Parigi

14. Hauff, Wilhelm, Il castello di Lichtenstein  

15. Hauff, Wilhelm, Il cavaliere ignoto

16. Doyle, Arthur Conan, Le guasconate di Gérard

17. Pitta, Alfredo, I Cinque falchi

18. Ainsworth, William Harrison, L’ammirabile Crichton

19. Doyle, Arthur Conan, Il pretendente  

20. Doyle, Arthur Conan, I tre venturieri  

21. Doyle, Arthur Conan, Il principe nero  

22. Doyle, Arthur Conan, Le cinque rose  

23. Doyle, Arthur Conan, Le tre imprese

24. Doyle, Arthur Conan, Nuove imprese di Gérard  

25. Doyle, Arthur Conan, Saxon, l’avventuriero  

26. Doyle, Arthur Conan, Il castello della paura

27. Barrili, Anton Giulio, Diana degli embriaci  

28. Ainsworth, William Harrison, La figlia dell’astrologo  

29. Orczy, Emmuska, Fiocco di neve  

30. Orczy, Emmuska, I candelieri dell’imperatore [segue Il secondo Gong. Novella di Agatha Christie]

31. Orczy, Emmuska, Un Fiore nel turbine  

32. Montepin, Xavier de, Capitan Rolando

33. Montepin, Xavier de, Il vendicatore  

34. Dumas, Alexandre fils, Il romanzo del Salteador  

HauffAssolutamente meraviglioso. Non v’immaginate di essere ragazzini negli Anni Trenta, di aspettare in devozione il prossimo volume, di divorarlo di nascosto quando dovreste già essere a dormire e di giocare al figlio del falconiere o al cavaliere ignoto con i vostri amici?

E se poi volete pescare qualche lettura estiva, ci sono sempre le bancarelle dei libri usati, le biblioteche (e non dimenticate le meraviglie del prestito interbibliotecario) e, se avete voglia di cimentarvi con gli originali, il Project Gutenberg, Internet Archive o siti dedicati come DumasPère.

E dài, dopo tutto sono stata bravina: avventure avventurose, make believe, un po’ di caccia al tesoro… potrebbe essere più estivo di così?

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*  Ebbene sì, oltre a scrivere Sherlock Holmes e fotografare le fate, Doyle scriveva anche romanzi storici. Iperattivo ancihenò. Consigliatissime sono le irresistibili avventure napoleoniche del Brigadiere (nel senso di Generale di Brigata) Gérard, di cui esistono edizioni più recenti, come una Mondadori del ’95 e una Fabbri del ’02 – magari da leggersi insieme ai Memoirs de Marbot, cui sono ispirate.

** In realtà fu Ponson du Terrail, ma poi Achard pubblicò un romanzo intitolato La Cappa e la Spada, e fine della storia.

*** Il che significa che il signor Pitta ha tradotto 28 romanzi in tre anni. Complimenti.

 

Giu 17, 2016 - grilloleggente, libri, libri e libri, pennivendolerie    Commenti disabilitati su Titoli

Titoli

TitleSono alla disperata caccia di un titolo, un titolo, un titolo per un racconto – il che, come spesso accade, mi ha portata non a un titolo come sarebbe tanto necessario, ma a ogni genere di rimuginamenti in proposito. Confesso di avere un’ossessione per i titoli – quasi pari a quella che ho per i nomi. E in fondo, che cos’è un titolo se non il nome di un libro?

Le due cose tendono a coincidere, tra l’altro, nella vasta serie di casi (spesso ottocenteschi) in cui il libro trae il suo titolo dal nome del protagonista, come Jane Eyre, David Copperfield*, Anna Karenina, Martin Eden, Daniel Deronda, Lucien Leuwen, Ermanno Raeli e via dicendo. Nome e cognome e basta, senza specificazioni di sorta. Qualche volta, addirittura solo il nome, come Emma. In questi casi immagino che tutto dipenda dalla simpatia del lettore per il nome specifico e da un minimo di attenzione nell’evitare cacofonie. Le cose cambiano appena quando il titolo indica rapporti di parentela (I Fratelli Karamazov, Le sorelle Materassi, La Cugina Bette, I Buddenbrook, Otto Cugini) oppure titoli e funzioni (I Viceré, Il Signore di Ballantrae, Il Colonnello Chabert, Il Piccolo Principe).

Ma questi sono casi “facili”, tutto sommato: sappiamo di doverci aspettare la storia dell’individuo o della famiglia il cui nome appare in copertina. A dispetto dei casi ingannevoli – Il Signore degli Anelli è in realtà l’antagonista, mentre il titolo apparentemente nobiliare di Lord Jim (combinato tra l’altro con un diminutivo non particolarmente aristocratico, al pari del Ruy Blas di Hugo) si rivelerà essere ben altro – tendiamo a sapere che cosa aspettarci da un titolo di questo genere.

La narrativa di genere ha talvolta titoli che abbinano il nome di un protagonista ricorrente a qualcosa di descrittivo: Poirot a Styles Court, Maigret e il Lettone**, ma non è necessariamente così. I gialli di Sherlock Holmes sono tanto di genere quanto si può esserlo, ma hanno titoli evocativi come Uno Studio in Rosso e La Banda Maculata. Agatha Christie alterna what-it-says-on-the-tins come Assassinio Sull’Orient Express a eccentricità come Perché Non L’Hanno Chiesto A Evans, per non parlare delle citazioni: Sento I Pollici Che Prudono o And Then There Were None***.Titles

Citazioni e titoli descrittivi abbondano al di fuori della narrativa di genere. La Battaglia, I Miserabili, La Rivolta Nel Deserto, 1984, Guerra e Pace ed altre cose autoevidenti da un lato; e dall’altro L’Inverno Del Nostro Scontento, Fuoco Pallido, Le Armi E L’Uomo…****

Poi ci sono le cose semi-ermetiche, il cui senso si paleserà (se siamo fortunati) leggendo il libro, come Il Rosso e il Nero, Farhenheit 451, Uno, Il Nome Della Rosa, citazioni del libro stesso, come La Coppa D’Oro o L’Eleganza Del Riccio, metatitoli come Se Una Notte D’Inverno Un Viaggiatore o Gl’Insorti di Strada Nuova, nomi di posti come Mansfield Park o Una Terra Chiamata Alentejo, titoli ricattori tipo Va’ Dove Ti Porta Il Cuore, titoli che non sono affatto quello che sembrano, à la Pfiz, O La Città Perfetta e Cento Colpi Di Spazzola…

E poi mi fermo qui, ma si potrebbe continuare a lungo. Alle volte si spendono quasi più pensieri, dubbi e succo di meningi sul titolo che sul romanzo; alle volte non si trova affatto il titolo giusto; alle volte viene giù come un colpo di fulmine; alle volte arriva un titolo perfetto – peccato che non ci sia ancora il libro, e il guaio è che non si può registrare, brevettare o accaparrare un titolo in alcun modo se non pubblicando il libro relativo; alle volte ci s’imbatte in siti che propongono generatori di titoli, per scherzo o ne producono a pagamento sul serio*****; alle volte se ne escogita uno perfetto e poi è talmente perfetto che qualcun altro lo usa prima di noi; alle volte se ne elucubra uno con fatica e affetto e poi l’editore lo cassa senza un’ombra di remora…

Viene da pensare che si potrebbe scrivere romanzi solo sulla genesi dei titoli, vero? Ne riparleremo.

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* E Oliver Twist, Martin Chuzzlewith, Barnaby Rudge, Nicholas Nickleby…  a Dickens piaceva questa maniera.

** Che cito confessando di avere creduto, da bambina, che vi si parlasse di un grosso letto – e invece era un abitante della Lettonia…

*** Che sarebbe Dieci Piccoli Indiani, ma la traduzione non è, come l’originale,  l’ultimo verso di una filastrocca leggermente macabra.

**** Shakespeare è una vera miniera da questo punto di vista, e qui c’è una piccola lista di titoli tratti dai suoi versi.

***** Hanno persino la tariffa maggiorata per le urgenze!!

Mezzaloghi

phone1.jpgC’è questa cosa che voglio provare da un sacco di tempo – solo che, per un motivo o per l’altro, non sono mai andata al di là di un tiepido tentativo defunto in culla.

Vediamo se scriverlo qui mi serve da sprone – e vediamo anche di che si tratta.

Allora, la faccenda è questa: qualche tempo fa un team di psicologi della Cornell University ha condotto uno studio che dimostra come sentire solo un lato di un dialogo (per esempio ascoltare qualcuno che parla al cellulare) catturi l’attenzione dell’ascoltatore molto più di un dialogo completo.

Ai soggetti dell’esperimento veniva assegnata una serie di compiti che richiedevano attenzione e concentrazione, poi il ricercatore avviava una registrazione che poteva essere un dialogo completo, un “mezzalogo”* o un monologo, e raccomandava al soggetto di non badare al rumore e concentrarsi su ciò che doveva fare. Abbastanza crudele, non trovate?

Ad ogni modo, i risultati peggiori (risposte errate o mancanti o altri errori) corrispondevano sempre ai casi in cui la distrazione era costituita dal mezzalogo.missing piece

E questo perché il cervello umano è irresistibilmente attratto dalle informazioni mancanti. Potendo scegliere fra una situazione in cui tutto è esplicito e una piena di buchi, le nostre Piccole Cellule Grigie (per dirla con Poirot) si gettano sulla seconda senza la minima esitazione: cercano di ricostruire le parti mancanti, fanno ipotesi, traggono conclusioni e, nel complesso, si comportano come bambini in un parco giochi. In un certo senso lo sapevamo già: basta pensare all’intramontabile successo di indovinelli, quesiti, misteri, gialli et caetera similia, dal mito della sfinge a Stieg Larsson, passando per l’irresistibile monologo al telefono di Gigi Proietti (che, adesso lo sappiamo, è in realtà un mezzalogo).

QuestionMeglio metterci tutti a scrivere gialli, allora? Oddìo, forse è un campo più redditizio di tanti altri – ma in realtà il principio si può applicare a tutti i generi, perché l’informazione incompleta è sempre materia di conflitto – e il conflitto, lo sappiamo, è la materia prima di cui son fatte le storie – o, nella più blanda delle ipotesi, di curiosità. Per cui è spesso un’ottima cosa lasciare il lettore all’oscuro di qualche particolare, e lo è sempre lasciare uno o più personaggi all’oscuro di qualcosa che il lettore sa – o crede di sapere. E in realtà, perché non tenere all’oscuro i personaggi e anche il lettore, dandogli però modo di trarre conclusioni sbagliate per poi sorprenderlo? Questo era, tra l’altro, il metodo di Agatha Christie.

E per far passare informazioni incomplete o fuorvianti, un mezzalogo è un buon sistema. Non è nemmeno detto che serva un telefono: un confessionale? Una porta chiusa? Un corridoio molto rumoroso? Solo metà di un epistolario? Un compagno immaginario? Le possibilità non mancano. E dite la verità: non vi viene voglia di provare a raccontare una storia tramite un mezzalogo?

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* Halfalogue, in originale…

 

Dic 23, 2015 - Natale    4 Comments

Natale per Iscritto – Parte II

large_a-christmas-carolE poi ci sono le storie completamente natalizie. In genere si tratta di racconti e, nella maggioranza dei casi, di uno tra due schemi collaudati, mututati dalle fiabe: a) qualcuno di malvagio/duro/egoista riceve dimostrazione/prova/spavento e si converte/redime/convince/riscatta/raddolcisce giusto in tempo per Natale; oppure b) qualcuno di innocente e buono viene a trovarsi (o si trova già) nei guai ma poi tutto si risolve, in genere nel corso della notte di Natale. Qualche volta si può anche avere una combinazione di a) e b).

Suona familiare? Potete giurarci: da Canto di Natale alle innumerevoli commedie americane dicembrine, gli autori non fanno altro che combinare una tra le più vecchie e collaudate strutture narrative con questo elemento dall’irresistibile appeal, il Natale. Aggiungete vischio, porporina, l’occasionale intervento superno e il fattore L (come lucciconi), perché non è che gli autori di racconti siano al di sopra di un po’ di ricatto.

Così si può cominciare con il tenero e lievemente oleografico I doni dei Magi, di O. Henry, il cui piccolo conflitto (due giovani sposi squattrinati che non possono permettersi il regalo perfetto per l’amato bene) si risolve in una celebrazione stagionale della generosità dell’amore.gift-magi-o-henry-hardcover-cover-art

Nella più perfetta tradizione del tipo a) s’inserisce il Racconto di Natale di Dino Buzzati, il cui pregio maggiore, secondo me, risiede nell’atmosfera sospesa e misteriosa, a partire da quel meraviglioso palazzo arcivescovile, “tetro e ogivale”, “stillante salnitro dalle pareti”.

Guido Gozzano ha tentato di non essere convenzionale nel piccolo Il dono di Natale, affidando il ruolo di strumento dell’intervento superno a un giovane ladro dal cuore d’oro (e dall’infanzia infelice). Viene da chiedersi se i due orfanelli “beneficati” non finiranno nei pasticci per tutti quei giocattoli rubati proprio nel negozio accanto, ma non stiamo a cercar peli nell’uovo, giusto? È Natale, dopo tutto… Come pure è Natale in Natale a Ceylon, una delle lettere dalla Cuna del Mondo, in cui il narratore/viaggiatore cerca di non struggersi troppo nella lussureggiante calura cingalese – finché non lo colgono a tradimento le campane della cappella cristiana all’altro capo della valle, e allora come cambierebbe tutte le meravigliose orchidee del suo giardino in prestito per un ramo d’agrifoglio e la neve di Casa, all’altro capo del mondo!

Siamo singolarmente allegri quest’oggi, vero? Ma c’è di peggio. Essendo i Russi il gaio popolo che sono, Checov scardina lo schema per offrirci il desolato Attorno a Natale (solo traduzione inglese, sorry): due anziani genitori analfabeti fanno scrivere una lettera per la figlia sposata di cui non hanno notizie da anni. Nonostante uno scrivano pubblico disonesto e un marito brutale, la figlia segregata riceve la lettera, ma non ci sarà risposta. Non c’è redenzione, non c’è lieto fine, non c’è intervento divino, non ci sono ladruncoli di buon cuore: solo una buona dose di pessimismo slavo e la crudeltà del destino.

matchgirl3Natalizia ma tutt’altro che allegra è anche la Piccola Fiammifferaia – che in teoria appartiene alla categoria b), con la povera orfanella cui capita proprio di tutto, senza che nulla si rislova per il meglio… A meno di voler considerare un lieto fine il meraviglioso albero di Natale che appare nella luce dell’ultimo fiammifero e la nonna defunta che viene a recuperare la defungenda bambina… Be’, immagino che a suo modo sia un lieto fine, con il fattore L a livelli himalayani.

Per proseguire con una nota meno cupa, parliamo di omicidi, volete? Ad Agatha Christie non dispiaceva ambientare qualche storia nel periodo natalizio, ogni tanto. Così al volo me ne vengono in mente almeno due: Il Natale di Poirot, in cui il vecchio capofamiglia avaro e dispotico non ha il tempo di ravvedersi per Natale, visto che viene assassinato. E poi c’è The adventure of the Christmas pudding, un racconto breve di cui non ricordo il titolo tradotto, in cui Poirot viene invitato in una casa di campagna per indagare su una faccenda di rubini rubati e pasticci avvelenati*. Mi ha sempre divertita il fatto che l’intrusione di un investigatore belga nel Natale altrui fosse giustificata con il desiderio dello straniero di vedere “un vero Natale inglese”.

Poi ci sono piccole bizzarrie fiabesche, come lo Schiaccianoci – nella versione tedesca di Hoffmann e in quella francese di Dumas – che secondo me funziona per due terzi. Non so che farci: trovo incantevoli l’attesa, i giocattoli nell’armadio, l’albero di Natale, la festa, il padrino Drosselmayer, i regali meravigliosi, l’incidente con lo Schiaccianoci, il Re dei Topi, la battaglia notturna… Poi si può dire che la storia finisce, perché tutto il viaggio nel regno fatato… mah. Non c’è più nessuna tensione, nessuna attesa, nessun mistero. Ma pazienza – la prima parte è deliziosa. DickensTree2

E finisco con qualcosa che, a rigor di termini, un racconto non è. Dickens scrisse altre cose natalizie oltre ad A Christmas Carol – o quanto meno le scrisse per Natale. Non tutte sono ambientate per Natale, ma A Christmas Tree lo è. Però non è un racconto. È un bozzetto, sono ricordi… Più di tutto, il ricordo dolceamaro di tutti i Natali passati, che nell’immaginazione dello scrittore prende la forma di un abete capovolto che germoglia dal soffitto della sua stanza per fargli compagnia la notte di Natale.

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* Qui il pudding si fa in casa, ogni anno. Senza veleno. Di solito è molto buono – e nessuno dei miei ospiti è mai morto mangiandone…

 

Ott 9, 2013 - libri, libri e libri, teatro    Commenti disabilitati su Assassinio Sul Palcoscenico

Assassinio Sul Palcoscenico

 

teatro, gialli, agatha christie, josephine tey, n'gaio marsh, nicola upson, barry unsworthImmaginate un posto labirintico e pittoresco, pieno di angoli bui e ogni genere di bizzarri attrezzi, popolato di gente temperamentale con tendenza all’egocentrismo che pratica la finzione per mestiere, percorso da rivalità e carrierismo di notevole ferocia… 

Non vi sembra perfetto per quantità industriali di omicidi? 

Be’, siete in buona compagnia: da decenni sembra perfetto a un sacco di giallisti che ambientano le loro storie a teatro e nell’ambiente teatrale…

In realtà dubito che attori, registi e autori teatrali abbiano una tendenza a delinquere superiore alla media. Al momento mi viene in mente soltanto Ben Jonson che uccide Gabriel Spenser in duello – ma ammetto che, essendo successo quattrocento e tanti anni fa, non è terribilmente significativo.

E se vogliamo, anche Marlowe passò un paio di settimane a Newgate per concorso in omicidio (compiuto più o meno per autodifesa da un altro autore teatrale, Thomas Watson), e morì accoltellato in una rissa… ma di nuovo, stiamo parlando di Elisabettiani.

E tuttavia, svariati secoli più tardi, nell’epoca d’oro del giallo classico inglese, si sviluppò una considerevole tendenza a far maturare delitti tra le sensibilità arroventate e le scarse inibizioni dei teatranti.teatro, gialli, agatha christie, josephine tey, n'gaio marsh, nicola upson, barry unsworth

Cominciamo pure da Agatha Christie, i cui attori – dalla Lady Edgware di Tredici a Tavola al Charles Cartwright di Tragedia in Tre Atti, non sono sempre creature equilibratissime. Badate, non sto dicendo che siano necessariamente assassini – ma di sicuro muovono parecchio la trama a furia di temperamento, ambizioni e mancanza di scrupoli.

Con Ngaio Marsh, poi, non c’è gioco. La signora era una regista e insegnante di teatro, per cui l’ambientazione le riusciva naturale. Tanto che, lo confesso, i gialli della Marsh li leggo, più che per l’indagine, per l’aguzzo ritratto dell’ambiente teatrale. Aguzzo e vario: per citare solo un paio di titoli, se il gaio e ironico Death at the Dolphin è costruito intorno al sogno di ogni autore teatrale degno del nome (meno l’omicidio, magari…), il più tardo First Night non risparmia nulla della fatica, delle perfidie e dell’occasionale squallore nascosti dietro le quinte di una produzione.

Dopodiché non sempre i delitti avvengono tra camerini, boccascena e magazzino degli attrezzi. Nessun romanzo di Josephine Tey è ambientato a teatro (anche se The Man in the Queue inizia davanti a un teatro del West End, e la Christine di A Shilling for Candles è un’attrice), ma Marta Hallard, la grande amica dell’Ispettore Grant, è un’attrice teatrale – e frequenta di conseguenza, cosicché attori, autori, registi e produttori non mancano mai.

teatro, gialli, agatha christie, josephine tey, n'gaio marsh, nicola upson, barry unsworthA questo proposito, potrei citare la contemporanea Nicola Upson, che proprio della Tey ha fatto la protagonista della sua serie di gialli. Nel primo volume, An expert in murder, Josephine e Archie Penrose indagano su due omicidi commessi durante l’ultima settimana di repliche del successone teyano Richard of Bordeaux. Per un motivo o per l’altro, mezza popolazione del teatro si ritrova ad avere mezzo, movente od occasione – e forse la maggiore delizia di questo libro sta nei personaggi modellati su gente come John Gielgud o le sorelle Harris di Motley, autentica fauna del West End anni Trenta.

Quindi, vedete, la tradizione continua ininterrotta ai giorni nostri. Spesso, è  vero, continua nei gialli storici. Qualche volta i protagonisti sono fittizi, come l’ur-direttore di scena elisabettiano Nicholas Bracewell di Edward Marston, o il farmacista settecentesco John Rawlings di Deryn Lake – che teatrante non è, ma a un certo punto della sua carriera si ritrova a investigare sulla morte di un primattore assassinato in scena al Drury Lane. Altre volte, il protagonista/detective è un personaggio storico, come il Tom Nashe di Mike Titchfield, o i (plurale) Kit Marlowe di M.J. Trow e Sarah D’Almeida.

Discorso a parte merita il bellissimo e già citato Mystery Play – La Commedia della Vita di Barry Unsworth, in cui un capocomico tardomedievale e i suoi attori risolvono un omicidio abbandonando la vecchia tradizione teatrale dei Misteri. Francamente, in questo caso, l’omicidio non è del tutto rilevante, se non come indovinello viscerale, cui offrono soluzione l’arte e la conoscenza.

Col che non voglio dire che il filone sia confinato ai secoli passati. Non vi stupirete se confesso di non leggere molti gialli di ambientazione contemporanea, ma basta contare quanti episodi de La Signora in Giallo siano ambientati a teatro e abbiano per vittima o assassino un attore, un autore, un regista, un produttore. O un critico – non dimentichiamoci dei critici. Ed è vero, eravamo tra gli anni Ottanta e Novanta, but still.

Perché alla fin fine, il teatro è sempre quel luogo di buio e luci parimenti artificiali, di illusioni, di corde, di armi finte, di gelosie, di apparenza che inganna, di false prospettive, di controllo supremo unito all’impulsività più scoperta. E se niente e nessuno è quel che sembra, torno a chiedervelo: c’è posto più adatto a mettere in scena un assassinio?

Agatha & C. All’Indice

Davvero non so come mi sia potuto sfuggire – o forse lo so: gl’implumi delle mie tre classi si divertono un mondo quando, dopo ogni lezione, con micidiale infallibilità, si rende necessario rincorrermi per i corridoi perchè ho dimenticato in aula la cartella, la borsa, il computer, il giaccone o qualche scartafaccio assortito…

E non ho nemmeno quarant’anni. Che ne sarà di me quando ne avrò ottanta?

Oh well, non divaghiamo. Il punto è che quasi un mese fa è uscito il mio articolo sulle gialliste inglesi della Golden Age su L’Indice Online.

Christie, Sayers, Tey, Allingham, Heyer, Marsh… tutte quelle signore che scrivevano di delitti, e i loro detective di buona famiglia – una sorta di club per soli uomini, se non fosse per Miss Marple…

Ad ogni modo, seppur con ritardo, vi segnalo che l’articolo si trova qui.

Vi va di dargli un’occhiata?

Il Figlio Del Fattore

Una decina di anni fa, dopo avere letto il primo volume della mia inedita trilogia sulle guerre di Vandea, P. mi fece una lunga e dettagliata disamina del tomo, nel bene e nel male. “Oh,” mi disse a un certo punto, “e non sai quanto mi è dispiaciuto per il figlio del fattore.”

 Se aveva voluto basirmi, c’era riuscita. Il romanzo sfiora le duecentocinquantamila parole e l’elenco dei suoi personaggi somiglia all’anagrafe di un piccolo comune. Francamente, pur avendo finito di scrivere il tutto da pochi mesi, non mi ricordavo nemmeno io chi fosse il figlio del fattore, e che cosa gli succedesse per far dispiacere P. Presumibilmente ci lasciava le penne, dato il tipo di storia e di ambientazione, ma non ne ero per niente sicura, e lo dissi.

 P. scrollò le spalle. Non sapeva che cosa farci se ero un essere senza cuore che creava gente e la mandava al macello senza nemmeno ricordarsene: a lei il figlio del fattore piaceva, e aveva anche versato una lacrimuccia o due sulla sua sorte.

 “Non si può negare che tu l’abbia letto approfonditamente,” dissi, e la cosa finì lì. Tuttavia, ogni tanto ancora mi chiedo che cosa avesse il figlio del fattore per imprimersi così nella mente di P., che ancora si ricorda di lui.

 E d’altra parte, chi ero io per protestare, considerando la collezione di personaggi minori – minorissimi a cui mi capita di affezionarmi al di là delle intenzioni dell’autore? Non posso nemmeno dire che siano casi isolati: lo faccio tutto il tempo, tanto da poter individuare alcune categorie del fenomeno:

 1) Felice Cammeo: ne Il Discepolo del Diavolo, di George Bernard Shaw, il Maggiore Swindon (credo che ne abbiamo parlato di recente) è quel che si dice un bit-parter. Credo che abbia una ventina di battute, nessuna delle quali troppo notevole. Swindon è un magistrato militare coscienzioso e non brillantissimo, che cerca di restare inglesemente inglese mentre le colonie delle Indie Occidentali gli crollano attorno. Non è importante, non è nemmeno molto simpatico, ma è così ben caratterizzato che è difficile non dispiacersi un pochino per lui mentre gli altri personaggi fanno dello spirito ai suoi danni e su tutto quello che per lui è sacrosanto. Pennellata minore e ben riuscita.

 2) Sidekick Sottoutilizzato: ho difficoltà a identificarmi con i protagonisti senza macchia e senza paura, che ci posso fare? Non ricordo chi fosse l’autore delle Avventure di Robin Hood che ho letto da ragazzina, ma l’allegro brigante era così longanime, saggio, pio, nobile e retto che lo Sceriffo di Nottingham non aveva tutti i torti nel volerlo eliminare. In compenso c’era Guglielmo il Rosso, SIC dai tratti promettenti, intelligente ma avventato, leale ma riluttante a morire impiccato. Poteva essere più complesso del suo capo, ma no: l’autore era così intento a cantare le lodi del buon Robin che Guglielmo era relegato a praticamente nulla… Venticinque anni dopo, la faccenda mi rode ancora.

 3) What’s In A Name: questa non mi aspetto che la prendiate come una prova di salute mentale, ma tant’è. Credo di essermi già dilungata sul fascino che i nomi esercitano su di me, e a volte un nome che mi piace è sufficiente a farmi sviluppare una predilezione per un personaggio. È il caso (non ridete!) di Jean de Satigny ne La Casa Degli Spiriti. Ero molto decisa a simpatizzare con lui per l’ottimo e profondo motivo che si chiamava Jean, capite? Va detto che questo è un caso estremo, perché non c’era un’anima che mi piacesse in tutto il libro, e perché la predilezione era singolarmente ingiustificata.

 4) Questione Di Tema: ne La Pazzia di Re Giorgio, di Alan Bennet, il giovane Greville è l’unico tra gli scudieri reali a mostrare compassione per il vecchio re malato e, di conseguenza, è l’unico che viene licenziato a guarigione avvenuta, perché non c’è nulla di grave come avere pietà dei re. LPdRG è una faccenda popolata di personaggi scritti divinamente, ma l’idea che la gratitudine dei re funzioni in modo diverso da quella dei comuni mortali e la lealtà mal ricompensata sono temi che mi affascinano, hence la mia perdurante predilezione per il povero Greville.

 5) Carne Da Cannone: è vero che sono passati più di vent’anni, ma di tutta la multilogia di Shannara mi ricordo vividamente solo un capitano della guardia elfica che cadeva da un ponte (per non ricomparire più) all’inizio di non so più quale volume. Dite che sia molto grave? Forse Brooks lo aveva caratterizzato un pochino troppo, visto che era così spendibile… Ripensandoci, ricordo anche di essermi lamentata in proposito con la compagna di banco che mi aveva prestato il libro, ottenendone in cambio uno scrollar di spalle e un levar di sopracciglia simili ai miei di fronte a P. e al suo figlio del fattore.

6) Carne Da Cannone II (o The Early Victim): la situazione non è sempre infelice come al n° 5. In Se Morisse Mio Marito di Agatha Christie, Donald Ross è un giovane attore scozzese, abbastanza sveglio da notare cose che non dovrebbe notare – mettendo in pericolo l’assassino. Si capisce che non vive abbastanza a lungo per mettere Poirot a parte dei suoi dubbi, ma fa in tempo ad allertarlo sul fatto che qualcosa non va. È solo un bit parter in mezzo a una congerie di ottimi personaggi, ma resta il fatto che, tecnicamente, è lui a capire tutto – la prende nelle costole. È concesso simpatizzare, non credete?

 Esperienze simili, anyone? Altre categorie da suggerire? E, già che ci siamo, P., dimmi la verità: in quale categoria piazzi il figlio del fattore?