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Feb 15, 2017 - Storia&storie, teatro    2 Comments

Matilde di Canossa È Passata di Qui

P4210013.JPGUna certa sera di piena estate di qualche anno fa, con Hic Sunt Histriones, ci trovammo a rappresentare Matilde, Donna e Contessa, di Gabriella Motta, davanti alla magnifica pieve romanica di Pieve di Coriano – fondata proprio da Matilde nell’Undicesimo Secolo.

Era un caso di posto perfetto e, per di più, era una sera perfetta – con tanto vento quanto basta a muovere i (numerosi) mantelli senza interferire con i microfoni – e avevamo un bravissimo tecnico alle luci… Insomma, una di quelle rappresentazioni felici in cui tutto va bene, tutto è bello a vedersi, e gli applausi sono numerosi.

Per cui, a spettacolo finito e pubblico defluito, ce ne stavamo a gramolare ghiaccioli alla menta e guardare la bella facciata romanica mentre i tecnici smontavano le luci – stavamo lì con quel lieve spirito proprietario che viene dall’aver recitato in un posto*.

Dovete sapere che all’epoca HSH se ne andava in giro alternando questa Matilde al mio Somnium Hannibalis, ed è per questo che, a un certo punto, “Guarda,” mi disse G. la Regista, indicando con fare da sibilla. “Il tuo Annibale non si è lasciato dietro nulla del genere.” Han

Il che, come ammisi allora e non ho la minima difficoltà ad ammettere adesso, è del tutto vero. Annibale non si è lasciato dietro nulla di nessun genere, in fatto di mattoni e pietra. That is, con la possibile eccezione della città di Artashat, che forse disegnò per un re d’Armenia – e io spero che la storia sia vera, perché mi piace immaginarmi Annibale che, nel suo esilio, disegna città – ma se anche fosse, ormai dell’antica Artashat resta meno che un cumulo di rovine.

E questo – come allora dissi a G. – teatralmente e narrativamente fa di Annibale il più tragico e il più interessante tra i due.

Voglio dire, a ben pensarci ci sono un sacco di paralleli tra Annibale e Matilde: entrambi nati ai vertici della società, entrambi precocemente eccezionali, entrambi figli di padri notevolissimi persi presto e poi superati in capacità e fama, entrambi perno nello scontro tra due grandi potenze delle rispettive epoche, entrambi morti senza successione….

MatildeSolo che Matilde morì tranquilla, lasciando una ragionevole approssimazione di pace e ogni genere di eredità tangibile, dopo aver regnato per molti anni e compiuto molto di quello che si era prefissa di fare, mentre Annibale morì esule, sconfitto, braccato e tradito, avvelenandosi per non cadere nelle mani di Roma e senza lasciarsi dietro nulla.

Nulla, tranne un nome che persino i suoi acerrimi nemici ammiravano. Nulla, tranne nozioni tattiche che si studiano ancora oggi nelle accademie militari di tutto il mondo. Nulla, tranne – ed ecco un paradosso – la grandezza dei suoi nemici, perché è con la II Guerra Punica, che Roma si laureò grande potenza**.

E  quindi lasciatemi indulgere brevemente al mio personale genere di slancio sentimentale: Matilde era senza dubbio un’ammirevole, energica e capacissima signora, ma il mio cuore e la mia immaginazione restano con l’uomo che, sconfitto e senza monumenti da lasciarsi dietro, è riuscito a scagliare il suo nome attraverso quasi due millenni e mezzo come una scia luminosa, per pura, fiammeggiante, titanica grandezza.

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* E ancor di più dall’averne scritto, ma nel caso specifico questo lato della faccenda non spetta a me.

** E, come dice Polibio, “l’essenza di tutto ciò che di buono o di cattivo accadde tra Romani e Cartaginesi fu un uomo solo, Annibale – tanto grande fu la sua personalità, tanto fervida la sua immaginazione.”

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Lug 15, 2016 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Libri Perduti

Libri Perduti

lost booksChe alcuni libri perduti siano più perduti di altri è vero in senso stretto, perché di alcuni si sono smarrite le tracce attraverso i secoli, di altri conosciamo solo i titoli citati in altre opere, di altri ancora possediamo frammenti – e poi ci sono quelli che non hanno lasciato traccia, sprofondati nell’oblio dei secoli. Poi ci sono libri che sappiamo con certezza distrutti (come la prima stesura della Storia Della Rivoluzione Francese, che Carlyle spedì a John Stuart Mill – e poi la domestica di Mill bruciò tutto per errore. Er… licenziata!), e libri che speriamo tanto possano saltare fuori, per qualche miracolo storico-librario…

Perché c’è un altro genere di gerarchia: per ciascuno di noi certi libri sono più perduti di altri, perché di certuni non c’importa poi granché, mentre altri vorremmo tanto, tanto, tanto poterli leggere, e non poterlo fare ci rode e ci affascina al tempo stesso. Per dire, posso tranquillissimamente convivere con la perdita delle quattro tragedie in stile greco scritte da Cicerone, ma qui ci sono i sei libri perduti la cui perdita mi fa pizzicare le sacche lacrimali:

– Il dizionario etrusco compilato dall’imperatore Claudio. Un dizionario etrusco! Una chiave per una lingua perduta – come si può non rivolere indietro la chiave per una lingua perduta? Claudio ci aveva aggiunto anche una storia etrusca che non dispiacerebbe per nulla avere, e anche otto volumi sulla storia di Cartagine… oh, well.

– Le memorie di Silla. Plutarco le cita, ma ne resta solo qualche sporadico frammento. Ora non so, magari poi erano mortalmente noiose, ma in qualche modo credo che Silla, intelligente, spregiudicato, manipolatore, protagonista di quasi tre turbolenti decenni di storia romana e cinico osservatore dell’umana natura, varrebbe la pena di essere letto.

– Joyce scrisse un dramma chiamato A Brilliant Career, e poi lo bruciò. Sono sempre affascinata dai motivi che spingono uno scrittore a distruggere le sue opere…ThomasUrquhart

– Sillabario Del Linguaggio Universale, di Sir Thomas Urquhart. Sappiamo dal Logopandecteision, il progetto di questa lingua che Sir Tom propose a Cromwell in cambio della sua scarcerazione, che questo ur-Esperanto contemplava undici generi, dieci casi e altre simili bizzarrie, compreso il fatto che ogni parola contenesse nelle sue sette sillabe una precisissima classificazione dell’oggetto a cui si riferiva. Se vi suona poco pratico è perché lo è: Sir Tom aveva tradotto Rabelais aggiungendo settantamila parole all’originale e riteneva di avere provato scientificamente la discendenza diretta della sua famiglia da Seth… Per cui non siamo sicuri di poterci fidare di lui nemmeno quando dice di avere perduto 642 quinterni di note e appunti durante la battaglia di Worcester. Anyway, la lingua universale è perduta – e non era nemmeno servita a far scarcerare il suo autore.

– Questa è un’ipotesi un nonnulla azzardata, ma nell’edizione in quarto di The Tragical History of Doctor Faustus, il Prologo (probabilmente aggiunto da un’altra mano) sembra riferirsi a un elenco di altri lavori di Marlowe: Edoardo II, le due parti di Tamerlano e qualcosa che ha a che fare con “i campi del Trasimeno dove Marte sorrise ai Cartaginesi”. Non sopravvivono opere di Marlowe sulla II Guerra Punica, e non si trovano accenni in proposito nei diari di Henslowe, ma come essere certi che non ci fosse una tragedia, scritta per un’altra compagnia, rappresentata in un altro teatro e poi perduta? In fondo ci sono un sacco di cose che non sappiamo più sul teatro elisabettiano, e la tentazione è forte: che cosa avrebbe potuto fare l’autore di Tamerlano e di Faustus con un personaggio come Annibale? E parlando di questo…

– La Cronaca di Sosila. Sosila di Sparta era stato il precettore del giovane Annibale, che una volta cresciuto se lo portò dietro in Italia, come segretario e cronista. Scrisse una storia della guerra – lo sappiamo perché altri autori la citano, ma non ne è rimasto nulla, salvo forse un frammento di recente scoperta e ancor dubbia attribuzione. Confesso che questa cronaca per me è il santo graal dei libri perduti. Darei parecchio per poter leggere una cronaca di parte cartaginese, scritta da un membro dell’entourage immediato di Annibale. Anche tenendo conto delle convenzioni di genere (in fondo Sosila scriveva un resoconto ufficiale), sarebbe stata la cosa più simile a un ritratto dal vivo di Annibale a cui possiamo aspirare.

Chi lo sa? Forse un giorno qualcosa di tutto questo salterà fuori, perché i miracoli succedono. Oppure no e continueremo a sperare che riemergano dalla nebbia dei secoli e dei millenni, queste chimere irraggiungibili, tanto più affascinanti perché non possiamo leggerle. Che valga anche per i libri quel detto secondo cui la persona con cui non si è mai danzato rimane la più affascinante – perché la realtà non ha avuto modo di appannare le meraviglie che ce ne aspettavamo?

E voi, o Lettori? Quali libri preduti tornereste indietro a recuperare, se aveste una macchina del tempo?

 

Quello Che Vedevano

Osserviamo il mondo e ci domandiamo se stiamo vedendo quello che vedevano i nostri antenati nel passato irraggiungibile. Se i colori siano ancora gli stessi. Se qualcosa, a parte gli alberi, le nuvole e il mare, abbia esattamente lo stesso aspetto di un tempo. Se nulla sia rimasto uguale a com’era un tempo.

CummingE questa era Laura Cumming, in The Vanishing Man – meraviglioso, meraviglioso libro su Velàzquez e su John Snare, il libraio inglese cui, a metà Ottocento, un ritratto del pittore spagnolo scardinò la vita. Lo ripeto un’altra volta: è un libro meraviglioso, splendidamente scritto e pieno di idee e di pezzetti luccicanti come quello qui sopra. Osserviamo il mondo e ci domandiamo…

Non ditemi che non vi è mai capitato. Un paesaggio, un edificio, una stanza, una strada… Con i quadri va relativamente bene. Se sono ben conservati, se sono ancora là dov’erano o se abbiamo un’idea di come fossero esposti, non è difficile guardarli e pensare che li stiamo guardando – vedendo – allo stesso modo. I Caravaggio in San Luigi dei Francesi, per esempio. Sì, d’accordo, noi possiamo accendere la luce con una monetina – ma otherwise siamo come gli osservatori nei secoli passati. Per i paesaggi ci vuole più fortuna e forse più immaginazione. Ho ricordi di una sera a Cortona, e di un albergo la cui terrazza dava sulla valle del Trasimeno. E al tramonto, quando la luce d’oro e un nonnulla di foschia confondevano a sufficienza  i segni e il rumore del XXI secolo, ci si poteva azzardare a pensare che Annibale non avesse visto nulla di troppo diverso. Gli edifici… Confesso che in fatto di edifici l’esercizio mi mette una certa dose di angoscia. Immaginate di essere un antico Romano, di ritrovarvi per un meccanismo qualsiasi nel 2016 – e di vedere quel che resta dei Fori a Roma, di Aquileia, dei templi colossali di Baalbek… Immaginate la desolazione e l’angoscia di non trovare altro che rovine. E dovevano sembrare eterni, i templi. Fatti per resistere intatti ai millenni, per ripetere all’infinito “qui è passata Roma”.

Quindi guardiamo il mondo, ci domandiamo se stiamo vedendo quello che vedevano i nostri antenati – e per lo più la risposta è no. E specularmente ci viene da domandarci che ne sarà, tra un millennio o due – o anche solo tra qualche secolo – di quel che adesso ci Baalbeksembra inscalfibile e definitivo. Dà un certo qual senso d’impermanenza, vero?

E però ci sono le parole.

Le parole ci permettono di sapere che per Omero il mare era color del vino, e che i cani riconoscevano i padroni dopo tanto tempo… E così quando vediamo il mare scurirsi, quando vediamo un cane svegliarsi di botto perché il padrone è in fondo alla strada – ecco, allora sì che stiamo vedendo quel che i nostri antenati vedevano. E d’accordo – non è come se le parole non si sgretolassero, non cambiassero colore, non andassero perdute – ed è sempre possibile che siamo noi a non vedere più con gli stessi occhi. A non guardare. A non capire. Ma le parole, quelle che sopravvivono, offrono sempre una finestra – o quanto meno un ponte attraverso i secoli e i millenni. Poesia, miti, narrativa, trattati, lettere, teatro, memorie, saggi, preghiere, tutto quel che è scritto, tutto quel che sopravvive ci restituisce i paesaggi, gli edifici, i quadri, i posti, le persone… Qualche volta ci lascia vedere quel che era nell’irraggiungibile passato, e qualche volta ce ne fa riconoscere il colore nel mondo che osserviamo.

 

Ago 14, 2015 - libri, libri e libri    4 Comments

Elefanti

smallcelebratingelephantAlla fin fine questo post è per L., e siccome ieri era la Giornata Mondiale degli Elefanti, oggi festeggiamo, seppur con un giorno di ritardo, parlando (rullo di tamburi) di elefanti. Ne parliamo, e constatiamo che non ce ne sono tantissimi in letteratura. Almeno non da protagonisti, cosa che mi stupisce leggermente*, considerando che animali intelligenti e significativi siano. Se escludiamo gli elefanti-comparsa, quelli che non hanno nulla da dire, ma attraversano le savane o le foreste, vengono cacciati e irrompono nei giardini altrui, gli elefanti letterari (cum punto di vista) che mi vengono in mente sono una manciata.

Babar, Re degli Elefanti, di Jean de Brunhoff, Anni Trenta. Il più delizioso elefante della letteratura per bambini, tenero pachiderma educato a Parigi, che sale al trono, riforma il regno alla maniera occidentale, naviga in mongolfiera e governa da benevolo autocrate. Non faccio per dire, ma Poulenc in persona ha scritto musica per Babar.Toomai2

– Gli elefanti di Kipling. Al plurale, perché ce ne sono diversi, e tutti magnifici. Posso anche confessare che Kipling è il mio narratore di elefanti preferito, a cominciare dal vecchio, saggio e solenne Hathi, del Libro della Jungla. Nulla a che fare con la figura buffa del cartone animato: lo Hathi originale incarna la dignità e la legge della jungla di cui è, in qualche modo, custode. Un altro leader con la proboscide è Kala Nag, il vero protagonista di Toomai degli Elefanti, un elefante da lavoro che di notte si libera dalle catene e conduce i suoi simili a celebrare delle danze misteriose nella foresta. All’alba gli elefanti tornano nel recinto, ma di loro volontà. Toomai, scelto da Kala Nag per assistere alle attività notturne del suo “popolo”, riconosce che lo spirito degli elefanti non è schiavo, e per questo diventerà il capo degli addestratori. Kipling ammirava gli elefanti e li capiva: ogni tanto appaiono nei suoi racconti indiani, magari senza punto di vista, ma sempre ritratti con simpatia e partecipazione, come nel bellissimo In the Queen’s Service, che mostra perché i pachidermi siano meno affidabili dei buoi in guerra: i buoi avanzano ciecamente anche sotto il fuoco, senza paura. Ma gli elefanti hanno intelligenza e immaginazione, e di conseguenza hanno paura dei cannoni: a differenza dei buoi, sono capaci di astrarre, di porsi domande, di compiere scelte.

Soliman.jpg– Salomone-Solimano, ne Il Viaggio dell’Elefante, di José Saramago. In realtà questo elefante, donato dal Re del Portogallo al futuro Imperatore Massimiliano, e di conseguenza condotto da Lisbona a Vienna, non ha un vero e proprio punto di vista, ma i suoi pensieri emergono di quando in quando, e sono quelli di una creatura benevola, curiosa, paziente e lievemente sentimentale. In compenso, è l’oggetto delle preoccupazioni e/o dell’esasperazione e/o  della curiosità e/o dell’affetto di ogni singolo essere umano che compaia nel romanzo.

– Tara, la deliziosa, civettuola, affettuosa elefantessa di Viaggio In India In Groppa Al Mio Elefante, di Mark Shand. Nemmeno Tara ha un punto di vista, ma ha davvero un’incantevole personalità, e Shand la ritrae con occhi da innamorato e humour da Inglese.

Al momento non me ne vengono in mente altri, a meno di voler stiracchiare il concetto per comprendere Sirio/Suro, “l’elefante più coraggioso dell’esercito di Annibale”, citato nelle Origines di Catone il Vecchio, e Kandula, compagno d’infanzia e cavalcatura dell’eroe nazionale dello Sri Lanka.Hanno.jpg

Se invece consideriamo gli elefanti storici, va un po’ meglio: a parte gli elefanti di Annibale e Pirro, bisogna dedurre che un elefante fosse un dono di rappresentanza particolarmente pregiato, in altri secoli. Si è già detto di Salomone/Solimano, ma ci sono anche Abul-Abbas, donato da Harun-Al-Rashid a Carlo Magno; l’Elefante di Cremona**, offerto dal Sultano d’Egitto a Federico II; Annone, regalo di un altro re portoghese a Leone X de Medici. Annone era bianco, e dunque particolarmente raro.

watercolor-illustration-of-elephant-carrying-sleepin-little-girlPoi ci sono elefanti in cattività, come il celebre e gigantesco Jumbo, star dello zoo di Londra e poi del Circo Barnum, nella seconda metà dell’Ottocento, elefanti divini, come Ganesh, ilare dio indù dei commercianti e degli artisti, elefanti pubblicitari, come quello che pagava la coca-cola in arachidi, elefanti animati, come Dumbo e gli Elefanti Rosa da sbornia, elefanti immaginari (è molto brutto se cito il mio Bogus?) elefanti mitologici, elefanti scientifici, elefanti tragici, elefanti giocattolo, elefanti pericolosi, elefanti artistici, elefanti dai sentimenti religiosi… insomma, il materiale sembrerebbe essere ricco, vario e affascinante, e quindi torno a chiedermelo: perché diamine ci sono così pochi elefanti letterari, perbacco?

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* Molte volte, trovo, la questione dei libri che non ci sono è interessante. Quantomeno significativa. Ci posteremo su…

** Immagino che avesse un nome – in qualche modo non riesco a vedere Federico II che trascura di dare un nome a un elefante – ma non è pervenuto. Però, ecco un gioco: come avrebbe chiamato il suo elefante, Federico II?

Annibale, Di Nuovo?

“Non ti andrebbe di riscrivere un po’ il Somnium?” mi domanda allegramente G.-La-Regista.

Me lo domanda così, come se niente fosse, mentre camminiamo sotto la neve dopo che ho fatto una visita a sorpresa alla compagnia.

“Perché sai, ho ripreso in mano il romanzo proprio ieri pomeriggio, e anche solo spulciando qua e là ci ho ritrovato tante cose che mi piacciono da matti, e che sono rimaste fuori dalla versione teatrale… Adesso che non abbiamo più il problema delle scuole e il limite di tempo, perché non lo riprendi in mano?”

E io non so se G. abbia ben chiaro che razza di bomba abbia sganciato, perché…

Ma cominciamo dall’inizio – e poi no, nemmeno quello. Cominciamo di lato.

Se avete mai presentato un libro, o se avete mai avuto la ventura di lasciarvi scappare che scrivete, odds are che qualcuno prima o poi vi abbia chiesto quanto impiegate a scrivere un libro. Quanto meno, a me capita tutto il tempo, e rispondere a proposito del Somnium Hannibalis può essere divertente o imbarazzante, a seconda dell’interlocutore. Perché l’ineludibile verità è che a scrivere SH ho impiegato più o meno vent’anni.

E adesso sì che cominciamo dall’inizio, e dalla Clarina sedicenne che, dopo avere divorato tutto il G.B. Shaw della ben fornita libreria di casa, decide di provarci e scrive a matita su fogli gialli a quadretti… Annibale – dramma storico in un prologo, tre atti e un epilogo.

Sì, davvero. E no, non ridete. Oppure ridete pure – a distanza di vent’anni e rotti ci rido anch’io, e all’epoca mio padre non finiva di divertircisi. Io però lo prendevo molto sul serio. E lo finii, sapete? Fu la prima cosa più lunga di un raccontino che finii sul serio.

Che dire? Se davvero l’imitazione è la forma più sincera di adulazione, lo spirito di Shaw aveva di che sentirsi molto lusingato. E da qualche parte devo averli ancora, i foglietti gialli a quadretti con il mio primo dramma scritto a matita. Quel che ricordo con vera felicità di quella stesura è che ero capace di lavoraci, in piena concentrazione, nel bel mezzo di qualsiasi grado di casino. E adesso smetto di sdilinquirmici, ma abbiate pazienza: è un bel ricordo.

Poi, in sporadici e successivi sussulti di buon senso, eliminai l’epilogo. E poi il prologo. E poi un atto. E poi un altro. Arrivando a Pavia da matricoletta, mi portai dietro un atto unico. Ed era ancora un atto unico quando partii per Cardiff – solo che era stato trascritto su foglietti azzurri. Sempre a quadretti. E si svolgeva tutto la sera dopo la battaglia di Canne.

Maarbale, e la vittoria, e nimini dii nimirum dederunt, e perché diavolo dopo Canne non aveva attaccato Roma? Perché il punto era quello: sapevo bene che c’erano tutte le buone e solide ragioni strategiche del mondo per non cacciarsi ad assediare una città murata in territorio ostile, eppure l’idea che la tentazione dovesse pur essersi presentata, e poi nulla, mi dava i brividini alla schiena.

Avete presente quando sapete, proprio sapete con assoluta certezza di avere una buona idea per le mani – solo che sappiate darle la forma giusta? Ecco, così. Peccato che la forma giusta continuasse a sfuggirmi. Ho perso il conto delle stesure di quell’atto unico. Ho anche quelle, da qualche parte. Foglietti azzurri in una copertina ad anelli azzurra, pieni di cancellature e correzioni. Sapevo quel che volevo, solo che non riuscivo a dargli la forma che avevo in mente.

E immaginatevi gli anni che passano, le stagioni che si succedono e la Clarina che, tra Cardiff, Pavia, la Vandea e Londra, decide che forse dopo tutto la sua strada non è il teatro, ma il romanzo storico. Fast forward un certo numero di anni, mentre scrivo tutt’altro, eppure, eppure… Annibale resta sempre lì, tra le quinte, in attesa che mi decida a farne qualcosa.

Ma in realtà nel frattempo è diventato difficile. Non che sia mai terribilmente facile, ma Annibale è peggio della media. Se non fosse buffo, direi quasi che non riesco ad essere debitamente lucida…

Finché, dopo due volumi di Vandea e il Rinascimento mantovano, dopo la Francia seicentesca e Costantinopoli moribonda, ecco che arriva la folgorazione: Annibale, sì, ma in forma di romanzo. E comincio a strologarci su, e prendo… come chiamarla? Una deviazione? Immagino di sì. Una consistente deviazione: un metaromanzo su… er, gente che non scrive su Annibale. 

I know, I know... Eppure anche quello aiuta. Mentre scrivo di gente che esplora l’idea da vari punti di vista e poi rinuncia per un motivo o per l’altro, in qualche modo mi convinco. Prima di tutto, mi convinco a leggere e studiare di più in proposito, perché a teatro non c’è davvero bisogno di ricostruire minutamente un mondo – basta suggerirlo – ma un romanzo è un’altra faccenda. 

E così si legge in abbondanza e in varie lingue, ci si documenta e si strologa, e si scoprono varie cose. Come la vecchiaia passata presso Re Antioco, ospite di lusso, pericoloso e inascoltato. O come il probabilmente apocrifo episodio del giavellotto scagliato dentro le mura prima di allontanarsi per sempre da Roma… Apocrifo finché si vuole, ma indicibilmente bello.

E allora…

Ma no, che diavolo. È tardi, devo precipitarmi al seggio, da brava piccola segretaria. Mi perdonate se per oggi mi fermo qui?

Ci sarà una seconda puntata di questa storia: giungerà la nostra eroina alla conclusione di riscrivere il Somnium? Staremo a vedere. 

Staremo a vedere tutti, credetemi…

Dieci Vite Di Gente Illustre

Non sono affatto certa che stia emergendo uno schema e che il lunedì sia il giorno delle reading lists, ma per oggi va ancora così.

E oggi parliamo di biografie.

Genere pericoloso, lo ammetto, perché può capitare d’inciampare in accidenti di sconsolante aridità, insopportabile agiografia o degenerazione nel pettegolezzo… ma quando funziona, quando l’autore non solo ha fatto la sua ricerca, ma riesce a trovare l’elusivo equilibrio tra fatti e intelligente speculazione, tra entusiasmo per il soggetto e ragionevole distacco, tra individualità e contesto, allora una biografia diventa una magnifica finestra aperta su un’altra vita e un altro secolo.

Per non dire una meravigliosa fonte d’ispirazione – ma questa è un’altra faccenda.

Perché, a parte tutto, è davvero difficile non cedere almeno un po’ al fascino dell’incontro. Incontro mediato dal taglio e dall’interpretazione del biografo, inevitabilmente – una sorta di visita guidata – eppure quei bei volumi spessi, pieni di vicende maggiori e minori, di lettere trascritte, di minuzie quotidiane, di programmi di concerti e ordini di battaglia, offrono, nella più magra delle ipotesi, almeno una manciata di glimpses su come doveva essere avere a che fare con quella gente.

Quale gente? Vediamo un po’ – e prometto che cercherò di tenermi sull’Italiano o sul tradotto, ma qualche eccezione ci sarà…

1) Daniela Pizzagalli, L’amica. Clara Maffei (che in realtà si chiamava Chiara e che gli amici chiamavano Clarina) tenne per decenni a Milano uno di quei salotti in cui si “fece” il Risorgimento. Fu una signora notevole, moglie separata di un poeta e librettista, amica di Verdi, Manzoni, d’Azeglio, Grossi, Hayez, Balzac e tanti altri, ardente patriota e anticonvenzionale quanto basta. Pizzagalli restituisce alla meraviglia il mondo dei salotti letterari, misto di esaltazione e di puntigli, di dispetti e di epiche discussioni sull’Arte, il Destino dei Popoli e i Massimi Sistemi – tutti in maiuscole.

2) Francesca Sanvitale, Il figlio dell’impero. Il Re di Roma, o Duca di Reichstad, o Napoleone II che dir si voglia. Nato erede dell’impero lampo e del tutto personale di suo padre e morto ventunenne, prigioniero dell’impero millenario e sonnolento di suo nonno. È una storia un po’ desolata, e Sanvitale la snoda ricostruendo la figura di un ragazzo debole e velleitario, schiacciato tra opportunità politica e fallimenti epocali, pronto a infiammarsi improbabilmente e incapace di agire, oggetto fuggevole delle speranze e dei terrori e delle delusioni di tutta l’Europa, affamato di affetti – e destinato a conoscerne ben pochi.

3) Juliet Barker, The Brontës. Avevo detto che avrei cercato di tenermi sul tradotto, ma questo in Italiano proprio non c’è, e non posso fare a meno di segnalarlo, perché è forse la più bella, approfondita, dettagliata e affascinante biografia letteraria che abbia mai letto. È una storia di tutta la notevole famiglia, a partire dai genitori Patrick e Maria (entrambi autori pubblicati, did you know?) per arrivare naturalmente alle tre celebri sorelle e al fratello dimenticato, il povero Branwell. In più, c’è tutta una folta popolazione di parenti, amici, parrocchiani, domestici, curati, insegnanti, compagni di scuola (delle ragazze) e di bagordi (di Branwell), editori, intellettuali, professori belgi, datori di lavoro, piccoli allievi… Perché il bello è che i Brontë erano tutti grafomani senza eccezione, e Barker ricostruisce la loro vita giorno per giorno sulla base di lettere, giochi giovanili, poesie, romanzi, elenchi di libri, liste della spesa, riviste, programmi, diari… Straordinario.

4) Gianni Granzotto, Annibale . Sapevate che ci saremmo arrivati, vero? E ve l’ho detto un’infinità di volte: di Annibale si sa poco, e tutto attraverso gli occhi dei suoi nemici. Quel che Granzotto fa è di raccogliere queste fonti, aggiungerci letteratura e leggende (sulla base del principio che le leggende non nascono mai dal nulla, e che esprimono sempre una mentalità, un atteggiamento, una paura…) e su questa base ricostruire una personalità. “Vi porto Annibale in casa,” dice in apertura della prefazione. E il bello è che funziona. Biografia psicologica? Fate un po’ voi – ma leggete.

5) Eucardio Momigliano, Manfredi. Questa è una vecchia biografia Anni Sessanta – forse nemmeno facilissima da trovare. But still. Manfredi è uno di quei personaggi che arrivano equipaggiati di leggenda nera: parricida, usurpatore e chi più ne ha più ne metta. Per fortuna c’è Dante che, in crisi di progressiva simpatia per gi Hohenstaufen, non solo lo piazza al Purgatorio, ma gli regala quella straordinaria immagine delle ossa insepolte – Or le bagna la pioggia e muove il vento, che trovo essere l’endecasillabo più strappacuore della letteratura italiana. Momigliano guarda dietro la leggenda e dietro Dante*, e si dà un gran da fare per ricostruire la figura di questo principe illegittimo, poeta, soldato, e buon sovrano. Oh d’accordo: confesso una parzialità nei confronti di Manfredi, ma come si fa a non essere parziali nei confronti di un uomo intelligente, colto, spregiudicato, bello e provvisto di finale tragico?

6) Charles Nicholl, The Reckoning. Anche qui niente traduzione, mi spiace. La biografia c’è, anche se Nicholl si concentra per lo più sugli ultimi anni di Marlowe, sulla sua carriera di spia e sulle circostanze che condussero alla sua morte. La quantità di ricerca e documenti è impressionante, e forse ancora di più lo è il ritratto dell’Inghilterra elisabettiana: un mondo piccolo e claustrofobico, in cui tutti conoscevano tutti, e tutti erano in qualche rapporto di parentela, amicizia, clientela, faida, complicità, commercio, dipendenza – e spesso più di uno per volta. Pagina dopo pagina si osserva la rete che si chiude attorno a Marlowe, e magari alle volte si è tentati di levare un sopracciglio davanti a certe conclusioni, ma poi non lo si fa e si continua per vedere che altro succede. Exciting fare.

7) Enzo Mandruzzato, Foscolo. Altra cosa vecchiotta, ma che vale la pena di cercare. Sì, d’accordo, l’Ugo Nazionale, ben è ver Pindemonte, la Ricciarda, l’Ortis, Zacinto… Ma l’uomo! “Uomo procelloso”, si diceva di lui, e poi tranchant, irragionevole, visionario, collerico e capace dei puntigli e dei capricci più piccini. Mandruzzato fa un gran bel lavoro, spigolando tra lettere e carteggi in cerca dell’Ugo geniale, fascinoso ed esasperante. Si vien via con un’idea diversa del poeta e dei versi. 

8) Edgarda Ferri, Giovanna la Pazza. I’m always of two minds, quando si tratta della Ferri, con quello stile così ornato da esser (quasi?) gonfio, e però con il dono delle atmosfere e dei chiaroscuri come pochi altri. Ma la sua Juana mi piace proprio tanto, a partire da quel prologo buio e ventoso che trascina nella storia come la miglior apertura di romanzo… Insomma, non so: può non essere la tazza di tè di tutti, ma se vi piace avventurarvi verso il confine** tra la biografia e il romanzo biografico, se volete provare la Ferri, potreste far di peggio che partire da qui.

9) Marta Boneschi, Quel che il Cuore Sapeva. Sembra un po’ il titolo di un romanzone sentimentale, e invece non lo è. Anzi, mi ricorda un po’ la Barker al n° 3. Biografia famigliar-letteraria, come dice il sottotitolo – anzi, plurifamigliar-letteraria: Giulia Beccaria, i Verri, i Manzoni, a partire dal babbo dei delitti e delle pene, fino alla prole trascuratella di don Lisander. E intorno tutta una Milano, tutta una Parigi, tutti i fermenti dell’epoca – no, del passaggio tra due epoche – intrecciati con i crucci famigliari e non di un certo numero di gente interessante. Rimarchevole.

10) Venerio Cattani, Teodoro Re di Corsica . A volte c’è gente la cui vita sconfina nell’improbabilità – e davvero Theodor Neuhoff, Freiherr in Westfalia, soldato, diplomatico, arruffapopoli, avventuriero, occasionalmente re di Corsica a spizzichi e bocconi tra il 1736 e il 1743 e morto di stenti a Londra, appartiene a pieno titolo alla categoria. Una vita da romanzo, o meglio una vita da libretto d’opera – infatti Paisiello gliene dedicò una. E trovo leggermente buffo che l’editore Bietti, nel pubblicare la biografia di Cattani, abbia sentito la necessità di commercializzarla come un romanzo. Come se ce ne fosse bisogno…

Oh, il titolo dice dieci,  vero? Peccato, perché non ho nemmeno citato Carolly Erickson, Harry Kelsey, Robert K. Massie e un sacco di altri biografi che mi piacciono proprio tanto… Ma per oggi ci fermiamo qui. Ne riparleremo. E parleremo di lettere e memorie, e di biografie fittizie, e di altre amenità del genere. Di qualcosa si deve morire – ma è difficile che sia per mancanza di reading material.

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* Admittedly, più dietro la leggenda che dietro a Dante, ma la sua simpatia per Manfredi non diventa mai fastidiosa.

** Non proprio al confine, sia chiaro: solo in direzione, fermandovi all’ultima locanda di posta.

Dieci Rimuginamenti Pedagogici Assortiti

Se dovessi definire il mio rapporto attuale con le scuole, credo che mi chiamerei una aunteacher.

Ci sono gli insegnanti preposti all’apprendimento e alla disciplina quotidiani, e poi c’è quella che arriva a primavera con il laboratorio collaterale e (si spera) interessante, quella che induce i fanciulli a scrivere, a fare un pochino di teatro, a leggere, a guardare la storia (sempre si spera) in modo diverso… Sempre con l’insegnante titolare accanto, comunque: un’insegnante-zia.

Per cui è molto probabile che molte cose della vita scolastica d’oggidì mi sfuggano: in fondo, vo carotando di qua e di là e tutto quel che vedo sono fette di discenza e docenza, cunei di vita sui banchi tra la quinta elementare e la terza media. Lo dico per invitarvi a prendere i miei rimuginamenti con quel tanto di sale.

E i miei rimuginamenti, in ordine sparso, sono questi:

1) Ho questa abitudine di esordire dicendo che la storia non è una serie di date o un elenco di episodi, ma una corrente complessa, in cui circostanze, decisioni ed eventi a monte influenzano circostanze, decisioni ed eventi a valle… No, non lo dico in questi termini, ma il concetto è quello – e ogni volta trovo reazioni miste dalla folgorazione ai blank eyes, passando per una vasta gamma di stadi di sorpresa e incomprensione. L’idea a me non pare terribilmente esoterica, ma per qualche motivo sembra riuscire sempre nuova ai fanciulli…

2) Qualcuno un giorno mi spiegherà cose come il bollino giallo affibbiato alle innocue indagini di Jessica Fletcher. Parental guide? Qualcuno teme che gli implumi s’impressionino all’idea dell’omicidio? Lo chiedo considerando il vivace dibattito scatenato in una quinta elementare dai due seguenti quesiti: ma dove lo ha trovato Annibale il veleno con cui si è ucciso? E quando ha perso l’occhio dopo il passaggio degli Appennini, vuol dire che l’occhio è proprio caduto di suo, o glielo hanno levato con un coltello?* Anche il particolare degli orci pieni di serpenti e scorpioni ha avuto molto successo. 

3) A volte, specialmente alle medie, c’è molto silenzio – e dubito di annoiare la classe… “Niente affatto,” mi ha detto di recente una giovane insegnante. “I ragazzini non si annoiano in silenzio: lo fanno rumorosamente. Se c’è silenzio è un buon segno. Vuol dire che li hai interessati.” O forse narcotizzati? ho pensato – ma non ho avuto il coraggio di chiedere…

4) Poi ci sono le classi che proprio non seguono – e in effetti quelle sono rumorose. Per quanto si faccia, dica, supplichi e minacci, loro chiacchierano. “Non sono abituati ad ascoltare un’ora di spiegazione,” mormora sconsolato il docente di turno. E poi “Non sono abituati a rispondere alle domande.” E ancora”Non sono abituati a leggere un testo/vedere un film e discuterne, individuare le informazioni rilevanti, elaborare…” Peggio ancora: “Non sono abituati a chiedere spiegazioni su quello che non hanno capito.” E a me viene tanto da chiedermi che cosa di preciso siano abituati a fare…

5) Certe cose non cambiano mai: è sempre stato ed è ancora del tutto inutile domandare “avete capito?” Invariabilmente i fanciulli annuiscono come un sol fanciullo e guai ad assumere che sia vero. “Voi (III Media) studiate Inglese, vero? siete capaci di leggere le didascalie in inglese o avete bisogno di traduzione?” “Capacissimi, prof.” Fermo il film sulla prima didascalia e di nuovo chiedo se hanno capito. Venticinque teste annuiscono simultaneamente – ma non è che mi fidi tantissimo. “Ottimo. Traducete.” Silenzio siderale. “Non avete detto di avere capito?” Un ragazzino alza la mano e m’informa che il titolo della didascalia, A Curious Case, significa “Un caso curioso.” “Ottimo,” dico io. “E di che si tratta?” È il turno di una ragazzina reiterare il concetto che si tratta proprio di un caso curioso. “E fin qui ci siamo. Che genere di caso curioso?” Terzo ragazzino: “chiaramente qualcosa che ha a che fare con un caso curioso, prof – ma mi sfuggono i dettagli.” Già… 

6) Con omologhi di altra provenienza si discuteva qualche giorno fa sul cinismo dei fanciulli, e dicevo che dalle mie parti sono abbastanza candidi perché l’occasionale piccolo cinico strappi ancora una risata, come la volta in cui domandai a una V Elementare perché mai i romanzi di Sherlock Holmes fossero narrati dal Dr. Watson e non da Holmes stesso. “Perché così, se si sbaglia, Holmes può dire che non è colpa sua e non lo denunciano,” rispose un pargoletto… Ripeto: non è la norma – anche se ci sono insegnanti che fanno del loro meglio. “Ascolta, Diego, che la signora spiega come si scrivono i libri – così da grande puoi farlo anche tu e guadagnare un sacco di soldi.” Oppure: “No, nessuno di voi farà l’archeologo da grande: non vi ricordate che cosa vi ha detto la signora del Gruppo Archeologico? Che gli archeologi guadagnano poco o niente.” Perle raccolte in altrettante V Elementari…

7) Certe volte invece è proprio colpa mia. “Avanti, ragazzi: ho detto di dividere il foglio in quattro colonne. Non è fisica dei quanti!” E un fanciullo: “Ma quanti cosa, prof?” Non sono certa di poter sperare che stesse scherzando, ma non ha tutti i torti neanche mia madre, quando mi chiede se mi venivano i crampi a dire che non era fisica nucleare. E questo è un piccolo episodio pittoresco, ma in realtà ho fatto anche di peggio. Per esempio, ho scelto per il mio laboratorio dickensiano Oliver Twist e Le Due Città. E sì, l’ho fatto perché volevo trovarci un pochino di gusto anch’io – ma mi rendo conto che sono una delinquente. Le Due Città? Come, come, come ho potuto pensare che dei quattordicenni potessero simpatizzare con Sydney Carton? E infatti sono punita, e i fanciulli non capiscono nemmeno che è lui il protagonista del libro… Serves me right.**

8) Quando l’insegnante, nel presentarmi alla classe, dice che scrivo, le cose cominciano – e spesso proseguono – meglio. L’idea piace ai fanciulli e, presto o tardi, arriva il momento in cui accantonano il progetto in corso per far domande sui miei libri. Ce n’è una che ritorna sempre – in due forme diverse a seconda della fascia di età. Alle elementari “Come ti è venuto in mente di scrivere un libro?” Alle medie hanno già assorbito dagli adulti la formula “Come è nata questa passione per la scrittura?” E io credevo che la seconda fosse a conversation piece, il genere di domanda che fa la vicina di tavola occasionale cui gli amici comuni hanno detto che scrivi – oppure quella infallibile della signora seduta in prima fila alle presentazioni… Invece la forma infantile mi fa pensare che sia una naturale curiosità: com’è che uno prende su e si mette a scrivere?

8bis) Che cosa leggono i ragazzini adesso? Harry Potter e Geronimo Stilton, lo so. Ma a parte quello? Proprio più nemmeno un classico? Mai? Su settanta e rotti quattordicenni, una soltanto ha mai aperto un libro di Dickens – e solo perché ha iniziato Oliver Twist in vista del laboratorio. E so di aver recentemente lamentato la ghettizzazione di Dickens come autore per l’infanzia – but still. Non c’è nulla che io citi e loro riconoscano. Mai. Da un lato, mi sento molto vecchia, dall’altro devo proprio chiedermelo: che cosa diamine leggono?

9) Un’altra cosa che credevo era che questa generazione fosse molto informatizzata e capace di usare un computer nel sonno. Invece, informata che la scuola non ha i mezzi per distribuire fotocopie, mando il materiale con una settimana di anticipo – e l’insegnante mi rassicura sull’esistenza di un sistema di distribuzione a base di posta elettronica e chiavette. Invece, otto giorni più tardi, la posta non è arrivata, le chiavette non hanno funzionato e solo il 4% dei pargoli ha letto quel che doveva leggere. Può darsi che sia soltanto ilcanemihamangiatoilcompito 2.0, oppure in queste ridenti plaghe i nativi digitali non sono poi così digitali.

10) Nonostante tutto, fare laboratori didattici mi piace da matti. Constatare la personalità distinta di ogni classe come gruppo – nonché la relazione tra insegnante e personalità della classe – vedere come la gente sveglia e interessata prima o poi venga a gravitare attorno all’attività, cogliere il momento in cui cominciano a fidarsi, cominciano a voler impressionare l’aunteacher, vedere come finiscano con l’entusiasmarsi e mettercisi d’impegno è sempre una soddisfazione.

Non credo che potrei insegnare sul serio. Non ho la pazienza e la metodicità per farlo e finirei molto presto in carcere per omicidio plurimo aggravato dai futili motivi. Ma L’occasionale laboratorio è un genere di varia, istruttiva, a tratti frustrante, always challenging esperienza cui mi dispiacerebbe rinunciare.

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* La risposta “probabilmente nessuna delle due cose – ha solo perduto la vista da un occhio”  li ha delusi molto.

** E quindi, quando ieri mattina, dopo quattro settimane de Le Due Città, e dopo avere appena finito di vedere il film, una fanciullina ha chiesto al suo compagno di banco chi fosse quella Mme Defarge che continuavo a nominare, non avrei dovuto farmi venire un travaso di bile, vero?

L’Invasione Degli Ultra-Anacronismi

La mia fede nell’editoria anglosassone sta vacillando un nonnulla. Quando pensavo ai produttori di parallelepipedi over the Channel e Over the Pond, li facevo spudorati e spregiudicati quanto quelli nostrani, ma attenti. Accurati, se capite quel che intendo.

Ma la messe di anacronismi che ho mietuto nel corso dell’ultimo giro di recensioni per HNR mi lascia in una selva di angosciosi dubbi, almeno per quel che riguarda l’Isoletta. La messe copre senza pregiudizi e omissioni molte delle anacronocategorie possibili.

Pensieri: se siamo nel III Secolo a. C., se la narrazione è in terza persona limitata, se si suppone che il punto di vista sia quello di un giovane aristocratico cartaginese, può la Voce Narrante definire una particolare vicenda col medievalissimo termine “ordalia”? Ripetete con me: Bizmillah, no! Mamma mia, mamma mia!

Parole: non sarò certo io a negare che Annibale avesse ogni genere di straordinaria qualità, ma persino nella mia cieca adorazione dubito che fosse un veggente. O un precursore del Vangelo. Per cui, quando definisce il giovane protagonista scomparso e ricomparso un “figliol prodigo”, mi si allappano i denti. Davvero. Idem quando un ufficiale settecentesco parla di “serendipità” vari decenni prima che Horace Walpole nasca, cresca e conii la parola. Anacronismo a parte, poi, ce lo vedete l’ufficiale in questione che parla di “serendipità” con il suo sergente e una vivandiera – e quelli lo capiscono al volo? Ma questo è un peccato di plausibilità, non un anacronismo, per cui stiamo sconfinando. E però lasciatemi anche osservare che un ufficiale di carriera (specialmente uno particolarmente sveglio) non dovrebbe proprio confondere tattica con strategia…

Opere: scrivere un romanzo storico implica il disturbo di farsi un’idea degli usi sociali dell’epoca – e renderli in forma narrativa per il lettore. La gente nel Cinquecento non si presentava a casa della rispettabile giovane vedova conosciuta la sera prima portandole un cesto di frutta; non la conduceva pubblicamente da una sarta per regalarle un vestito nuovo; meno ancora la invitava a cena a casa propria per un tète à tète o la conduceva fuori città in una romantica gita a due. Non faceva nulla di tutto ciò se non intendeva comprometterla – e certo non se aveva intenzione di chiederla in moglie. Se poi la rispettabilità vera o presunta della signora in questione è uno dei cardini della vicenda, trattarne in questo modo disinvolto ottiene un risultato solo: spingere the discerning reader a dimandarsi perché, perché, perché ambientare a metà Cinquecento quella che in definitiva è una storia contemporanea…

Omissioni – as in “omissioni di ricerca”. Perché, nella Napoli del 1564, far mangiare ai protagonisti pomodori a tutti pasti e mettere il calico sugli scaffali dei mercanti di stoffe, quando entrambi non sono documentati nell’Italia meridionale prima del tardo Seicento? E perché mettere in mano a uno scriba del III Secolo a. C. una penna d’oca – svariati secoli prima che l’arnese venga in uso? Anche ammesso di non saperlo, non sono particolari difficili da scoprire…

L’unica cosa che manca (o quanto meno è largamente evitata) è il peccato mortale: quel genere di travesty in cui i personaggi che pensano period sono tutti malvagi e osteggiano l’eroina “appassionata e anticonvenzionale” e, in generale, tutti i buoni che pensano, agiscono e sentono come gente dei giorni nostri*. E questo è già qualcosa, ma non abbastanza. Bisognerebbe che gli autori fossero più attenti – anche se Clio sa che l’anacronismo è una bestiaccia subdola e facile a sfuggire. E però non c’è romanzo storico che non si concluda con una o più pagine di Acknowledgements, in cui l’autore ringrazia legioni di amici, altri scrittori, agnati e cognati, agenti letterari, editor, vecchi professori di storia, esperti, archivisti, bibliotecari e storici di varia natura – tutta gente che “ha letto il libro con lusinghiero entusiasmo e offerto preziose osservazioni.” Possibile che mai nessuno in questo diluvio di gente qualificata in vari gradi e a vari livelli, faccia caso al figliol prodigo o alla penna d’oca? 

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* In realtà questa è una specialità più diffusa al di fuori del mondo anglosassone – ma non sconosciuta over the Channel & over the Pond. Purtroppo l’idiozia da politically correct è un morbo che non conosce confini.

Ago 27, 2010 - Somnium Hannibalis    Commenti disabilitati su Somnium Hannibalis a Villadose

Somnium Hannibalis a Villadose

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Nonché…

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Non è che si legga enormemente, ma fidatevi: quello nel riquadro arancio è il mio intervento: Annibale, studio e rappresentazione di un personaggio storico. Sono un nonnulla in fibrillazione… Spero di non imbattermi in nessuno di quegli accademici che per hobby fanno i romanzieri storici a fettine molto piccole…

Maggiori informazioni sul convegno e sul XV Mercato della Centuriazione Romana di Villadose si trovano qui.

Mag 13, 2010 - cinema    2 Comments

Diesel

“…E nel film su Annibale che uscirà…” dice M.

“Cosa? Cosa? Che film?” dico io, drizzando le orecchie.

“Sai, quello che esce nel 2011…”

“Quale dei due?!” strillo, e il mio oscuro riferimento a La Nemica di Nicodemi va del tutto perduto, ma fa lo stesso. M. mi guarda con occhi tondi e chiede come sarebbe a dire due? “Denzel Washington o Vin Diesel?”

“Non Denzel Washington,” pronuncia M., dopo averci pensato un po’, e io gemo nel mio modo più melodrammatico. Sia chiaro, nemmeno Denzel Washington sarebbe stato la mia prima scelta per interpretare Annibale, ma Vin Diesel…

“Vin Diesel!!” pigolo, “Vin Diesel!!!”

“Non ho idea,” M. scrolla le spalle, perplesso di fronte alla mia disperazione. “Mai coverto. Chi è?”

“Uno che non cambia mai espressione – mai, nemmeno per sbaglio…”

“Oh…” M. comincia a vedere la tragedia. “E’ che se lo produce lui, il film, sai…”

Oh catastrofe, delitto, sacrilegio, ecatombe! Magari sono prevenuta, non lo so, ma ho tanto idea che questo film sarà un’avventurona approssimativa, truculenta, con gli eserciti fatti al computer e un Annibale che procede torvo e allucinato, mascella digrignata e spada in pugno. Se non avessero inteso di sacrificare tutta la complessità del personaggio all’azione, avrebbero scelto qualcun altro, giusto? E se uno con il curriculum di Vin Diesel si sogna di autoprodursi un film sul più grande condottiero dell’antichità, è così malevolo da parte mia pensare che abbia in mente proprio solo gli elefanti e le battaglie all’arma bianca?

Ossignore…. Vin Diesel! Sbaglierò, ma per il momento – così, sulla fiducia – sono in lutto.

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