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Mag 6, 2012 - anglomaniac, musica, teatro    2 Comments

Oliver

Non crederete che ci si sia dimenticati di volgere in musical proprio Le Avventure di Oliver Twist, vero? Certo che no – ed ecco la versione della faccenda al Drury Lane Theatre di Londra:

E non crederete nemmeno che parli ancora di Dickens senza secondi fini, vero? Perché in effetti non è così: stasera alle 17.30, nella Corte Grande di Roncoferraro le mie III Medie presentano Raccontami Un Romanzo, ovvero Le Due Città e Oliver Twist visti e interpretati da loro.

No, così per dire.

E buona domenica.

Apr 4, 2012 - libri, libri e libri    3 Comments

Le Ragazze Di Dickens

dickens, bicentenario 1812 2012, personaggi dickensiani, florence dombeyCi sono le zitelle, ci sono le sventate, ci sono le sventurate, ci sono quelle di cattivo carattere, ci sono le perdute (non molte), ci sono le deliziose e poi ci sono le angeliche – ma Dickens ci caccia sempre qualche ragazza da marito. Ed è solo ovvio: come immaginare un romanzo ottocentesco senza una ragazza da marito?

Un matrimonio all’ultimo capitolo è un accessorio indispensabile, tanto più soddisfacente quanto più è stato avversato nel corso dei capitoli precedenti. Si capisce che di matrimoni possono essercene stati altri nel corso del romanzo (con la popolazione media dei tomi di Dickens sarebbe sorprendente il contrario), ma si capisce anche come un matrimonio in intinere non sia in posizione di coronare alcunché e non abbia assolutamente le stesse garanzie di felicità di un matrimonio all’ultimo capitolo.

Guardate la graziosa e sventata Dora Spenlow: sposa David Copperfield piuttosto presto – e altrettanto presto muore, lasciando David libero di salvare sposare la paziente amica d’infanzia Agnes Wickfield – un’angelica tendente al saggio.

Si dice che Dora sia basata su Maria Beadnell, il primo amore di Dickens, ma allora accanto a Dora bisogna ascrivere all’influenza della povera Maria anche ragazze come Cherry Pecksniff, Pet meagles e Rosa Bud – e forse anche Flora Finching in gioventù: graziose e vivaci testoline vuote, tutte boccoli d’oro, piccole tirannie e vezzi infantili. È raro che vadano a finire terribilmente bene…

Che poi talvolta il confine fra sventata e deliziosa è labile. Suppongo che Ruth Pinch sia stata pensata come esponente della seconda categoria, ma credo che nessun lettore moderno possa leggere la pagina in cui Ruth cucina il suo primo steak pudding senza desiderare di darle una buona scrollata. Ma la cosa rilevante è che l’innamorato di Ruth è atteso a pranzo, il matrimonio coronatore è in arrivo dopo un assortimento di avversità, e Ruth è una di quelle che non si sono inaciddickens, bicentenario 1812 2012, personaggi dickensiani, rosa Dartleite.

A differenza, per esempio, di Merry Pecksniff (la sorella di Cherry), Rosa Dartle o Fanny Squeers, inacidite dallo zitellaggio e/o dall’amore non corrisposto. O di Caddy Jellyby, inacidita invece dalla rovinosa ossessione della madre per le missioni africane. Caddy si raddolcirà grazie a Esther Summerson, sposerà il suo giovanotto al terzultimo capitolo e sarà molto felice.

Esther Summerson è un po’ come Agnes: non è quella graziosa, non è quella vivace, però è intelligente e saggia – abbastanza per essere l’unica voce narrante femminile di Dickens. Poi crede di essere orfana, poi ha avuto un’infanzia infelice, poi in realtà si scopre (socialmente) peggio che orfana, poi piglia il vaiolo per troppa generosità e resta sfigurata, poi s’innamora ma per gratitudine accetta di sposare un altro uomo… cadrebbe nel campo delle sventurate, se non fosse che poi tutto s’aggiusta. Sventurata sì, ma sposata felicemente.

Come, d’altra parte, Florence Dombey: figlia trascurata, sorella devota e orbata, innamorata frustrata – ma con sorprese, cotillons e fiori d’arancio prima della fine.

Lucie Manette è un caso abbastanza a sé. Pur biondocrinitaocchiazzurrina e dolce, viene descritta fin da subito come saggia, determinata e matura – e così rimane per tutto il libro. Recupera il padre infermo nel corpo e nello spirito, redime Sydney Carton, tiene unita la famiglia quando suo marito è imprigionato ingiustamente a Parigi… Sussurrasi che Lucie fosse basata su Ellen Ternan, la giovane amante di Dickens, ma non si può nemmeno dire che Dickens scrivesse personaggi migliori quando aveva in mente un modello in carne e ossa. 

dickens, bicentenario 1812 2012, personaggi dickensiani, little nellDelle emanazioni di Maria Beadnell abbiamo già detto, ma parliamo di quelle di Mary Hogarth, la cognatina dell’autore, morta a diciassette anni e immortalata nell’insostenibilmente angelica Little Nell. Nell è una di quelle ragazzine troppo dolci per vivere, sventurata per quattro, tenera, saggia, affettuosa, paziente e mite e coraggiosa e pia… E come Mary, muore giovane e semi-santa in una scena che, come diceva Oscar Wilde, bisogna avere un cuore di pietra per non riderci su. Ma di Mary ci sono altri ritratti, dolci, sventurate e pazienti fanciulle come Kate Nickleby, Lizzie Hexam o Rose Maylie.

Ecco, Rose Maylie, è una ragazza dickensianamente esemplare: è una Mary*, è una funzione narrativa in crinoline ed è una Prima Amorosa piuttosto dimenticabile. Rose compare senza preavviso né provocazione al capitolo 29 di Oliver Twist, ha diciassette anni come molte eroine dickensiane ed è preternaturalmente saggia, bella e dolce. Par quasi di udire la voce di Richard Bentley: “Ottimo lavoro, Boz ragazzo mio, ma mettici una storia d’amore. Abbiamo lettrici da far contente, che cosa credi? Non m’importa come, ma mettici una ragazza, un ragazzo, qualche difficoltà e un matrimonio all’ultimo capitolo.” E Dickens obbedisce. Pur con tutte le sue perfezioni, Rose non può sposare il suo innamorato, perché l’ombra di uno scandalo famigliare grava su di lei. Poi, nel giro di un capitolo – e di nuovo senza preavviso né provocazione- si ammala gravissimamente, rischia di morire e poi guarisce, rendendo tutti molto felici e avendo portato in scena il suo (parimenti irrilevante) giovanotto. Prima della fine, si capisce, tutto si sarà aggiustato, con il tocco aggiuntivo di una bella agnizione – che quelle non  fan mai male.

Che Rose sia una figurina di zucchero di discutibile utilità narrativa e scialba personalità, mette ancor più in luce il contrasto con l’altra ragazza del romanzo, la tormentata prostituta Nancy, ragazza perduta con dilemmi morali, truce destino e più chiaroscuro psicologico di chiunque altro in scena – con la possibidickens, bicentenario 1812 2012, personaggi dickensiani, Dolly vardenle eccezione di Fagin.

D’altra parte, non si tratta di un caso isolatissimo: Emma Haredale, Prima Amorosa in Barnaby Rudge, è la più pallida e bidimensionale creatura che si possa immaginare – e francamente non c’importa poi molto se Edward Chester riuscirà a impalmarla o no. O meglio: diamo per scontato che sarà così e non ci pensiamo più. Per contro l’impertinente, capricciosa e civettuola Dolly Varden è un personaggino memorabile e vivace. Non è angelica, non è mite, non è dolce – però è ben scritta.

Viene da domandarsi se a Dickens per primo non importasse un bottone delle sue nice girls – le Rose Maylie, le Amy Dorrit, le Emma Haredale, le Mary Graham, le Madeline Bray: bellissime, tenere, eminentemente maritabili.

E altrettanto noiose. 

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* La prozia di tutte le Mary Sue, perhaps?

Apr 1, 2012 - musica, teatro    Commenti disabilitati su A (Musical) Tale Of Two Cities

A (Musical) Tale Of Two Cities

Ci sono alcune affidabili certezze nella vita – e una è che, prima o poi, qualcuno ricaverà un musical da… oh well, praticamente da qualsiasi cosa.

Per esempio questo – la versione musicale di A Tale Of Two Cities:

Echi di Les Misérables? Possibile, possibile – ma fa nulla. Quest’anno va così e siamo molto dickensiani.

E buona domenica a tutti.

Luke, Sono Tuo Padre…

Tutti abbiamo, almeno una volta, scosso il capo con un sorrisino indulgente all’indirizzo dell’anziana zia che guardava con gli occhi lustri i (probabilmente finti) ricongiungimenti famigliari carrambati dalla Carrà – vero?

Quanto meno, io usavo scuotere il capo eccetera, e mancavo di considerare come, in fondo, la Raffaella e i suoi autori non facevssero altro che giocare sull’eterno appeal di uno dei tòpoi più immarcescibili della letteratura: l’agnizione.

Ovvero il protagonista che scopre di essere qualcun altro. Oppure scopre che qualcun altro è qualcun altro ancora – spesso (ma non sempre) discendente, ascendente, agnato o cognato.

Talmente immarcescibile che Aristotele già lo teorizzava come venerando, infallibile e superiore a qualsiasi altro meccanismo tragico e, ventiquattro secoli più tardi, ci intratteniamo ancora – e con pieno successo – le vecchie zie al sabato sera.

Aristotele aveva in mente, a titolo archetipico, Edipo – che dopo aver fatto fuori un re e averne impalmato la vedova, scopre che si trattava dei suoi genitori. Ops.

Dove si vede che l’agnizione non è necessariamente un lieto fine. Non ci è dato di sapere cosa Aristotele ne pensasse quando era usata a fini men che truci, ma la Commedia Attica è piena di esempi di fanciulle immaritabili che si scoprono essere bennate eredi di cospicue fortune – e quindi perfette per l’innamorato di buona famiglia… 

Vi pare di avere già sentito questa storia? Small wonder, perché è onnipresente. Si può dire che non ci sia corpus di miti o folklore senza agnizione, nel bene e nel male. Pelle d’Asino e la Piccola Guardiana d’Oche sono principesse in disguise, il Brutto Anatroccolo non è un’anatra affatto, gli orfani non sempre sono orfani come sembrano, le fiabe russe traboccano di baldi giovanotti che si scoprono figli dello Zar – al punto che Popp cataloga il Disvelamento dell’Eroe tra le sue funzioni – e non cominciamo nemmeno a parlare di fate, streghe e creature magiche in generale che se ne vanno attorno sotto mentite spoglie fino al dénouement.

E naturalmente la letteratura non poteva – né si vede perché avrebbe dovuto – sottrarsi al fascino del tòpos. Dopo tutto, segreti, identità perdute, misteri e ammenicoli del genere sono la materia di cui son fatte le storie. La citazione semi-shakespeariana serve a introdurre Il Racconto di’Inverno e la very aptly named Perdita, un’altra pastorella che si ritrova principessa. Non posso fare a meno di considerare un’agnizione anche la faccenda di MacDuff, che MacBeth scopre non essere tecnicamente nato da donna, e quindi oggetto inopinato della predizione delle streghe… Non bisognerebbe mai prendere gli oracoli alla lettera, ma questa è un’altra storia.

L’agnizione, per la sua inevitabile natura di colpo di scena, ha una seria carriera a teatro – pensate a Molière e a Beaumarchais, con le rivelazioni della penultima scena che impediscono matrimoni combinati e precipitano tutti verso il lieto fine – ma chi va veramente a nozze con questo tòpos sono i romanzieri ottocenteschi – e i librettisti d’opera.

Gavroche è figlio dei Thénardier, Esmeralda non è affatto una zingarella, Isabella di Vallombrosa non è orfana né attrice girovaga, il Signore Indiano in realtà è l’amico che ha involontariamente rovinato il babbo di Sara Crewe, Mrs. Milligan è la madre di Rémy, la pazza nella soffitta è la moglie di Mr. Rochester, il reverendo Rivers è il cugino di Jane Eyre, Mrs. Pryor è la madre di Caroline, Milady è la moglie di Athos, Redgauntlet è lo zio di Darsie Latimer, Ebenezer Balfour è il fratello minore del padre di David, Rogiero è figlio di Re Manfredi*, il Conte di Montecristo è Edmond Dantès, il vecchio Burgravio e la “strega” Gwenhyfara sono i genitori del giovane Spadaceli**…

Noterete che non ho citato Dickens. Non l’ho citato perché Dickens è non solo il festeggiato quest’anno, ma si trova in una categoria a sé in qualità di spudorato specialista dell’agnizione. Consideriamo solo The Adventures of Oliver Twist. Oliver, orfanello in una città innominata, giunge a Londra e, fra un milione abbondante di persone, s’imbatte senza saperlo nel mancato sposo della defunta sorella del suo defunto padre. Basta? No, non basta. Oliver si ritrova nelle grinfie di pessima gente, che se lo trascina dietro in una rapina con scasso. E chi è la derubata? La zia adottiva di Rose, l’ignara sorella minore della defunta (e nubile) madre di Oliver. Basta? Ancora no. Giusto per non farci mancare nulla, la pessima gente non tormenta Oliver per caso, ma perché imbeccata dal malvagio figlio legittimo del defunto padre di Oliver, e (a riprova del fatto che nulla cambia veramente attraverso i millenni) Rose non può sposare l’amato e innamoratissimo cugino adottivo a causa dell’ombra che grava sulla sua nascita. Poi tutto converge in un terz’ultimo capitolo che è un’orgia di agnizioni, contro-agnizioni, adozioni, rivelazioni e richieste di matrimonio, in uno sfoggio di sprezzo del ridicolo tale da far impallidire un librettista d’opera.

Perché siamo sinceri: in confronto, Arrigo che si scopre figlio del tirannico duca di Monforte mentre Monforte cade sotto i colpi dei ribelli siciliani, o il Conte di Luna che individua il fratello perduto proprio nel trovatore che ha appena fatto giustiziare, o Lucrezia Borgia che – dopo tutto – è madre di Gennaro, o Maria/Amelia che si ritrova figlia del Doge, son cose da nulla – agnizioncelle veniali. 

Agnizioncelle veniali  sulle quali finivano con l’inciampare anche autori insospettabili. Prendete Oscar Wilde. Proprio lui, che aveva detto che ci voleva un cuore di pietra per non ridere leggendo la scena della morte di Little Nell, che cosa combina in A Woman Of No Importance? Infila una scena in cui il Bravo Ragazzo spicca il balzo per sfidare a duello il Grand’Uomo Arrogante – ma la Madre del Bravo Ragazzo si frappone al grido di “Gerald, No! È tuo padre!” Qualcuno – non so più chi, presumo un critico – disse che Wilde meritava che un’illustrazione a colori di questa scena venisse affissa in tutte le pubbliche piazze, ad eterno disdoro del suo autore. Wilde non dovette prendersela troppo – o forse se la prese proprio tanto, perché l’anno successivo se ne uscì con The Importance of being Earnest, che fra l’altro era una pungente, perfetta parodia di tutte le convenzioni in fatto di agnizione…

E il fatto è che, undici volte su dieci, l’agnizione si regge su coincidenze e improbabilità assortite che i contemporanei di Aristotele non avevano remore nel giustificare con il Fato, il volere degli dei e l’inaffidabilità degli oracoli, ma oggi?

Verrebbe da pensare che in quest’epoca di lettori smaliziati, gli autori rifuggano l’agnizione come un principio di pleurite doppia resistente agli antibiotici…

E invece no. Saremo anche lettori smaliziati, O Contemporanei, ma l’agnizione prospera imperterrita nella letteratura di genere, al cinema, in televisione e nell’immaginario collettivo – come dimostrano Guerre Stellari, Harry Potter, La Bussola d’Oro, Hugo Cabret, il Dr. House e Raffaella Carrà. 

Il fatto è che al Lettore (in senso lato) piacciono gl’indovinelli, i segreti, gli scambi in culla, tutto ciò che non è quel che sembra. Ai lettori piace l’idea che chiunque possa non essere chi dice di essere. O chi gli è stato insegnato a credere di essere.  Ai lettori/spettatori piace commuoversi sulla vecchietta che ritrova la sorella emigrata in Brasile cinquant’anni prima e mai più sentita. Adorano singhiozzare quando, dal biplano abbattuto, anziché un pilota tedesco viene estratto il migliore amico del protagonista***. Si sciolgono quando qualcuno – chiunque – si ritrova meno orfano di quanto tutti credessimo.

D’accordo – probabilmente questa faccenda degli orfani andrebbe qualificata****, ma in linea generale, se è vero che la via più sicura per il cuore del lettore sono i legami affettivi, e che indovinelli e sorprese catturano la mente del lettore come nient’altro, forse Aristotele non aveva tutti i torti: l’agnizione – sorpresa affettiva nel bene o nel male – è proprio un buon meccanismo narrativo.

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* Cosa che scoprono ritrovandosi la sera della battaglia di Benevento, quando entrambi sono feriti a morte. Molto opportunamente, il malvagio è a portata di mano, pronto a spiegare come Rogiero abbia tradito Manfredi credendolo suo rivale in amore… Poi entrambi muoiono. Anche Guerrazzi non scherzava. FruitPastilles.jpg

** In realtà, a ben pensarci, tutto – ma proprio tutto – il teatro di Hugo si fonda sull’agnizione. Non c’è un suo dramma in cui la gente sia quel che gli altri credono.

*** Caramelle virtuali a chi riconosce il film…

**** È del tutto possibile, lo ammetto, che gente come Esther Summerson e Luke Skywalker abbia altre preferenze in fatto di tòpoi narrativi. Ma è gente immaginaria, la cui opinione non conta poi troppo.

Dic 16, 2011 - libri, libri e libri    2 Comments

Cave Avunculum

Ora, non dico che tutti gli zii letterari siano pessimi, perché ci sono anche zii come il Principe di Salina, Zia Ellen (Kipling), Zia Bee (Tey) o il Conte Zio – che simpaticissimo non è, ma di certo è indulgente coi nipoti – però dovete ammettere che quando compare uno zio di carta la tentazione di essere cauti c’è.

C’è perché siamo ammaestrati da gente come Re Claudio, che re di Danimarca ci è diventato assassinando il fratello e non vede l’ora di fare altrettanto con il nipote Amleto. Poi la faccenda è reciproca e, in capo a tre ore di tragedia, i due riusciranno ad assassinarsi indirettamente a vicenda, ma intanto noi groundlings abbiamo capito chi porta il cappello bianco e chi il cappello nero.

Per non parlare poi di Riccardo III, zio usurpatore che spedisce alla Torre i nipoti fanciullini e poi non ordina a Buckingham di mandare un paio di sicari a completare l’opera… verrebbe da chiedersi se John Shakespeare avesse fratelli antipatici – non fosse che si tratta di una combinazione di due fattori: da un lato Shakespeare era ansioso di sposare il punto di vista Tudor/Lancaster, e dall’altra è una verità universalmente riconosciuta che un uomo provvisto di un fratello coronato (e fornito di eredi maschi) dev’essere in cerca di un trono…

Per dire, vi ricordate la Principessa Zaffiro di animesca memoria – quella che era ai ferri corti col perfido zio? O il Principe Caspian delle Cronache di Narnia? Ecco, appunto.

E non c’è nemmeno tutto questo bisogno di una corona in ballo: pensate a Ebenezer Balfour, fratello minore che usurpa patrimonio e titolo e, al ricomparire del nipote dopo diciotto anni, prima tenta di mandarlo a sfracellarsi giù da una scala buia, poi lo fa rapire da un capitano di mare con l’incarico di venderlo schiavo nelle Caroline. E in fondo i Balfour sono soltanto landed gentry con un palazzotto in rovina e un sacco di debiti.

D’altro canto, la gelosia fraterna è un tema molto più  vecchio delle colline, e il trasferimento di ostilità nei confronti della progenie del fratello è estremamente logica. Talmente logica che a volte viene presa e passata al lettore così com’è – come nel caso di Ralph Nickleby, che non ha nessun buon motivo per averla a morte con suo nipote Nicholas, se non il fatto che si tratta del figlio del fratello che non poteva sopportare. Dickens faceva questo genere di cose, e anche lui non scherzava in fatto di zii, considerando Ebenezer Scrooge, cui il gaio e spensierato nipote Fred fa rabbia al solo vederlo, proprio perché è gaio, spensierato e generoso. That is, prima che arrivino Marley e gli Spiriti a far prendere a Scrooge lo spavento della sua vita – ma questa è un’altra faccenda. E considerando anche John Jasper, lo zio di Edwin Drood. Vero, il romanzo è incompiuto e non sappiamo se sia stato proprio Jasper a uccidere Edwin (o, se è per questo, se Edwin sia davvero morto…), ma di sicuro lo zio non è una cara persona.

I prozii sono merce più rara e non sono sicura che contino davvero. L’unico che mi viene in mente al momento è Lantenac di Quatrevingt-Treize, che però ha un buon motivo di ostilità nei confronti del pronipote Gauvain – un motivo che non ha necessariamente a che fare con i vincoli famigliari, considerando il giovane è un ardente rivoluzionario e il vecchio un difensore dell’ancien régime. Certo, a Lantenac secca che il sangue del suo sangue sia diventato sanculotto, ma ce l’ha altrettanto con il semi-estraneo e non imparentato Cimourdain, per cui…

Per contro la prozia March, bisbetica benefattrice delle Piccole Donne, s’inserisce senza scosse nel genere femminile della specie, che è decisamente meno letale. E penso ad esempio alla Zia Dete di Heidi, alla zia Barbary di Esther Summerson in Bleak House o alla zia Polly di Pollyanna, assai men cattive che acide, in genere per zitellaggio e maternità mancata – e a questo può provvedere la tenera eroina – oppure no. Poi ci sono anche le zie veramente malvagie, come la zia Reed, prima tra i molti guai di Jane Eyre, o Lady Minerva Broome che in Cousin Kate, di Georgette Heyer, tenta disperatamente di affibbiare alla nipote eponima e indifesa il proprio figlio bellissimo e squilibrato – ma squilibrato nel senso più omicida del termine. In genere la zia con figli è più pericolosa, perché non ha scrupoli nel detestare/danneggiare/eliminare/sacrificare il nipote a favore della propria prole.

E dite la verità, non è divertente vedere come l’idea abbia attraversato pressoché intatta secoli, generi e generazioni, conservandosi soprattutto nella letteratura per fanciulli? Quanti sono gli orfani letterari affidati a zii dall’insopportabile/rancoroso (i Dursley per Harry Potter) al francamente pericoloso (il conte Olaf per i fratelli Baudelaire), passando per l’indurito grave (Mrs. Timm per Serena Pepper)?

È quasi rassicurante vedere che certe cose non cambiano e che – almeno in parte – si possono conservare queste secolari certezze: quando in un libro compaiono degli zii, può non essere una cattiva idea diffidare.

Ago 12, 2011 - scrittura, teatro, teorie    6 Comments

Romanzieri A Teatro

Secondo Jeffrey Sweet, i romanzieri a teatro costituiscono una popolazione maldestra e grigiolina – sia come autori che come personaggi.

Non posso dire che la cosa mi abbia colmata di gioia, perché da un lato sono davvero entusiasta delle altre teorie di Sweet, e dall’altro gli argomenti che adduce in proposito sono quanto meno sensati, e in tutta probabilità validi.

Per quanto riguarda la transizione dal romanzo alla scena, Sweet osserva che il romanziere medio, abituato ad avere la parola come unità di base del suo lavoro, fatica ad abituarsi all’idea di dover lavorare su un atomo diverso: l’attore. Un testo teatrale, dice, non è alta letteratura e/o brillante uso della lingua: è un programma di occasioni studiate per consentire all’attore di creare comportamenti atti a catturare l’attenzione e la simpatia del pubblico. Ma il romanziere (o, se è per questo il poeta) medio, abituato ad affidare tutto il suo significato alla parola, fatica a imparare il diverso meccanismo secondo cui il suo significato farà bene ad emergere attraverso il comportamento dell’attore piuttosto che a monologhi in prosa fiorita.

E a dire il vero, il problema sembra affliggere anche lo scrittore più che medio.

Sapevate che Henry James fra il 1894 e il 1895 tentò di dedicarsi al teatro? Non era ancora il romanziere che tutti ammiriamo, ma possedeva già una rispettabile fama di saggista quando scrisse le sue quattro commedie & un dramma. Non di meno, le quattro commedie, che scrisse “leggere” per incontrare quello che credeva fosse il gusto del pubblico londinese, non trovarono un’anima disposta a metterle in scena. Le pubblicò a sue spese in due volumi, ciascuno corredato di una prefazione che, diciamocelo, è di gran lunga migliore delle commedie stesse. Il dramma, Guy Domville, trovò un incauto produttore, debuttò, fu sonoramente fischiato, sopravvisse per cinque settimane e cadde nell’oblio. Dopodiché James decise solennemente di dedicarsi solo alla narrativa – e tutti ne siamo molto felici. Perché il fatto è che, pur teoricamente consapevole delle necessità e convenzioni del teatro, James non sapeva applicarle, mettendo in scena incidenti inadatti o cercando invano di vivacizzarli facendo entrare e uscire i suoi personaggi da un’infinità di porte.

E che dire poi di Foscolo? Foscolo era il poeta che sappiamo, ma quando tentava la via delle scene diventava disastrosamente prolisso e rigido. A differenza di James, Foscolo didn’t give a button per le necessità di attori e impresari, e si ostinava a considerare soltanto la struttura della tragedia classica e il proprio gusto. Risultato, non so se abbiate mai provato a leggere qualcosa come l’Ajace (quello dei Salamini!) o la Ricciarda: gente che entra in scena e si abbandona a quarti d’ora di paludato soliloquio, rimugina, impreca, maledice, si strugge e non fa mai nulla. Ogni tanto qualcuno riferisce qualcosa che è successo, altri esclamano e si torcono le mani e poi giù altri soliloqui… Statico, statico, tre volte statico – e altrettanto unsuccessful. Capite perché gli impresari nominassero l’Ugo nazionale facendo gli scongiuri?

E per una volta non è questione di essere ossessionati dalla fabula: per sua natura, il teatro non dà accesso al paesaggio interiore dei personaggi e al sottotesto se non attraverso il modo in cui i personaggi dicono ciò che dicono. Ora, il playwright può fare due cose distinte in proposito: può lasciare che Cappuccetto Rosso venga in scena e racconti diffusamente al cielo stellato che non ne può più di vivere sotto la campana di vetro delle paranoie di sua madre, oppure può mostrarcela mentre ascolta appena le raccomandazioni della mamma, e quasi le strappa le ciambelle di mano per metterle nel cesto, ansiosa com’è di una giornata di libertà nel bosco… Tolta l’opera lirica e tolto il musical — che funzionano un po’ diversamente — indovinate quale metodo funziona meglio in scena?

Per contro, dice Sweet, c’è altra gente molto adatta alla drammaturgia, perché possiede già la giusta forma mentis: i giornalisti, perché sono abituati a selezionare i dettagli rilevanti di una storia e riportarli con più immediatezza che dettagliate distinzioni psicologiche; e gli attori, perché hanno acquisito la loro formazione creando il comportamente che serve a mostrare il significato del testo — e verificandone di prima mano l’efficacia. E in effetti Dumas Père era forse più giornalista che romanziere quando scrisse i suoi vividi, pittoreschi e immensamente applauditi drammi storici. Si potrebbe dire che siano i suoi romanzi ad avere una notevole dose di teatralità.

On the other hand, Dickens, con un percorso molto simile, e con una indefessa passione per il teatro, con i suoi drammi ottenne un successo piuttosto limitato.

A titolo di parziale consolazione, Sweet conclude che in realtà non c’è nessuna legge di natura per cui un romanziere non possa diventare un buon autore teatrale — a patto che si renda conto di dover imparare a camminare di nuovo, secondo tutt’altri principi. Dove invece resta drastico è sul fatto che, sappiatelo o Fellow Writers, gli scrittori sono pessimi protagonisti a teatro.

Anche qui, la  spiegazione è sensata: che cosa caratterizza uno scrittore? Il fatto di scrivere — ciò che avviene in solitarie e statiche sessioni notturne — e il fatto di osservare (e vampirizzare) l’umana natura — ciò che avviene per lo più nella testa dello scrittore stesso. Entrambi sono affascinanti processi, molto interessanti a leggersi in dettaglio all’interno di un romanzo, ma pressoché impossibili da rendere scenicamente. Provate a pensare a Stingo nell’adattamento teatrale di Sophie’s Choice, o alle varie incarnazioni di Christopher Isherwood nelle diverse versioni teatrali e cinematografiche di Cabaret, e troverete personaggi statici e persino un po’ passivi, gente che osserva invece di muovere dinamicamente il plot.

E qui, onestamente, c’è poco da fare, perché nessuna quantità d’impegno riuscirà a rendere i conflitti intrinseci della scrittura scenicamente utili — se non forse in veste allegorica, il che mi sembra una strada tanto datata quanto rischiosa da intraprendere.

La morale ad uso del romanziere che aspira a scrivere per le scene, stando a Jeffrey Sweet, è duplice: costui/costei farà bene a disporsi a imparare daccapo e, già che c’è, a scegliersi un protagonista che non sia uno scrittore e basta.

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Se siete interessati alla meccanica dei testi teatrali – e ancora di più se ne scrivete, potreste far di peggio che leggere il libro di Sweet. C’è solo in Inglese, ma credetemi: vale assolutamente lo sforzo:

 

E se invece foste curiosi di sapere perché il teatro di James non ha funzionato… be’:

 

Gen 10, 2011 - libri, libri e libri    11 Comments

In Guardia, Signore!

In questo articolo Duncan Noble fa dello spirito, ma in realtà il duello è un pittoresco e usatissimo device – non solo nei romanzi storici, e per ottimi motivi. Il duello non è soltanto un sistema di violenza ritualizzata – de facto una forma socialmente accettabile (o quanto meno tollerata) di omicidio – ma è anche inquadrato in una serie di convenzioni che rendono praticamente impossibile sottrarvisi, perché lo stigma sociale associato al disonore è più forte di quello associato all’omicidio. Non c’è che dire, una struttura del genere offre possibilità narrative illimitate.Scaramouche.jpg

Lo sapeva bene Rafael Sabatini, che di duelli ne metteva ovunque e in abbondanza… certo, scrivendo cappa&spada un’abbondante dose di singolar tenzoni è de rigueur, ma scriverne così tanti con qualche parvenza di varietà è già di per sé una piccola impresa. Scaramouche, forse il più conosciuto dei suoi (numerosissimi) romanzi è l’esempio tipico dello schema descritto da Noble: il Protagonista si trova a malpartito duellando goffamente con l’abilissimo e titolato Malvagio; tra un’avventura e l’altra il protagonista prende lezioni di scherma dall’equivalente tardo-settecentesco di un maestro jedi; il protagonista affronta il malvagio in un nuovo duello e, forte della sua nuova superiorità, lo sconfigge – vendicando nel contempo il suo fraterno amico, slealmente ucciso dal Malvagio a pag. 12. Il fatto che il secondo duello si concluda con un’agnizione non disturba affatto nel rendere Scaramouche un classico del suo genere.

RupertVSRassendyll.jpgChe i duelli, come le disgrazie, non vengano mai da soli è una costante: guardate Clarissa, tragico romanzone settecentesco di Richardson, la cui trama viene messa in moto dallo scosiderato duello tra il fratello della protagonista e il malvagio e fascinoso Lovelace, e si conclude con un (insolito) suicidio per mezzo di duello, in cui Lovelace, pentito e in cerca di espiazione, si fa deliberatamente uccidere dal suo avversario. Oppure considerate Il Prigioniero di Zenda, in cui il buon Rudolph e il malvagio Rupert duellano ripetutamente, a parole e in punta di spada, fino all’incontro fatale nel penultimo capitolo del seguito. Ne I Fratelli Corsi, Lucien piomba a Parigi per battersi e vendicare il fratello ucciso in duello, e le due occasioni incorniciano una storia turistico-goticheggiante, che spazia tra la Corsica selvaggia e il preternaturale legame tra gemelli. Versioni meno drastiche si trovano ad ogni passo in Georgette Heyer – per esempio in Patch and Powder, i cui due duelli parentetici inquadrano la trasformazione del giovane Philip da ragazzotto di campagna a gentiluomo di mondo. Anche per D’Artagnan, ne I Tre Moschettieri, si può dire che i duelli siano una prova iniziatica, visto che in una mattinata riesce a raccogliere una sfida da ciascuno dei suoi futuri inseparabili amici – e risolverà l’impasse da conflitto d’interessi unendosi al terzetto in una sorta di duello collettivo contro le guardie del Cardinale. La dimensione iperbolica e la moltiplicazione al cubo sono così tipicamente, allegramente dumasiane che quasi non vale la pena di parlarne, ma si può confrontare con The Jewel di Thomas Urquhart, il cui protagonista Crichtoun comincia la sua carriera italiana liberando Venezia da un micidiale duellatore di professione, e la conclude – o meglio se la trova drasticamente conclusa – in un improbabile duello uno-contro-dieci in un vicolo buio a Mantova.

Non è poi detto che i duelli debbano essere due: Sigognac, ovvero Capitan Fracassa, diventa uno spadaccino formidabile perché non ha altro da fare che allenarsi, e la sua abilità gli salva la vita numerose volte nel corso del romanzo. I protagonisti de Il Duello di Conrad, addirittura passano le rispettive carriere napoleoniche e post-napoleoniche a duellare ogni volta che le loro strade s’incrociano, ma Conrad essendo Conrad, lo schema è molto diverso.

dickensduel.jpgLa costante è meno certa al di fuori del romanzo di genere, se vogliamo. Il Barry Lindon di Thackeray inizia le sue vicissitudini con un duello, mentre i fratelli Durie concludono in punta di spada la loro ventennale discordia nell’ultimo capitolo de Il Signore di Ballantrae, così come Sir John Chester e Sir William Haredale in Barnaby Rudge. In Ragione e Sentimento si duella offstage, ma non c’è nulla di romantico o pittoresco: quando il Colonnello Brandon sfida Willoughby non è per amore di Marianne ma per un’altra faccenda più sordida, e le Dashwood reagiscono con inorridito sconcerto.

Gente come Alan Breck Stewart e Cyrano de Bergerac, duella serialmente e con ppassione, ma qui occorre forse distinguere fra agguati e battaglie da una parte, e dall’altra il duello propriamente detto e fortemente ritualizzato: tutti conosciamo particolari come il guanto di sfida, la convocazione dei secondi, la scelta delle armi che spetta all’offeso, la presenza del chirurgo, l’incontro all’alba in luogo deserto, l’offerta di riconciliazione, i dieci passi… L’intera faccenda era minutissimamente regolata da codici scritti e usanze non scritte: ci si uccideva in buona forma, e non rispettare le regole era disdicevole quanto non onorare una sfida.

Chi sembra ossessionato dai duelli, e non certo con la pittoresca allegria di un Dumas o di uno Hope,Onegin_by_Repin.jpg sono i Russi. In Guerra e Pace Pierre duella con Dolokhov, in Padri e Figli ci sono Kirsanov e Bazarov (e Turgenev ha al suo attivo anche il racconto I Duellanti), ne Il Duello di Chekhov Laevskij e Von Koren ne fanno un pasticcio, mentre Evgeni Onegin uccide in un duello alla pistola il suo amico Lenskij… Pushkin, d’altronde, infila duelli un po’ ovunque: La Figlia del Capitano, Il Prigioniero del Caucaso, Lo Sparo, Il Convitato di Pietra… nessuno si stupì troppo quando lui stesso morì in duello*.

Il che ci porta a distinguere rapidamente tra duello all’arma bianca (al primo o all’ultimo sangue) e duello alla pistola, nel quale ogni tanto qualcuno scarica nobilmente in aria – a volte con risultati imprevisti: l’eponimo Flashman ottiene del tutto immeritatamente** la stima del Duca di Wellington, mentre ne La Montagna Incantata Settembrini ottiene solo di farsi dare del codardo dall’avversario risparmiato – che comunque procede a suicidarsi. MacDonald Fraser e Thomas Mann erano due scrittori molto diversi.

Tybalt&Romeo.jpgA teatro si duella abbastanza: se gli attori sanno quel che fanno, un po’ di scherma in scena è bella a vedersi, oltre che altamente drammatica. Shakespeare ci dava dentro – citiamo soltanto Amleto e Romeo e Giulietta (che ha a sua volta due duelli focali in rapidissima successione), e in Zastrozzi The Master of Discipline, di Walker, si duella talmente tanto che nei teatri piccoli chiedono al pubblico di non alzarsi mai durante lo spettacolo: si vede che lo spettatore decapitato è cattiva pubblicità***… Però ci vuole cautela: poche cose sono buffe come vedere gente che mena goffamente spade di latta, e un duello mal coreografato può assassinare uno spettacolo. Più sicuri sono i duelli offstage: uno contro cento alla Torre di Nesle, nel Cyrano, Ruy Blas che si libera di Don Sallustio nella stanza accanto per non impressionare troppo la Regina, o il minacciato duello tra Gerald Arbuthnot e Lord Illingworth, scongiurato dalla madre di Gerald che si getta tra i due gridando “Gerald, no: è tuo padre!!!”***

Credo che chiuderò citando anomalie come il duello al coltello di Cavalleria Rusticana, e i maestri d’armi, categoria professionale di riguardo**** cui sono stati dedicati almeno due romanzi – uno di Dumas e uno di Perez Reverte, il cui Capitano Alatriste, d’altronde, è uno spadaccino a pagamento.

Insomma, un buon duello offre ogni genere di possibilità: azione, scontro climatico, un pittoresco sistema di smaltimento personaggi, lutti misti assortiti, compimento di vendetta, motivazione di vendetta, caratterizzazione, sfoggio di dettagliata conoscenza storica in fatto di armi, uso delle stesse, regole, codici d’onore, social mores, eccetera, fattori catalitici o scatenanti, svolte della trama, rivelazioni e agnizioni… Che cosa non si può fare con un duello, accessorio versatile e buono per tutte le stagioni?

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* Capitava: Tolstoj ebbe le sue (non letali) disavventure in materia, così come Mark Twain…

** Flashman non è un bravo ragazzo: paga profumatamente l’armiere per far inceppare la pistola del suo (molto più abile e giustamente offeso) avversario, e quando “scarica in aria” colpisce per caso il tappo di una bottiglia: il Duca ne deduce, sbagliando, che Flashman avrebbe potuto uccidere facilmente il suo aversario e non l’ha fatto.

*** Dunque, Wilde aveva detto (tra molte altre cose) che occorre avere un cuore di pietra per non ridere sulla morte della Piccola Nell dickensiana. Aveva ragione, a mio parere. Tuttavia, dopo la prima di Una Donna Senza Imprtanza, un critico di cui mi sfugge il nome disse che la scena “No, Gerald!” meritava di essere immortalata in litografia a colori a tiratura altissima, ed affissa in ogni angolo di Londra a imperituro ludibrio del suo autore. Aveva ragione anche lui.

**** In Francia, ancora nel Settecento, vent’anni di attività come maestro d’armi conducevano a un titolo nobiliare…

Set 20, 2010 - pennivendolerie    7 Comments

Quella lì è una scrittrice

Ero sul treno Mantova-Milano, sabato mattina, e dall’altra parte del corridoio erano sedute due signore che, ogni tanto, mi guardavano e poi tornavano a parlottare fra loro.

Mentre tutti scendevamo a Milano, ho sentito una delle due dire all’altra che sì, ero proprio quella scrittrice là. Avevano un accento mantovano ed erano salite a Mantova, e quindi non è esatto dire che sono stata riconosciuta a Milano, però…

Ripensandoci, spero vivamente che “quella scrittrice là” non significasse “l’autrice di quell’orrido romanzo che mi ha regalato mia suocera – dopo averne lette venti pagine con immane sforzo ho deciso che potevo usarlo per tappare lo spiffero della finestra nel bagno di servizio”.

Può sempre capitare anche quello: una volta, durante una presentazione, una signora mi ha rimproverata aspramente perché ne Lo Specchio Convesso avevo messo in cattiva luce Vincenzo Gonzaga, e dopo l’occasionale cena pesante mi capita ancora di sognare lo storico che, mentre ci presentavano, mi ha annunciato, fissandomi con occhio di falchetto maldisposto, che disapprovava dal profondo del cuore le libertà narrative che mi ero presa, sempre nello Specchio. La tirata d’orecchi della mia vita, però, l’ho presa per avere scritto ne Il Giglio e la Falce (inedito primo volume di un’ineditissima trilogia) che i sacerdoti vandeani impartivano l’assoluzione preventiva prima della battaglia. E’ assolutamente vero – e per quanto ne so la pratica non era confinata alla Vandea o alla fine del Settecento), ma ciò non toglie che sia stata irragionevolmente bacchettata per averlo scritto.

Ciò che mi consola è che non sono precisamente un caso isolato: Louisa May Alcott fu sommersa dalle lettere di lettrici irate per la morte di Beth in Piccole Donne, e lo stesso accadde a Dickens con la morte della piccola Nell. La cosa buffa è che Nell era stata spedita prematuramente al Creatore su suggerimento di un amico e lettore, cui pareva che un finale drastico si adattasse meglio alla situazione generale. In effetti, Nell è di quella gente troppo buona per vivere che va rimossa da questa terra (o quanto meno dal suo romanzo) con tutta la prontezza possibile, ma resta il fatto che Dickens era sempre molto ansioso di compiacere i suoi lettori. Quello che non aveva calcolato era la possibile reazione delle folle infatuate. Pare che, all’epoca dell’uscita dell’ultima puntata in Inghilterra, le navi inglesi fossero accolte al porto di New York da folle di ansiosi lettori che volevano sapere dai passeggeri in arrivo se Nell fosse viva. Potete immaginare che questa gente, se avesse incontrato Dickens in treno dopo avere saputo la luttuosa notizia, non sarebbe stata amichevolissima. E a proposito di treno, Daniel O’Connel, tostissimo campione dell’emancipazione dei Cattolici d’Irlanda, stava leggendo TOQS in volume durante uno spostamento ferroviario. Quando arrivò alla scena della morte di Nell, scoppiò a piangere e scaraventò il libro fuori dal finestrino.

Posso assicurare con sollievo che le due signore non hanno scaraventato nessun romanzo – mio o altrui – dal finestrino del Mantova Milano.

Set 18, 2010 - televisione, teorie    4 Comments

Feuilleton

Ho, non da oggi, una teoria.

Avete presente quegli scrittori che nell’Ottocento pubblicavano romanzi a puntate su riviste e periodici? Non sto parlando di scalzacani qualsiasi: naturalmente c’erano anche quelli – e in grande abbondanza – ma al momento ho in mente Dickens, per esempio, e Dumas père.

Ora, pubblicare a puntate era un mestieraccio da cani, più o meno redditizio, perfetto per farsi venire la pressione alta: intanto, ogni settimana bisognava consegnare una precisa quantità di parole, e ogni episodio doveva contenere la sua dose di tensione, terminando, se possibile, con il protagonista (o un altro personaggio di rilievo) in grossi guai… E poi, non c’era spazio per i ripensamenti. Voglio dire, se il personaggio X compariva nel capitolo 3 come amorale, godereccio e nocivo per la protagonista, e poi, cinque settimane e cinque capitoli più tardi, l’autore non sapeva più che farsene di lui amorale, godereccio e nocivo… era troppo tardi, perché il capitolo 3 era già stato letto da più di un mese. E allora, se ci si chiamava Dickens si azzardavano conversioni a 180° in corso d’opera; se si era qualcun altro, si andava avanti brontolando contro il destino malvagio e gli editori aguzzini, e si finiva con lo scrivere storie più modeste del loro potenziale.

In compenso, c’era il feedback immediato, la possibilità di sentire il polso del pubblico e reagire, in un modo o nell’altro, un po’ come un buon attore di teatro risponde all’umore della sala.

Incidentalmente, questo spiega perché tanti romanzi di Dickens trabocchino di trame secondarie, personaggi minori e caratterizzazioni ondivaghe, ma non è questo il punto.

Il punto è, e finalmente veniamo alla mia teoria, che gli eredi di questi scrittori sono gli autori televisivi. Sono loro a dipanare vicende complesse, con un’infinità di personaggi e un diluvio di sviluppi, con un arco narrativo dilatato nel tempo, e più o meno flessibile al feedback del pubblico.

Un esempio? Quando gli ascolti di Murder, She Wrote (La Signora in Giallo) sono calati poco sopra un improponibile 30%, un nuovo produttore ha cominciato a spedire Jessica Fletcher a Boston e New York, a farle tenere corsi universitari di scrittura creativa e criminologia, a farle vivere la vita di una romanziera di successo, con presentazioni, conferenze, traversie editoriali, autografi, contratti da firmare… Risultato? Questa evoluzione del personaggio e del suo mondo ha ricatapultato gli ascolti di MSW sopra il 50%.

E non è a caso che cito un telefilm americano. Senza voler soffrire di esterofilia, personalmente preferisco stendere un tulle misericorde sulla produzione italiana, ma in America esiste una scuola di scrittura televisiva che qui non ci possiamo nemmeno sognare. In parte, va detto, il merito è di un pubblico molto più smaliziato, ma francamente, la pura e semplice qualità di scrittura di certi prodotti americani mi riempie d’invidia oltre ogni dire.

Vogliamo citare un Dr.House, dove tutto è al servizio della caratterizzazione e della sottilissima evoluzione di un singolo personaggio? Con contorno di dialoghi superbi, e di un’asciuttezza meravigliosa nel trattare temi etici controversi.

Oppure Grey’s Anatomy, dove ogni puntata non fa altro che sviluppare lo stesso tema sotto angolazioni diverse, con i personaggi che giocano come facce di uno stesso prisma, e il tutto riesce a rientrare con perfetta scioltezza entro l’arco narrativo.

O ancora Desperate Housewives, dove lo humor è perfido, e dove ogni azione di ogni personaggio scatena conseguenze a cascata, con i problemi che si risolvono sempre in altri problemi peggiori, e ogni apparente soluzione non fa altro che generare nuove e più grosse magagne.

Ah, saper fare tutto questo, stagione dopo stagione, in modo lucido, coerente, brillante, acuto e credibile!

Ecco perché, signori della giuria, si sostiene qui che gli eredi di Dickens e Dumas sono oggi non tanto i romanzieri, quanto gli autori televisivi – e bisogna riconoscerlo: gli Americani lo fanno meglio. Vostro Onore, ho terminato…

…er, no. Mi sa tanto che ho sbagliato telefilm.

Set 17, 2010 - libri, libri e libri    2 Comments

La Forza dell’Incompiuto

Credo che fosse Paul Taylor, il coreografo, a dire che non esistono opere incompiute, solo lavori in corso.

Sarà, ma quando l’autore è defunto e il libro non è finito, è un pochino difficile continuare a considerarlo work in progress… Poche cose sono frustranti come un romanzo che s’interrompe senza che la storia sia terminata, con la certezza che nessuno la terminerà mai più. Oddìo, qualche volta qualcuno la termina, ma chi ha mai letto Il Silmarillion completato da Guy Gavriel Kay senza domandarsi come lo avrebbe davvero voluto Tolkien?

La stessa cosa vale per Hero and Leander di Marlowe: checché ne dicano legioni di cospirazionisti, dubito che Kit si aspettasse davvero di morire a Deptford, lasciando incompiuto il suo luminoso e stravagante* poema narrativo. George Chapman lo terminò, ma Chapman era un poeta d’altra lega e tutt’altro genere di personaggio, un uomo di mezza età oppresso dai debiti e dalle cause, disperatamente ansioso di patrocinio e con un talento disastroso nello scegliersi mecenati destinati al disastro politico o a una morte prematura… Sono seriamente tentata di pensare che, nonostante Museo e Ovidio fossero le fonti di entrambi, il risultato sarebbe stato molto diverso senza la fatale coltellata.

Molto più frustrante è Il Mistero di Edwin Drood, l’ultimo e incompiuto romanzo di Dickens, che è anche un giallo – o quanto meno il protagonista eponimo sparisce (presumibilmente assassinato) e non c’è il minimo indizio di come dovesse risolversi la vicenda. Invecchiando, Dickens aveva cominciato a progettare i suoi romanzi con più cura, annotandosi gli sviluppi effettivi o possibili con vari capitoli di anticipo, ma non nel caso di Edwin Drood, accipicchia! Vero è che John Jasper promette male assai e sembra un candidato perfetto al ruolo di assassino, ma con Dickens non si poteva mai dire per certo, e chi lo sa? La cosa buffa è che dal mezzo libro è stato tratto un musical nel quale, a un certo punto, si fa votare il pubblico in sala per scegliere il finale. Anche quello è un modo, immagino.

Conrad, per fortuna, non lasciò incompiuto nulla di particolarmente memorabile: The Sisters riprende l’eroina del (bruttino) The Arrow of Gold, e benché Stephen sia un protagonista promettente, non si ha la sensazione di essersi persi un capolavoro. Non sapere come finisce Suspense forse è un po’ peggio, ma potrebbe essere una mia impressione, perché ho un debole per le storie ambientate in epoca napoleonica. Ad ogni modo sono frustrazioni puramente narrative, perché i capolavori erano già saldamente terminati da anni.

Lo stesso si potrebbe dire di Jane Austen, ma non nego che mi sarebbe piaciuto leggere fino in fondo Sanditon e, soprattutto, The Watsons. L’edizione critica che ho letto avanzava due tipi di dubbio sul secondo: forse la zia Jane aveva l’impressione di ripercorrere terreno già coperto in Orgoglio e Pregiudizio, o forse si era stancata della genteel poverty delle sorelle Watson, la cui posizione sociale sembra abbastanza simile a quella di una Jane Fairfax in Emma… Sia come sia, è un peccato. Meno gravi sono i numerosi lavori giovanili lasciati a mezzo – esercizi di stile ed esplorazione di temi che poi torneranno nei romanzi. Semmai, mi spiace di non sapere come finisce The Three Sisters, delizioso abbozzo di romanzo epistolare. Confesso di averne iniziato, qualche anno fa, una riduzione teatrale. Magari un giorno la finirò, non fosse altro che per portare a una conclusione la vicenda di Mary, Sophy e Georgiana.

Stendhal è tutta un’altra questione. Lucien Leuwen avrebbe potuto essere un altro Le Rouge et le Noir. C’è di nuovo la provincia francese descritta in chirurgico dettaglio, c’è un protagonista più ingenuo di Julien e più ragionatore di Fabrice, c’è un’innamorata di famiglia ultra-realista – il che promette guai a venire… Dover lasciare tutto a metà è veramente un’enorme delusione.

Stevenson di incompiuti ne ha lasciati due: The Weir of Herminston e St. Ives – quest’ultimo terminato da un altro romanziere, e siamo sempre al dubbio di cui si diceva: la storia è finita, grazie, ma è come l’avrebbe finita Stevenson? Una di quelle cose che non sapremo mai, nel bene e nel male. Il rovello resta, ma resta anche spazio per la speculazione. Si può leggere tutto Stevenson e farsi la propria idea su come sarebbe dovuta finire la vicenda di Jacques. E già che si è lì, ci si può domandare anche perché mai in ciò che resta di The Weir, debbano esserci due differenti personaggi chiamati Christina.

Perché bisogna anche considerare questo: se un romanzo sussiste incompleto, di sicuro non è come il suo autore avrebbe voluto presentarlo ai lettori. Non solo ne manca un pezzo, ma è anche una prima stesura, materia grezza che avrebbe richiesto ancora molto lavoro e – in tutta probabilità – anche cambiamenti sostanziali. Forse non è nemmeno del tutto giusto pubblicarlo… non è difficile immaginare Stevenson che si rivolta nella tomba all’idea del suo abbozzo incompiuto, della sua prosa non rifinita, delle sue due Christine, del suo Archie ancora approssimativo esposti alla lettura per cui non erano pronti.

In considerazione di questo, e di quanto mi irriti una storia lasciata a metà, ogni volta mi ripropongo di non leggere più incompiuti. E ogni volta cedo e leggo lo stesso, pur sapendo che detesterò arrivare al punto in cui lo scrittore si è fermato per cause di forza maggiore o per noia. In parte è il desiderio di vedere lo stadio intermedio, dare un’occhiata al dietro le quinte, cogliere un ombra del metodo creativo che sta dietro i romanzi finiti; in parte è qualcosa d’altro.

Una volta, a Edimburgo, ho visto una scultura che consisteva in tre punte che sembravano doversi toccare e non arrivavano a farlo. Non ricordo l’autore e nemmeno il titolo, ma ricordo di essere rimasta a lungo a fissare le tre punte, affascinata dal movimento incompiuto, dal contatto sfiorato ma non raggiunto. Quel non-finito sembrava pieno di forza e di possibilità. La stessa forza e la stessa abbondanza di possibilità, credo, che continuo a cercare – against my better judgement – in ogni romanzo incompiuto che prendo in mano.

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* Basti per tutto il resto la descrizione del velo di Hero, ricamato a fiori talmente realistici che la fanciulla passa il suo tempo a cacciare via le api…

 

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