Tagged with " dickens"
Mar 7, 2016 - libri, libri e libri    8 Comments

Il Mostro Multicipite

Crowd1La folla è una di quelle cose che supplicano di essere scritte. Trovatemi il romanzo storico che, prima o poi, spesso in qualche momento altamente climatico, non se ne esca con una bella scena di folla in tumulto. D’altra parte, le folle si prestano bene alla bisogna: le folle rumoreggiano, ruggiscono, s’infuriano con facilità, osannano, si fanno trascinare, sbandano sotto la paura, si sollevano, fanno un gran chiasso, festeggiano, assaltano, distruggono, incendiano, portano in trionfo, calpestano, linciano… È come avere un elemento naturale, però senziente (almeno in parte), e con una psicologia tutta sua. Ammettiamolo: una tentazione irresistibile. Per non parlare poi delle battaglie, perché cos’è in definitiva una battaglia, se non folle organizzate in armi che si muovono per nuocersi vicendevolmente?

Ma sorvoliamo su tattica e strategia, per il momento, e concentriamoci piuttosto sulle folle in furia disordinata, i tumulti di piazza, le sollevazioni, i tafferugli.

Francamente, D’Annunzio non è il mio autore preferito, e credo anzi che sia un’eresia grossa se dico che tra i suoi lavori la mia predilezione va alle Novelle della Pescara. In una delle Novelle, La Morte del Duca d’Ofena, la folla assalta il palazzo di un feudatario molto odiato.

“La moltitudine […] irrompeva su per l’ampia salita, urlando e scotendo nell’aria armi ed arnesi, con una tal furia concorde che non pareva un adunamento di singoli uomini ma la coerenta massa d’una qualche cieca materia sospinta da una irresistibile forza. In pochi minuti fu sotto al palazzo, si allungè intorno come un gran serpente di molte spire, e chiuse in un denso cerchio tutto l’edifizio. Taluni dei ribelli portavano alti fasci di canne accesi, come fiaccole, che gittavano su i volti una luce mobile e rossastra, schizzavano faville e schegge ardenti, mettevano un crepitìo sonoro. […] “

Per la gente del palazzo non si mette bene. Il maggiordomo del duca si affaccia al balcone e…

“Un urlo immenso l’accolse. Cinque, dieci, venti fasci di canne ardenti vennero lì sotto a radunarsi. Il chiarore illuminava i volti animati dalla bramosia della strage, l’acciaro degli schioppi, i ferri delle scuri. I portatori di fiaccole avevano tutta la faccia cospersa di farina, per difendersi dalle faville; e tra quel bianco i loro occhi sanguigni brillavano singolarmente. Il fumo nero saliva nell’aria, disperdendosi rapido. Tutte le fiamme si allungavano da una banda, spinte dal vento, sibilanti, come capellature infernali.”

La folla si muove come una forza cieca, come un serpente, e gli occhi luccicanti nelle facce infarinate hanno poco di umano. Tra il duca dissoluto e tirannico e la folla animalesca, l’autore non distribuisce simpatie: registra i colori, le luci, le urla e la paura, e ce li mette davanti agli occhi, vivi e paurosi.Crowd32

Passiamo altrove e in altri tempi: la Milano secentesca di Manzoni, con la folla che assalta la casa del Vicario alle Provvigioni e cerca di abbattere la porta.

“Chi con ciottoli picchiava su’ chiodi della serratura, per isconficcarla; altri, con pali, e scarpelli e martelli, cercavano di lavorar più in regola; altri poi, con pietre, con coltelli spuntati, con chiodi, con bastoni, con l’unghie, non avendo altro, scalcinavano e sgretolavano il muro, e s’ingegnavano di levare i mattoni, e fare una breccia. Quelli che non potevano aiutare, facevan coraggio con gli urli; ma nello stesso tempo, con lo star lì a pigiare, impicciavan di più il lavoro già impicciato dalla gara disordinata dei lavoranti”

Espressivo e pittoresco, assai meno viscerale di D’Annunzio. A Manzoni non importa mostrarci la folla malvagia e pericolosa. Ce la descrive, invece, la analizza, descrivendone gli estremi, i rimestatori e i pacieri, e la massa che si fa manovrare:

“Chi forma poi la massa, e quasi il materiale del tumulto, è un miscuglio accidentale d’uomini che più o meno, per gradazioni indefinite, tengono dell’uno o dell’altro estremo: un po’ riscaldati, un po’ furbi, un po’ inclinati a una certa giustizia, come l’intendon loro, un po’ vogliosi di vederne qualcheduna grossa, pronti alla ferocia e alla misericordia, a detestare e d adprare, secondo che si presenti l’occasione di provar con pienezza l’uno o l’altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, d’applaudire a qualcheduno o d’urlargli dietro. Viva e moia, son le parole che mandan fuori più volentieri; e chi è riuscito a persuaderli che un tale non meriti d’essere squartato, non ha bisogno di spender più parole per convincerli che sia degno d’esser portato in trionfo”.

Vivido e acuto, ma distaccato, e sempre lievemente ironico, Manzoni è pur sempre il nipote degl’Illuministi.

Crowd33Infine, passiamo la Manica per uno dei due soli romanzi storici di Dickens, il poco noto Barnaby Rudge. Barnaby è un semplice che, nel 1780, si trova suo malgrado coinvolto in una sollevazione anticattolica nelle strade di Londra. Ecco quello che Gashford, uno dei malvagi, vede da una finestra:

“Avevano delle torce accese, e si distinguevano bene i volti dei capi. Che venissero dall’aver distrutto qualche edificio era chiaro, e che si fosse trattato di un luogo di culto cattolico si capiva dalle spoglie che portavano a mo’ di trofei, facilmente riconoscibili per abiti talari e ricchi arredi d’altare in pezzi. Coperti di fuliggine, e sudiciume, e polvere e  calce, con gli abiti a brandelli e i capelli scarmigliati, con le mani e i volti insanguinati per i graffi dei chiodi arrugginiti, Barnaby, Hugh e Dennis venivano per primi, con l’aria di pazzi furiosi. Li seguiva una folla densa e furibonda, di gente che cantava e dava urla trionfanti, e rompeva in liti, e minacciava gli spettatori ai lati della strada, e brandiva gran pezzi di legno, su cui scatenava la sua rabbia come se fossero stati vivi, facendoli a brani e gettandoli per aria, gente ebbra, dimentica delle ferite ricevute nel crollo di mattoni, pietre e travi, che portava a braccia, su una porta divelta, un corpo avvolto in un panno tarlato, forma inerte e spaventosa.  Così turbinava la folla: una visione di facce rozze, macchiata qua e là dalla vampa fumosa di una torcia, un incubo di teste diaboliche e occhi feroci, e bastoni e spranghe levate in aria e roteate, uno spaventoso orrore di cui si vedeva così tanto eppure così poco, che pareva breve e interminabile al tempo stesso, così fitto di visioni spettrali, ciascuna incancellabile dalla mente, e tutte insieme impossibili da cogliere a una sola occhiata – così turbinava la folla, e in un istante passò oltre.”

Dickens fa qualcosa di diverso ancora: parte da una descrizione fisica e dettagliata, in cui si riconoscono persone e oggetti, per poi scioglierla gradualmente in una visione da incubo, immagini confuse e spaventose, di durata e consistenza oniricamente incerte.

Insomma: tre autori, tre libri, tre folle impegnate allo stesso modo, ma molto diverse tra loro e, soprattutto, tre sguardi ben distinti. Non viene voglia di provare?

Ago 25, 2015 - Genius Loci, posti    2 Comments

Genius Loci

Genius lociSto pensando che mi piacerebbe davvero riprendere e portare in giro Scrittori & Città, le conferenze che avevo tenuto due o tre secoli orsono alla UTE di Mantova. L’idea – credit where it’s due – era partita dalla signora Paola Donati, e io avevo contribuito al ciclo con cinque titoli. Bel tema, un sacco di possibilità interessanti, argomento che mi sta a cuore…. La ricordo come una bella esperienza.

E sì – l’argomento mi piace parecchio. Ho sempre creduto all’alchimia fra posti e persone: posti e persone si costruiscono a vicenda, cosa che ho imparato in un’altra vita, quando costruivo case. Oh, d’accordo: tetti di case, ma il concetto non cambia e vale ancora di più per le città.

Tutti noi siamo, almeno in parte, il prodotto dei posti di cui assorbiamo la cultura, il clima sociale (e anche quello meteorologico), le idee e le tradizioni, di cui sfruttiamo le opportunità o subiamo gl’inconvenienti. Lo scrittore, che per sua natura è una combinazione tra una spugna e un frullatore, oltre ad essere un prodotto dei suoi posti può diventare anche l’osservatore, l’interprete e, talvolta, persino l’artefice.

Pensiamo a Emily Brontë e alle brughiere dello Yorkshire. Emily amava le sue brughiere e le ha ritratte, ricreate e Lorna-Doonedrammatizzate nel suo romanzo con tanta efficacia che tutti noi associamo all’idea di brughiera la voce di Cathy che chiama Heatcliff nel vento. Attraverso Cime Tempestose, le brughiere di Emily sono diventate le brughiere di un sacco di gente che ha visto o non ha visto una brughiera per davvero.

Altre volte l’associazione non è solo geografica, ma anche storica. Pensiamo alle varie componenti sociali della Sicilia ottocentesca ritratte nei romanzi di Verga, di Tomasi di Lampedusa e di De Roberto, per esempio. Oppure all’idealizzazione romantica del Sud degli Stati Uniti alla vigilia della Guerra Civile compiuta da Margaret Mitchell in Via Col Vento. Perché non è affatto detto che lo scrittore debba essere obiettivo o scientifico: i romanzi non fanno cronaca, ritraggono un’era, un’atmosfera, un clima… in un posto specifico.

SalammboPoi ci sono autori vagabondi o cosmopoliti, autori che scrivono di molti posti che hanno visto, che non hanno mai visto o che hanno inventato, autori che ricercano sui libri, autori che immaginano, autori cui non importa molto del posto in cui si trovano. Byron ha trascorso molto tempo a Venezia, e la Venezia delle sue opere è deliberatamente una collezione di fondali d’opera, mentre la Grecia di Durrel è ritratta attraverso una spessa lente nonsense. Per contro, i Caraibi di Salgari sono pura fantasia, così come la Russia di Dumas e l’Italia della signora Radcliffe. Oppure c’è un Flaubert, che, prima di scrivere Salammbo, se ne va in Algeria e Tunisia, a caccia di colori e di luci: “…il cielo diventa di un verde pallidissimo e il mare si rischiara sotto questa grande striscia indefinita… ormai ci sono pochissime stelle, molto diradate; tutta la parte sud e ovest di Cartagine è di un biancore brumoso…” Ci si legge l’ansia puntigliosa di ricreare questo posto (una Cartagine ormai morta da venti secoli) quando sarà di nuovo in Francia, seduto alla sua scrivania.Utopia

Ci sono anche autori che inventano i loro posti: Swift e Lilliput, Thomas More e Utopia, Hope e la Ruritania, Cyrano e i Regni della Luna e del Sole. E il discorso appare meno peregrino quando si pensa a come questi posti inventati rispecchino, distorcano, idealizzino, mettano in parodia o in satira dei posti reali.

Infine ci sono autori che finiscono con l’incarnare un luogo perché non solo le rappresentano ripetutamente nella loro opera, ma a loro volta rappresentano tipicamente un’epoca, un modo di vita, una generazione, una corrente intellettuale. Questi legami sono particolarmente evidenti con quelle città che hanno svolto il ruolo di centri intellettuali. In una grande città piena di gente che va a teatro e legge i giornali, che crea e segue le mode, che sperimenta in prima battuta i cambiamenti sociali e le innovazioni, lo scrittore ha una quantità infinita di stimoli, di contatti, di possibilità e di pubblico. Le città, con le corti, le università, le biblioteche, i musei, le cattedrali, i caffè, i mercati, i teatri, l’umanità fitta, varia e affamata di storie e parole, in tutte le epoche attraggono gli scrittori come calamite, li lusingano, li portano alla fama o li relegano nelle soffitte.

DickensLondonE in cambio, ogni tanto, uno scrittore coglie lo spirito di una città, lo assorbe, lo fa suo, gli dà forma e colore e lo consegna alla letteratura. Qualche volta la città diventa un personaggio a pieno titolo, qualche volta una cornice pittoresca, o una quinta teatrale, o un’ispirazione inesauribile, o un simbolo, o un’idea. Una città di carta e inchiostro può essere tanto varia e complessa quanto la sua controparte di mattoni.

Provate a pensare all’amore/odio tra Dickens e la sua Londra fatta di prigioni, botteghine, tribunali, strade sudicie, slums e ponti, immersa nella nebbia, offuscata dal fumo, nera di fuliggine, eppure brulicante di vita. Non è detto che Londra fosse così – eppure la forza della visione di Dickens è tale da condizionare ancora oggi quella dei suoi lettori: a due secoli abbondanti di distanza, tutti andiamo a Londra e cerchiamo Dickens.

Questo è, in definitiva, il sugo del legame tra uno scrittore e una città. È quel che avevo cercato di indagare e raccontare in Scrittori & Città – e adesso mi ritrovo ad averne nostalgia, e mi piacerebbe rispolverare i risultati. Mi metterò in cerca di posti – ma intanto, se a qualcuno da qualche parte interessa sentirmi bagolare di Londra, Parigi, Vienna ed Edinburgo attraverso le opere dei loro numi tutelari letterari, fatemi sapere. C’è un form, qui in fondo alla colonna a destra, chiamato “Domande, idee, dubbi, curiosità?” Contattatemi – e ne discuteremo.

Feb 2, 2015 - libri, libri e libri, teorie    Commenti disabilitati su Pessimi Segni E Vin Passito

Pessimi Segni E Vin Passito

Sabato pomeriggio ero in una vineria in cerca di un passito siciliano. Ho scelto una bottiglia di Grecale – non per un buon motivo, ma perché ha un nome bellissimo. E mentre prendevo la mia bottiglia dallo scaffale ho pensato: “Se qualcuno mi stesse scrivendo, questo non sarebbe un buon segno per la mia aspettativa di vita.”

Certi particolari di caratterizzazione indicano con terrificante certezza che il personaggio in questione non è destinato a una lunga vita felice. Specialmente lunga.

MNY46308Prendete la tosse, per esempio. All’opera, nei romanzi e nei film ormai siamo così assuefatti all’equazione che quando qualcuno tossisce e sopravvive ci restiamo quasi male. Margherita/violetta, John Keats*, Edgar Linton, Louis Dubedat, Ralph Touchett, Doc Holliday… potrei continuare a lungo. E potrei citare un muratore che, tra un mattone e l’altro, mi aggiornava su Angeli e Demoni che stava leggendo. “Ah, ma Kohler ha una gran brutta tosse,” ripeteva ogni volta in idioma locale, scuotendo funereamente la testa.

Ma ci sono altre categorie di goners. Una è costituita dalle Ragazzine Troppo Angeliche Per Vivere. Little Nell, Little Eva, Beth March**… le leggi – così tenere, così preternaturalmente sagge, così adorate da tutti (tranne quelli tra i malvagi che sono anche meschini), le osservi dispensare luce e gioia e redimere cuori durissimi ad ogni passo, ti stupisci che non affoghino nella loro stessa saccarina, ti ritrovi a desiderare di poterle spingere giù dalla massicciata della ferrovia – ma poi ti viene in mente che questi angeli non sopravvivono, e ti consoli: con un minimo di fortuna, te ne libererai abbastanza presto.

In linea generale, anche l’Arcangelo della Rivoluzione non invecchia. Penso a gente come Enjolras de I Miserabili, Gauvain in Novantatre di Hugo, e Victor Haldin del conradiano Sotto Gli Occhi Dell’Occidente… La combinazione di intransigenza e scarso senso pratico tende a condurre alla tomba in tempi rapidi.***

Poi c’è, anche se questo è un caso più specificamente meccanico, la vittima designata nei gialli della vecchia scuola inglese. Prendete i capitoli introduttivi di un qualsiasi romanzo di Agatha Christie, Josephine Tey, N’Gayo Marsh o Georgette Heyer – oppure il primo quarto di un qualsiasi episodio de La Signora in Giallo – e state pur certi che il personaggio che si fa detestare a diritta e a mancina cadrà presto. Il che risponde all’esigenza narrativa di fornire moventi a più gente possibile e a quella morale di offrire qualche whiff di giustificazione all’assassino, ma resta il fatto che, in linea generale, la persona più sgradevole muore.Friends_of_the_ABC

E che c’entra tutto ciò con il Grecale? direte voi.

C’entra, perché un altro, seppur molto meno diffuso, segno poco promettente è una passione per i nomi che va al di là della ragionevolezza pratica. Provate a pensarci: in Un’Anima Non Vile, Konradin von Hohenfels è certo che Alicarnasso debba essere un posto meraviglioso solo sulla base della bellezza del nome. E Konradin si trova di fronte a un plotone d’esecuzione a venticinque anni. In Un Albero Cresce A Brooklyn, Johnny Nolan sceglie di portare la sua nuova sposa a vivere nella buia, malsana e scomoda Bogart Street, per nessun miglior motivo del suo bel nome misterioso, il bog(g)art essendo un folletto particolarmente malevolo del folklore irlandese. Johnny muore poco più che trentenne di polmonite, alcolismo e incapacità di vivere. Hanno Buddenbrook, nel corso dei suoi cupi pomeriggi sul divano del salotto buio, si ripete all’infinito nomi poetici e immaginari per il gusto del loro suono e delle immagini che evocano. Hanno muore adolescente per il tifo. Eccetera****.

Gli dei rendono ciechi quelli che vogliono perdere? Si direbbe che invece gli scrittori diano a quelli che vogliono perdere pessimi polmoni, un carattere angelico o una predilezione per i nomi. 

Oh, e il Grecale era squisito.

___________________________________________

* Sì, lo so: Keats non è un personaggio letterario, ma quanti sapevano come va a finire prima che cominciasse a tossire in Bright Star?

** Beth poi ha anche la tosse…

*** Qualcuno mi dice che fine fa Florian nella Trilogia di Westmark di Alexander Lloyd? Ho letto i primi due volumi, secoli orsono, e poi mi sono stancata, ma a suo tempo ero stupita del fatto che Florian, l’Enjolras della situazione, non l’avesse ancora presa nelle costole…

**** E che dire di Gwendolen e Cecily, decise a non poter amare un uomo con un nome diverso da Ernest? Naturalmente nessuna delle due muore, but lo! la convenzione ha persino una parodia!

Dic 20, 2013 - Natale    2 Comments

Sei Natalizietà Miste Assortite

carols-of-christmasNon finisco mai di stupirmi di fronte al modo in cui a dicembre un sacco di gente arriva a SEdS cercando agrifogli, musica, idee per i regali, tradizioni e natalizietà miste assortite…

Granted, a me il Natale piace proprio tanto, in una maniera dickensiana, e non è come se non ci postassi su – e questo potrebbe spiegare ragionevolmente il bizzarro fenomeno… Sia come sia, ho pensato di riunire in un unico post i rimuginamenti decembrini più popolari e qualcuno che popolare lo è un po’ meno, a giudicare dalle statistiche, ma a me piace lo stesso.

Andiamo a cominciar, volete?

1. Per prima cosa, la ricercatissima piccola guida al regalo ideale per lo scrittore… In realtà spigolando su e giù per il blog se ne trova più d’una, ma diciamo di sceglierne una e due.

2. il Natale in letteratura sembra essere un altro argomento molto amato. Di nuovo due post: uno sugli episodi natalizi all’interno di libri che parlano d’altro, e uno sulle storie di natura natalizia.

3. L’agrifoglio. Dicembre sembra risvegliare infinite curiosità in proposito – e allora agrifoglio sia, seppur più in storie, leggende e tradizioni che in botanica.

4. E Dickens non poteva mancare, giusto? Dopo tutto è l’uomo che ha creato il Natale come lo festeggiamo… E il fatto che talvolta sia disposta ad essere cinica su Canto di Natale, non m’impedisce di considerare un sito in proposito come un regalo perfetto.

5. Mi si dice ogni tanto che tutto qui assume un colore leggermente anglosassone – e può darsi che chi me lo dice non abbia proprio tutti i torti, considerando cose come le eccentriche tradizioni natalizie del Galles o la storia di Virgie O’Hanlon

6. E infine, musica – e in particolare la mia prediletta Carola delle Campane, con parole e spartito per i cori avventurosi che volessero cimentarcisi. Ma c’è anche La Gelida Notte, poesiola che ogni Vigilia – e soltanto per la Vigilia – ripetevo con la mia adorata nonna. Sospetto che abbia anche della musica, ma non la conosco. Se qualcuno avesse idee in proposito, sarei molto grata…

Ed ecco qui. Mezza dozzina, come promesso. Un caveat: quasi tutti questi post contengono più di un link… io spero che siano ancora tutti attivi, ma tra il tempo trascorso e la migrazione, non posso giurare che sia così. Se qualcosa non funziona segnalatemelo, volete?

 

Scusatemi Se Da Sol Mi Presento

jeff vandermeer, prologhi, shakespeare, marlowe, shaw, dickens, manzoni,  Magari l’avrete letto in qualcuno di quegli articoli o post del genere “dieci cose che gli editor non sopportano”, o “dodici modi sicuri per farsi respingere un manoscritto”…

A suo tempo, credo di averne fatto uno anch’io, ma adesso non ho tempo di andarlo a cercare.

Anyway, se avete letto anche solo una lista del genere, odds are che ci abbiate trovato il Prologo.

E sapete che cosa vi dico, tanto da editor quanto da lettrice?

Che è proprio vero: di prologhi non se ne può più.

Che poi, sia chiaro, il Prologo in sé non ha nulla di male. Espediente narrativo mutuato dal teatro*, in base al quale un piccolo non-capitolo introduce atmosfera, precedenti, informazioni che verranno buone poi, chiarimenti dell’autore, esche… cose così.

E mi viene subito in mente una manciatina di prologhi teatrali che adoro –  lo shakespeariano O for a muse of fire dell’Enrico V, oppure l’orgogliosa rivendicazione del Tamerlano senza burle di Marlowe, o le  meditazioni di Shaw in fatto di storia prima di Cesare e Cleopatra…

Quanto a prologhi narrativi… scommetto che non vi stupirete se cito Dickens: it was the best of times, it was the worst of times… E lo scartafaccio secentesco dei Promessi Sposi. O la brevissima, folgorande invocazione agli spiriti che apre Entered from the sun. E, a dire il vero, poco di più.

Perché il fatto è che non è comunissimo trovare un prologo che faccia quel che deve fare: afferrare il lettore per la collottola e trascinarlo dentro la storia – possibilmente con una manciata di domande in tasca. E ciò benché i prologhi siano tornati di gran moda, soprattutto nelle storie di genere.

Non avete idea di quanti prologhi mi siano capitati fra le mani, con una protagonista narratrice che, mentre scappa o si nasconde, ritenendosi in punto di morte, comincia a ripensare a come è arrivata fin lì… Effetto Twilight, naturalmente – e sembra difficile convincere gli (o più spesso le) aspiranti che, qualsiasi cosa si pensi dei vampiri luccicanti, la cosa è già stata fatta, ripetutamente. E quindi adesso, quando vedo un prologo del genere, non sono più catturata, non mi domando che cosa ne sarà della nostra eroina, come ha fatto a trovarsi lì, chi la sta inseguendo… mi limito a levare gli occhi al cielo.

E lo stesso vale per i prologhi incomprensibili e/o aulicissimi, e magari drasticamente diversi dal primo capitolo. E tanto più se poi (e capita, oh se capita) la rilevanza del prologo rispetto alla storia si rivela labile o nulla…

Ho detto che voglio esserci trascinata, nella storia – ma con la forza, non con l’inganno.

E quindi? E quindi un tempo avevo fede nel prologo, e adesso non l’ho più. E quindi, quando sono tentata di iniziare una storia con un prologo, ci penso su due volte. E in genere decido che il prologo in realtà può benissimo diventare un primo capitolo. O, in alternativa, può essere capitozzato senza remore.

Ma se proprio non potessi farne a meno? Se avessi un antefatto che succede troppo tempo prima rispetto all’inizio della storia vera e propria? Se non povressi far funzionare la storia senza stabilire una premessa, seminare un indizio, preparare una sorpresa? Be’, allora credo che terrei presente la rana pescatrice dell’illustrazione lì in cima** (che, tra parentesi, è di Jeremy Zerfoss e viene da Wonderbook: The Illustrated Guide to Creating Imaginative Fiction di Jeff VaderMeer), e baderei bene a concepirlo come un’esca, il prologo: appetitoso, luminescente e irresistibile – proprio davanti alle fauci spalancate della mia storia.

________________________________________

* E se andate a vedere il dizionario Treccani, difatti, ci trovate solo definizioni di ordine teatrale o figurato – ma nulla di narrativo, se non a margine della sezione “estens. non com.” del lemma.

** Cliccate (orrida parola) per vedere il pescione in tutto il suo istruttivo splendore.

Ott 2, 2013 - libri, libri e libri    4 Comments

Nonni Letterari

Mail:

Hai parlato di padri letterari, di zii, di orfani, di ragazze da marito… nonni mai? Non è che approfitteresti della Festa dei Nonni, magari…?

E allora oggi, che è la Festa dei Nonni, parliamo di nonni in letteratura.

Cominciamo costatando che un sacco di nonni di carta si trovano nella letteratura per fanciulli – il che non è affatto sorprendente, in particolare per tutto ciò che è stato scritto in tempi di ridotta aspettativa di vita. E poi, andiamo: il nonno o la nonna, queste incarnazioni della saggezza, delle radici famigliari, delle tradizioni e, talora, dell’affettuosa indulgenza…

festa dei nonni, nonni in letteratura, johanna spyri, frances h. burnett, dickens, grazia deledda, georgette heyer, marcel proustSolo talora, però. Spesso un nonno burbero da conquistare fornisce buona parte del conflitto di cui un piccolo protagonista ha bisogno. Il caso da manuale è il nonno del Piccolo Lord Fauntleroy, l’anziano conte che ha diseredato un figlio per avere sposato un’Americana. Solo che poi il figlio muore, e allora il vecchio misantropo richiama a casa l’aborrita nuora e il nipotino… E francamente, come qualcuno possa rimanere incantato dall’insopportabile Ceddie è più di quanto io arrivi a capire, ma never mind: nell’istante in cui scopriamo che il defunto capitano Cedric era il figlio prediletto, sappiamo già che il conte non ha speranze e, prima dell’ultimo capitolo, sarà convertito a nonno affettuoso, suocero attento, generoso signore del luogo e filantropo in generale.festa dei nonni, nonni in letteratura, johanna spyri, frances h. burnett, dickens, grazia deledda, georgette heyer, marcel proust

Stessa storia per il francese En famille – però spostato dall’aristocrazia britannica all’alta borghesia industriale. Stessissima storia: vecchio signore inflessibile, figlio amatissimo ripudiato per matrimonio d’amore – poi morto lasciando una bimba d’innumeri virtù. Alla povera Perrine va peggio che a Ceddie: anche la mamma muore, e lei deve impiegarsi come operaia… indovinate un po’? Presso il canapificio del nonno. Ma Perrine è onnicompetente, e il nonno avrà pure un cuore di pietra, ma riconosce l’efficienza quando la vede. Così Perrine (sotto falso nome) fa carriera, s’insedia accanto al nonno quasi cieco, gli scioglie il cuore, eccetera eccetera fino alla commovente agnizione finale.

festa dei nonni, nonni in letteratura, johanna spyri, frances h. burnett, dickens, grazia deledda, georgette heyer, marcel proustQualcosa di simile capita in Piccole Donne, solo che a sciogliere il vecchio Mr. Laurence non è il nipote, bensì le eponime sorelle. Fosse per lui, Laurie starebbe fresco – ma per fortuna ci sono la vispa Jo e la dolce Beth. E siccome in realtà Mr. Laurence non soffre di litocardia, ma solo di un’iperprotettiva incapacità di mostrare il proprio affetto, tutto si risolve molto prima dell’ultimo capitolo.festa dei nonni, nonni in letteratura, johanna spyri, frances h. burnett, dickens, grazia deledda, georgette heyer, marcel proust

Anche il nonno di Heidi è così: fornire conflitto non è il suo mestiere – al massimo una carriera collaterale. Heidi lo scioglie prima di subito, questo anziano signore di pochissime parole che fa il miglior formaggio delle Alpi svizzere e sa riabilitare le piccole paralitiche come se niente fosse. Scioglimento di routine, e poi per il conflitto ci pensa Fraulein Rottenmeier. Però, intanto che ci siamo, potremmo notare che questa storia contiene anche due nonne. Due nonne e mezza – se consideriamo la nonna materna di Heidi, la cui morte offstage precipita il primo cambiamento nella vita della bimba. Ma poi ci sono la tenera nonna cieca di Peter e la dinamica e affettuosa nonna di Klara, le cui visite illuminano la vita delle due bambine. Insomma, da manuale anche questo, a modo suo: il nonno incarna la saggezza, le nonne incarnano l’affetto, i nonni nel loro insieme incarnano tradizione, sicurezza e stabilità.

festa dei nonni, nonni in letteratura, johanna spyri, frances h. burnett, dickens, grazia deledda, georgette heyer, marcel proustOddio, poi se vogliamo ci sono le eccezioni – e la più maiuscola è forse il nonno della solita Little Nell, cui per contratto deve proprio capitare tutto, e allora le capita anche lo sciagurato (e non equilibratissimo) anziano signore che le sperpera tutta l’eredità e poi la trascina a sgambare su e giù per l’Inghilterra finché lei ci lascia le penne. Tutto col massimo affetto, sia chiaro – but still.*

E questo era l’Ottocento. In tempi più recenti i nonni sono usciti da questi recinti stretti – persino nella letteratura per fanciulli. Se è vero che negli anni Trenta  era ancora comunissimo imbattersi in nonne idealizzatissime come la contessa (o era marchesa?) di Roccabruna, grande dame e angelo  dell’armonia famigliare, le cose erano destinate a cambiare. Credo che mi limiterò a citare un paio di esempi. Come i superficialmente benintenzionati Omama e Opapa di Judith Kerr, che in Quando Hitler rubò il coniglio rosa proprio non arrivano a cogliere il dramma di figlia, genero e nipoti in fuga dalla Germania. I piccoli Anna e Max sono affezionati ai nonni, ma non tardano ad avere l’impressione, per esempio, che Omama sia “una donna piuttosto sciocca.” Caso diversissimo sono i nonni di Arianrhod ne La Congiura di Merlino di Diana Wynne Jones. Vero è che Roddy appartiene all’aristocrazia magica d’Inghilterra, ma la fauna famigliare è variegata: dal nonno paterno potentissimo specialista in meteomagia in pensione, alla nonna paterna rumorosa, non intelligentissima, bugiarda e troppo potente per il suo stesso bene, fino al nonno materno gallese che è… er, la morte.** festa dei nonni, nonni in letteratura, johanna spyri, frances h. burnett, dickens, grazia deledda, georgette heyer, marcel proust

E in ambito di letteratura adulta? Be’, così a memoria mi pare che ci siano più nonne che nonni – e in molteplici varietà. C’è l’intelligente, energica e socialmente ben equipaggiata nonna di Proust – ottima compagnia e affettuosa complice per il nipote ipersensibile. C’è l’adorata nonna santucciana de Il velocifero, che ha due nipoti suoi e ne acquisisce con pari tenerezza un terzo adottivo nell’inquieto Gianni. C’è Gwenlliana, la nonna dell’Henry Morgan di Steinbeck, sognante sibilla gallese che, dal suo posto accanto al fuoco e con i suoi occhi ciechi, vede il destino del nipote a decenni nel futuro e a un mondo di distanza. C’è la terribile nonna de L’incendio, che Grazia Deledda dipinge come la custode della famiglia, della proprietà e del buon nome, attaccatissima ai nipoti, ma irremovibile fino al ricatto morale e alla coercizione più bieca.

Così, sempre a memoria, l’unico nonno che mi viene in mente è in un giallo – e per di più un giallo molto ruritaniano: il principino Otto è l’unico erede di un anziano e malinconico nonno coronato, che si tormenta tra l’angoscia di lasciare al piccolo un trono mal saldo e un irrealizzabile desiderio di lasciargli vivere la sua infanzia…

Ah no, scusate: dove lasciamo i nonni di Georgette Heyer? Ce ne sono diversi, come Lord Lavenham o Lord Darracot – irascibili e tirannici nobiluomini con un debole per i/le nipoti con cervello e spina dorsale.

E qui mi fermo – pur certa di trascurare legioni di nonni letterari fondamentali. Ma il punto è, direi, che a differenza dei padri dickensiani i nonni non sono inaffidabili, e a differenza degli zii in generale, non sono pericolosi.

Al massimo possono essere un po’ rigidi, magari vanno conquistati e senz’altro ci sono eccezioni – ma i nonni in letteratura tendono ad essere gente su cui si può contare.

_____________________________________

* D’altra parte, stiamo parlando di Dickens, e sappiamo che cosa pensava Dickens dei padri, e un nonno che cos’è se non un padre elevato a seconda potenza?

** E tra l’altro, essendo questa Diana Wynne Jones, la morte è tutt’altro che un cattivo nonno.

Set 17, 2012 - anglomaniac, gente che scrive, scribblemania    Commenti disabilitati su Sette Maestri Sette

Sette Maestri Sette

Questa faccenda va girando di blog in blog quasi come un meme – ovvero quella cosa che vado ripetendo di non fare e poi invece ci ricasco sempre.

Ma il fatto è che, quando si comincia a parlare di maestri ideali, scrittori sulle cui opere ci siamo formati… come può una ragazza resistere?

A dire il vero, Ferruccio Gianola ha cominciato parlando di scrittori preferiti, ma poi Alex Girola e Davide Mana hanno aggiunto alla faccenda questo taglio vagamente jedi, e allora eccoci qui.

E siccome vedo che a numeri funziona alla ciascuno-per-sé, qui andiamo per sette, in un ordine vagamente cronologico – non tanto di lettura, quanto di consapevole apprenticeship

I. G. B. Shaw. Perché quando avevo dodici anni e mi chiedevano “che cosa vuoi fare da grande?” io rispondevo “la commediografa”. E rispondevo così solo perché allora studiavo francese e non sapevo che esistesse la parola playwright, che mi piace tanto di più – ma non divaghiamo. Volevo tanto, ma in quella maniera informe, you know. Non era che non ci provassi, ma non avevo troppo idea. Poi, nell’estate dei miei quattordici anni, entra in scena Shaw, nella forma delle Quattro Commedie Gradevoli, edizione Anni Sessanta, BUR con la copertina rigida – di mia madre. Folgorazione. In particolare Cesare e Cleopatra e L’Uomo del Destino. Teatro a sfondo storico – proprio quello che volevo fare. E la costruzione dei dialoghi, e l’uso delle fonti, e il tratteggio dell’ambientazione storica, e il funzionamento teatrale…

II. Joseph Conrad. In un sacco di modi. La profondità cui si poteva spingere l’indagine psicologica. Le possibilità infinite dei punti di vista. La possibilità di raccontare una storia attraverso l’accumulo di prospettive. La cesellatura di un personaggio centrale. I dubbi e le domande senza risposta. L’intensità. E poi l’uso della lingua – e di una lingua appresa. È in buona parte per via di Conrad che scrivo in Inglese.

III. Patrick Rambaud. Rambaud non se lo ricorda più nessuno, credo. A un certo punto ha letto nella corrispondenza di Stendhal di un romanzo mai scritto. Allora ha preso l’ambientazione (una battaglia napoleonica), ha preso Stendhal in persona, ha preso una manciata di personaggi storici e ne ha cavato un bel romanzo. Nulla d’immortale, solo una buona storia ben raccontata, fedele alle fonti e romanzesca quanto bastava. All’epoca in cui mi trastullavo con l’idea di scrivere romanzi storici ed ero paralizzata dall’incertezza dei confini tra fonti e immaginazione, Monsieur Rambaud è stato piuttosto fondamentale.

IV. R. L. Stevenson. Ah, i narratori di Stevenson, inaffidabili anche quando sembra che non lo siano, sottilmente minati nella loro attendibilità, irragionevoli, opinionated, a volte nemmeno terribilmente intelligenti… O Lettore, a te il delizioso mestiere di trarre conclusioni. E poi Alan Breck e l’Appin Murder – un personaggio minorissimo e un processo celebre ripresi, rivoltati come guanti, dipinti a colori irresistibili e avventurosi là dove in origine si trattava di un figuro losco e di una vicenda cruda e grigia. Ah, saper indurre il lettore a voler credere a me – persino quando sa benissimo di non poterlo fare…

V. Rodney Bolt. Quando uno scrittore mi fa entrare da una porta saggistico-divulgativa con qualche pretesa, poi mi fa sospettare che si tratti di una parodia accademica, e infine mi scodella in pieno romanzo, quando fa tutto ciò con grazia, sottigliezza e intelligenza, quando mi conduce pei prati in questa maniera e non mi irrita nemmeno un po’, tutto quel che voglio è imparare a barare così a mia volta.

VI. Josephine Tey. Anche lei scriveva teatro in una maniera che mi piace molto, ma non è questo il punto. Il punto è La Figlia del Tempo, che è una riflessione sulla storia, il modo in cui si costruiscono, mantengono e smantellano le leggende nere e un sacco di questioni che mi stanno a cuore – ed è scritto nella forma di un giallo originalissimo, popolato di personaggi ben fatti che parlano in dialoghi scintillanti. Tecnica impeccabile, idee, spirito – e soprattuto il modo di raccontare le storie.

VII. Jeffrey Hatcher. Ci voleva qualcuno che mi scrollasse fuori dalla maniera di Shaw, ed è stato Hatcher, che scrive un teatro d’ambientazione storica vivido, spigoloso e pieno di ritmo, appeso a un cambiamento epocale per rendere tutto più irreparabile, thank you very much.

E poi sono sempre la solita che si dà dei numeri e non riesce a tenerli neppure per sbaglio, per cui lasciate che aggiunga ancora Emily Dickinson. E no, non scrivo poesia, ma la densità e iridescenza del linguaggio… non si può scrivere prosa in questo modo, ma il principio mi piace proprio tanto.

E voi? Chi sono i vostri mentori di carta?

Amare Et Bene Velle

lord jim, alan breck stewart, sydney carton, isabel archerCon F. & L. si commentava questo post e ci s’interrogava sull’idea di amare un personaggio letterario.

E si giungeva alla conclusione che il quesito non era formulato nella più felice delle maniere, perché a prenderlo in senso stretto, non è facile trovare 30 personaggi che si sono amati, mentre se bisogna intendere “amare” con elasticità franco-inglese, possiamo sperare che ce ne siano piaciuti un po’ più di trenta…

In effetti, non è come se nella mia lista non avessi finito con il combinare i due criteri – e una manciata di altri. Ripercorrendola, ci trovo gente scelta in base a ogni genere di ragione. Ma, considerando che la formulazione dello hashtag galeotto dipendeva più che altro dal fatto che cheamo occupa meno caratteri di chemipiacciono, e qui non soffriamo di queste costrizioni, riformuliamo la domanda – o meglio poniamone un’altra: 

Che cosa è che ci lega a un personaggio letterario?

Come dicevamo, ogni genere di ragioni.

Non ricordo se ho già raccontato della discussione sui brontëani fratelli Moore, durata per molte settimane di email tra me e un’altra F.* I fratelli Moore sono due: a F. piace Louis e a me piace Robert, e col tempo siamo giunte alla conclusione che we’ll have to agree to disagree on that. E in realtà ci saremmo potute arrivare prima di subito, perché le rispettive preferenze hanno ragioni tanto diverse che di più non si potrebbe. F. predilige l’orgoglioso e severo Louis perché non vuole accettare nulla da nessuno – men che meno da suo fratello o dalla donna che ama ricambiato – e a F. ammira questo atteggiamento molto più del disperato opportunismo di Robert. Io trovo che Robert, che sacrifica affetti e principii a necessità e responsabilità, sia un personaggio molto più complesso ed efficace del perfetto, bidimensionale Louis. Ed è ovvio che Robert non sarà mai ammirevole come Louis, né Louis sarà mai ben scritto come Robert.

Criteri diversi.

Il che non significa nemmeno che i lettori si dividano rigorosamente tra tecnici ed emotivi, tra etici ed estetici. Tendo a credere che quasi tutti, in circostanze diverse, scegliamo, preferiamo, ci affezioniamo e amiamo per motivi diversi.

Dovessi basarmi sulla mia lista, c’è gente come Robert Moore, Javert, Julien Sorel o Heinrich Muoth che mi piace per la finezza, tridimensionalità e unsentimentality con cui è scritta**.

Poi c’è gente con cui mi identifico (o mi sono identificata in passato), come Scout, Emma o… ‘cipicchia, mi accorgo di avere lasciato fuori Angelo, l’Ussaro sul Tetto di Jean Giono: anche lui è stato una questione di identificazione.

Poi ho citato Charlotte Bartlett, e qui la faccenda è leggermente più obliqua, perché in Camera con Vista quella con cui mi identifico è Lucy, ma Cousin Charlotte è un ritratto così perfetto di una mia anziana cugina che parte dell’identificazione con Lucy dipende proprio da questo. Lucy è deliziosa, ma è Charlotte a trascinarmi nella storia – ed è lei che adoro.

Poi c’è la gente che incarna questioni che mi stanno a cuore – come James Sands, l’attore elisabettiano cui crolla intorno un mondo, i giovani Turbin, idem nella Kiev postrivoluzionaria, Konradin von Hohenfels in cerca di redenzione o Dick Heldar che crolla nel crepaccio tra arte e affetti.

Ci sono i villains per cui ho un debole, quelli che brillano nel loro romanzo, quelli che hanno tanto fascino e tanta personalità da seppellirci i rispettivi protagonisti, come l’Innominato, Richelieu e Rupert.

E ci sono anche i personaggi che sarebbero adorabili anche in carne e ossa, come la Regina Elisabetta, il Sergente Dodd, Sarah Thane, la Principessa Arjumand (che è una gatta***), Larry Durrell…

Ci dovrebbero essere anche (ma mi accorgo di non averne elencato nemmeno uno) quei personaggi che non perdonerò mai ai rispettivi autori di avere trascurato, maltrattato o killed off – salvo poi rendermi conto che forse non mi sarei affezionata altrettanto a Lord Evandale, Dain Waris o Francis Stewart se non facessero la fine che fanno…

E poi ci sono quelli che hanno proprio tutto – e quelli sono i miei fidanzati di carta. Lord Jim, naturalmente, con la sua storia di riscatto negato e di aspettative disattese, con le sue debolezze dolorose e ingigantite, con la sua caratterizzazione così vivida che mi è più familiare di tanta gente  “vera”, con la sua fine tragica che tutte le volte mi strappa il cuore. E Alan Breck Stewart, alfiere spavaldo di una causa perduta in partenza, ingenuo, irragionevole e alla fin fine così malinconico. E Sydney Carton, destinato ad annegare tra self-disgust, delusioni e promesse sprecate, innamorato, più che di Lucie, della redenzione che lei rappresenta. E si direbbe che io abbia anche una fidanzata di carta in Isabel Archer, troppo impegnata a inseguire ideali per vedere davvero ciò che ha davanti – e punita per questo, ma non senza speranza. Ecco, questi sono quelli che amo davvero. E probabilmente in giro ce n’è qualche altro – ma di sicuro non sono trenta. 

Dopodiché mi piacerebbe ricordare dove ho letto la recensione di una lettrice che si dichiarava incapace di simpatizzare con un personaggio che commette uno stupido errore dopo l’altro come fa Jim – a riprova del fatto che quel che fa innamorare una persona ne respingerà un’altra,  e che innamorarsi per davvero o in carta e inchiostro resta la più personale, soggettiva e imponderabile delle faccende.

 

_________________________________________________

* Non so che farci: la mia vita è piena di F. con cui discuto di libri… Ad ogni modo, questa è un’altra – and you know who you are.

** Si maligna che Muoth mi piaccia soprattutto perché è un baritono e, fosse stato un tenore, non sarebbe nemmeno entrato nella lista – ma non è vero. Non del tutto. Non troppo. Non molto. Non… Ok, il fatto che sia un baritono aiuta.

*** E comunque il suo libro è affollato di gente adorabile – a due e quattro zampe.

Si Eseguono Rammendi, Orli E Cuciture.

Con l’eccezione del Marchese di Lantenac in Novantatré, Victor Hugo aveva per massima di mandare i suoi protagonisti al camposanto prima dell’ultima pagina. E a dire il vero, non solo i protagonisti, visto che nell’Hugo medio si fa prima a contare i sopravvissuti che i trapassati…

Ma a Victor Hugo pareva di seguire così i suoi personaggi fino alla fine, di non lasciare domande senza risposta, di non abbandonare la sorte della sua gente immaginaria al caso.

O – anche se questo non poteva saperlo – agli autori di sequel.

Perché non c’è nulla da fare: lasciare in pace i classici è quasi impossibile. Prima o poi la tentazione di metterci penna è più forte di ogni altra considerazione. E siamo sinceri: non vi siete mai domandati che ne sarà di Isabel Archer dopo l’ultima pagina di Ritratto di Signora? O che cosa farà Orazio dopo il funerale di Amleto? O che ne sarebbe stato di Grantaire, se non fosse morto con Enjolras a barricate cadute? O come crescerà Alice dopo il Paese delle Meraviglie? O come sarebbe invecchiato Julien Sorel se non fosse stato condannato a morte? O da dove saltavano fuori di preciso Fagin, Jago e Brian de Bois-Guilbert?

Io sì, lo confesso. Tutto il tempo. E a quanto pare sono in buona compagnia, visto il diluvio di seguiti, antefatti, rinarrazioni, stravolgimenti – e fanfiction, ma questa è un’altra faccenda. Parliamo di narrativa pubblicata: romanzi che riprendono un classico e ci danzano attorno in vari possibili modi.

Il più ovvio è il seguito. Si prende la storia dove l’autore l’ha lasciata e si va avanti – perché onestamente non c’è lieto fine che tenga: che cosa succede dopo? Tra gli autori più saccheggiati a questo proposito c’è Jane Austen, e non è nemmeno troppo sorprendente. Visto che tutti i suoi romanzi si chiudono con un matrimonio, la domanda “e come funzionerà il matrimonio in questione?” viene quasi da sé. Per cui c’è tutta un’abbondanza di romanzi che esplorano in ogni possibile luce (dal giallo all’erotico, passando per la saga generazionale) le vicende matrimoniali delle eroine austeniane – in particolare Lizzie Bennet in Darcy, ma non solo. Mi viene in mente una cosa di cui non ricordo né titolo né nome, la cui protagonista è Susan, la sorella minore dell’insopportabile Fanny di Mansfield Park. Ma poi ci sono anche Georgiana Darcy (la timida cognatina pianista di Lizzie), le altre sorelle Bennet, Marianne ed Elinor Dashwood e chi più ne ha più ne metta.

Anche Dickens ha avuto la sua parte, con Evrémonde, di Diana Mayer, che si concentra sul figlio di Charles e Lucie Darnay – ma non prima di averci mostrato Charles prigioniero e in attesa di esecuzione. Yet again. Considerando che ho sempre trovato due processi capitali nel corso di una decina d’anni un’improbabilità non indifferente, confesso di non essere ansiosissima di leggere un seguito che ne impila un terzo sulla testa del povero Charles – ma resta il fatto che il seguito c’è.

Così come c’è Scarlett, il seguito ufficiale di Via Col Vento, che la Margaret Mitchell Foundation commissionò ad Alexandra Ripley, con discutibile successo. Non ho letto, e mi si dice che sia così così, ma non negate: tutti ci siamo chiesti che cosa avrebbe fatto Rossella l’indomani, che era un altro giorno…

E, ironicamente, il drastico metodo di cui dicevamo, non è bastato a salvare Hugo dai seguiti. François Cérésa ne ha pubblicati addirittura due a I Miserabili, mostrando ai lettori come, dopo la purissima fiamma della passione adolescenziale, Mario e Cosetta non fossero poi fatti per intendersi troppo*. Ma forse questo non sarebbe bastato a sollevare le proteste dei lettori e dei discendenti di Hugo: ci voleva la ricomparsa dell’Ispettore Javert. Ma come? Non si era suicidato? Ebbene no, dice Cérésa: ci aveva ben provato, ma era stato salvato all’ultimo momento.

Forse ancora più diffusi sono gli antefatti. Come si è arrivati alla situazione di partenza? Che cosa ha reso il tale personaggio così come lo conosciamo? Cosa è successo prima? E allora ecco Finn: a novel, che racconta le vicende dell’eponimo Huckleberry prima di Tom Sawyer, o Peter and the Starcatchers, che segue Peter Pan… be’, immagino tra Kengsington Garden e L’Isola Che Non C’è. O ancora Flint and Silver, di John Drake, che immagina la storia dei due pirati in questione prima di Treasure Island, operazione simile a quella autorizzata nel 1924 dagli eredi di Stevenson per Portobello Gold. Parte antefatto e parte rinarrazione di Jane Eyre è Wide Sargasso Sea, di Jean Rhys, che racconta la storia di Bertha Mason: come è finita nella soffitta la moglie pazza e piromane di Mr. Rochester? E simile in intento è La Bambinaia Francese** di Bianca Pitzorno, che invece si concentra sulla dolce amante francese di Mr. Rochester. Si direbbe che la caratterizzazione del protagonista maschile come abbandonatore seriale di donne abbia scatenato gli istinti rinarrativi di un sacco di gente.

O forse non solo di quello si tratta, visto che JE conta ogni genere di rinarrazioni, dal fantascientifico Jenna Starborne, al goticone Rebecca (che ha a sua volta un seguito: Mrs. DeWinter), al giovanilistico Jane, al vampiresco Jane Slayre, in cui l’eroina è una cacciatrice di vampiri part-time. Oh, never look so shocked. Non avete mai sentito parlare di Pride, Prejudice and Zombies? O di Sense, Sensibility and Sea Monsters? Mescolare classici e paranormale è l’ultima moda in fatto di rinarrazioni – e sia Grahame-Smith che Winters ci mettono tanta ironia da dipingerci un ponte, sconfinando decisamente nella parodia.

Un altro filone rinarrativo, meno recente ma duraturo, è quello di prendere un personaggio minore e mostrare la storia dal suo punto di vista. Vi dicevo che Wide Sargasso Sea e La Bambinaia Francese cominciano come antefatti e poi approdano qui, e lo stesso vale per La Vera Storia del Pirata Long John Silver (Björn Larsson) e Jacob T. Marley (W. Bennet) che, ci crediate o no, racconta Canto di Natale attraverso gli occhi del defunto socio di Scrooge – quello con le catene. Rinarrazione in senso più stretto, per tornare a Jane Eyre, è Rochester, che è esattamente quel che dice l’etichetta: la stessa storia, raccontata da Mr. R. Qualcosa di simile (anche se si tratta in realtà di un’operazione leggermente diversa) ha fatto anche Stephen Lawhead, che ha preso la storia di Robin Hood, l’ha spostata nel Galles e l’ha raccontata tre volte, incentrandola prima sul protagonista, poi su Will Scarlet e poi su Frate Tuck. E immagino che in questa categoria ricada anche Gertrude and Claudius, un punto di vista alternativo su Amleto, immaginato da John Updike.

Poi ci sono i cosiddetti companion books, come March, in cui Geraldine Brooks segue le vicende del padre delle Piccole Donne nella Guerra Civile, ovvero quel lato della storia che nel romanzo arriva solo sotto forma di lettere e cattive notizie. Non la stessa storia – ma qualcosa di tanto strettamente correlato da avere un’influenza sulla storia del romanzo ed esserne influenzato.

E infine voglio citare una forma più metaletteraria del gioco: la storia del romanzo fusa in un modo o nell’altro con la vita del suo autore – nella forma di incidenti più o meno autobiografici, più o meno reali, che possono averla ispirata. È il caso di Foe, in cui Coetzee fa incontrare (De)foe e un’ulteriore compagna di naufragio di Robinson Crusoe, oppure di Becoming Jane Eyre, che Sheila Kohler intesse intorno al periodo in cui Charlotte Brontë scrisse il suo romanzo più celebre.

E dunque vedete che non c’è limite a quel che si può fare a partire da un buon vecchio classico. Funziona? Dipende – ma il genere ha i suoi limiti. Da un lato, chi ha amato l’originale può riservare al rimaneggiamento reazioni che vanno dal disprezzo preconcetto allo sdegno più incendiario, mentre chi non ha letto o non ha conservato un particolare attaccamento, tende a nutrire un interesse limitato. Dall’altro, lavorare su un altro libro richiede un serio lavoro di equilibrismo tra omaggio e originalità – tanto in forma quanto in sostanza. Uno dei problemi più diffusi è il perenne tentativo di imitare lo stile dell’originale, operazione né facile né sempre necessaria. All’estremità opposta della gamma, interviene il livore, quando non si tratta tanto di omaggio quanto di catarsi. Se una delle principali debolezze del Marley di Bennet è quella di suonare terribilmente come un Dickens annacquato, d’altro canto la Pitzorno, nella sua ansia di correggere politicamente le innumeri riprovevolezze di Jane Eyre, fa della Bambinaia una raccapricciante collezione di anacronismi psicologici***…

Ma ci sono anche le gemme, e in ogni caso, nonostante tutte le difficoltà e i limiti, non vedo all’orizzonte un declino del sottogenere. Dopo tutto, la pulsione ad aggiustare, abbellire, ricamare, inclinare a 45° e tingere di violetto le storie è vecchia come l’umanità – e guai se non fosse così, o che ne sarebbe della letteratura?

E voi? Se vi saltasse l’uzzolo di continuare, spiegare, riraccontare o altrimenti riprendere in mano un classico, che cosa fareste?

____________________________________________________

* E a dire il vero, chi è che, leggendo come la felicità per Cosetta fosse ascoltare Mario che parlava di politica, e per Mario ascoltare Cosetta che parlava di nastri, ha pensato che tutto ciò fosse una solida base per un matrimonio felice e duraturo?

** Sì, sì, sì: quella Bambinaia Francese. Ho le mie ragioni.

*** E sì, sì, sì: sapevate che ci sarei arrivata. E ve l’avevo detto, che avevo le mie ragioni…

Mag 9, 2012 - angurie, teatro    4 Comments

Raccontami Un Romanzo (E, Già Che Ci Sei, Sorprendimi)

oliver twist, dickensPrendete tre Terze Medie – al cambio attuale fanno una settantina d’implumi.

Aggiungete insegnanti di lettere disponibili. A volte capitano quelli cui non importa un bottone del laboratorio, e allora non è divertente. Ma altre volte avete fortuna, e ve ne capitano tre su tre decise a collaborare.

Annaffiate il tutto con abbondante Dickens; condite con sale, pepe, rosmarino, una manciatina di confronto romanzo/sceneggiatura cinematografica, tre cucchiai rasi di metodologia di ricerca su Internet, una tazza di scrittura (argomentativa, creativa, narrativa, whatever) e storia quanto basta.

Mescolate meglio che potete, esponete al calor bianco di una platea tre volte più popolata del previsto, e state a guardare.

Non so come riuscirà il soufflé, ma le sorprese sono garantite. Perché, diciamo la verità, nelle sei settimane che avrete impiegato nella le due città, sydney carton, laboratori scolasticipreparazione (due ore la settimana in ogni classe) avrete avuto molti momenti di dubbio, amarezza, sconforto e furia pluriomicida. Oh, ci saranno state anche notevoli consolazioni, qua e là, e l’occasionale piccola rivelazione – come quando vi hanno detto che gente che a voi pare sveglia, attiva, interessata e partecipe è in realtà a rischio di bocciatura per non aver fatto un bottone in tre anni. Vi sarete infuriati oltre ogni dire davanti alla tradizionale scusa “Ma io non c’ero quando l’avete fatto”. Avrete constatato con divertita incredulità che i quattordicenni di entrambi i sessi sono sentimentali e s’identificano con Lucie Manette e Charles Darnay, ma non notano Sydney Carton nemmeno a metterglielo davanti dipinto di rosso vivo. Avrete dubitato del vostro buon senso nell’avere scelto Le Due Città. Ci avrete rimesso un set completo di tonsille nel tentativo di mantenere un minimo di silenzio in classe e ottenere risposte ragionate a domande che a voi non sembravano nemmeno orribilmente esoteriche. Avrete disperato della possibilità di arrivare alla Domenica Fatidica con alcunché di dignitoso da presentare. Avrete scambiato occhiate scoraggiate con ciascuna delle Insegnanti Disponibili. Vi sarete scapicollati per gli ultimi tre giorni alla ricerca di costume bits per colmare le lacune rimaste. Avrete avuto incubi di diserzioni, vuoti di memoria, disastri informatici e folle assetate del vostro sangue…

oliver twist, dickens, fagin, laboratorio scolasticoE però vi sarà sempre rimasto un vago, tenue, tremulo barlume di speranza, ravvivato due o tre volte la settimana da una domanda intelligente qua, una buona idea là, un segno d’interesse altrove, un PossofarloioDodgerprofeperfavoreperfavore? E poi a un certo punto, mentre voi eravate occupati a contemplare ansiosamente il vostro barlumino, i fanciulli ci si saranno messi d’impegno sul serio. Avranno annusato l’approssimarsi del palcoscenico come i cavalli la polvere del campo di battaglia. Avranno deciso che dopo tutto sono interessati alla faccenda – e allora dibattiti, presentazioni e colonne sonore saranno germogliati sotto i vostri occhi…

Poi sarà successo ancora di tutto – incompatibilità informatiche, diserzioni dell’ultimo minuto, sostituzioni avventurose (e talora fortunate), sforamenti altrui, parentesi di panico e ogni altro genere di cose che all’universo sarà piaciuto scagliare nella vostra direzione, tutto in mezzo a stormi di fanciulli che chiamavano “Profe, profe…”dickens, oliver twist, dodger, laboratorio scolastico, roncoferraro

E voi vi sarete chiesti, e non una volta sola, E Adesso? Andrà tutto storto? Sarà un disastro? Si dimenticheranno entrate e uscite? Perderanno parrucche e copricapi? S’impappineranno*? Sussurreranno, ingolleranno sillabe, renderanno altrimenti incomprensibile il povero piccolo testo? I Piccoli Tecnici Crescono faranno piantare il computer sul più bello?

E invece no. Non è un disastro affatto, perché al momento giusto i fanciulli tirano fuori entusiasmo e concentrazione e precisione, e prontezza di spirito davanti agli inconvenienti ed espressività – e tutto funziona (quasi) come dovrebbe, e poi arrivano gli applausi, e poi ve li ritrovate tutti attorno, i fanciulli, con dei sorrisi che interferiscono con la navigazione aerea… “È andata bene, vero profe? Vero che è andata bene?”

Ed è andata bene sì, e voi raccogliete i vostri costume bits e i vostri complimenti – e ve lo chiedete una volta di più: come, come, come avete potuto dimenticare che alla fine i fanciulli vi sorprendono sempre? 

Ma forse anche questo fa parte della ricetta e, se non vi lasciaste prendere dall’ansia e dai dubbi al momento giusto, non avreste modo di lasciarvi sorprendere alla fine…

________________________________________________

* “Profe, scommette cinque euro che m’impappino?”

 

Pagine:«1234»