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Giu 11, 2018 - teatro, teorie    Commenti disabilitati su Vivremo Insiem, Morremo Insiem…

Vivremo Insiem, Morremo Insiem…

Francesco da Melzo e RaffaelloÈ un fatto universalmente riconosciuto che, all’opera, l’amore tende a finir male – ma diciamo la verità: non è che l’amicizia se la cavi molto meglio.

E sto parlando di amicizia maschile, per lo più, perché per quanto mi sforzi, di amicizie femminili all’opera non me ne vengono in mente molte. Well, yes – i soprani tendono ad avere delle confidenti con cui, per l’appunto, si confidano: di solito cameriere, donzelle, dame di compagnia e mezzosoprani misti assortiti, senz’altro gran uso che quello di ricevere confidenze a beneficio del pubblico. Non è del tutto impossibile che Mimi e Musetta diventino amiche prima dell’ultimo atto – ma non è che se ne veda granché; e nel Don Carlos c’è la (muta) Contessa d’Aremberg, bandita ingiustamente da corte – il che scatena una bella aria della Regina… Ma si tratta di gente e di vicende tutt’altro che centrali all’interno delle rispettive trame.

L’amicizia maschile è tutt’altra faccenda: ci sono un tenore e un baritono che si giurano amicizia e fratellanza fino alla morte – e, come dicevamo, non va mai a finir bene.

In Verdi questo genere di storia ricorre spesso.

CatturaGuardiamo per esempio La Forza del Destino, in cui Don Alvaro (tenore), nel fuggire con la morosa marchesina (soprano) uccide involontariamente il babbo di lei (basso) e poi si perde per strada la povera fanciulla – che lui crede morta, ma in realtà resta a vagare per la Spagna, abbandonata e non terribilmente stabile. Possiamo biasimare del tutto il fratello baritono, che va a caccia dell’assassino/seduttore  nell’intento di fargliela pagare? Sennonché, per farlo, si arruola sotto falso nome – e quando incontra il tenore, che non ha mai visto e che a sua volta si è arruolato sotto falso nome nello stesso reggimento, i due si piacciono subito e, prima che si possa dire “nemico giurato”, si sono già promessi eterna amicizia. Ebbene sì: da sconosciuti a fratelli d’elezione in cinque minuti – salvo poi, nel giro di un altro paio di scene, scoprire le rispettive identità e ritrovarsi nemici mortali. Duellano una volta, duellano due, e alla fine il baritono ci rimette le penne.

Potremmo obiettare che in questo caso l’eterna amicizia era stata fulmineamente* giurata sulla base di false premesse e informazioni insufficienti – ma non è come se una conoscenza più approfondita garantisse un esito migliore… 838689

Il Ballo in Maschera, anyone? Il tenore Riccardo è il governatore del Massachussets** , apprezzatissimo dai governati – ma, di fatto, talmente svagato e irresponsabile, che siamo costretti a chiederci quanta della sua popolarità si deva agli sforzi del suo assennato e vagamente ansioso braccio destro – il baritono Renato. Qui di giuramenti espliciti non ce ne sono, ma l’adorante e protettiva devozione di Renato è lampante, la maniera di consuetudine tra i due inequivocabile, e tutti sanno che Renato ha ripetutamente “versato il suo sangue” per Riccardo. Per cui, non so a voi – ma a me pare davvero brutto che Riccardo lo ricambi flirtando con la sua bella moglie… Ora, se l’adulterio vero e proprio si consumi è diventata negli ultimi anni una questione di regia – ma, anche quando il fattaccio non succede, è più per le reticenze del soprano e il tempismo dei cospiratori che per la decenza interiore del tenore… Hence, quando Renato scopre di essere stato tradito dalle due persone che ama di più al mondo, il passo da amico devoto a vendicatore furibondo è operisticamente breve. Per una volta è il tenore a soccombere alla rottura – ma è chiaro che il futuro del baritono non si prospetta per nulla lieto.

a1738f40a5e05bc25cee6d4fec0f68eeE non va molto meglio nemmeno agli amici d’infanzia – nemmeno quando non ci sono donne di mezzo. Il fatto che tra l’eponimo tenore Don Carlos e il baritono Rodrigo di Posa non ci siano padri assassinati, sorelle sedotte o mogli contese sembra promettere abbastanza bene. I due sono amici dalla più tenera età, e quando si giurano eterna amicizia nel secondo*** atto tutto ci fa pensare che non sia la prima volta. Il guaio è che Rodrigo s’illude di fare dell’instabile e molliccio Carlos un grande sovrano, ed è disposto a mentire e uccidere per questo – nonché a sacrificarsi drasticamente. Peccato che, quando Rodrigo resta fatalmente impigliato nelle sue stesse trame, a Carlo sembri bello gettar via qualunque vantaggio il suo amico gli abbia procurato facendosi uccidere – per nient’altro che il gusto di far sentire in colpa suo padre…

E non so, è probabile che, se davvero credeva che Carletto potesse regnare con magnanima efficacia, Rodrigo si sia meritato tutto quel che poteva capitargli – ma c’è motivo di pensare che nemmeno un certo grado di consapevolezza sia di grande aiuto in queste situazioni. Gunn Burden

Passiamo a Bizet e ai Pescatori di Perle: il tenore Nadir si ricongiunge al suo fraterno amico, il baritono (e capovillaggio) Zurga, proprio mentre arriva la semisacerdotessa Leila, deputata a pregare per la buona e sicura riuscita della pesca delle perle. E naturalmente entrambi i giovanotti sono attratti da lei – ma, nel rendersene conto, si giurano reciprocamente che mai, mai, mai permetteranno a una donna di separarli… E come no? Prima di subito, Nadir si precipita da Leila – la cui castità, badate bene, è essenziale al rito. Non del tutto incomprensibilmente, Zurga si sente doppiamente tradito, perché lui era davvero pronto a rinunciare a Leila per amicizia e per la sua responsabilità nei confronti dei pescatori. E nondimeno, dopo un po’ di baritonale furia, è disposto a sacrificare il villaggio e se stesso per salvare l’amico infedele e la men che irreprensibile Leila. Ora, il finale è stato rimaneggiato all’infinito – ma nessuno dubita che, accoltellato subito o condannato a morte poi, Zurga faccia una pessima fine mentre tenore&soprano se ne vanno verso il tramonto…

Impareranno mai i baritoni a non far troppo conto sui tenori? Di sicuro, noi pubblico abbiamo imparato che, quando all’opera due uomini si giurano amicizia fraterna e imperitura, la faccenda è destinata a finire nel sangue – di solito quello del baritono.

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* Nulla di più fulmineo, d’altra parte, dell’innamoramento di Calaf – che, più o meno due minuti dopo avere visto Turandot da lontano, decide che ha sofferto troppo per amore, e si lancia in una quest suicida per ottenere la mano della pericolosissima principessa… Se non altro, Don Alvaro ha salvato Don Carlo dalle conseguenze della sua imprudenza.

** And I have to wonder: non si poteva scegliere uno stato americano con un nome meno ostico (e potenzialmente meno buffo) per il melomane medio? Non mi risulta che la scelta abbia la minima ragione di plausibilità storica – e ammetto che Boston suona bene, ma… Massachussets! Salute!

*** O primo. Dipende. Lunga storia.

 

La Bambinaia Spagnola?

E questo è il Giovane Inglese di Tiziano - ma è così che ho sempre immaginato Rodrigo.

E questo è il Giovane Inglese di Tiziano – ma è così che ho sempre immaginato Rodrigo.

Discutevasi di Don Carlos, e a un certo punto L. mi dice questo: “Ma tu, che ce l’hai tanto con le Bambinaie Francesi e gli anacronismi psicologici, dimmi una cosa: e il tuo beneamato Marchese di Posa?”

E io sussulto un pochino, perché…

Potrei obiettare che il Marchese di Posa, pur baritono, non è più tanto il mio beneamato Marchese di Posa, e che da anni la mia simpatia va a Re Filippo – ma non non lo faccio. E potrei anche obiettare, con più pertinenza, che ai tempi di Schiller l’anacronismo non era una preoccupazione, e l’idea di anacronismo psicologico nemmeno esisteva – ma il punto che sollevava L. non è questo. Il punto è, immagino, la percezione dal nostro lato: è dunque Rodrigo, Grande di Spagna, Cavaliere di Malta, campione del libero pensiero, amico del cuore dell’ineffabile Carletto e figlio immaginario di Re Filippo, nient’altro che una ur-Bambinaia Francese? Verdi stesso ha tutta l’aria di pensarlo, e lo dice in una lettera – se non mi sbaglio – a Ricordi:

Posa, essere immaginario, che non avrebbe mai potuto esistere sotto il regno di Filippo.

E in effetti, tutto si può dire, ma non che il giovanotto pensi, senta e agisca come un convincente nobiluomo spagnolo di metà Cinquecento. Rodrigo è chiaramente l’alter-ego e portavoce di Schiller, un uomo del tardo Settecento. Lo dice bene H.W. Nevinson, nella sua Life of Friedrich Schiller:

In Posa sembra di vedere prefigurati i grandi leader della Gironda nella Francia rivoluzionaria: come loro è nobile e vocato al martirio, come loro è eloquente ed amabile – e come loro è del tutto inefficace.

Oppure così: Thomas Hampson

Oppure così: Thomas Hampson

E dunque? Un Girondino in farsetto di velluto è o non è l’equivalente settecentesco della Bambinaia?

Nel complesso e dopo accurati rimuginamenti, direi di no. In primo luogo, il grado di storicità del Don Carlos non solo è abissale – ma è anche, in tutta evidenza, l’ultima delle preoccupazioni del giovane Schiller: davvero vogliamo impuntarci sugli anacronismi psicologici in una tragedia che fa coincidere la morte di Carlos (1568) con il disastro dell’Armada (1588) e il fidanzamento della principessa di Eboli con Ruy Gomez (1553)…? Ecco, appunto. Se Schiller avesse avuto il minimo interesse in proposito, forse avrebbe cominciato a leggere un po’ di storia spagnola prima di pubblicare i primi due atti della tragedia su una rivista, giusto? Il che magari ci induce a domandarsi che cosa avesse in testa Goethe, quando fece il diavolo a quattro per procurare al suo amico Fridrich una cattedra di storia all’Università di Jena…

Ma questa è un’altra faccenda: è chiaro che nel Don Carlos Schiller non vuole insegnarci la storia spagnola. Questa Spagna di mezza fantasia – tutta intrighi, giardini e solitudini calcinate dal sole – è uno sfondo perfetto per le idee che gli stanno a cuore e che mette in bocca al suo Spagnolo immaginario.DonCarlos

Spagnolo immaginario che, badateci bene, alla fine soccombe. Con tutti i suoi altissimi ideali, la sua eloquenza appassionata e il suo coraggio, Rodrigo alla fine precipita in una macchinazione goffamente suicida – e del tutto inutile, neutralizzata prima di subito dal supposto beneficiario… E non cominciamo nemmeno a proposito del fallimento in alta politica, e del tradimento della fiducia del re, volete? Per uno che parla per l’Umanità e per i Secoli Futuri, il ragazzo non fa una gran figura…

E infine non dimentichiamoci che il pubblico per cui Schiller scriveva sapeva benissimo a che gioco si stesse giocando, ed era un gioco del tutto diverso: pochi si preoccupavano della mentalità della Spagna filippina, e nessuno andava a teatro aspettandosi d’impararla – ma d’altra parte Schiller non era partito con l’intento deliberato di dare una lettura fuorviante dell’epoca.

Quindi, no: se il carattere distintivo della Bambinaia Francese è quello di un personaggio che l’anacronistico perseguimento di valori “moderni” rende moralmente superiore ai personaggi “period” direi che Rodrigo di Posa, eroe romantico confuso e alla fin fine fallimentare, does not fit the bill. Schiller ci chiede di considerarlo un giovanotto di nobili ideali e scarso senso della realtà, il benintenzionato campione di idee destinate a soccombere. Possiamo commuoverci quando si fa uccidere per salvare il suo amico – ma dobbiamo davvero credere che l’amico in questione sia la speranza della Spagna e delle Fiandre?

E lo ripeto: a Schiller non sarebbe mai passato per la mente di porsi il problema dell’anacronismo psicologico – ma persino noi, in epoca di Bambinaie Francesi, possiamo dire che siamo davanti a un cavallo (spagnolo) di tutt’altro colore.

 

Apr 19, 2017 - Storia&storie    2 Comments

Il Povero Filippo

FilippoTiziano.jpgHo i prodromi di una Crisi da Don Carlos. Un tempo erano crisi semestrali, e come tali si indicavano. Con gli anni si sono ridotte, ma non estinte. Le crisi arrivano quando ne hanno voglia, a intervalli irregolari e non necessariamente per un buon motivo, e si manifestano in ascolti, riletture, visioni, indagini, ricerche…

Magari una volta o l’altra ne parleremo – ma quel che volevo dire oggi è che non c’è nulla da fare: crisi dopo crisi, la mia simpatia va sempre al povero Filippo, el Rey Prudente.

Che posso dire? Trovo che sia uno di quei personaggi storici maltrattati più di quanto sia giusto dalla propaganda ostile, dalla letteratura e dalla posterità in genere.

Perché in fondo… state a sentire.

Filippo II era figlio di Carlo V e nipote di Giovanna la Pazza. Vogliamo chiamarla un’eredità famigliare un tantino ingombrante? Era anche il Re di Spagna, un uomo pio e coscienzioso alla sua maniera, un sovrano efficiente e un amante delle arti.

Era anche il pilastro dell’Inquisizione, il tormento delle Fiandre e l’uomo che tentò di dare una sonora lezione all’Inghilterra – quell’isoletta presuntuosa ed eretica.

Era anche un vedovo plurimo e il padre di Don Carlos – oltre che di altri sette tra figli e figlie, pochi dei quali raggiunsero l’età adulta.

Nel corso della sua vita ebbe modo di diventare una figura simbolo del cattolicesimo controriformista più feroce, e i suoi nemici (soprattutto quelli protestanti – ma non solo) crearono attorno a lui la cosiddetta Leyenda Negra, un raccapricciante catalogo di misfatti che includevano l’eliminazione di Don Carlos per motivi dinastici.

Il povero Carletto - nella versione idealizzata

Il povero Carletto – nella versione idealizzata

Il fatto che Carlos fosse uno psicopatico violento che maltrattava brutalmente i servitori e si divertiva a torturare a morte i cavalli non impedì ai detrattori di Filippo di dipingerlo come uno sfortunato giovinotto dalle buone intenzioni e dall’indole triste e ribelle, soppresso da un padre che temeva di essere detronizzato…

Libellisti fiamminghi e inglesi a parte, questa versione della storia cominciò a farsi strada assai presto in letteratura. Nei primi Anni Settanta del Seicento la troviamo nella Nouvelle Galante et Historique dell’Abate di Saint-Réal, secondo il quale Carlos, sventurato ragazzo, non solo è incompreso dal suo gelido e crudele padre, ma ha anche la sfortuna di innamorarsi della sua giovanissima matrigna, la francese Elisabetta di Valois.

La faccenda è ripresa pari pari pochi anni più tardi dal drammaturgo inglese Thomas Otway, che essendo un tragediografo secentesco, calca la mano sulla crudeltà omicida di Filippo, a tutto beneficio degli sfortunati e casti amanti.

Perché la costante è questa: Carlos e la bella regina si amano da lontano, sospirano, scambiano sguardi, ma non infrangono mai de facto i vincoli coniugali di lei. Di solito questo avviene più per l’animo elevato di Elisabetta che per il buon senso di Carlos, ma non sottilizziamo – e tanto più perché, al contrario, il gelosissimo e sospettosissimo Filippo tradisce la sua tenera consorte con la principessa di Eboli, bella e amorale quanto si può esserlo.

Più o meno è quello che succede anche nel Filippo di Alfieri che, come dice il titolo, si concentra sulla ferocia del tiranno: il padre snaturato elimina sistematicamente qualsiasi ombra di affetto o di amicizia attorno a Carlos, e gode nel farlo, non tanto perché veda nel figlio un rivale politico, ma per intrinseca malvagità. Il re di Alfieri è grandioso e tragico, ma del tutto privo di sfumature: non un personaggio vero e proprio, ma un simbolo della tirannide più bieca.

Bisogna aspettare Schiller perché al povero Filippo venga riconosciuta qualche ragione. Il Re in salsa romantica è duro per necessità, sacrifica ogni cosa alla Spagna, ma se stesso prima degli altri. Non ama suo figlio perché non ci riesce – non perché non voglia, ed è molto angosciato dalla scarsa affidabilità di Carletto come successore. In compenso si affeziona subito al giovane marchese di Posa (peccato non avere lui per figlio!), nonostante le perniciose idee quasi protestanti del ragazzo. Alla fine avrà il cuore spezzato in parti uguali dal possibile tradimento della regina e dal tradimento certo del marchese – ed entrambi per amore di Carletto!

DKNousétionsfrèresI librettisti di Verdi sono molto pronti a cogliere questo aspetto e al diavolo l’eponimia! Si può discutere su chi sia il vero protagonista di Schiller, ma nell’opera non c’è da dubitare: è Re Filippo a prendere il centro della scena. Duro, angosciato, paterno, incapace di farsi amare, risentito, costretto a soffocare ogni slancio del suo animo sotto i dettami della fede e della ragion di stato, Filippo è quello per cui dispiacersi. Quando si affanna perché la regina non ricambia il suo amore, quando il figlio di sangue lo sfida stupidamente a ogni passo, quando il figlio d’elezione lo inganna e tradisce, quando il Grande Inquisitore gli forza la mano, quando la vendetta inconsulta gli lascia l’amaro in bocca – è con il Re che la musica ci conduce a identificarci. Anche Verdi, come i suoi predecessori, calca sulla veneranda età di Filippo: in realtà il Re aveva trentadue anni quando prese in moglie la principessa di Francia, ma dipingergli un “crin bianco” aggiunge all’infelicità della giovane Elisabetta e, di rimbalzo, alla sua…

Per cui, avanti pure. Il Filippo di Schiller e di Verdi è ancora il tiranno della Leyenda Negra, ma è anche quello che si trova nelle vere sale del vero Escorial: quello che amava i pittori fiamminghi delle scene luminose e quotidiane, quello che si faceva preparare un salone dalle cui finestre potesse guardare il tramonto con i suoi figli, quello che riempiva i suoi palazzi di opere d’arte, quello che si appassionava ai problemi architettonici. E se, tra un ritratto tizianesco, un’orazione e un concio di pietra, ha fatto eliminare figlio e moglie… oh well, ci sussurrano tragediografo e compositore, sono particolari che ne fanno una figura ancor più tragica e possente.

 

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Cavalieri di Malta

knights_of_maltaGli Ospitalieri di San Giovanni – in generale meglio conosciuti come Cavalieri di Malta, in narrativa appaiono in diversi colori, ma in genere non godono della nomea nigerrima che affligge altri ordini cavallereschi – primi tra tutti i Templari.

Ci sono pessimi Cavalieri di Malta, come Farnese, governatore dell’isola nell’Ebreo di Malta di JewofMalta.jpgMarlowe – un opportunista machiavellico e fedifrago, cui non pare nulla di brutto non solo vessare gli Ebrei (peccato veniale a fine Cinquecento – ammesso che peccato fosse affatto), ma anche di venir meno alla parola data con estrema facilità. Insomma, se il Barabas eponimo è l’antieroe della tragedia, non è che Farnese ci faccia una gran figura… Oh, d’accordo: nessuno fa una gran figura in questa storia – ma d’altra parte una delle tesi di Marlowe era che in fatto di religioni c’era poco da scegliere e, come si dice con colorita efficacia dalle mie parti, prendi uno e strozza l’altro…

Don_Carlos_Marquis_Posa__500x664_On the other hand, avete presente il Marchese di Posa? L’amico di Don Carlos, quello di animo nobile, fiero e disinteressato, il campione del libero pensiero che si guadagna l’ammirazione e l’affetto dell’algido Re Filippo, quello che alla fine – con più generosità che buon senso, if you ask me – si fa uccidere per salvare il suo amico? Ecco, all’opera di solito lo si dimentica, ma Rodrigo, Marchese di Posa, è un Cavaliere di Malta. Ed è il genere di giovanotto che a diciotto anni lascia gli studi per arrivare a Malta alla vigilia del Grande Assedio, presentandosi come uno “la cui croce è stata comprata, e ora viene a guadagnarsela. E se la guadagna eccome – battendosi valorosamente a Sant’Elmo e, dopo che il forte è perduto ai Turchi e tutti i suoi compagni sono morti, tornando a nuoto sull’isola a portare notizie vitali.

Tutto ciò per dimostrare che di Ospitalieri narrativi ce ne sono di buoni e di cattivi – ma d’altra parte, l’Ordine non aveva Sir Walter Scott a fare cattiva stampa. Ora, Sir Walter Scott può piacere o non piacere, ma non gli si può negare una capacità non comune nel creare miti duraturi. I Malvagi Templari, il Malvagio & Meschino Giovanni Senzaterra, la Guerra delle Due Rose e gli Scozzesi in kilt sono soltanto alcune delle ombre lunghe dei suoi romanzi – di quelle cose che non si sa se volerlo strangolare per i macelli storici che ha combinato, o ammirare la sua capacità di modellare la percezione della storia per secoli a scendere… knightssiege

E quest’uomo pericoloso non nutriva per i Cavalieri di Malta un briciolo dell’antipatia che invece riservava ai Templari. Anzi. Li trovava abbastanza simpatici e ammirevoli da voler dedicare un romanzo al loro exploit più celebre: il Grande Assedio di Malta del 1565. Ora, è vero che è più facile simpatizzare con gli assediati – e questo assedio in particolare fu una di quelle faccende che sembrano fatte apposta per un romanzo: poco più di seimila difensori che ricacciano indietro otto volte tanti Ottomani… Immaginatevi una seconda edizione di Costantinopoli 1453 – però vittoriosa. E in tutto questo i Cavalieri si comportarono bene e pagarono un prezzo piuttosto alto .

Quindi si capisce la simpatia di Scott, che partì con una manciatina di Spagnoli in vari gradi dell’Ordine, poi si spostò nel campo turco, e infine si stancò della storia che stava scrivendo, e virò sulla cronaca dei fatti, disinteressandosi dei suoi personaggi… Poi nel 1832 Scott morì, lasciando un po’ meno di ottantamila parole manoscritte di The Siege of Malta – talmente bruttine che un perplesso esecutore letterario si augurò di non vedere mai pubblicato un romanzo così poco all’altezza della carriera dell’autore.

SiegeSolo che poi si sa come vanno queste cose: un ultimo Scott? Uno Scott inedito? Uno Scott sepolto con il suo autore? E i lettori, allora? E gli studiosi? Tutto sommato, c’è da stupirsi che si sia aspettato il 2008 prima di arrivare a una pubblicazione. Meno sorprendente è il caos che ne seguì, con i filologi che si accapigliavano sulla trascrizione dell’illeggibile manoscritto, i recensori impegnati a dissezionare la qualità tutt’altro che eccelsa dell’insieme, e qualche purista indignato per la speculazione editoriale sugli ultimi sforzi di un autore decaduto. Perché il fatto è che The Siege of Malta non è davvero un granché. Dopo una serie di ictus e indebitato fino al collo, Scott non era più lo scrittore di un tempo, e The Siege, con la sua trama senza capo né coda e i personaggi abbandonati per strada, ha tutta l’aria di risentirne. D’altra parte, Scott si dichiarò soddisfatto del romanzo – ma non fece nessun tentativo di pubblicarlo prima di morire, il che probabilmente è significativo…

Piacevano davvero a Sir Walter Scott questi suoi ultimi personaggi, Don Manuel de Vilheyna, il giovane Francisco e Ramegas? O li aveva lasciati cadere perché dopo tutto non si trovava così bene con i Cavalieri di Malta come aveva creduto dapprincipio? Si sarebbe mai sforzato di finire il romanzo se non fosse stato per tutti i debiti che doveva pagare? Sono di quelle cose che non sapremo più, e forse – forse sarebbe stato davvero giusto e compassionevole lasciare il manoscritto pieno di correzioni là dov’era – chiuso in una biblioteca, nell’ombra di un uomo malato, infelice e smarrito, che aveva avuto il dono di plasmare l’immaginazione dei secoli a venire, e forse sapeva fin troppo bene di averlo perduto.

Nov 11, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: Don Carlos (II Parte)

Librettitudini Verdiane: Don Carlos (II Parte)

Nell’episodio precedente…

DON CARLO
Si, t’amo, e Dio ci guidò,
Vivrò per te, per te morrò!

ELISABETTA
Se Dio ci guidò,
Se a me t’avvicinò,
I fè perchè ci vuol felici appieno.

Un giovane amore… spezzato sul nascere!

ELISABETTA
Tutto sparve…

DON CARLO
Sorte ingrata!

ELISABETTA
Al dolor son condannata!

DON CARLO ED ELISABETTA
Spariva il sogno d’or!
Svaniva dal mio cor!

Una grande amicizia…

DON CARLO E RODRIGO
Dio, che nell’alma infondere
Amor volesti e speme
Desio nel cure accendere
Tu dei di libertà.

Una donna gelosa…

EBOLI
(Fra sè)
Amor avria per me?…
Perchè lo cela a me?

Il dovere di una regina…

ELISABETTA
Perchè, perchè accusar il cor
d’indifferenza?
Capir dovreste questo nobil silenzio.
Il dover,
come un raggio al guardo mio brillò.
Guidata da quel raggio io moverò.
La speme pongo in Dio, nell’innocenza!

La terribile solitudine del potere…

FILIPPO
Del capo mio, che grava la corona,
L’angoscia apprendi e il duol!

E l’ombra minacciosa del destino…

FILIPPO
Ti guarda dal Grande Inquisitor!

Potere, amore, lealtà, amicizia, fiducia, gelosia, dovere…

Er. Sì, d’accordo è possibile che mi sia lasciata prendere un nonnulla la mano. Ve l’avevo detto che questa è la mia opera prediletta?

Ma riprendiamo là dove ci eravamo fermati, ovvero con il sipario che si apre sul…

Terzo Atto

giuseppe verdi, friedrich schiller, don carloSiamo tornati a Madrid, nei giardini della Regina a Palazzo Reale. In origine qui era il posto del balletto. Il Don Carlos, l’abbiamo detto, era nato per l’Opéra di Parigi, e tutto quel che si rappresentava all’Opéra comprendeva un balletto. Siccome in un modo o nell’altro bisognava cacciarlo nella trama, Verdi aveva immaginato che, durante una festa a corte, si danzasse la storia de La Peregrina, un’ enorme e celeberrima perla che Filippo II aveva l’abitudine di regalare alle sue mogli. A un certo punto, la Regina si annoiava e, scambiando maschera e domino con la Eboli, si ritirava di nascosto per andare a pregare. Er… sì.

Nelle rappresentazioni moderne il balletto non si vede pressoché mai, nemmeno nelle più filologiche delle versioni in cinque atti – il che non è gran motivo di disperazione, se lo chiedete a me. Se andate all’opera, vedrete l’atto iniziare con Don Carlo che vaga estatico per i giardini semibui, seguendo le vaghe indicazioni di un billet doux che ha ricevuto nel pomeriggio e, quando vede una figura di donna tra gli arbusti, le corre incontro apostrofandola nelle più tenere e inequivocabili maniere. giuseppe verdi, friedrich schiller, don carlo

Ed è qui che ci vien da dolerci che, insieme alle danze, si poti sempre anche lo scambio di maschere e mantelli che dicevamo… Perché va bene che l’amore è cieco e che a mezzanotte c’è buio, ma come fa il nostro eroe a non accorgersi che l’affettuosa mittente del biglietto, così preoccupata di metterlo in guardia al Rodrigo, neo-favorito del Re, non è la Regina ma la Eboli? A parte tutto, non nota nemmeno che all’improvviso si è messa a cantare da mezzo… Solo quando lei si leva il velo nota l’abbaglio e comincia a rimangiarsi tutti i teneri nonnulla che le ha sussurrato. Eboli non è stupida, e non tarda a fare due più due:

Quelle parole ardenti
Ad altra credeste rivolger illuso…
Qual balen! Qual mister!
Voi la Regina amate…! Voi…!

Si metterebbe male se, molto a proposito, non si precipitasse in scena Rodrigo, che dapprima cerca di far passare la tesi dell’infermità mentale (di Carlo), poi minaccia di sgozzare la furibonda Eboli sul campo, e poi ci ripensa e la lascia andare, perché ha un’altra e migliore idea. In un debole sussulto di buon senso, Carlo è tentato di diffidare delle buone idee di Rodrigo – che oltretutto è diventato il favorito del Re, ma il nostro Marchese è maestro nel ricatto morale: sgrana gli occhi, prende un’aria ferita e, con voce spezzata, vuol sapere se Carlo dubiti di lui… Figurarsi. Carlo, commosso e contrito, nega furiosamente e consegna a Rodrigo tutte le “carte importanti” che ha addosso. Il tema del giuramento d’amicizia risuona, e questa volta i suoi ottoni trionfanti hanno un che di vagamente minaccioso. Mentre i nostri due giovanotti si abbracciano ed escono in direzioni opposte, noi dubitiamo. Oh, se dubitiamo…

giuseppe verdi, friedrich schiller, don carloMa spostiamoci nella piazza di Nuestra Señora de Atocha. Sì, c’è il sole, ma non facciamoci ingannare dall’apparenza di festa: si festeggia l’incoronazione di Filippo, ma la si festeggia con un bell’auto da fè. Siete inorriditi? No, non intendo per gli eretici alla brace, ma per l’incoronazione – visto che nel 1568, anno in cui si suppone che l’opera sia ambientata, Filippo era già sul trono da dodici anni… E per una volta non è nemmeno colpa del pur storicamente vago Schiller: a Verdi pareva che a questa storia mancasse qualche grande scena di popolo, e allora aveva più o meno imposto l’incoronazione-cum-rogo. Che viene perfetta perché Carlo possa farsi notare, trascinando davanti al suo inflessibile padre una manciata di terrorizzati deputati delle Fiandre.

Ops…

giuseppe verdi, friedrich schiller, don carloFilippo, inutile dirlo, non è contento. Nonostante la crescente simpatia del popolo e della Regina, respinge con sdegno le suppliche dei Fiamminghi, e con qualcosa di simile al sarcasmo la richiesta di Carlo di essere nominato governatore del Brabante e della Fiandra. E onestamente, siamo seri: al suo posto avreste affidato a costui da governare anche soltanto un pollaio? Tanto più che Carletto procede a dimostrare la sua affidabilità sguainando la spada e servendosene per minacciare il Re… Comprensibilmente poco impressionato, Filippo ordina che si disarmi lo sciagurato – ma che succede? Le guardie esitano, i Grandi di Spagna esitano… Filippo va per fare da sé, e Carlo fa per alzare il ferro su suo padre, quando qualcuno si mette di mezzo. Indovinate chi?

O ciel! Tu, Rodrigo…!

trasecola sgomento Carlo. E noi sobbalziamo insieme al coro: Ei! Posa! Ebbene sì. Lo spargimento di sangue reale è evitato, Carlo è arrestato, Filippo è grato e padrone della situazione. Nel giro di due battute crea duca uno scombussolato Rodrigo e, fatti rimuovere Carlo e i suoi Fiamminghi, ordina di riprendere là dove ci si era interrotti: accensione delle pire, tetro coro del Sant’Uffizio ed eretici flambés – confortati da una Voce dal Cielo.

La fiamma s’alza dal rogo. Cala lo tela.

Atto Quarto

Eppure, sapete che vi dico? Non è detto che Filippo sia poi così monoliticamente giuseppe verdi, friedrich schiller, don carlosicuro come ci era parso in piazza. Magari il dubbio ci era già venuto sentendolo duettare con Rodrigo, ma adesso lo scopriamo a vagare solo e insonne per i corridoi del palazzoIn una delle più meravigliose arie per basso di tutta la storia dell’opera lirica, Filippo ci apre il suo cuore. Lamenta la terribile solitudine del potere, il dubbio che non può fare a meno di nutrire per tutti coloro che lo circondano, la tristezza per l’incapacità della sua giovane moglie di amarlo… E qui potremmo aprire una parentesina per notare che, storicamente, Filippo, non era affatto un vegliardo canuto quando sposò Elisabetta, e aveva appena più di quarant’anni nel 1568. Ma il “crin bianco” era una tradizione consolidata, e non solo in Schiller: anche Alfieri, l’abate di Saint-Réal e tutti quanti ci dipingono il povero Filippo in età geriatrica, e tant’è. giuseppe verdi, friedrich schiller, don carlo

Ma torniamo a noi: a interrompere i magnifici rimuginamenti di Filippo arriva il Grande Inquisitore, terribile cieco nonagenario. Inizia qui un duetto veramente titanico. Con parole che, nell’originale francese*, sono quanto di più fedele a Schiller si trovi nel libretto, e con musica cupa e potente oltre ogni dire, questi due formidabili vecchi duellano incarnando potere temporale e potere religioso. Filippo non sa bene che fare di Carlo, e l’Inquisitore lo esorta allegramente a sbarazzarsene in modo drastico. Se Dio ha sacrificato suo figlio per il bene dell’umanità, perché non dovrebbe farlo il Re di Spagna? E Filippo acconsente, persino un po’ sollevato – ma non è finita. L’Inquisitore vuole un’altra testa, oltre a quella di Carlo: quel mezzo eretico e sovvertitore di equilibri, il signore di Posa, deve morire. E qui sì che Filippo insorge: se ha potuto condannare a morte con sufficiente equanimità il figlio di sangue, le cose cambiano quando si tratta del figlio del suo cuore – sentimenti, gli fa notare l’Inquisitore, del tutto inadatti a un sovrano. Di fronte alla minaccia di una frattura tra corona e Inquisizione, Filippo cede molto, molto a malincuore.

Dunque il trono
piegar dovrà sempre all’altare!

conclude amaramente, mentre l’Inquisitore si ritira.

giuseppe verdi, friedrich schiller, don carloMa ecco che irrompe Elisabetta, furiosa perché qualcuno ha osato rubarle un portagioie, e vuole giustizia dal Re. Ma si dà il caso che il portagioie ce l’abbia proprio Filippo, che lo apre e ci trova dentro una miniatura di Carlo – quella del I atto. Elisabetta si offende a morte per l’atto e per i sospetti ingiustificati, Filippo le dà dell’adultera, lei sviene, lui chiama aiuto e – come se non ci fosse nessun altro in tutto il palazzo – accorrono Rodrigo** e la Eboli. Segue quartetto in cui: a) Elisabetta si riprende; b) la Eboli annuncia di sentirsi in colpa; Filippo si pente di avere sospettato; Rodrigo decide che è il momento di agire. E gli altri capiamo dove sono, ma perché la Eboli si sente in colpa?

Non appena i due uomini si ritirano, la bella monocola si affretta a confessarlo a Elisabetta e a noi tutti: è stata lei a rubare il portagioie. E perché? Gelosia: amava Carlo e Carlo l’ha sprezzata. Elisabetta sarebbe anche pronta a perdonare, ma c’è un altro piccolo dettaglio: la Eboli è stata per anni l’amante del Re… 

Ecco, questo non si può perdonare. Elisabetta bandisce prontamente la Eboli – esilio o chiostro a sua scelta. Pentitissima e disperata per avere rovinato la reputazione della Regina, la principessa esce di scena con un’aria fiammeggiante e un’incoerente decisione di salvare Carlo. Voglio dire: come fa a sapere che il Re lo ha condannato a morte? La maggior parte dei registi risolve la questione facendole trovare il decreto di condanna sul tavolo di Filippo, mentre lamenta la vanità e l’orgoglio che le hanno fatto rovinare tutti quanti. 

Ma noi, intanto, andiamo a trovare Carlo nella sua prigione – in genere qualche tetro sotterraneo semibuio, dove lo troviamo seduto per terra in preda alla depressione più nera. E così lo trova anche Rodrigo, venuto a congedarsi da lui. Come a congedarsi? Eh sì, perché, con atto di dubbia saggezza, ha usato le carte che Carlo gli aveva dato nel III Atto per far ricadere su di sé tutti i sospetti: adesso è lui il fiero agitator delle Fiandre – e anche il supposto amante della Regina.***  giuseppe verdi, friedrich schiller, don carlo

Questo non scagiona affatto Elisabetta? Pazienza. E comunque nel portagioie della Regina c’era il ritratto di Carlo? Fa nulla. Ed è stato Carlo a portare i Fiamminghi all’auto da fè? Dettagli.

A suo credito, anche Carlo è sconcertato come lo siamo noi, e vuole andare dal Re a chiarire tutto… ma Rodrigo lo ferma. Flanders need you, gli intima…

No, ti serba alla Fiandra,
ti serba alla grand’opra.
Tu la dovrai compire. Un nuovo secol d’or
rinascer tu farai; regnare tu dovevi
ed io morir per te.

E non ci si lascia nemmeno il tempo di dubitare che Carletto sia in grado di compire alcunché – men che meno far rinascere secoli d’oro. Un colpo d’archibugio risuona, e…

Cielo! La morte! per chi mai?

esclama Carlo, atterrito.

Ecco, questo è il bit che cito sempre a sostegno della mia teoria-per-gioco sull’insufficienza cranica dei personaggi tenorili. Voglio dire: siete in due, lì dentro, e tu stai benone… per chi diamine vuoi che fosse?

E infatti…

Per me…

mormora utilmente Rodrigo, un istante prima di cadere tra le braccia di Carlo. E pur con un’archibugiata tra le costole, riesce a passare parola per un appuntamento con Elisabetta e a congedarsi con un’ultima e commovente aria, in cui supplica Carlo di non dimenticarsi di lui e di quel che ha fatto – e poi muore, e il pubblico è libero di commuoversi.

Ma il povero Carlo non è nemmeno libero di piangere in pace, perché arriva Filippo, a restituirgli la spada e liberarlo – perché ha creduto alle manovre di Rodrigo. E Carlo cosa fa? Per primissima cosa spiattella tutto a Filippo: altro che tradimento, altro che cospirazione, è morto per salvare me! Il che vanifica del tutto la morte del povero Rodrigo – e ok, era già condannato, ma lui non lo poteva sapere. Cosa dicevamo dei tenori? 

giuseppe verdi, friedrich schiller, don carloMa non distraiamoci, che il momento è pieno di pathos. Angoscia di Filippo, che in Schiller è lacerato tra l’incredulo dolore per il tradimento dell’uomo che considerava un figlio e il rimorso per averlo lasciato morire,**** e invece in Verdi si limita al rimorso – e qui arriviamo a quello che, a mio timido avviso, è l’aggiustamento più criminale tra i molti che segnano la storia di quest’opera. A questo punto, in origine, c’era una meravigliosa scena in cui Filippo e Carlo si addoloravano all’unisono, e il coro faceva corona (piuttosto seccato, a dire il vero). È un pezzo di una bellezza straordinaria – e fu tagliato prima della prima, perché l’opera era troppo lunga e i Parigini rischiavano di arrivare a casa troppo tardi.

Vi par possibile? Il balletto era sacro e intoccabile, ma la trenodia si poteva benissimo potare… No, in realtà c’erano altre ragioni – tipo il fatto che il pezzo era un po’ al di sopra delle possibilità del primo Carlo, il tenore Morère. E poi pare che il primo Rodrigo, Jean-Baptiste Faure, non fosse per nulla contento di restarsene sdraiato in scena mentre gli altri cantavano… Fatto sta che la trenodia fu tolta – e Verdi la riciclò anni più tardi per il Lacrymosa del Requiem. Però nowadays capita di sentirla qua e là in qualche produzione della versione in cinque atti – e secondo me il finale d’atto ne guadagna moltissimo.

Perché sì, siamo in finale d’atto, ormai: c’è spazio per una fulminea rivolta popolare, prontamente sedata dall’arrivo del Grande Inquisitore***** – ma non prima che la Eboli approfitti del trambusto per far fuggire Carlo – e poi il sipario cala. Le cose si mettono male per i nostri eroi, vero? Ma hanno tutto il tempo di peggiorare nel corso del…

Quinto Atto

Questo è breve. Elisabetta è a San Yuste. Aspetta Carlo e intanto fa conversazione con la tomba di Carlo V. Arriva Carlo, che si ferma a salutare sulla via della Fiandra. La morte di Rodrigo l’ha maturato: adesso ama Elisabetta solo di un purissimo e ideale amore, ma il suo cuore e il suo destino sono nelle Fiandre da liberare – cosa che Elisabetta ammira enormemente. Ma mentre si abbracciano per l’ultima volta, ecco arrivare Filippo, con l’Inquisitore e il Sant’Uffizio al seguito. E adesso va’ a spiegare a tutta questa gente che non è come sembra. Le guardie circondano Carlo, ma… che succede? Di chi è la voce che si sente echeggiare?

L’INQUISITORE
É la voce di Carlo!

CORO
É Carlo Quinto!

FILIPPO
(Spaventato)
Mio padre!

ELISABETTA
O ciel!

Il frate corifeo del second’atto ricompare – ma sotto il saio porta una corona imperiale. Tutti indietreggiano sconvolti, e il fantasma, in paio metafisico con la Voce dal Cielo, trascina via Don Carlo mentre, lentamente, cala la tela. 

E sì, è un finale dissennato, ma a Verdi piaceva tanto.

Nonostante il pio corruccio dell’Imperatrice Eugenia alla prima, e nonostante le perplessità di quei critici che tacciarono il compositore di wagnerismo, il Don Carlos fu un successo. In anni successivi cominciarono le modifiche, i tagli, gli aggiustamenti, le traduzioni e le ricuciture, e ancora oggi l’opera va in scena in una quantità di forme diverse, in due lingue e in un numero variabile di atti, cupa e scintillante, gonfia e raffinatissima, illogica e strappacuore – forse il più affascinante capolavoro della maturità verdiana. 

____________________________________

* La traduzione italiana, alas, è lardellata d’improbabilità come “L’infante è un gran ribelle, armossi contro il padre…” Sospirone.

** Abbiate pazienza, devo mettervi a parte di un minuto e meraviglioso particolare della regia parigina di Bondy: a questo punto, Filippo (José Van Dam) è inginocchiato sul pavimento accanto a Elisabetta (Karita Mattila) svenuta. La Eboli (Waltraud Mayer) soccorre la Regina, e Rodrigo (Thomas Hampson) offre la mano al Re per aiutarlo a rialzarsi. Filippo fa per accettare, ma poi si blocca, distoglie lo sguardo e si alza da solo – e noi capiamo che non riesce a stringere la mano dell’uomo che ha appena abbandonato all’Inquisizione. È una delle tante, acutissime minuzie di cui è ricco questo Don Carlos del Théâtre du Châtelet.

*** Secondo Bondy, molto schillerianamente, Carlo non crede più a Rodrigo – il che rende ancora più strappacuore tutta la scena.

**** Ma d’altra parte, in Schiller è Filippo a far archibugiare Rodrigo nelle segrete – cosa che l’Inquisitore poi gli rimprovererà come una mossa goffa e avventata. E non parliamo neppure del film muto del 1925, in cui Filippo spara di persona al povero Marchese…

***** Altra gemma bondiana a questo punto. Ne abbiamo già parlato qui.

 

Giu 17, 2012 - teatro    Commenti disabilitati su Don Carlos a Dresda

Don Carlos a Dresda

In Tedesco, quest’oggi. Trailer dell’edizione 2010 allo Schauspielhaus di Dresda, con la regia di Roger Vontobel – che, da quel che se ne vede, mi pare asciutta, un nonnulla claustrofobica ed efficace.

Che poi in Tedesco so: a) chiedere la strada per Salisburgo; b) indicare la strada dall’uscita di Mantova Sud a qui; c) protestare per la qualità delle tavole di Larice; c) il testo di qualche Lied e dell’Inno alla Gioia; d) ordinare la cena. E non è una lingua che mi piaccia – però aspiro, un giorno, ad andare a vedere un Don Carlos in originale.

Wish me joy, e buona domenica.

Giu 4, 2012 - Vitarelle e Rotelle    8 Comments

Tre Uomini In Barca – Per Tacer Del Grande Inquisitore

jerome.pngC’è una scena nel delizioso Tre Uomini In Barca Per Tacer Del Cane, di J.K. Jerome, in cui i tre protagonisti eponimi preparano le valigie per la loro vacanza in barca lungo il Tamigi. O meglio, il narratore J. osserva dubbioso mentre i suoi amici tentano di fare i bagagli. Naturalmente, i piani di ordine e metodo degenerano prima di subito, e la calma viene persa rapidamente. Ben presto, George e Harris sono intenti a scambiarsi insulti sopra una montagna di ceste vuote, barattoli di ananas, coperte e articoli da toeletta e – un istante prima che la situazione precipiti – J. si alza dalla poltrona e, senza una parola, va ad appoggiarsi alla mensola del camino, in posizione ideale per vedere meglio. “Per qualche motivo, questo li mandò fuori dai gangheri.”

Ora, non amo molto Gianni Rodari, ma gli sarò eternamente grata per avere sottolineato questa minuscola scena con una nota alla traduzione, rimarcando come quel singolo movimento sia un tratto di caratterizzazione degno di un grande regista – o, aggiungo io, di un grande scrittore. E’ una cosetta da nulla, ma di una tale finezza! Sembra di vederli: J. che si sposta e incrocia le braccia con quel genere di espressione da “io ve l’avevo detto”, ed è tutto quello che ci vuole per far esplodere gli altri due, perché tutti desideriamo sempre assassinare la persona che dice “io ve l’avevo detto”, specie se aveva ragione, e il fatto che le parole in questione non vengano mai pronunciate rende la scena ancora più perfetta. Harris scaraventa per terra gli stivali che ha in mano, George rompe in improperi e noi ci abbandoniamo a una crisi di ilarità. Perfetto.pd2785598.jpg

E non è solo una questione di tempi comici. Per restare in tema di regia, lasciatemi citare un minutissimo particolare della regia di Luc Bondy per il Don Carlos dello Chatelet. Il IV atto è finito, la rivolta popolare è domata, re Filippo e i Grandi di Spagna ringraziano il Cielo in ginocchio, Don Carlos è fuggito senza che nessuno se ne accorgesse, e il defunto Rodrigo giace sul pavimento con una palla di moschetto nella schiena. Questo è uno di quei casi in cui tutti si aspettano l’Inquisizione spagnola, e infatti ecco che il Grande Inquisitore (cieco nonagenario, che in questo caso cieco non è) si avvicina al cadavere, lo guarda con aria di feroce trionfo e, con la punta del bastone, gli scioglie le mani che Carlos gli aveva incrociato sul petto. Re Filippo vede e inorridisce, ma l’Inquisitore lo fissa duramente. Filippo si ferma e si nasconde il viso. La scena durerà forse dieci secondi e non ha legame apparente con i versi che il coro sta cantando al momento, ma è la conclusione perfetta del duetto tra il re e l’Inquisitore. “Dunque il trono ceder dovrà sempre all’altare?” si era chiesto allora Filippo. E la risposta arriva adesso: in questo caso, almeno, Altare 2, Trono O. E se non bastasse, questo piccolo gesto e il relativo scambio di sguardi sigillano perfettamente, da un punto di vista narrativo, il momento peggiore per i nostri eroi, appena prima del confronto finale con i malvagi.

Insomma, nello scrivere dialoghi varrebbe sempre la pena di inserire qualche gesto significativo. I gesti possono sottolineare le parole, possono contraddirle, possono creare tensione, dubbio, sottotesto, complessità, valore simbolico… Sì, ne vale decisamente la pena.

Mag 20, 2012 - cinema    7 Comments

Carlos Und Elisabeth

Ma guardate un po’ che cosa ho trovato! Carlos Und Elisabeth, film muto di Richard Oswald del 1924, tratto dal Don Carlos di Schiller. Sapevo che esisteva e volevo tanto avere un’idea di come fosse, ma non avevo mai trovato niente di più che qualche fotografia. E invece stamattina, cercando di nuovo per fede in quel principio secondo cui, se qualcosa non è in rete adesso, non è detto che non ci sia il mese prossimo, ho trovato uno spezzone.

E uno spezzone rilevante, anche – la morte di Rodrigo di Posa con annessi e connessi, forse il momento in cui la somma idiozia di Carlos si rivela nel suo più romantico e abbacinante splendore. Perché quando il tuo fraterno amico attira su di sé i sospetti che gravano sul tuo capo e la prende nelle costole per salvarti, che cosa fai tu? Dichiari immediatamente a tutti che era una manovra – così da rendere del tutto vana la manovra stessa? Ecco, appunto.

E notate, in più, il particolare truculento e non Schilleriano cui nemmeno i librettisti di opera avevano pensato di spingersi: Re Filippo uccide di persona il giovanotto cui voleva bene come a un figlio – why, quello che avrebbe tanto voluto avere per figlio al posto dell’idiota instabile che si ritrovava…

Ecco. Per la cronaca: Conrad Veidt è Don Carlos, Wilhelm Dieterle è Rodrigo e Eugen Kloepfer è Re Filippo. E, se avete presente il Don Carlos verdiano dello Chatelet, badate alla ventina di secondi tra 6.40 e 7.00: secondo me Luc Bondy e Roberto Alagna hanno visto questo film.

E, detto fra noi, quanto mi piacciono i film muti! Oh, come voglio fare un film muto per gioco! Chi è disposto a fare un film muto per gioco insieme a me?

Intanto buona domenica…

Set 9, 2010 - Senza categoria    Commenti disabilitati su Cartoline da Madrid II

Cartoline da Madrid II

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Questo comincia a sembrare un viaggio di ritardi e di attese. Non si sa come e perchê, ma un’attesa alla stazione di Atocha non e’ nulla di particolarmente ricreativo. A dire il vero, nemmeno il viaggio lo e’, nelle temperature siberiane delle ferrovie iberiche… Oltre i finestrini sfilano sessanta km di colline brulle, erba bruciata, alberi dall’aria polverosa. La ferrovia è scavata tra roccia rossiccia e muretti a secco, il cielo è azzurrissimo, con qualche pennellata di nuvole sfilacciate dal vento. Non è bello in senso stretto, ma è molto la Spagna come la si immagina: non è difficile immaginare il convoglio reale di Filippo II in viaggio,  lento e nero, attraverso questo paesaggio – oppure una colonna di soldati napoleonici in marcia.

E poi S. Lorenzo del Escorial. Non ho citato Filippo a caso, prima. Il posto è simbolico dell’animo del suo costruttore: una mole austera e solitaria di granito grigio che racchiude collezioni d’arte e di progetti architettonici, la magnificenza gelida del Panteòn – tutta nera, oro e porpora – una sterminata biblioteca, giardini pieni di luce, file di tombe di Infantes, una basilica dove tutto è sacrificato alla maestosità dell’insieme e sale progettate per poter ammirare il tramonto dalle finestre, tra le quali sono appesi i quadri che celebrano la “pacificazione” delle Fiandre. L’uomo è lì, nelle contraddizioni del posto che ha creato.

Poi ci si ritrova faccia a faccia con i ritratti: Filippo, Carlo V, Don Juan de Austria, Doña Maria di Neuburg (l’eroina del Ruy Blas) e il suo orrido marito, Carlo II…

Adesso mi fermo e parto in direzione Prado.

Apr 11, 2010 - musica    3 Comments

Musica Cassata

Siccome oggi è il mio compleanno, volevo farmi un regalino e postare uno dei miei pezzi d’opera preferiti: il cosiddetto Lacrymosa dal IV Atto del Don Carlos di Verdi. Non lo si sente spesso, perché questa scena, in cui Filippo II si duole assai di avere fatto assassinare il Marchese di Posa, fu cassata prima della prima parigina del 1867, quando il Don Carlos era ancora grand opéra in cinque atti.

Alla prova generale, a quanto pare, ci si rese conto che l’opera era troppo lunga, e i Parigini avrebbero perso gli ultimi treni che portavano fuori città… Occorreva fare dei tagli. Non potendo eliminare il balletto, Verdi finì con l’eliminare, tra l’altro, proprio questa scena che, pur essendo straordinariamente bella, aveva dato più di un problema in fase di prove, principalmente perché il tenore non aveva abbastanza voce per svettare sul coro dei Grandi di Spagna, e poi perché a Jean-Baptiste Faure, il Marchese di Posa originale, non andava di restarsene sdraiato sul palco nel ruolo del cadavere mentre gli altri gli cantavano attorno.

La scena non venne mai ripristinata nelle versioni successive dell’opera, ma Verdi ne rielaborò poi la musica nel Requiem, donde il nome retroattivo di Lacrymosa applicato – un po’ liberamente, ma non a sproposito – anche alla scena cassata.

Nel 1996, al Théàtre du Chatelet di Parigi, Antonio Pappano ha diretto una versione in cinque atti e in francese, un po’ ibrida quanto a scelte musicali, ma comprendente il Lacrymosa. Questa produzione (se si eccettuano le scene indifferenti e qualche scelta di costumi) è stratosferica, con una schiera di fenomenali cantanti-attori, e la strepitosa regia di Luc Bondy, sobria, efficace e curatissima, piena di tensione e di idee. A mio avviso, una delle migliori versioni che si trovino in giro.

Ecco, questa era la mia intenzione, ma YouTube non collabora, e quindi mi sa tanto che il Lacrymosa dovrete andarlo a vedere qui.

Buona domenica!