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Lug 17, 2017 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Cappa (estiva) & Spada

Cappa (estiva) & Spada

Achard“Com’è, o Clarina, che non fai più quei post d’inizio estate in cui consigliavi letture vacanziere?”

Vero – un tempo facevo questa cosa, e poi non l’ho fatta più… E ho paura di non farla nemmeno quest’anno, non tanto per malvagità o terribile pigrizia – quanto per motivi linguistici: arrossisco nel confessar di leggere talmente poco in Italiano, che non ho granché da consigliare…

Però ho qualcosa da farvi vedere – che potrebbe tradursi in una lista di letture estive oppure no, ma è eminentemente estiva nella sua natura.

Allora, dovete sapere che qualche tempo fa, mentre lavoravo a un progetto non Gerardnarrativo, mi sono imbattuta in una collana di romanzi avventurosi che la Mondadori pubblicò tra il 1933 e il 1935, chiamata Romanzi di Cappa e Spada. Armi e Amori. La collana conta trentaquattro titoli, con qualche classico del genere in mezzo a parecchie faccende oscure & dimenticate. C’è una certa quantità di historicals di Arthur Conan Doyle, primo tra tutti il meraviglioso Gérard*. Poi ci sono titoli minori di qualche autore celebre, come i due Dumas e la baronessa Orczy (meglio nota per il ciclo de La Primula Rossa). E poi ci sono autori che ormai ammontano quasi a una bizzarria bibliografica, tanto sono dimenticati come W.H. Ainsworth, contemporaneo e rivale di Dickens, autore del terribile L’Ammirabile Crichton, come Amedée Achard, iperattivo autore francese cui si attribuisce (erroneamente**) la definizione del genere “cappa e spada” e il buon Maquet, il collaboratore di Dumas padre, che ogni tanto scriveva anche in proprio.

MaquetMolti di questi autori di cappa e spada erano gente incredibilmente prolifica, con dei trenta o quaranta titoli accanto a rispettabili carriere più o meno d’altra natura. Achard era un giornalista e autore teatrale, Maquet lavorava appunto con il già straripante Dumas, Hauff era l’istitutore dei figli del ministro Von Hugel nonché un autore di fiabe (e morì a venticinque anni, quindi fece davvero tutto molto in fretta), Doyle aveva il suo daffare con Sherlock Holmes…

Ogni volume – o piuttosto numero, perché la collana si considerava un periodico – includeva, oltre al romanzo, “problemi polizieschi, varietà, passatempi, ecc.” (il n° 30 contiene persino una novella della Christie) e costava 2 lire.

Tre soltanto i romanzi italiani, uno dei quali di Alfredo Pitta, inoltre traduttore della maggior parte dei titoli inglesi, francesi e tedeschi***.

Il catalogo è una meraviglia: il solo elenco dei titoli è sufficiente a risvegliare l’undicenne che è in tutti noi – e spedirlo in soffitta a cercare spada di legno e mantello fatto con la tenda della nonna.

1. Giachetti, Cipriano, La tabacchiera dell’imperatore

2. Dumas, Alexandre père, Le due regine

3. Maquet, Auguste Jules, Gerardo di lavernie

4. Maquet, Auguste Jules, Il buffone gentiluomo

5. Maquet, Auguste Jules, La caduta di Satana

6. Maquet, Auguste Jules, La conquista di Parigi

7. Haggard, H. Rider, Iduna la bella  

8. Achard, Amedée, I leoncelli

9. Achard, Amedée, Il Figlio del falconiere

10. Achard, Amedée, Il serpente  

11. Achard, Amedée, Il vello d’oro  

12. Achard, Amedée, Le lame rosse  

13. Achard, Amedée, Un guascone a Parigi

14. Hauff, Wilhelm, Il castello di Lichtenstein  

15. Hauff, Wilhelm, Il cavaliere ignoto

16. Doyle, Arthur Conan, Le guasconate di Gérard

17. Pitta, Alfredo, I Cinque falchi

18. Ainsworth, William Harrison, L’ammirabile Crichton

19. Doyle, Arthur Conan, Il pretendente  

20. Doyle, Arthur Conan, I tre venturieri  

21. Doyle, Arthur Conan, Il principe nero  

22. Doyle, Arthur Conan, Le cinque rose  

23. Doyle, Arthur Conan, Le tre imprese

24. Doyle, Arthur Conan, Nuove imprese di Gérard  

25. Doyle, Arthur Conan, Saxon, l’avventuriero  

26. Doyle, Arthur Conan, Il castello della paura

27. Barrili, Anton Giulio, Diana degli embriaci  

28. Ainsworth, William Harrison, La figlia dell’astrologo  

29. Orczy, Emmuska, Fiocco di neve  

30. Orczy, Emmuska, I candelieri dell’imperatore [segue Il secondo Gong. Novella di Agatha Christie]

31. Orczy, Emmuska, Un Fiore nel turbine  

32. Montepin, Xavier de, Capitan Rolando

33. Montepin, Xavier de, Il vendicatore  

34. Dumas, Alexandre fils, Il romanzo del Salteador  

HauffAssolutamente meraviglioso. Non v’immaginate di essere ragazzini negli Anni Trenta, di aspettare in devozione il prossimo volume, di divorarlo di nascosto quando dovreste già essere a dormire e di giocare al figlio del falconiere o al cavaliere ignoto con i vostri amici?

E se poi volete pescare qualche lettura estiva, ci sono sempre le bancarelle dei libri usati, le biblioteche (e non dimenticate le meraviglie del prestito interbibliotecario) e, se avete voglia di cimentarvi con gli originali, il Project Gutenberg, Internet Archive o siti dedicati come DumasPère.

E dài, dopo tutto sono stata bravina: avventure avventurose, make believe, un po’ di caccia al tesoro… potrebbe essere più estivo di così?

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*  Ebbene sì, oltre a scrivere Sherlock Holmes e fotografare le fate, Doyle scriveva anche romanzi storici. Iperattivo ancihenò. Consigliatissime sono le irresistibili avventure napoleoniche del Brigadiere (nel senso di Generale di Brigata) Gérard, di cui esistono edizioni più recenti, come una Mondadori del ’95 e una Fabbri del ’02 – magari da leggersi insieme ai Memoirs de Marbot, cui sono ispirate.

** In realtà fu Ponson du Terrail, ma poi Achard pubblicò un romanzo intitolato La Cappa e la Spada, e fine della storia.

*** Il che significa che il signor Pitta ha tradotto 28 romanzi in tre anni. Complimenti.

 

Set 23, 2016 - gente che scrive, pennivendolerie    Commenti disabilitati su Le Grand Alexandre E Il Senso Degli Affari

Le Grand Alexandre E Il Senso Degli Affari

Mail:

Certo che Dumas, a cinquanta parole per riga e con i “negri” in ufficio, suona più un affarista che uno scrittore. Mi sa che forse non rileggerò più i moschettieri con lo stesso spirito.

Dumas4A dire il vero, non saprei. Da un lato, il senso degli affari dell’autore non mi sembra un buon criterio nella scelta delle letture, e poi, a voler vedere, forse Dumas apparteneva a quel genere di gente che questo “senso”, una specie di Conoscenza in Astratto, per dirla à la Conrad, a volte dà l’impressione di possederlo in occhiuta e creativa abbondanza – e poi all’atto pratico bisogna dire che non sia affatto così.

Per dire, ne I Quattro Moschettieri, di Nizza & Morbelli si scopre che Dumas aveva con Le Constitutionnel un contratto per 100.000 righe l’anno, a 1,50 Franchi la riga.

N&M proseguono citando il seguente meraviglioso dialogo fra Athos e il servo Grimaud:

– Ebbene?
– Nulla.
– Nulla?
– Nulla.
– Come?
– Nulla, vi dico.
– È impossibile.
– Ne sono certo.
– Ne sei proprio sicuro?
– Eh, diavolo!
– Ah, è troppo.
– È così.

Dodici righe x 1,50 fa un totale di 18 Franchi. Diviso per 24 parole, fa esattamente 0,75 Franchi a parola. Mica male. E pur un pochino estremo, questo è tutt’altro che un esempio isolato del metodo Dumas.
Per farci un idea delle proporzioni, sempre ne I Quattro Moschettieri, si riporta questo lancio pubblicitario apparso su Le Mousquetaire (periodico fondato e diretto da Dumas), per il romanzo (di Dumas) Les Bleus et les Blancs:chapeaux

Per l’abbonamento trimestrale al prezzo di 15 franchi offro alle mie gentili lettrici un cappellino da ballo, da teatro o da serata. Non si tratta già di cappellini fatti in serie, di vecchi saldi di magazzino, accciabattati da mani inabili. Sono graziosissime acconciature che ogni parigina può provare e ordinare dalla modista più in voga, Madame Céline Lambert, 17 Boulevard de la Madeleine. Le abbonate di provincia le scrivano franco di porto, inviandole un campione del loro abito e indicando il loro fiore favorito. Riceveranno senza spesa alcuna un cappellino che permetterà loro di brillare alle feste della sottoprefettura.

15 Franchi = abbonamento trimestrale (compresa spedizione) + cappellino omaggio.

Dal che si constatano un paio di cose. Primo, che l’aspirapolvere in regalo con i punti del latte non è un’invenzione particolarmente nuova; e poi il britannico buon senso nel pagare gli scrittori a parole, anziché a righe…E si considera anche che i contemporanei del Grand Alexandre lo ritenevano un mostro di spirito imprenditoriale ai limiti della sgradevolezza, e si facevano beffe dei suoi metodi (come la pratica di affidare al già citato Maquet ricerche storiche e prime stesure) soprannominandolo Dumas & C.ie – in non proprio benevolo riferimento alla natura, diciamo così, manifatturiera della sua produzione.

OLdDUmasE in effetti Dumas guadagnò moltissimo in vita sua, e sperperò ancora di più in teatri, produzioni faraoniche, amanti capricciose, cantine scavate nella sabbia, padiglioni neogotici in giardino, tentativi di carriera politica, velleità sociali, divorzi costosi, voli pindarici assortiti…

E alla fine morì povero in canna, dichiarandosi padrone di un luigi d’oro – la stessa somma con cui era arrivato a Parigi diciottenne. Un’esagerazione, si capisce, o non sarebbe stato Dumas, ma di sicuro non era poi lo squalo mercantile che i suoi detrattori dipingevano.

Era solo un creatore di mondi, sogni, gente e avventure, cui non pareva abbastanza vedere le sue creature e creazioni confinate in carta e inchiostro. Apparentemente non il tipo di calling che conduce alla prosperità. Se poi questo (ri)faccia di lui uno scrittore e un artista migliore, proprio non so dire – ma francamente ne dubito alquanto.

 

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Ago 12, 2011 - scrittura, teatro, teorie    6 Comments

Romanzieri A Teatro

Secondo Jeffrey Sweet, i romanzieri a teatro costituiscono una popolazione maldestra e grigiolina – sia come autori che come personaggi.

Non posso dire che la cosa mi abbia colmata di gioia, perché da un lato sono davvero entusiasta delle altre teorie di Sweet, e dall’altro gli argomenti che adduce in proposito sono quanto meno sensati, e in tutta probabilità validi.

Per quanto riguarda la transizione dal romanzo alla scena, Sweet osserva che il romanziere medio, abituato ad avere la parola come unità di base del suo lavoro, fatica ad abituarsi all’idea di dover lavorare su un atomo diverso: l’attore. Un testo teatrale, dice, non è alta letteratura e/o brillante uso della lingua: è un programma di occasioni studiate per consentire all’attore di creare comportamenti atti a catturare l’attenzione e la simpatia del pubblico. Ma il romanziere (o, se è per questo il poeta) medio, abituato ad affidare tutto il suo significato alla parola, fatica a imparare il diverso meccanismo secondo cui il suo significato farà bene ad emergere attraverso il comportamento dell’attore piuttosto che a monologhi in prosa fiorita.

E a dire il vero, il problema sembra affliggere anche lo scrittore più che medio.

Sapevate che Henry James fra il 1894 e il 1895 tentò di dedicarsi al teatro? Non era ancora il romanziere che tutti ammiriamo, ma possedeva già una rispettabile fama di saggista quando scrisse le sue quattro commedie & un dramma. Non di meno, le quattro commedie, che scrisse “leggere” per incontrare quello che credeva fosse il gusto del pubblico londinese, non trovarono un’anima disposta a metterle in scena. Le pubblicò a sue spese in due volumi, ciascuno corredato di una prefazione che, diciamocelo, è di gran lunga migliore delle commedie stesse. Il dramma, Guy Domville, trovò un incauto produttore, debuttò, fu sonoramente fischiato, sopravvisse per cinque settimane e cadde nell’oblio. Dopodiché James decise solennemente di dedicarsi solo alla narrativa – e tutti ne siamo molto felici. Perché il fatto è che, pur teoricamente consapevole delle necessità e convenzioni del teatro, James non sapeva applicarle, mettendo in scena incidenti inadatti o cercando invano di vivacizzarli facendo entrare e uscire i suoi personaggi da un’infinità di porte.

E che dire poi di Foscolo? Foscolo era il poeta che sappiamo, ma quando tentava la via delle scene diventava disastrosamente prolisso e rigido. A differenza di James, Foscolo didn’t give a button per le necessità di attori e impresari, e si ostinava a considerare soltanto la struttura della tragedia classica e il proprio gusto. Risultato, non so se abbiate mai provato a leggere qualcosa come l’Ajace (quello dei Salamini!) o la Ricciarda: gente che entra in scena e si abbandona a quarti d’ora di paludato soliloquio, rimugina, impreca, maledice, si strugge e non fa mai nulla. Ogni tanto qualcuno riferisce qualcosa che è successo, altri esclamano e si torcono le mani e poi giù altri soliloqui… Statico, statico, tre volte statico – e altrettanto unsuccessful. Capite perché gli impresari nominassero l’Ugo nazionale facendo gli scongiuri?

E per una volta non è questione di essere ossessionati dalla fabula: per sua natura, il teatro non dà accesso al paesaggio interiore dei personaggi e al sottotesto se non attraverso il modo in cui i personaggi dicono ciò che dicono. Ora, il playwright può fare due cose distinte in proposito: può lasciare che Cappuccetto Rosso venga in scena e racconti diffusamente al cielo stellato che non ne può più di vivere sotto la campana di vetro delle paranoie di sua madre, oppure può mostrarcela mentre ascolta appena le raccomandazioni della mamma, e quasi le strappa le ciambelle di mano per metterle nel cesto, ansiosa com’è di una giornata di libertà nel bosco… Tolta l’opera lirica e tolto il musical — che funzionano un po’ diversamente — indovinate quale metodo funziona meglio in scena?

Per contro, dice Sweet, c’è altra gente molto adatta alla drammaturgia, perché possiede già la giusta forma mentis: i giornalisti, perché sono abituati a selezionare i dettagli rilevanti di una storia e riportarli con più immediatezza che dettagliate distinzioni psicologiche; e gli attori, perché hanno acquisito la loro formazione creando il comportamente che serve a mostrare il significato del testo — e verificandone di prima mano l’efficacia. E in effetti Dumas Père era forse più giornalista che romanziere quando scrisse i suoi vividi, pittoreschi e immensamente applauditi drammi storici. Si potrebbe dire che siano i suoi romanzi ad avere una notevole dose di teatralità.

On the other hand, Dickens, con un percorso molto simile, e con una indefessa passione per il teatro, con i suoi drammi ottenne un successo piuttosto limitato.

A titolo di parziale consolazione, Sweet conclude che in realtà non c’è nessuna legge di natura per cui un romanziere non possa diventare un buon autore teatrale — a patto che si renda conto di dover imparare a camminare di nuovo, secondo tutt’altri principi. Dove invece resta drastico è sul fatto che, sappiatelo o Fellow Writers, gli scrittori sono pessimi protagonisti a teatro.

Anche qui, la  spiegazione è sensata: che cosa caratterizza uno scrittore? Il fatto di scrivere — ciò che avviene in solitarie e statiche sessioni notturne — e il fatto di osservare (e vampirizzare) l’umana natura — ciò che avviene per lo più nella testa dello scrittore stesso. Entrambi sono affascinanti processi, molto interessanti a leggersi in dettaglio all’interno di un romanzo, ma pressoché impossibili da rendere scenicamente. Provate a pensare a Stingo nell’adattamento teatrale di Sophie’s Choice, o alle varie incarnazioni di Christopher Isherwood nelle diverse versioni teatrali e cinematografiche di Cabaret, e troverete personaggi statici e persino un po’ passivi, gente che osserva invece di muovere dinamicamente il plot.

E qui, onestamente, c’è poco da fare, perché nessuna quantità d’impegno riuscirà a rendere i conflitti intrinseci della scrittura scenicamente utili — se non forse in veste allegorica, il che mi sembra una strada tanto datata quanto rischiosa da intraprendere.

La morale ad uso del romanziere che aspira a scrivere per le scene, stando a Jeffrey Sweet, è duplice: costui/costei farà bene a disporsi a imparare daccapo e, già che c’è, a scegliersi un protagonista che non sia uno scrittore e basta.

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Se siete interessati alla meccanica dei testi teatrali – e ancora di più se ne scrivete, potreste far di peggio che leggere il libro di Sweet. C’è solo in Inglese, ma credetemi: vale assolutamente lo sforzo:

 

E se invece foste curiosi di sapere perché il teatro di James non ha funzionato… be’:

 

Gen 10, 2011 - libri, libri e libri    11 Comments

In Guardia, Signore!

In questo articolo Duncan Noble fa dello spirito, ma in realtà il duello è un pittoresco e usatissimo device – non solo nei romanzi storici, e per ottimi motivi. Il duello non è soltanto un sistema di violenza ritualizzata – de facto una forma socialmente accettabile (o quanto meno tollerata) di omicidio – ma è anche inquadrato in una serie di convenzioni che rendono praticamente impossibile sottrarvisi, perché lo stigma sociale associato al disonore è più forte di quello associato all’omicidio. Non c’è che dire, una struttura del genere offre possibilità narrative illimitate.Scaramouche.jpg

Lo sapeva bene Rafael Sabatini, che di duelli ne metteva ovunque e in abbondanza… certo, scrivendo cappa&spada un’abbondante dose di singolar tenzoni è de rigueur, ma scriverne così tanti con qualche parvenza di varietà è già di per sé una piccola impresa. Scaramouche, forse il più conosciuto dei suoi (numerosissimi) romanzi è l’esempio tipico dello schema descritto da Noble: il Protagonista si trova a malpartito duellando goffamente con l’abilissimo e titolato Malvagio; tra un’avventura e l’altra il protagonista prende lezioni di scherma dall’equivalente tardo-settecentesco di un maestro jedi; il protagonista affronta il malvagio in un nuovo duello e, forte della sua nuova superiorità, lo sconfigge – vendicando nel contempo il suo fraterno amico, slealmente ucciso dal Malvagio a pag. 12. Il fatto che il secondo duello si concluda con un’agnizione non disturba affatto nel rendere Scaramouche un classico del suo genere.

RupertVSRassendyll.jpgChe i duelli, come le disgrazie, non vengano mai da soli è una costante: guardate Clarissa, tragico romanzone settecentesco di Richardson, la cui trama viene messa in moto dallo scosiderato duello tra il fratello della protagonista e il malvagio e fascinoso Lovelace, e si conclude con un (insolito) suicidio per mezzo di duello, in cui Lovelace, pentito e in cerca di espiazione, si fa deliberatamente uccidere dal suo avversario. Oppure considerate Il Prigioniero di Zenda, in cui il buon Rudolph e il malvagio Rupert duellano ripetutamente, a parole e in punta di spada, fino all’incontro fatale nel penultimo capitolo del seguito. Ne I Fratelli Corsi, Lucien piomba a Parigi per battersi e vendicare il fratello ucciso in duello, e le due occasioni incorniciano una storia turistico-goticheggiante, che spazia tra la Corsica selvaggia e il preternaturale legame tra gemelli. Versioni meno drastiche si trovano ad ogni passo in Georgette Heyer – per esempio in Patch and Powder, i cui due duelli parentetici inquadrano la trasformazione del giovane Philip da ragazzotto di campagna a gentiluomo di mondo. Anche per D’Artagnan, ne I Tre Moschettieri, si può dire che i duelli siano una prova iniziatica, visto che in una mattinata riesce a raccogliere una sfida da ciascuno dei suoi futuri inseparabili amici – e risolverà l’impasse da conflitto d’interessi unendosi al terzetto in una sorta di duello collettivo contro le guardie del Cardinale. La dimensione iperbolica e la moltiplicazione al cubo sono così tipicamente, allegramente dumasiane che quasi non vale la pena di parlarne, ma si può confrontare con The Jewel di Thomas Urquhart, il cui protagonista Crichtoun comincia la sua carriera italiana liberando Venezia da un micidiale duellatore di professione, e la conclude – o meglio se la trova drasticamente conclusa – in un improbabile duello uno-contro-dieci in un vicolo buio a Mantova.

Non è poi detto che i duelli debbano essere due: Sigognac, ovvero Capitan Fracassa, diventa uno spadaccino formidabile perché non ha altro da fare che allenarsi, e la sua abilità gli salva la vita numerose volte nel corso del romanzo. I protagonisti de Il Duello di Conrad, addirittura passano le rispettive carriere napoleoniche e post-napoleoniche a duellare ogni volta che le loro strade s’incrociano, ma Conrad essendo Conrad, lo schema è molto diverso.

dickensduel.jpgLa costante è meno certa al di fuori del romanzo di genere, se vogliamo. Il Barry Lindon di Thackeray inizia le sue vicissitudini con un duello, mentre i fratelli Durie concludono in punta di spada la loro ventennale discordia nell’ultimo capitolo de Il Signore di Ballantrae, così come Sir John Chester e Sir William Haredale in Barnaby Rudge. In Ragione e Sentimento si duella offstage, ma non c’è nulla di romantico o pittoresco: quando il Colonnello Brandon sfida Willoughby non è per amore di Marianne ma per un’altra faccenda più sordida, e le Dashwood reagiscono con inorridito sconcerto.

Gente come Alan Breck Stewart e Cyrano de Bergerac, duella serialmente e con ppassione, ma qui occorre forse distinguere fra agguati e battaglie da una parte, e dall’altra il duello propriamente detto e fortemente ritualizzato: tutti conosciamo particolari come il guanto di sfida, la convocazione dei secondi, la scelta delle armi che spetta all’offeso, la presenza del chirurgo, l’incontro all’alba in luogo deserto, l’offerta di riconciliazione, i dieci passi… L’intera faccenda era minutissimamente regolata da codici scritti e usanze non scritte: ci si uccideva in buona forma, e non rispettare le regole era disdicevole quanto non onorare una sfida.

Chi sembra ossessionato dai duelli, e non certo con la pittoresca allegria di un Dumas o di uno Hope,Onegin_by_Repin.jpg sono i Russi. In Guerra e Pace Pierre duella con Dolokhov, in Padri e Figli ci sono Kirsanov e Bazarov (e Turgenev ha al suo attivo anche il racconto I Duellanti), ne Il Duello di Chekhov Laevskij e Von Koren ne fanno un pasticcio, mentre Evgeni Onegin uccide in un duello alla pistola il suo amico Lenskij… Pushkin, d’altronde, infila duelli un po’ ovunque: La Figlia del Capitano, Il Prigioniero del Caucaso, Lo Sparo, Il Convitato di Pietra… nessuno si stupì troppo quando lui stesso morì in duello*.

Il che ci porta a distinguere rapidamente tra duello all’arma bianca (al primo o all’ultimo sangue) e duello alla pistola, nel quale ogni tanto qualcuno scarica nobilmente in aria – a volte con risultati imprevisti: l’eponimo Flashman ottiene del tutto immeritatamente** la stima del Duca di Wellington, mentre ne La Montagna Incantata Settembrini ottiene solo di farsi dare del codardo dall’avversario risparmiato – che comunque procede a suicidarsi. MacDonald Fraser e Thomas Mann erano due scrittori molto diversi.

Tybalt&Romeo.jpgA teatro si duella abbastanza: se gli attori sanno quel che fanno, un po’ di scherma in scena è bella a vedersi, oltre che altamente drammatica. Shakespeare ci dava dentro – citiamo soltanto Amleto e Romeo e Giulietta (che ha a sua volta due duelli focali in rapidissima successione), e in Zastrozzi The Master of Discipline, di Walker, si duella talmente tanto che nei teatri piccoli chiedono al pubblico di non alzarsi mai durante lo spettacolo: si vede che lo spettatore decapitato è cattiva pubblicità***… Però ci vuole cautela: poche cose sono buffe come vedere gente che mena goffamente spade di latta, e un duello mal coreografato può assassinare uno spettacolo. Più sicuri sono i duelli offstage: uno contro cento alla Torre di Nesle, nel Cyrano, Ruy Blas che si libera di Don Sallustio nella stanza accanto per non impressionare troppo la Regina, o il minacciato duello tra Gerald Arbuthnot e Lord Illingworth, scongiurato dalla madre di Gerald che si getta tra i due gridando “Gerald, no: è tuo padre!!!”***

Credo che chiuderò citando anomalie come il duello al coltello di Cavalleria Rusticana, e i maestri d’armi, categoria professionale di riguardo**** cui sono stati dedicati almeno due romanzi – uno di Dumas e uno di Perez Reverte, il cui Capitano Alatriste, d’altronde, è uno spadaccino a pagamento.

Insomma, un buon duello offre ogni genere di possibilità: azione, scontro climatico, un pittoresco sistema di smaltimento personaggi, lutti misti assortiti, compimento di vendetta, motivazione di vendetta, caratterizzazione, sfoggio di dettagliata conoscenza storica in fatto di armi, uso delle stesse, regole, codici d’onore, social mores, eccetera, fattori catalitici o scatenanti, svolte della trama, rivelazioni e agnizioni… Che cosa non si può fare con un duello, accessorio versatile e buono per tutte le stagioni?

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* Capitava: Tolstoj ebbe le sue (non letali) disavventure in materia, così come Mark Twain…

** Flashman non è un bravo ragazzo: paga profumatamente l’armiere per far inceppare la pistola del suo (molto più abile e giustamente offeso) avversario, e quando “scarica in aria” colpisce per caso il tappo di una bottiglia: il Duca ne deduce, sbagliando, che Flashman avrebbe potuto uccidere facilmente il suo aversario e non l’ha fatto.

*** Dunque, Wilde aveva detto (tra molte altre cose) che occorre avere un cuore di pietra per non ridere sulla morte della Piccola Nell dickensiana. Aveva ragione, a mio parere. Tuttavia, dopo la prima di Una Donna Senza Imprtanza, un critico di cui mi sfugge il nome disse che la scena “No, Gerald!” meritava di essere immortalata in litografia a colori a tiratura altissima, ed affissa in ogni angolo di Londra a imperituro ludibrio del suo autore. Aveva ragione anche lui.

**** In Francia, ancora nel Settecento, vent’anni di attività come maestro d’armi conducevano a un titolo nobiliare…

Set 18, 2010 - televisione, teorie    4 Comments

Feuilleton

Ho, non da oggi, una teoria.

Avete presente quegli scrittori che nell’Ottocento pubblicavano romanzi a puntate su riviste e periodici? Non sto parlando di scalzacani qualsiasi: naturalmente c’erano anche quelli – e in grande abbondanza – ma al momento ho in mente Dickens, per esempio, e Dumas père.

Ora, pubblicare a puntate era un mestieraccio da cani, più o meno redditizio, perfetto per farsi venire la pressione alta: intanto, ogni settimana bisognava consegnare una precisa quantità di parole, e ogni episodio doveva contenere la sua dose di tensione, terminando, se possibile, con il protagonista (o un altro personaggio di rilievo) in grossi guai… E poi, non c’era spazio per i ripensamenti. Voglio dire, se il personaggio X compariva nel capitolo 3 come amorale, godereccio e nocivo per la protagonista, e poi, cinque settimane e cinque capitoli più tardi, l’autore non sapeva più che farsene di lui amorale, godereccio e nocivo… era troppo tardi, perché il capitolo 3 era già stato letto da più di un mese. E allora, se ci si chiamava Dickens si azzardavano conversioni a 180° in corso d’opera; se si era qualcun altro, si andava avanti brontolando contro il destino malvagio e gli editori aguzzini, e si finiva con lo scrivere storie più modeste del loro potenziale.

In compenso, c’era il feedback immediato, la possibilità di sentire il polso del pubblico e reagire, in un modo o nell’altro, un po’ come un buon attore di teatro risponde all’umore della sala.

Incidentalmente, questo spiega perché tanti romanzi di Dickens trabocchino di trame secondarie, personaggi minori e caratterizzazioni ondivaghe, ma non è questo il punto.

Il punto è, e finalmente veniamo alla mia teoria, che gli eredi di questi scrittori sono gli autori televisivi. Sono loro a dipanare vicende complesse, con un’infinità di personaggi e un diluvio di sviluppi, con un arco narrativo dilatato nel tempo, e più o meno flessibile al feedback del pubblico.

Un esempio? Quando gli ascolti di Murder, She Wrote (La Signora in Giallo) sono calati poco sopra un improponibile 30%, un nuovo produttore ha cominciato a spedire Jessica Fletcher a Boston e New York, a farle tenere corsi universitari di scrittura creativa e criminologia, a farle vivere la vita di una romanziera di successo, con presentazioni, conferenze, traversie editoriali, autografi, contratti da firmare… Risultato? Questa evoluzione del personaggio e del suo mondo ha ricatapultato gli ascolti di MSW sopra il 50%.

E non è a caso che cito un telefilm americano. Senza voler soffrire di esterofilia, personalmente preferisco stendere un tulle misericorde sulla produzione italiana, ma in America esiste una scuola di scrittura televisiva che qui non ci possiamo nemmeno sognare. In parte, va detto, il merito è di un pubblico molto più smaliziato, ma francamente, la pura e semplice qualità di scrittura di certi prodotti americani mi riempie d’invidia oltre ogni dire.

Vogliamo citare un Dr.House, dove tutto è al servizio della caratterizzazione e della sottilissima evoluzione di un singolo personaggio? Con contorno di dialoghi superbi, e di un’asciuttezza meravigliosa nel trattare temi etici controversi.

Oppure Grey’s Anatomy, dove ogni puntata non fa altro che sviluppare lo stesso tema sotto angolazioni diverse, con i personaggi che giocano come facce di uno stesso prisma, e il tutto riesce a rientrare con perfetta scioltezza entro l’arco narrativo.

O ancora Desperate Housewives, dove lo humor è perfido, e dove ogni azione di ogni personaggio scatena conseguenze a cascata, con i problemi che si risolvono sempre in altri problemi peggiori, e ogni apparente soluzione non fa altro che generare nuove e più grosse magagne.

Ah, saper fare tutto questo, stagione dopo stagione, in modo lucido, coerente, brillante, acuto e credibile!

Ecco perché, signori della giuria, si sostiene qui che gli eredi di Dickens e Dumas sono oggi non tanto i romanzieri, quanto gli autori televisivi – e bisogna riconoscerlo: gli Americani lo fanno meglio. Vostro Onore, ho terminato…

…er, no. Mi sa tanto che ho sbagliato telefilm.

Feb 3, 2010 - Genius Loci    Commenti disabilitati su Salotti e Teatri: la Parigi Gaia di Alexandre Dumas

Salotti e Teatri: la Parigi Gaia di Alexandre Dumas

cle-19-dumas2delpech.jpgAlexandre Dumas Père arriva a Parigi ventenne, carico di sogni di gloria e pretese d’eleganza. Ne ha abbastanza di fare il giovane di studio per un notaio di provincia, ha testa solo per i drammi e i giornali, e anela alle infinite possibilità della capitale. Nelle sue fluviali Memorie* il Nostro racconta della sua prima serata parigina a teatro, quando alcuni zerbinotti ebbero l’idea di farsi beffe del giovane provinciale.

“Signore, il mio nome è Alexandre Dumas Davy de la Pailleterie**,” comunicò altezzosamente il ragazzo al più rumoroso dei beffeggiatori. “Abito al numero 20 di Rue de la Quintaine, e domattina mi troverete in casa.”

Era la formula della sfida a duello, almeno stando ai romanzi d’appendice. Invece, i Parigini cominciarono a sghignazzare e spintonare, e quando l’offesissimo Alexandre reagì, si ritrovò messo alla porta come disturbatore, furibondo e con le penne alquanto arruffate.

Non vi ricorda l’arrivo a Parigi di qualcun altro? Ma proprio come il suo D’Artagnan, Dumas sarebbe stato presto vendicato dell’infelice accoglienza ricevuta. Nel giro di qualche anno, il piccolo provinciale sarebbe diventato il beniamino di tutta Parigi, dai garzoni di negozio alle duchesse.

margot2.jpgCome per Dickens (ma così diversamente da lui!) il successo passò per il teatro e i giornali: tra il 1829 e il 1832, tre drammi in costume e uno contemporaneo – e un tantino scandaloso – ne fecero l’astro delle scene parigine. Gli attori più celebri del tempo si litigavano i suoi ruoli, e le attrici si gettavano nel suo letto***: Dumas ne mantenne fino a tre per volta, e per comodità aveva adottato il sistema di alloggiarle tutte nello stesso quartiere in cui abitava anche sua madre, così da poterle visitare tutte in poco tempo, mentre trottava tra teatri, caffè, redazioni, ristoranti salotti bene e salotti letterari, dove frequentava la crema del romanticismo letterario francese.

Nel 1838, Dumas incontrò un professore di Liceo con velleità letterarie frustrate, di nome Maquet: fu l’inizio di uno dei più straordinari team letterari della storia. Basti pensare che il primo parto del matrimonio tra le ricerche storiche di Maquet e l’estro narrativo di Dumas fu il ciclo dei Moschettieri, pubblicato dapprima a puntate con un successo strepitoso. Ormai Dumas era consacrato come autore, e ricevuto dappertutto, compresi i salotti del duca d’Orleans e della principessa Mathilde Bonaparte. E’ proprio lì che ce lo descrive Edmond de Goncourt: “…enorme, sudato, sbuffante, eccessivamente gaio… parla dei suoi romanzi, del suo teatro… di un privilegio teatrale che non può ottenere, poi ancora di un ristorante che vuole aprire agli Champs Elysées. Un personaggio enorme, a misura d’uomo, ma con un’esuberanza infantile.”

Con la sua vitalità instancabile, i suoi romanzi storici, la sua passione politica e i suoi viaggi esotici, Dumas incarna alla perfezione il fermento scintillante della Parigi del XIX Secolo, dove la cultura si faceva nei salotti e nei caffè, dove un dramma storico a teatro era un avvenimento nella storia della letteratura.

petitchatelet.jpgE poi Dumas immortala Parigi, facendone lo sfondo di una buona metà dei suoi romanzi. Ma non aspettatevi denuncia sociale à la Dickens o à la Victor Hugo, non aspettatevi miseria e squallore, perché la Parigi dei romanzi di Dumas è pittoresca e colorata come uno sfondo teatrale, piena di giardini dove si duella o si amoreggia, di ponti per le imboscate, di palazzi illuminati da centinaia di candele, da taverne linde e allegre e, alla peggio, di torrioni medievali adibiti a prigioni. Persino gli omicidi più cruenti, persino le sollevazioni di piazza hanno l’alone romantico di una scena d’opera bene illuminata. A dire la verità, le Parigi di Dumas sono due: da un lato la sua città brillante che fa da sfondo ai lavori contemporanei, come il susseguirsi di foyer di teatro, alberghi eleganti e saloni nella porzione parigina dei Fratelli Còrsi; dall’altro, la Bastiglia di Ange Pitou, lo Chatelet di Ascanio, la Rue Tiquetonne dove alloggiava D’Artagnan, e tutta la parte medievale della città che all’epoca stava scomparendo per fare posto ai boulevards del barone Haussmann****. Entrambe irreali come altrettanti sfondi dipinti.

E Parigi, in cambio?

Oh, Parigi adorava Dumas per il suo successo. Operai e sartine compravano a puntate i suoi feuilletons, mentre borghesia e nobiltà riempivano scaffali interi dei suoi volumi, e tutti si affollavano a teatro per assistere ai suoi drammi. Tutti giudicavano le grand Alexandre brillante, divertente, generoso, ammiravano il suo spirito e lo avevano in gran simpatia, ma… Lui, Alexandre, avrebbe voluto di più: avrebbe voluto essere preso sul serio. Avrebbe voluto un ministero dopo la Rivoluzione di Luglio del 1830, nella quale si era esposto per il duca di Orléans, ma non lo ebbe; avrebbe voluto un seggio all’Académie Française, e non lo ebbe; avrebbe voluto un seggio in Parlamento, e non lo ebbe; non avrebbe disdegnato una moglie del bel mondo, e non la ebbe. Quando si veniva al sodo, Dumas era troppo chiassoso, troppo volubile, troppo inaffidabile: chi poteva dire quale sarebbe stata la sua prossima eccentricità? Vero, quando si trattava di rendere appetibile al pubblico la conquista dell’Algeria, era Dumas che il Governo mandava in crociera spesata sul posto per scriverci un romanzo o un dramma – ma un ministero? A quello scapigliato? Andiamo!! Ce n’est pas serieux!818.jpg

E così, Dumas seguitò per conto suo, fondando giornali che fallivano uno dopo l’altro, sfornando romanzi a dozzine, comprando teatri, mettendo in scena drammi, facendosi costrurire castelli improbabili, ammassando fortune e sperperandole tra amanti, figli illegittimi, amici, approfittatori, cause legali*****, spese folli, sempre generoso, sempre imprudente, sempre stravagante, sempre di corsa dietro un altro sogno più nuovo, più luccicante, più improbabile.

Gli uomini come lui muoiono in miseria, e così fu anche per Dumas. Almeno non morì solo: il figlio, l’altro Alexandre Dumas, lo accolse presso di sé, rovinato e malato, ed ebbe cura di lui fino alla fine.

“Sai, Alexandre,” disse il padre al figlio una sera, “mi hanno sempre detto che sono uno scialacquatore, ma io non credo. Guarda sulla mensola del camino: c’è un luigi d’oro. La stessa somma con cui arrivai a Parigi, tanti anni fa… lo vedi, che in tanti anni non ho scialacquato un solo centesimo? Il luigi è ancora lì…”

Haussmann.jpgDi lì a pochi giorni morì di apoplessia, lasciando incompiuti gli ultimi volumi delle sue memorie e un colossale dizionario gastronomico. Era il 1870, e Haussmann stava completando le sue ristrutturazioni: la Parigi di Dumas non gli sopravvisse granché.

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* Trentadue volumi trentadue. L’uomo non aveva misura in nulla, eh?

** In realtà il padre di Dumas, generale napoleonico, era figlio illegittimo del marchese de la Pailletterie e di una schiava di Santo Domingo, ma a quanto pare Alexandre non aveva eccessive remore a millantare il nome del nonno marchese.

*** A quanto pare, dopo la seconda, trionfale rappresentazione del suo dramma Christine, Dumas usciva dal teatro e si sentì chiamare da una carrozza. “Ehi, voi! Siete Alexandre Dumas, lo scrittore?” domandò una voce femminile. Alexandre rispose di sì e si avvicinò. “E allora, salite e baciatemi!” ordinò l’occupante della carrozza. Dumas non se lo fece ripetere. L’audace signorina era Marie Dorval, “la più tenera e patetica attrice di Parigi”, che di lì a pochi mesi sarebbe diventata l’amante di Dumas e la protagonista del suo dramma successivo.

**** Mi ha un po’ sconcertata scoprire che il barone Haussmann non era barone affatto. Millantava anche lui, benché non avesse la scusante di avere vent’anni o quella di essere un romanziere. Not good.

***** Nel 1857 Maquet fece causa a Dumas, rivendicando la co-paternità dei Moschettieri e di molti altri romanzi. La giurisprudenza sulla proprietà intellettuale era una disciplina giovane e incerta: la sentenza riconobbe a Maquet un sostanzioso indennizzo, ma non il diritto ad avere il suo nome accanto a quello di Dumas in veste di co-autore.

 

Gen 12, 2010 - Genius Loci    Commenti disabilitati su Genius Loci

Genius Loci

Bene, è giunto il momento di riscuotersi dall’accidia post-vacanziera, dalla tendenza al lamento da Lunedì Mattina Cosmico, dal salterellar di palo in frasca. E’ giunto il momento di concentrarsi su una nuova serie di post a tema.

Perciò, dalla settimana prossima, avrà inizio – rullo di tamburi… – Genius Loci, ovvero scrittori e città.

Questo nasce da una serie di lezioni tenute, nel quadro di un corso in collaborazione, presso la UTE di Mantova, e prevede cinque puntate con un’abbondanza di illustrazioni, letture, aneddoti, storia e letteratura, senza trascurare il minimo indispensabile di geografia. Nell’ordine (o forse no) avremo:

* Londra e Dickens

* Parigi e Dumas père

* Vienna e Joseph (non Philip) Roth

* Londra (di nuovo, sì…) e Virginia Woolf

* Edimburgo e Stevenson.

Considerando un’introduzione generale a mistica e realtà del rapporto scrittori/città, e un congedo per tirare le conclusioni a cose fatte, ciò significa che per sette settimane ci occuperemo di genio dei luoghi, luoghi del genio, luoghi e genio. Sette settimane a partire dalla prossima ci dovrebbero portare, se la matematica e il calendario non sono un’opinione (debatable matters, both of them), agl’inizi di marzo, quando nei prati fioriranno le violette e sbocceranno le margherite. E per allora si vedrà.

E sì, lo so: tre su cinque sono autori britannici… Ma d’altra parte non è una novità: io sono un’anglomane malata e convinta e voi, alla fin fine, ve lo aspettavate, nevvero?

Dic 1, 2009 - fenomenologia dello sbregaverze    Commenti disabilitati su Lo Sbregaverze: congedo con coda musicale

Lo Sbregaverze: congedo con coda musicale

E così siamo giunti alla fine: cala il sipario sulla Fenomenologia dello Sbregaverze. Chiudiamo, abbiate pazienza, pindareggiando un pochino.

Immaginateli, tutti in fila, ombre scure nella luce di taglio, che s’inchinano con un gran fiorire di cappelli piumati… E dietro di loro, nell’ombra tra le quinte, i loro autori.

Di sicuro non è un caso che diversi di loro abbiano compiuto le loro più o meno memorabili gesta nel XVII Secolo: D’Artagnan, Cyrano, Morgan… Il Seicento, questo secolo pittoresco e tumultuoso, si presta bene. Tutti ne abbiamo quest’idea, non è vero? Intrighi, congiure, galeoni, duelli per uno sguardo storto e via dicendo: il terreno di coltura ideale per gli Sbregaverze.

Gli altri, le orbite eccentriche di questa piccola galassia, in definitiva non si scostano troppo: Crichton alla fine del ‘500, Alan attorno alla metà del Settecento, e Madame Sans-Gène, la più atipica, a cavallo tra Sette e Otto… ma possiamo capire sia lei che Sardou: c’erano una rivoluzione e un impero in corso, parbleu!

Gente di passione triste, figurine ripescate dalla storia per essere cavalieri dell’aspirazione inappagata, campioni di un romanticismo amarognolo, non è strano che non abbiano ispirato più opere? Opere liriche, intendo. Ce ne sono soltanto due, ed eccole qui, a titolo di congedo.

Una è la Madame Sans-Gène di Umberto Giordano, da cui vediamo Catherine intenta a cantarne quattro alle sorelle dell’Imperatore:

 

E poi il Cyrano de Bergerac di Alfano, in un videino bizzarro che cuce insieme un pezzetto di ouverture, un pezzetto di I Atto e la fine del finale… La regia è un po’ stramba, ma Cyrano è Placido Domingo.

 

Ecco qui. Finito. Gente che troverebbe posto a mala pena nelle note a pie’ di pagina della Storia, se la Letteratura non ne avesse fatto dei simboli indimenticabili. Chissà che cosa penserebbero il vero Alan, l’autentico Cyrano, il D’Artagnan storico, e Catherine, e il Critonio, e Morgan di queste loro lunghe ombre, silhouettes nere stagliate contro la luce d’oro, come simboli araldici, chi più chi meno perfetto, della sublime incapacità dell’uomo di riconciliarsi alle cose vere?

Nov 6, 2009 - fenomenologia dello sbregaverze    Commenti disabilitati su A volte ritornano

A volte ritornano

Sì, sì, sì: ancora D’Artagnan. E’ più forte di me, che ci posso fare? E poi sono sicura che Cyrano non se la prende.

200px-Lets_make_love.jpga) Vi ricordate un film dei primissimi Anni Sessanta chiamato “Let’s Make Love”? Be’, a un certo punto Yves Montand (milionario in incognito) dice a Marylin Monroe (attrice molto svampita) di chiamarsi Alexandre Dumas. “Oooh,” cinguetta lei. “Come il tizio che ha scritto I Tre Moschettieri per la MGM! Non sarai mica tu, vero?”

  b) Dalla voce “The Three Musketeers” di Wikipedia (traduzione mia):

Influenza su opere successive

Nel 1939, l’autrice americana Tiffany Thayer pubblicò un romanzo intitolato Three Musketeers (Thayer, 1939). Si tratta di una rinarrazione della storia, ricreata con le parole dell’autrice, fedele alla trama originale, ma raccontata in un ordine differente e con punti di vista ed enfasi differenti rispetto all’originale. Per esempio, il libro si apre con una scena della gioventù di Milady e la storia della sua marchiatura a fuoco, in modo da sviluppare di più il suo personaggio e rendere più credibili e comprensibili le sue azioni e macchinazioni successive. La Thayer ttratta l’aspetto sessuale della storia in modo molto più esplicito rispetto alle traduzioni inglesi dell’originale, ciò che ha creato occasionali episodi di costernazione nei casi in cui il suo libro è finito per errore negli scaffali di letteratura per l’infanzia e nelle biblioteche scolastiche.

c) e infine, come potevo non citare Nizza e Morbelli? Spero di non infrangere i diritti di nessuno, se riporto qui l’entrata in scena del loro D’Artagnan che, nottetempo, bussa fragorosamente alla porta della taverna “Al Gatto Melanconico”:

– Olà, apri, cane di un oste, apri, se hai cara la vita!

i_quattro_moschettieri.jpgQuella voce era ben nota. Aveva rintronato secca e tagliente come una lama in tutti i crocicchi, sui ponti, ovunque c’erano il pericolo e la strage. Quella voce apparteneva ad un giovane cavaliere dal cappello piumato, alti stivali alla moschettiera, giustacuore di velluto cremisino, ampio colletto di pizzo d’Anjou, sguardo fiero e lampeggiante, capelli castani, baffi e pizzo stesso colore, altezza m .1.80, torace 90, dentatura sana, segni particolari: un neo sulla guancia destra. Quella voce apparteneva ad un Moschettiere del Re che – pur di nobiltà cadetta – aveva saputo conquistarsi con la spada e la cortesia larga rinomanza a corte: gran danzatore di pavana, goloso bevitore da taverna, appassionato in amore. I cuori  di tutte le donne di Parigi, dalle contesse alle fantesche, dalle trinaie alle forosette battevano per lui (ah, quando passava sul baio nei giorni di parata!)

D’Artagnan, ça va sans dire, non è da solo, ma con i suoi tre sodali. E insieme a loro si presenta cantando così*:

Noi siamo i prodi figli di Dumasse;

della paura, chi se ne impipasse?

Chiunque, non appena ci guardasse,

vedresse che noi siamo i Moschettier.

Dumasse nel romanzo ve lo scrisse

e poi svariate volte ve lo disse

che noi siam Athos, Portos e Aramisse

e il quarto del terzetto è D’Artagnan.

Da Nizza&Morbelli, I Quattro Moschettieri, 1935.

(*La canzone sarebbe da cantarsi sull’aria di “TRE” di Mascheroni, e io ve lo dico per dovere di cronaca, ma quanto a chi fosse Mascheroni e come fosse l’aria di “TRE”… eh!)

E con questo ho chiuso con D’Artagnan. Davvero.

Nov 1, 2009 - fenomenologia dello sbregaverze    Commenti disabilitati su Chi l’avrebbe mai detto?

Chi l’avrebbe mai detto?

Considerando l’appeal generale della saga dei Moschettieri, e il suo enorme influsso sulla cultura pop, immagino che non dovrei stupirmene… eppure sono sinceramente basita.

 

Siete basiti anche voi, eh?

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