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Ago 2, 2017 - anglomaniac, gente che scrive, Spigolando nella rete    Commenti disabilitati su Emily

Emily

emily brontë, cime tempestose, gondalDomenica sarebbe stato il centonovantanovesimo compleanno di Emily Brontë.

Nata d’estate – non si direbbe, vero? Ci si aspetterebbero stagioni più cupe per l’autrice di Cime Tempestose… O magari sono solo io, ma allora la colpa è in parte di D’Annunzio che, ne Il Ferro, descrive una delle sue protagoniste come “nata di notte”, per spiegare una certa dose di buio interiore della signora in questione. But never mind.

Centonovantanovesimo compleanno, si diceva, e quindi un po’ di link rilevanti.

Tanto per cambiare, non è che in Italiano si trovi tantissimo – ma è anche vero che tantissimo non c’è…

Qui c’è una versione pdf di Cime Tempestose in Italiano* – e per una volta non si tratta di LiberLiber che, devo annotare, ha un singolo titolo di Charlotte e ignora completamente Anne ed Emily…

Inutile dire che in Inglese va meglio: Wuthering Heights, Poems (di tutte e tre le sorelle – e forse Emily era la migliore poetessa fra le tre), e la biografia di Mary Robinson.

Qui si trovano alcune lettere e diary papers, pagine isolate che le sorelle avevano l’abitudine di scrivere in occasione di compleanni, viaggi et similia. Badate a quella del 30 luglio 1845, con il resoconto del viaggio a York trasformato in un lungo make-believe.

Poi vi segnalo questo sito dedicato a Wuthering Heights, pieno di saggi, immagini, citazioni, link e cose generalmente interessanti – compresa una collezione di certi e possibili ritratti di Emily.

Qui invece ci sono le immagini della brughiera sul sito di Brontë Country, mentre qui trovate indicazioni per il caso in cui voleste replicare di persona qualcuna delle interminabili camminate che Emily Jane era solita fare su e giù per le brughiere, con le sorelle e il fratello, o sola con il fedele cane Keeper.

Qui, invece, a titolo di curiosità, trovate una mappa dei luoghi di Wuthering Heights.

Un sacco di cose – e non solo su Emily, si trovano su BrontëBlog, dal titolo piuttosto esplicativo: romanzi, poesie, racconti, juvenilia, biografie, memorie… di e su tutta la famiglia. Da leccarsi i baffi.

E per finire, questa è la pagina di Wikipedia dedicata Gondal, lo stato immaginario creato da Emily e Anne mentre Charlotte e Branwell inventavano Angria.

Non c’è moltissimo, perché (oltre a non essere particolarmente prolifica) prima di morire giovane Emily bruciò parecchi quaderni di poesie e – forse, forse – il romanzo cui stava lavorando. Però, se volete un ritratto letterario inconsueto di Emily, nonché un’idea del genere di adorazione che Charlotte nutriva per sua sorella, potete leggere Shirley, la cui eroina eponima è intesa come un ritratto di Emily, immaginata in circostanze sociali ed economiche migliori…

Poetessa riluttante, immaginatrice compulsiva, romanziera scandalosa, zitella scorbutica e ostinata, wild child of genius, sorella adorata, camminatrice indefessa, sognatrice incapace di staccarsi dai suoi personaggi – singolare personaggio a sua volta, Emily Jane, nevvero?

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* Sul fatto che CT sia qualificato come “letteratura per ragazzi”, per ora, stendiamo un tulle misericorde.

 

Minori

Allora, parlavamo di Cavalieri di Malta – in particolare di quelli postumi di Sir Walter Scott, ricordate? Ebbene, in coda a quel post, Antonio ha scritto questo:

Non si potrebbero considerare queste opere come quello che sono, esperimenti, abbozzi, sogni non compiuti o compiuti di un autore invece di paragonarli alle opere maggiori? […] Io considero questo genere di opere, “le opere minori”, imprescindibili per raggiungere le opere maggiori ma su di esse sospendo la mia capacità di giudizio.

Picasso2La faccenda è interessante sotto più di un aspetto – principalmente perché le cosiddette opere minori non sono tutte uguali. Ci sono le opere minori che sono per l’appunto ‘prentice work, quelle che conducono verso i capolavori, quelli che l’autore pubblica pieno di entusiasmo – salvo a volte pentirsene anni più tardi. E mi viene in mente Balzac con cose come Les Chouans, che poi avrebbe tanto preferito non dover mettere nella Comédie… Oppure The Golden Cup, opera di uno Steinbeck ventisettenne, radicalmente diversa in concetto e tono da quel che verrà dopo, ma già piena dei semi dello stile maturo, seppure a uno stato nonnulla brado.  E tutto ciò è bello e anche istruttivo, perchè scrivere è un’arte che s’impara e si coltiva, andando per esperimenti. È un po’ come vedere le opere giovanili di Picasso, prima che sviluppasse idee e stile tutti suoi: sono opere tradizionali fino all’oleografia, e mostrano l’artista che diventa padrone dei suoi mezzi, che impara a perfezione le regole prima di infrangerle – e di crearne di proprie.BarnabyRudge

Cose di questo genere sono una lettura interessante, a mio timido avviso, perché consentono di vedere lo scrittore in fieri, il formarsi della voce e dello stile, l’acquisizione progressiva della tecnica, gli esperimenti e i tentativi. Provate a pensare ai due romanzi storici di Dickens: da un lato Barnaby Rudge, seminato di cose belle, ma informe e sbilanciato, cresciuto come un fungo su se stesso; e dall’altro – e ben più tardi – Le Due Città, costruito e pianificato in anticipo, tanto più coerente e serrato. Le folle feroci di Barnaby, i temi e l’uso simbolico di un elemento nell’imagery precorrono e promettono quelle di ATOTC – solo che nel frattempo Dickens aveva imparato a tendere assai meglio i suoi archi. E leggere Barnaby fa apprezzare molto meglio certi aspetti di ATOTC.

CharlotteE fin qui ci siamo – ma trovo che la questione sia un po’ diversa quando si tratta di juvenilia ripescati da quaderni e diari mai intesi per la pubblicazione. Come il tema in Francese di Charlotte Brontë – che, considerando date e circostanze, potrebbe nascondere sotto l’apparenza di una storiella morale un bel po’ di amarezza dei confronti del fratello sciagurato. Di certo, tuttavia, non era stato scritto per essere visto da altri che dal professor Heger. Peggio ancora va con i racconti e le poesie faticosamente trascritti dai libricini di Angria e Gondal, cose scritte per gioco dai Brontë ragazzini… È vero che anche in questo si vede il formarsi degli scrittori in erba – ma resta il fatto che si trattava di un gioco del tutto privato tra sorelle e fratello… Non è come se non avessi letto la mia parte di juvenilia, ma ho sempre l’impressione di sbirciare. Arrow

Dopodiché c’è il caso del libro brutto – perché a molti scrittori capita di non essere sempre allo stesso livello. Tutti sapete della mia parzialità nei confronti di Conrad, giusto? Ebbene, non ho la minima difficoltà nell’ammettere che Conrad ha scritto anche un certo numero di libri che non si possono descrivere se non come brutti. Parlo delle collaborazioni con Ford Madox Ford – dalla prima all’ultima – e poi di cose come the Golden Arrow, the Rescue et similia. E questi libri brutti non appartengono a una fase particolare della carriera dell’autore: hanno l’aria di capitare ogni tanto. Scrittore disuguale – e per carità, capita. All’uomo che ha scritto Lord Jim sono disposta a perdonare molte cose e a dire che di alcuni titoli non parliamo.

Ma le opere del declino? Di The Siege of Malta si è detto: opera ultima di uno Scott malato e angosciato, abbandonata senza mai tentare di pubblicarla mentre l’autore era ancora in vita. Oppure Weir of Hermiston, che Stevenson scrisse quando era già in pessima salute – ed era intenzionato a farne il suo capolavoro, ma quel che resta non è terribilmente incoraggiante. D’altra parte, è incompiuto, e di conseguenza non è certo come l’autore avrebbe voluto presentarlo al pubblico. Come Edwin Drood, ultima fatica di Dickens… E allora è giusto esporre l’autore colto in un momento in cui non era ancora pronto?  E forse addirittura – come nel caso di Scott – era consapevole di non poterlo più essere?

eneideUn caso estremo è quello dell’Eneide, che Virgilio, morendo, chiese di distruggere perché troppo incompiuta, e poi Augusto la volle vedere pubblicata ugualmente, così com’era. Come Virgilio non avrebbe voluto… Emily Brontë, sentendo la fine vicina, bruciò tutti i suoi manoscritti – cosa che addolorò molto Charlotte, ma forse fu una mossa saggia. Non c’è nessuna certezza che gli amici rispettino i desideri di uno scrittore defunto – figurarsi i posteri! Dubito che Emily conoscesse la storia dell’Eneide, ma di certo conosceva sua sorella, e la sua incapacità di comprendere cose come un desiderio di riservatezza.

Insomma, le opere minori non sono tutte uguali. Ci sono opere di formazione e opere di declino, opere strappate all’oblio, opere pubblicate per accanimento letterario e opere frutto di un cattivo periodo o di un’idea malconsiderata… Oggetti che, per un motivo o per l’altro, orbitano nella penombra, a qualche distanza del centro luminoso dell’artistry di un autore. Confesso di avere spesso un debole per queste anatre zoppe. Mi dico che è solo perché quel che succede dietro le quinte mi interessa quasi più della storia stessa – ma, soprattutto con le opere tarde, incompiute o rifiutate dall’autore, o altrimenti non intese per la pubblicazione, non riesco mai a leggere senza qualche remora – senza l’impressione di fare qualcosa di indiscreto.

 

 

 

Ago 25, 2015 - Genius Loci, posti    2 Comments

Genius Loci

Genius lociSto pensando che mi piacerebbe davvero riprendere e portare in giro Scrittori & Città, le conferenze che avevo tenuto due o tre secoli orsono alla UTE di Mantova. L’idea – credit where it’s due – era partita dalla signora Paola Donati, e io avevo contribuito al ciclo con cinque titoli. Bel tema, un sacco di possibilità interessanti, argomento che mi sta a cuore…. La ricordo come una bella esperienza.

E sì – l’argomento mi piace parecchio. Ho sempre creduto all’alchimia fra posti e persone: posti e persone si costruiscono a vicenda, cosa che ho imparato in un’altra vita, quando costruivo case. Oh, d’accordo: tetti di case, ma il concetto non cambia e vale ancora di più per le città.

Tutti noi siamo, almeno in parte, il prodotto dei posti di cui assorbiamo la cultura, il clima sociale (e anche quello meteorologico), le idee e le tradizioni, di cui sfruttiamo le opportunità o subiamo gl’inconvenienti. Lo scrittore, che per sua natura è una combinazione tra una spugna e un frullatore, oltre ad essere un prodotto dei suoi posti può diventare anche l’osservatore, l’interprete e, talvolta, persino l’artefice.

Pensiamo a Emily Brontë e alle brughiere dello Yorkshire. Emily amava le sue brughiere e le ha ritratte, ricreate e Lorna-Doonedrammatizzate nel suo romanzo con tanta efficacia che tutti noi associamo all’idea di brughiera la voce di Cathy che chiama Heatcliff nel vento. Attraverso Cime Tempestose, le brughiere di Emily sono diventate le brughiere di un sacco di gente che ha visto o non ha visto una brughiera per davvero.

Altre volte l’associazione non è solo geografica, ma anche storica. Pensiamo alle varie componenti sociali della Sicilia ottocentesca ritratte nei romanzi di Verga, di Tomasi di Lampedusa e di De Roberto, per esempio. Oppure all’idealizzazione romantica del Sud degli Stati Uniti alla vigilia della Guerra Civile compiuta da Margaret Mitchell in Via Col Vento. Perché non è affatto detto che lo scrittore debba essere obiettivo o scientifico: i romanzi non fanno cronaca, ritraggono un’era, un’atmosfera, un clima… in un posto specifico.

SalammboPoi ci sono autori vagabondi o cosmopoliti, autori che scrivono di molti posti che hanno visto, che non hanno mai visto o che hanno inventato, autori che ricercano sui libri, autori che immaginano, autori cui non importa molto del posto in cui si trovano. Byron ha trascorso molto tempo a Venezia, e la Venezia delle sue opere è deliberatamente una collezione di fondali d’opera, mentre la Grecia di Durrel è ritratta attraverso una spessa lente nonsense. Per contro, i Caraibi di Salgari sono pura fantasia, così come la Russia di Dumas e l’Italia della signora Radcliffe. Oppure c’è un Flaubert, che, prima di scrivere Salammbo, se ne va in Algeria e Tunisia, a caccia di colori e di luci: “…il cielo diventa di un verde pallidissimo e il mare si rischiara sotto questa grande striscia indefinita… ormai ci sono pochissime stelle, molto diradate; tutta la parte sud e ovest di Cartagine è di un biancore brumoso…” Ci si legge l’ansia puntigliosa di ricreare questo posto (una Cartagine ormai morta da venti secoli) quando sarà di nuovo in Francia, seduto alla sua scrivania.Utopia

Ci sono anche autori che inventano i loro posti: Swift e Lilliput, Thomas More e Utopia, Hope e la Ruritania, Cyrano e i Regni della Luna e del Sole. E il discorso appare meno peregrino quando si pensa a come questi posti inventati rispecchino, distorcano, idealizzino, mettano in parodia o in satira dei posti reali.

Infine ci sono autori che finiscono con l’incarnare un luogo perché non solo le rappresentano ripetutamente nella loro opera, ma a loro volta rappresentano tipicamente un’epoca, un modo di vita, una generazione, una corrente intellettuale. Questi legami sono particolarmente evidenti con quelle città che hanno svolto il ruolo di centri intellettuali. In una grande città piena di gente che va a teatro e legge i giornali, che crea e segue le mode, che sperimenta in prima battuta i cambiamenti sociali e le innovazioni, lo scrittore ha una quantità infinita di stimoli, di contatti, di possibilità e di pubblico. Le città, con le corti, le università, le biblioteche, i musei, le cattedrali, i caffè, i mercati, i teatri, l’umanità fitta, varia e affamata di storie e parole, in tutte le epoche attraggono gli scrittori come calamite, li lusingano, li portano alla fama o li relegano nelle soffitte.

DickensLondonE in cambio, ogni tanto, uno scrittore coglie lo spirito di una città, lo assorbe, lo fa suo, gli dà forma e colore e lo consegna alla letteratura. Qualche volta la città diventa un personaggio a pieno titolo, qualche volta una cornice pittoresca, o una quinta teatrale, o un’ispirazione inesauribile, o un simbolo, o un’idea. Una città di carta e inchiostro può essere tanto varia e complessa quanto la sua controparte di mattoni.

Provate a pensare all’amore/odio tra Dickens e la sua Londra fatta di prigioni, botteghine, tribunali, strade sudicie, slums e ponti, immersa nella nebbia, offuscata dal fumo, nera di fuliggine, eppure brulicante di vita. Non è detto che Londra fosse così – eppure la forza della visione di Dickens è tale da condizionare ancora oggi quella dei suoi lettori: a due secoli abbondanti di distanza, tutti andiamo a Londra e cerchiamo Dickens.

Questo è, in definitiva, il sugo del legame tra uno scrittore e una città. È quel che avevo cercato di indagare e raccontare in Scrittori & Città – e adesso mi ritrovo ad averne nostalgia, e mi piacerebbe rispolverare i risultati. Mi metterò in cerca di posti – ma intanto, se a qualcuno da qualche parte interessa sentirmi bagolare di Londra, Parigi, Vienna ed Edinburgo attraverso le opere dei loro numi tutelari letterari, fatemi sapere. C’è un form, qui in fondo alla colonna a destra, chiamato “Domande, idee, dubbi, curiosità?” Contattatemi – e ne discuteremo.

Facciamo Finta…

jarohess_make_believeForse è il più diffuso, il più universale e il più amato tra i giochi infantili, quello che porta in mondi più lontani, quello che conosce le varianti più disparate e personali: facciamo che io ero Questo, e tu eri Quello, e il salotto era un castello… Giocare a far finta. Con o senza bambole, soldatini o animali di pezza, ricreando le avventure di una storia sentita raccontare o inventando di sana pianta, riproducendo la maternità, il lavoro, la guerra, i rapporti sociali – sempre in qualche specie di equilibrio tra prove tecniche di mondo e il what if più sfrenato.

Chi non ha mai – ma proprio mai – giocato a fingere che… alzi la mano e non si aspetti di essere creduto.

In definitiva, i rapporti tra questo gioco e la letteratura sono stretti: una storia raccontata partendo da un’ipotesi iniziale, la sospensione dell’incredulità, e tutte le possibilità aperte entro le regole del gioco. Narrativa embrionale, e il legame è ancora più evidente nell’espressione inglese make-believe che, a differenza del corrispondente italiano “fare finta” non è associata a connotazioni di menzogna e d’inganno, ma pone l’accento sulla sospensione dell’incredulità da parte del soggetto.

Quindi non è sorprendente che in letteratura si trovino esempi di make-believe, tanto narrati quanto praticati da narratori più o meno in erba- semmai c’è da stupirsi che non ce ne siano di più.

LWNella letteratura per fanciulli, il MB è moneta corrente, con vari tipi di significato. Louisa Alcott ne fa un uso frequente e diversificato. In Piccole Donne, le quattro sorelle March riproducono una versione semplificata del viaggio di Christian, il protagonista del Libro del Pellegrino di Bunyan, partendo dalla cantina (Città della Distruzione) e salendo fino alla soffitta ribattezzata Paradiso. Il gioco è chiaramente educativo, e non è chiaro se sia stato ispirato dal padre ecclesiastico o semplicemente ideato dalla vulcanica Jo, ma la scena in cui viene rievocato serve a caratterizzare tanto le quattro ragazze quanto il tipo di educazione che hanno ricevuto. Sotto i Fiori di Lillà, comincia con una lunga scena di MB, la festa di compleanno della bambola in cui due sorelline ricreano i riti di un piccolo mondo sicuro e bene ordinato. L’arrivo del piccolo protagonista – un orfanello fuggito da un circo – scombinerà gioco, realtà e senso di sicurezza. Il racconto Dietro la Maschera presenta una versione più adulta e più inquietante del gioco: in una grande casa di campagna inglese, un gruppo di giovani gioca ai quadri animati con dei vecchi costumi teatrali. Apparentemente l’istitutrice scozzese si lascia coinvolgere un po’ troppo nella finzione con il bel fratello della sua allieva. Qualcuno crede al gioco, qualcuno recita, qualcun altro finge – ma non tutto è come sembra.

Più spesso, tuttavia, il MB appare in vesti meno sofisticate. È il caso di Momo, di Michael Ende, i cui piccoli protagonisti si lanciano in un’epica avventura immaginaria, fingendo che un vecchio anfiteatro abbandonato sia una nave oceanografica. L’episodio non ha un ruolo narrativo particolare (a parte forse quello di stabilire le posizioni di vari ragazzini all’interno del gruppo), ma la scrittura rende bene l’entusiasmante straniamento di quei prodigiosi pomeriggi che durano un lampo e un secolo insieme.

Un esempio particolarmente signifiPPHcativo si trova in Puck of Pook’s Hill, di Kipling: nel crepuscolo della sera di Mezz’Estate, Una e Dan recitano una versione adattata di Shakespeare, e la recitano all’aperto, in un cerchio delle fate. Non è chiaro se stiano giocando al teatro o ad essere i personaggi, ma di certo, in un modo che accomuna significativamente gioco, letteratura e incantesimo, Puck in persona obbedisce alla convocazione e compare ai due ignari bambini – per condurli alla scoperta della storia inglese.

Ho un ricordo molto vago di un libro per ragazzi degli Anni Ottanta – di cui mi sfuggono titolo e autore sicuramente italiano. La storia non era particolarmente memorabile, ma conteneva una scena interessante: entrando di nascosto nel giardino di una casa abbandonata per recuperare un pallone, due ragazzini sorprendevano due coetanee che, con gonne lunghe e bigiotterie sottratte alla mamma, giocavano “a regina e principessa”. “Ma che cosa fanno?” chiedeva sbalordito uno dei due intrusi. “Giocano a recitare,” era la risposta. “Le bambine lo fanno spesso.”* Il che sembrava voler implicare una distinzione dei ruoli: calcio per i bambini, make-believe per le bambine. Nell’ultimo capitolo, a mistero risolto, le bambine dichiaravano di avere perso interesse nel giocare “a regina e principessa”, ma non pare che la maturazione di un ragazzino implicasse parimenti il superamento del calcio.

Nella maggior parte dei casi, il MB è associato all’infanzia, ma l’associazione non è sempre particolarmente lieta. Per citare due esempi che più diversi non potrebbero essere, gli eroici sogni ad occhi aperti del futuro Lord Jim (e sostengo con fermezza che, per un bambino solitario, i sogni ad occhi aperti valgono come MB) si riveleranno profezie ironicamente crudeli, e Peter Pan, un ininterrotto, particolarmente magico MB per i fratelli Darling e i Bambini Smarriti, è una storia di irrecuperabilità e di perdita dell’innocenza.**

Quando poi all’aspetto deHU-ernonemecsek-1liberatamente ludico si sostituisce l’imitazione del mondo adulto, la faccenda può assumere colori più sinistri. I Ragazzi della Via Pal di Molnàr e i personaggi de La Guerra dei Bottoni di Pergaud “giocano” alla guerra in modo molto realistico, con tanto di feriti veri e addirittura un morto, in una delle scene più lacrimevoli della storia della letteratura. Nei Promessi Sposi, che per fanciulli non sono, alla piccola Gertrude non vengono mai date altro che bambole vestite da monaca, giusto perché non si faccia idee balzane. In Jane Eyre, la piccola (e a dire il vero insopportabile) Adèle viene energicamente scoraggiata dal danzare e giocare con i costumi, perché la madre assente, francese, ballerina e poco seria***, è tutto fuorché un modello da imitare.

Questo MB in chiave negativa sembra una scelta bizzarra da parte di Charlotte Brontë, considerando il ruolo che il MB aveva avuto nella sua formazione personale e letteraria (e che ancora aveva nella vita delle sue sorelle). La profonda e duratura passione dei quattro ragazzi Brontë per i loro regni immaginari e le loro generazioni di personaggi si spingeva al limite dell’ossessione, e nei diari di una Emily ventisettenne si trova questo episodio :

Anne e io abbiamo fatto il nostro primo lungo viaggio da sole e insieme. Siamo partite da casa lunedì 30 giugno, abbiamo dormito a York, Martedì sera siamo arrivate a Keighley, dove abbiamo dormito per poi tornare a casa a piedi mercoledì mattina. Il tempo era incerto, ma ci siamo divertite moltissimo – tranne per qualche ora a Bradford – e durante il viaggio abbiamo giocato ad essere Ronald Macelgin, Henry Angora, Juliet Augusteena, Rosobelle Esraldan, Ella e Julian Egramont e Catherine Navarre e Cordelia Fitzaphnold. Fingevamo di essere fuggite dal Palazzo dell’Istruzione per raggiungere i Realisti, al momento in rotta davanti ai Repubblicani vittoriosi.

Untitled 1Ed ecco che ritorniamo al punto di partenza: make-believe e letteratura. Tutta la produzione poetica di Emily Brontë è basata sul regno immaginario di Gondal che aveva creato insieme ad Anne, e la trama di Cime Tempestose è di derivazione altrettanto gondaliana. Il legame è meno forte nei romanzi di Anne, ma la Jane Eyre di Charlotte ha la sua origine in diverse eroine di Angria, bruttine e indipendenti. Se dico che quei giochi, quei sogni ad occhi aperti e quelle irrealtà condivise hanno fatto delle sorelle Brontë le autrici che sono diventate, non credo di esagerare molto. Se il make-believe è narrativa embrionale, la narrativa si può considerare make-believe adulto – e il viaggio a York di Emily e Anne ci dimostra che fra la distanza tra i due è molto ridotta.

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* Insisto nel dire che non era memorabile. Se ricordo questo passaggio così dettagliatamente è perché – no doubt – il mio subconscio sapeva fin d’allora che un giorno avrei tenuto un blog letterario…

** Se poi si accetta l’ipotesi secondo cui Peter Pan sarebbe basato sul fratello maggiore di Barrie, morto a tredici anni, e che la madre orbata si consolava dicendosi che il suo bambino morto sarebbe rimasto bambino per sempre, il tutto diventa ancora più allegro.

*** In un qualsiasi ordine di gravità.

Lug 4, 2014 - gente che scrive    2 Comments

L’Uzzolo Di Far (Di)Segni

DaneCoward

Noel Coward secondo Clemence Dane

Non solo disegni, in realtà – per dire, a Clemence Dane piaceva scolpire – ma quando John Updike dice che

L’uzzolo di far segni neri sulla carta è comune a molti scrittori,

si direbbe che non abbia tutti i torti, considerando quanti scrittori disegnassero.

Ed è vero, nell’Ottocento inglese chiunque avesse un’educazione sapeva disegnare con qualche grado di competenza, se non sempre di abilità, talento o gusto*.

Victor_Hugo-Bridge

Victor Hugo

Poi però si vedono cose come i disegni di Victor Hugo, che Delacroix, nientemeno, riteneva capace di diventare uno dei grandi pittori del suo tempo, se solo ci si fosse dedicato, e in effetti… Poi non è come se non ci si dedicasse per nulla, considerando che in vita sua produsse varie migliaia di disegni – e fu anche un precursore del metodo Betty Edwards: disegnava con la mano sinistra per entrare in contatto con il suo subconscio.

Emilyfir tree

Emily B.

In casa Brontë si disegnava parecchio, fin da bambini. Come voleva il costume dell’epoca, per le ragazze era un grazioso passatempo, e l’unico cui fosse permesso di aspirare a una professione artistica era Branwell, l’unico figlio maschio. Charlotte, adolescente, avrebbe dato parecchio per poter studiare pittura, ma il Reverendo Brontë non ne volle sapere. Branwell fu messo a bottega da un pittore – e non andò bene. Tentò la sorte alla Royal Academy – e andò peggio. Aprì un suo studio di ritrattista – e non parliamone nemmeno. E intanto le sue sorelle scrivevano di nascosto… Alla fin fine, però, la più notevole con una matita in mano era Emily, cui non interessava nulla se non di scrivere le sue poesie in gran segreto, per cui…

Lewis Carrol in origine, si illustrò Alice da sé – pieno d’immaginazione, competente quanto basta, notevole a suo modo – ma non abbastanza, così che per la prima edizione  del 1865 MacMillan 220px-Alice's_Adventures_Under_Ground_-_Lewis_Carroll_-_British_Library_Add_MS_46700_f45vcommissionò 42 illustrazioni a John Tenniel, con rigorose istruzioni di ispirarsi a quelle di Carrol.

Ma in realtà, i produttori di segnetti sulla carta sono tanti, compresi i miei beneamati Conrad e Kipling, Sylvia Plath, Edgar Allan Poe, Elizabeth Barret Browning, Dylan Thomas e una quantità di altri che potete trovare a questo bellissimo link. E anche questo con gli scarabocchi non è affatto male…

Non trovo che tutto ciò sia straordinariamente sorprendente. Meraviglioso, sì, ma non soprendente. A volte un tipo solo di segni sulla carta non basta. Una forma sola non basta. Si desidera parecchio dare ai propri personaggi, alle proprie idee, alle proprie storie qualche altro tipo di presenza concreta. O quanto meno, io lo desidero tutto il tempo, ma non so fare una o con il bicchiere – e mi confesso piena di ammirata invidia per chi sa disegnare.

 

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* E qui non so trattenermi dal citare la spassosa scena di The Talisman Ring in cui i cospiratori scoprono che Sarah Thane non sa, ma proprio non sa disegnare – e le reazioni vanno dall’incredulo al semi-disgustato.

Il Mondo Immaginario Di Emily Brontë

emily brontë, cime tempestose, gondal, angriaIeri Emily Brontë avrebbe compiuto 195 anni.

Singolare personaggio, Emily Jane. A voler dare retta alle teorie di Mortella ne Il Ferro, non sembra nemmeno nata d’estate. Chissà se sia almeno nata di notte…

Terza dei quattro giovani Brontë sopravvissuti all’infanzia, Emily era selvatica, ferocemente riservata e ostinata oltre ogni dire.

A scuola rimase ben poco, seguì Charlotte a Bruxelles con scarso entusiasmo e non si adattò mai alla vita da istitutrice come le sue sorelle. Alla fin fine, voleva soltanto starsene a casa, occuparsi della grigia casa parrocchiale ed essere libera di scrivere, camminare per la brughiera ventosa e immaginare le sue storie.

In questo era maestra.

Se fu il fratello Branwell a dare inizio al gioco dei Giovanotti e alle storie di Angria, il mondo immaginario destinato a diventare la base di tutta la produzione letteraria dei Brontë*, una Emily ancor bambina proclamò la sua indipendenza creando per sé e per la piccola Anne Gondal, un altro regno di isole e colonie, con la sua dinastia reale, i suoi personaggi e i suoi intrighi.

Dalle lettere, dai ricordi e dai minuscoli libricini che i quattro bambini scrivevano, si deduce che Branwell e Charlotte guardarono dapprima con qualche sufficienza al mondo immaginario delle sorelline. Emily e Anne continuarono imperterrite, e col tempo tra i due regni si istituirono contatti diplomatici, matrimoni dinastici, l’occasionale intrigo…

Col passare degli anni, Angria declinò man mano che Charlotte e Branwell perdevano interesse. Per Gondal la faccenda andò diversamente, perché a tenerlo vivo c’era Emily, la cui produzione poetica è tutta di argomento gondaliano, e che non smise mai di immaginare – anzi, di vivere le sue storie…

Gondal, a differenza della colonia africana di Angria, era un luogo di brughiere, di nebbie e di vento, circondato da mari sempre tempestosi. Mare a parte, Emily aveva solo bisogno di uscire di casa per ritrovarsi nei paesaggi delle sue fantasie. E che lo facesse spesso e fino in età adulta è testimoniato dalla pagina di diario che racconta il viaggio a York delle due più giovani Misses Brontë. Emily non dice quasi nulla della città. Per lei la cosa importante era il make-believe che aveva occupato tutto il viaggio in treno: lei e Anne avevano giocato ad essere un gruppo di principi e principesse in fuga per raggiungere i realisti in piena guerra civile…

I Gondaliani prosperano più che mai, concludeva Emily.emily brontë, cime tempestose, gondal, angria

Nello stesso periodo, Anne lamentava la triste decadenza di Gondal – ma ciò non le aveva impedito di lasciarsi trascinare da Emily nel gioco.

Chissà se fosse anche questo pervicace attaccamento al mondo segreto della loro infanzia a guadagnare a Emily l’adorazione delle sorelle: Anne che l’avrebbe seguita ovunque, e Charlotte che in Shirley le dedicò un ritratto idealizzato, pieno di affetto e ammirazione. “Emily come sarebbe stata, se avesse potuto godere dei privilegi della nascita e del denaro.”

E non era soltanto questione di una personalità fiammeggiante e di un’immaginazione inesauribile. Charlotte era perduta in ammirazione del genio letterario di Emily, che considerava la migliore scrittrice della famiglia. Ed è vero che le poesie di Emily traboccano di forza e carattere, e che Cime Tempestose è un romanzo difficile da ignorare.

emily brontë, cime tempestose, gondal, angriaNon so voi, ma personalmente detesto di cuore tanto Heathcliff quanto Cathy, trovo l’ambientazione oppressiva e la trama melodrammatica e un filo morbosa. Di nuovo: non so voi, ma per trovare qualcuno con cui simpatizzare devo andare a pescare il povero Edgar Linton. Eppure – eppure. C’è una forza nella narrazione, un’efficacia vivida nei personaggi e nelle descrizioni… Tutto si può dire di questo libro, ma non che sia insipido. E badate: non fatevi ingannare dall’ambientazione che sembra inglese. O meglio, lo è – ma in realtà il vento, le brughiere, gli estremi, gli spettri, gli zingari tormentati & fascinosi, e il melodramma arrivano tutti da Gondal.

Si può dire che in tutta la sua vita Emily Jane non abbia mai messo piede fuori da Gondal.

Dopodiché, la sua forte personalità aveva un sacco di tratti men che attraenti. Come il sereno egoismo che le consentiva di vivere imperturbata nel suo mondo immaginario nel mezzo delle peggiori catastrofi famigliari. Come il suo furioso aggrapparsi all’anonimato coperto dallo pseudonimo di Ellis Bell ben dopo che la verità era stata scoperta. Come l’inflessibile rifiuto di curare – o anche solo di ammettere la malattia che la stava uccidendo, incurante del dolore delle sorelle e del padre.

Emily aveva passato tanto del suo tempo a ignorare la realtà che probabilmente l’aveva persa di vista – insieme alle persone che le erano (o avrebbero dovuto esserle) care…

Appena prima di morire, trovò l’energia di bruciare la maggior parte delle sue emily brontë, cime tempestose, gondal, angriapoesie inedite e (forse) il manoscritto del romanzo su cui (forse) stava lavorando. E così se ne andò trentenne, per rimanere autrice di un solo romanzo e una manciata di versi, la ragazza delle voci nella brughiera, una delle sorelle di Charlotte, brusca e ostinata fino all’ultimo – e fino all’ultimo immaginandosi principessa in esilio tra le brughiere spazzate dal vento.

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* Oh sì: dei Brontë. Esiste anche una produzione del povero Branwell. Magari ne parleremo…

Ott 21, 2012 - libri, libri e libri, musica    2 Comments

Wuthering Heights

Non ho l’età per ricordare la prima uscita di questa canzone nel 1978, e nel 1986, quando, mi si dice, Kate Bush la registrò una seconda volta, il mio Inglese era ancora inesistente.

Per cui, quando un paio di settimane fa l’ho sentita per la prima volta da un secolo a queta parte, ho riconosciuto il ritornello, ma nulla di più. Anzi, per dirla tutta, non avevo nemmeno la più pallida idea del titolo…

“Eppure, dovrebbe essere proprio il tuo genere,” mi ha detto F.

E ascoltando il testo ho scoperto che si trattava di Cime Tempestose. Emily Brontë secondo Kate Bush. 

Bizzarro, inaspettato, un po’ eerie – ma singolarmente adatto.

Grazie F – e buona domenica a tutti.

Ott 29, 2010 - grilloleggente    4 Comments

Qualcuno Mi Spieghi Twilight

Confession time. Sto leggendo Twilight, di Stephenie Meyer.

Qualifichiamo: lo sto leggendo più o meno per scommessa – o meglio, sto cercando di leggerlo, ma è davvero, davvero faticoso. E’ faticoso perché sono più o meno a metà e ancora non è successo nulla. Ma nulla. O meglio, è successo che (Isa)Bella Swan, diciassettenne goffa e inconsapevole del suo fascino*, si è trasferita dalla solatia Arizona in un posto piovosissimo dello Stato di Washington (credo – ma potrei sbagliarmi) e si è ritrovata in classe con un ragazzo bellissimo e misterioso. Fatale attrazione reciproca. C’è il piccolo particolare che lui è un vampiro, ma Bella, che all’inizio sembrava possedere qualcosa di vagamente simile a una personalità, è così persa dietro al giovinotto che i lunghi canini e le malsane abitudini alimentari le fanno un baffo.

Come sapete, sto combattendo una dura battaglia contro lo snobismo di genere, il mio prima di tutto. E così, quando un’amica e collega d’Oltreoceano mi ha regalato la versione elettronica di T. completa di scommessa dai circostanziati (e tecnicissimi) termini, ho cominciato con le migliori intenzioni di non avere pregiudizi.

Anche perché Randy Ingermanson ha scritto un’interessante analisi del Romanzone Più Amato Dalle Adolescenti, mettendone in luce un particolare aspetto di solidità narrativa di cui una volta o l’altra parleremo: la coerenza interna delle premesse paranormal/vampiresche.

E il primo capitolo o giù di lì, tutto sommato, mi aveva fatto dire “Be’, dopo tutto c’è di peggio.”

Sia chiaro: le motivazioni di Bella appaiono fumosette anzichenò fin dall’inizio, ma la voce narrante (seppur non proprio diciassettennissima) non era del tutto male, con una certa asciuttezza e un genere di sarcasmo self-deprecating

Ma questo accadeva, appunto, attorno al primo capitolo.

Adesso, qualche centinaio di pagine più tardi** sono un tantino idrofoba. A parte la quantità industriale di coincidenze di improbabilità e di forzature su cui poggia la trama (se vogliamo proprio chiamarla così), a parte l’infallibile e adolescentissima maniera in cui piove sempre al momento giusto, a parte la ripetitività della vita scolastica descritta in puntiglioso dettaglio***… a parte tutto ciò, in chiusura del capitolo terzo ero già repleta e satolla di sentir insistere sulla preternaturale goffaggine fisica di Bella e – ancora di più – sulla perfetta, sovrumana, abbagliante bellezza di Piccoli Vampiri Crescono.

i_libri_preferiti_da_edward_e_bella.jpgAnche perché non c’è granché d’altro: l’immediata elettricità che cresce rapidamente in reciproca attrazione, la supina adorazione di Bella, che smette di ragionare, smette di pensare, smette di fare qualsiasi cosa non sia struggersi per Edward, e questa inspiegata propensione della fanciulla a mettersi nei guai/attirare pericoli. Mi auguro vivamente che quest’ultimo particolare venga spiegato e si evolva in qualcosa di simile a una trama, ma comincio a disperare.

Ciò detto, Twilight ha uno straordinario successo – tanto da generare non solo una serie di film, ma anche qualcosa che non so come definire se non come una specie di indotto. Mi si dice che Across The Pond sia in vendita un tripudio di guide, istruzioni, libri di ricette per organizzare la perfetta festa di Halloween ispirata alla saga della Meyer, e ho visto personalmente un ebook di ricette per fare dolcetti con nomi come Bella’s First Kiss e simili. Sul nostro lato, Mondadori ha pensato bene di capitalizzare sul successo di Twilight pubblicando nuove edizioni tascabili di classici della letteratura con copertina nera e tanto di bollino rosso fuoco che recita “I Libri Preferiti di Bella e Edward”. Se siete curiosi di sapere chi hanno scomodato, ve lo dico io: Shakespeare, Emily Bronte e Jane Austen, per dire. E una breve ricerchina in rete mi ha condotta su un sito pieno di entusiastici commenti divisibili in tre filoni: a) Corro a comprarli! b) Che bella idea per avvicinare i giovani alla letteratura! c) gente più sana che leva un sopracciglio all’idea che Shakespeare abbia bisogno di essere sponsorizzato da Bella e Edward****.

Insomma, le ragazz(in)e sono in delirio – e io vorrei capire bene perché. A metà libro, mi pare che il fenomeno Meyer si spieghi molto meno di altri casi editoriali paragonabili. Qualsiasi altra cosa si possa pensare di loro e della loro scrittura, bisogna ammetterlo: Dan Brown prende temi controversi e ci costruisce attorno trame adrenaliniche, mentre J.K. Rowling ha avuto una brillante idea di partenza e, almeno per un certo numero di libri, l’ha sviluppata in modo fantasioso e avvincente.

Ma Twilight? Supponiamo pure che la bigia vita quotidiana di Bella (scuola, compiti, qualche lavoretto di casa, una spedizione in città con le compagne di classe…) sia il genere di realtà da cui milioni di adolescenti sognano di evadere. E poi? Milioni di adolescenti sognano di aspettare passivamente l’arrivo di un moroso da urlo – meglio se non del tutto raccomandabile – dal quale lasciarsi proteggere e salvare ogni volta che si ritrovano (altrettanto passivamente o per semi-attiva stupidità) nei guai?

Perché questa storia non somiglia a niente come a una gigantesca fantasia collettiva in cui una Mary Sue che si crede ordinaria viene scelta dal Principe Azzurro problematico e ne diventa del tutto succube – un inno alla passività completa.

Lo ammetto: non ho più sedici anni da molto tempo e quindi forse mi sfugge qualcosa. Ma mi piacerebbe capire.

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* Of course. E altrettanto naturalmente, questo fascino è notevole…

** Non so di preciso: Kindle dà una percentuale invece di un numero di pagina…

*** Biologia, trigonometria, lettere, educazione civica e ginnastica: ma non studiano altro nei licei americani?

**** Sì, lo so: manca una -d- eufonica. Mondadori’s wording, not mine.

Facciamo Che…

Forse è il più diffuso, il più universale e il più amato tra i giochi infantili, quello che porta in mondi più lontani, quello che conosce le varianti più disparate e personali: facciamo che io ero Questo, e tu eri Quello, e il salotto era un castello… Giocare a fingere. Con o senza bambole, soldatini o animali di pezza, ricreando le avventure di una storia sentita raccontare o inventando di sana pianta, riproducendo la maternità, il lavoro, la guerra, i rapporti sociali – sempre in qualche specie di equilibrio tra prove tecniche di mondo e il what if più sfrenato.

Chi non ha mai – ma proprio mai – giocato a fingere che… alzi la mano e non si aspetti di essere creduto.

In definitiva, i rapporti tra questo gioco e la letteratura sono stretti: una storia raccontata partendo da un’ipotesi iniziale, la sospensione dell’incredulità, e tutte le possibilità aperte entro le regole del gioco. Narrativa embrionale, e il legame è ancora più evidente nell’espressione inglese make-believe che, a differenza del corrispondente italiano “fare finta” non è associata a connotazioni di menzogna e d’inganno, ma pone l’accento sulla sospensione dell’incredulità da parte del soggetto.

Quindi non è sorprendente che in letteratura si trovino esempi di make-believe, tanto narrati quanto praticati da narratori più o meno in erba- semmai c’è da stupirsi che non ce ne siano di più.

Nella letteratura per fanciulli, il MB è moneta corrente, con vari tipi di significato. Louisa Alcott ne fa un uso frequente e diversificato. In Piccole Donne, le quattro sorelle March riproducono una versione semplificata del viaggio di Christian, il protagonista del Libro del Pellegrino di Bunyan, partendo dalla cantina (Città della Distruzione) e salendo fino alla soffitta ribattezzata Paradiso. Il gioco è chiaramente educativo, e non è chiaro se sia stato ispirato dal padre ecclesiastico o semplicemente ideato dalla vulcanica Jo, ma la scena in cui viene rievocato serve a caratterizzare tanto le quattro ragazze quanto il tipo di educazione che hanno ricevuto. Sotto i Fiori di Lillà, comincia con una lunga scena di MB, la festa di compleanno della bambola in cui due sorelline ricreano i riti di un piccolo mondo sicuro e bene ordinato. L’arrivo del piccolo protagonista – un orfanello fuggito da un circo – scombinerà gioco, realtà e senso di sicurezza. Il racconto Dietro la Maschera presenta una versione più adulta e più inquietante del gioco: in una grande casa di campagna inglese, un gruppo di giovani gioca ai quadri animati con dei vecchi costumi teatrali. Apparentemente l’istitutrice scozzese si lascia coinvolgere un po’ troppo nella finzione con il bel fratello della sua allieva, qualcuno crede al gioco, qualcuno recita, qualcun altro finge – ma non tutto è come sembra.

Più spesso, tuttavia, il MB appare in vesti meno sofisticate. E’ il caso di Momo, di Michael Ende, i cui piccoli protagonisti si lanciano in un’epica avventura immaginaria, fingendo che un vecchi anfiteatro abbandonato sia una nave oceanografica. L’episodio non ha un ruolo narrativo particolare (a parte forse stabilire le posizioni di vari ragazzini all’interno del gruppo), ma la scrittura rende bene l’entusiasmante straniamento di quei prodigiosi pomeriggi che durano un lampo e un secolo insieme. 

Un esempio particolarmente significativo si trova in Puck of Pook’s Hill, di Kipling: nel crepuscolo della sera di Mezz’Estate, Una e Dan recitano una versione adattata di Shakespeare, e la recitano all’aperto, in un cerchio delle fate. Non è chiaro se stiano giocando al teatro o ad essere i personaggi, ma di certo, in un modo che accomuna significativamente gioco, letteratura e incantesimo, Puck in persona obbedisce alla convocazione e compare ai due ignari bambini.

Ho un ricordo molto vago di un libro per ragazzi degli Anni Ottanta – di cui mi sfuggono titolo e autore sicuramente italiano. La storia non era particolarmente memorabile, ma conteneva una scena interessante: entrando di nascosto nel giardino di una casa abbandonata per recuperare un pallone, due ragazzini sorprendevano due coetanee che, con gonne lunghe e bigiotterie sottratte alla mamma, giocavano “a regina e principessa”. “Ma che cosa fanno?” chiedeva uno dei due sbalordito. “Giocano a recitare,” era la risposta. “Le bambine lo fanno spesso.”* Il che sembrava voler implicare una distinzione dei ruoli: calcio per i bambini, make-believe per le bambine. Nell’ultimo capitolo, a mistero risolto, le bambine dichiaravano di avere perso interesse nel giocare “a regina e principessa”, ma non pare che la maturazione di un ragazzino implicasse parimenti il superamento del calcio.

Nella maggior parte dei casi, il MB è associato all’infanzia, ma l’associazione non è sempre particolarmente lieta. Per citare due esempi che più diversi non potrebbero essere, gli eroici sogni ad occhi aperti del futuro Lord Jim (e sostengo con fermezza che, per un bambino solitario, i sogni ad occhi aperti valgono come MB) si riveleranno profezie ironicamente crudeli, e Peter Pan, un ininterrotto, particolarmente magico MB per i fratelli Darling e i Bambini Smarriti, è una storia di irrecuperabilità e di perdita dell’innocenza.**

Quando poi all’aspetto deliberatamente ludico si sostituisce l’imitazione del mondo adulto, la faccenda può assumere colori più sinistri. I Ragazzi della Via Pal di Molnàr e i personaggi de La Guerra dei Bottoni di Pergaud “giocano” alla guerra in modo molto realistico, con tanto di feriti veri e addirittura un morto, in una delle scene più lacrimevoli della storia della letteratura. De Il Signore delle Mosche di Golding non cominciamo nemmeno a parlare, volete? Nei Promessi Sposi, che per fanciulli non sono, alla piccola Gertrude non vengono mai date altro che bambole vestite da monaca, giusto perché non si faccia idee balzane. In Jane Eyre, la piccola (e a dire il vero insopportabile) Adèle viene energicamente scoraggiata dal danzare, perché la madre assente, francese, ballerina e poco seria***, è tutto fuorché un modello da imitare.

Questo MB in chiave negativa sembra una scelta bizzarra da parte di Charlotte Bronte, considerando il ruolo che il MB aveva avuto nella sua formazione personale e letteraria (e che ancora aveva nella vita delle sue sorelle). La profonda e duratura passione dei quattro ragazzi Bronte per i loro regni immaginari e le loro generazioni di personaggi si spingeva al limite dell’ossessione, e nei diari di una Emily ventisettenne si trova questo episodio :

Anne e io abbiamo fatto il nostro primo lungo viaggio da sole e insieme. Siamo partite da casa lunedì 30 giugno, abbiamo dormito a York, siamo arrivate a Keighley Martedì sera, abbiamo dormito lì e siamo tornate a casa a piedi mercoledì mattina. Il tempo era incerto, ma ci siamo divertite moltissimo – tranne per qualche ora a Bradford – e durante il viaggio abbiamo giocato ad essere Ronald Macelgin, Henry Angora, Juliet Augusteena, Rosobelle Esraldan, Ella e Julian Egramont e Catherine Navarre e Cordelia Fitzaphnold. Fingevamo di essere fuggite dal Palazzo dell’Istruzione per raggiungere i Realisti, al momento in rotta davanti ai Repubblicani vittoriosi. (traduzione mia)

Ed ecco che ritorniamo al punto di partenza: make-believe e letteratura. Tutta la produzione poetica di Emily Bronte è basata sul regno immaginario di Gondal che aveva creato insieme ad Anne, e la trama di Cime Tempestose è di derivazione altrettanto gondaliana. Il legame è meno forte nei romanzi di Anne, ma la Jane Eyre ha la sua origine in diverse eroine di Angria, bruttine e indipendenti. Se dico che quei giochi, quei sogni ad occhi aperti e quelle irrealtà condivise hanno fatto delle sorelle Bronte le autrici che sono diventate, non credo di esagerare molto. Se il make-believe è narrativa embrionale, la narrativa si può considerare make-believe adulto – e il viaggio a York di Emily e Anne ci dimostra che fra la distanza tra i due è molto ridotta.

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* Insisto nel dire che non era memorabile. Se ricordo questo passaggio così dettagliatamente è perché – no doubt – il mio subconscio sapeva fin d’allora che un giorno avrei tenuto un blog letterario…

** Se poi si accetta l’ipotesi secondo cui Peter Pan sarebbe basato sul fratello maggiore di Barrie, morto a tredici anni, e che la madre orbata si consolava dicendosi che il suo bambino morto sarebbe rimasto bambino per sempre, il tutto diventa ancora più allegro.

*** In un qualsiasi ordine di gravità.