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Lug 15, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: Macbeth

Librettitudini Verdiane: Macbeth

Questa tragedia è una delle più grandi creazioni umane!… Se noi non possiamo fare una gran cosa cerchiamo di fare una cosa almeno fuori del comune,

scriveva Verdi a Piave ai primi di settembre – questa tragedia era il Macbeth di Shakespeare.

giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo vareseVerdi era uno shakespeariano furibondo, conosceva la tragedia scozzese a menadito e aveva idee molto precise e dettagliate su come dovesse essere tradotta in libretto. Prima di tutto, voleva brevità e sublimità… e fosse stato tutto qui!

Piave – povero Piave! – ci si mise d’impegno, ma scoprì presto che non c’era modo di accontentare Verdi. Nulla di quel che scriveva andava mai bene. Le lettere di rimprovero si susseguivano, sempre più brusche e sempre più impazienti. I versi non erano mai abbastanza stringati, le parole delle streghe non erano mai abbastanza strane, la Lady non era mai abbastanza incisiva…

Alla fin fine, quando il libretto fu finito – e Verdi scontento come all’inizio – Piave fu pagato ed estromesso dalla faccenda. Il suo nome non sarebbe comparso in copertina, e Maffei avrebbe risistemato le streghe e la Lady sonnambula…

Non posso fare a meno di chiedermi se Solera, da Madrid, sapesse dell’odissea e sghignazzasse tra sé e si sentisse vendicato per l’Attila rimaneggiato.

Ma vediamo un po’ che cosa musicò Verdi in sei mesi di frenesia compositiva…

Atto Primo.

Tutti sappiamo che si comincia con le streghe… Verdi voleva che parlassero in versi tronchi:

I. Che faceste? dite su!
II. Ho sgozzato un verro. E tu?
III. M’è frullata nel pensier
La mogliera di un nocchier:
Al dimon la mi cacciò…
Ma lo sposo che salpò
Col suo legno affogherò.
I. Un rovaio ti darò…
II. I marosi leverò…
III. Per le secche lo trarrò.giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo varese

Tronchi sono tronchi – e troncati ulteriormente dall’ingresso di un paio di capitani scozzesi. Gente vittoriosa: Macbeth (talora detto anche Macbetto per esigenze metriche), generale di fiducia del buon Re Duncano, e Banco.

Ora, le streghe salutano Macbeth come signore di Glamis e Caudore*, nonché re di Scozia.

E Macbeth, che delle tre cose è soltanto la prima, ma forse qualche pensierino alle altre due l’aveva fatto, trema.

“E io?” chiede Banco. Oh, lui non sarà re – ma i suoi figli sì.

E le streghe svaniscono, lasciando i due generali comprensibilmente scossi…

Tanto più che l’ingresso successivo è quello di un messaggero reale: in premio per la battaglia vinta, il buon Duncano concede a Macbeth la signoria di Caudore, appena levata a un vassallo ribelle…

Ops.

giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo vareseMa allora, se uno dei vaticini rispondeva a verità… Macbeth impiega meno di una sestina a fare due più due e a decidere che non, non, non è il tipo del golpista. E intanto Banco è meno compiaciuto di quanto dovrebbe o potrebbe essere un buon amico…

Chi ha tutta l’aria di volersi divertire un sacco sono le streghe, che tornano per un attimo a promettere cose sinistre. Ma d’altra parte, questo è Shakespeare – per non parlare di Verdi! Saremmo delusissimi del contrario, giusto?

Intanto, al castello… Oh d’accordo, non “intanto”, ma tanto tempo dopo quanto ne basta perché arrivi un messaggero a cavallo, Lady Macbeth legge la lettera con cui il consorte le racconta quel che sta accadendo. E subito capiamo che Lady M. è fatta di un’altra pasta: la sua prima preoccupazione sembra essere per la carente malvagità di Macbeth.

E in effetti, ricordate che aveva detto di non voler fare nulla di truce? Però

Pien di misfatti è il calle
Della potenza, e mal per lui che il piede
Dubitoso vi pone, e retrocede!

Oh well, poco male. Gli uomini vanno guidati – ed è per questo che ci sono le mogli, giusto? Ci penserà lei a spingerlo sul trono, costi quel che costi.

E chi ti va ad arrivare proprio al momento giusto? Ma il buon Re Duncano, con Macbeth al seguito.

Trovi accoglienza quale un re si merta,

sibila Lady M. – e noi di questa donna cominciamo proprio ad avere paura.

Dopo di che, ai Macbeth ricongiunti basta il più scarno dei recitativi ad accordarsi sull’accoglienza in questione. Lui esita: e se si fallisce? Forse lasciato a se stesso rinuncerebbe, ma Lady M. è inflessibile: se non ora, quando?

E infatti, qualche ora più tardi, appena il re si è ritirato al suono di musica villereccia, Macbeth comincia a vedere pugnali dappertutto, trema, si agita e poi prende il coraggio a quattro mani e va ad agire.

Quando rientra, stravolto e con un pugnale in mano, diventa subito chiaro che l’omicidio a sangue freddo non è il suo mestiere. Sente le voci, trema, delira… Lady M. è scossa a sua volta, ma molto più lucida e un nonnulla disgustata. Quando né ordini né incoraggiamenti** né sarcasmo servono a nulla, è lei a rientrare nelle stanze del re per lasciare il pugnale e sporcare di sanguegiuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo varese le guardie.

Così i gufi bubbolano, Lady M. depista, il marito di Lady M. si sente arrivare addosso l’insonnia cronica da rimorso e…

Chi bussa?

Macbeth è pronto a perdere la testa. Per fortuna c’è sua moglie ad avere la brillante idea di farsi trovare a letto. I due sposi e complici si dileguano, ciascuno con le mani insanguinate e, quando Banco e il nobile Macduff scoprono il cadavere di Re Duncano, ricompaiono con le mani pulite e l’apparenza del più profondo sbigottimento.

Sono persino capaci di unirsi al coro che maledice gli ignoti assassini – e nessuno si stupisce se la maggior parte dei registi rende la maledizione di Lady M. più convinta di quella del marito. 

E sipario.

Al giungere dell’Atto Secondo, il figlio di Duncan è fuggito in Inghilterra e tutti lo credono colpevole, e Macbeth è re di Scozia ma, come molti re all’opera, non è che dorma proprio bene.

Rimorso? Ssssì, ma più che altro, continua a pensare alla seconda metà della profezia, quella che riguarda i figli di Banco.

E lo si può anche capire: tutta quella fatica per poi passare la corona alla prole altrui? Giammai.

E guardate come Lady M. gli lascia credere che sia sua l’idea:

LADY:
Egli e suo figlio vivono, è ver…

MACBETH:
Ma vita immortale non hanno…

LADY:
Ah si, non l’hanno!

MACBETH:
Forz’è che scorra un altro sangue, o donna!

Ma sì, che vogliamo mai? Omicidio più, omicidio meno… E se Macbeth deve sforzarsi per convincersi, è chiaro che invece Lady M. ci prova gusto. Lei lo voleva proprio, questo trono – e non sarà certo un Banco qualsiasi a levarglielo, che diavolo!

E non so se, al posto di Banco, sapendo quel che Banco sa e dubitando quel che Banco dubita e sospettando quel che Banco sospetta, me ne sarei andata a spasso per il parco di Macbeth a notte fonda e senz’altra compagnia che un figlio ragazzino. Dopodiché non vedo che possa davvero lamentarsi quando un allegro coretto di sicari gli zompa addosso nel buio, vi pare?

Intanto, al castello i Macbeth intrattengono regalmente il coro e Macduff (che è un tenore della varietà non amorosa, e finora non è servito a granché – ma abbiate fiducia). E c’è forse un che di forzata gaiezza in questi due – ma come biasimarli? Tanto più che arriva un sicario ad annunciare che Banco è morto, ma il figlio no… ops. Questo vanifica un po’ tutto, vero?

giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo vareseMa non davanti agli ospiti. Nell’ansia di fare buon viso a cattivo gioco, Macbeth si lagna dell’assenza di Banco… finché non ne vede il fantasma tranquillamente seduto a tavola.

E allora, capite, perde un pochino la testa. Ora, tutto si può dire di Macbeth, ma non che sia un codardo. Invece di fuggire strillando, si rivolge allo spettro, lo apostrofa, lo interroga, lo minaccia… Peccato che lo veda soltanto lui. Gli ospiti sono, non del tutto incomprensibilmente, sconcertati, e Lady M. è livida:

E un uomo voi siete?
Vergogna, signor!

Tra l’altro, il fantasma è intermittente: ogni volta che Macbeth tenta di minimizzare o la sua consorte riprende il brindisi, eccolo che fa bubu settete di nuovo. Macbeth farnetica, Lady M. si chiede che razza di mozzarella abbia sposato, e gli ospiti si dileguano quatti quatti – perché non c’è nulla come un’apparizione di fantasmi per rovinare una cena. L’ultimo ad andarsene è Macduff, cui comincia a balenare qualche ombra di sospetto.

E mentre cala il sipario, che resta da fare a un povero usurpatore omicida, se non decidere di cercare quelle imbroglione tendenziose delle streghe e cantargliene quattro?

Atto Terzo

È il momento della caverna regolamentare. Questa è oscura anziché orrida – ma caverna è. E ci sono le streghe, col calderone. E, ad opera del cavalier Maffei, giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo varesecantano così:

I. Tre volte miagola la gatta in fregola.
II. Tre volte l’upupa lamenta ed ulula.
III. Tre volte l’istrice guaisce al vento.

TUTTE:
Questo è il momento.
Su via! sollecite giriam la pentola,
Mesciamvi in circolo possenti intingoli:
Sirocchie, all’opera! l’acqua già fuma,
Crepita e spuma.
(gettando nella caldaia)

I. Tu, rospo venefico
Che suggi l’aconito,
Tu, vepre, tu, radica
Sbarbata al crepuscolo
Va’, cuoci e gorgoglia
Nel vaso infernal.

II. Tu, lingua di vipera,
Tu, pelo di nottola,
Tu, sangue di scimmia,
Tu, dente di bòtolo,
Va’, bolli e t’avvoltola
Nel brodo infernal.

III. Tu, dito d’un pargolo
Strozzato nel nascere.
Tu, labbro d’un Tartaro,
Tu, cuor d’un eretico,
Va’ dentro, e consolida
La polta infernal.

Tutte: (danzando intorno)
E voi, Spirti

Negri e candidi,
Rossi e ceruli,
Rimescete!
Voi che mescere
Ben sapete,
Rimescete! Rimescete!

giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo varesePittoresco, nevvero? Arriva Macbeth a chiedere lumi, e gli si propone una consultazione con gli spiriti – i quali gli dicono: a) di guardarsi da Macduff – e a questo ci aveva già pensato da solo; b) di star sicuro che nessun nato da donna può nuocergli; c) che il suo trono sarà saldo finché non si muoverà il bosco di Birna(m). Data la non elevatissima densità di gente non nata da donna e boschi semoventi nella Scozia dell’epoca, Macbeth potrebbe fermarsi qui e andarsene a dormire contento…

E magari lo farebbe, se fosse un tenore. Ma essendo invece un baritono, ha una mente logica e gli viene il dubbio: ma se è così invincibile, come la mettiamo con la discendenza di Banco?

Le streghe cercano di eludere la domanda, ma poi gli mostrano una processione di spiriti coronati scortati dallo spettro di Banco.

Ma… si stupisce Macbeth. Eh sì, replicano le streghe. I calcoli Macbeth può farseli da solo e, facendoseli, sviene.

E qui nell’edizione riveduta per la Francia del ’65 (quella che per lo più s’esegue oggidì), c’è un balletto di spiriti aerei che si suppone debba rinfrancare il nostro povero usurpatore.

E arriva Lady M., e Macbeth, rinfrancato ma scosso, le racconta delle nuove profezie. Con logica impeccabile, Lady M. decide che sono tutte vere tranne l’ultima e comunque, nel dubbio, meglio liberarsi una volta per tutte di Macduff con moglie e figli e del figlio di Banco.

E questa volta Macbeth non fa più nemmeno finta di esitare. Siamo in ballo e balliamo, giusto?

Sipario. giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo varese

Atto Quarto – e si direbbe che Macbeth si sia lasciato prendere un nonnulla la mano. Non solo ha sterminato la famiglia di Macduff, ma ha messo a ferro e fuoco la Scozia nella sua caccia, tanto che cori interi di profughi se ne stanno a lamentarsi molto pateticamente appena al di qua del confine inglese.

Ma comincia a sembrare che i Macbeth possano aver fatto i conti senza l’oste, perché non solo Macduff è ancora vivo e affamato di vendetta, ma c’è anche Malcolm (il figlio di Duncano, ricordate?), che arriva parimenti intenzionato conducendo molti soldati inglesi e, in un momento d’ispirazione tattica, ordina a tutti quanti di provvedersi di un ramo mimetico dai rami del bosco.

Quale bosco? Il bosco di Birna(m).

Oh oh…

Intanto al castello, da una parte una sonnambula Lady M. ha le ben note difficoltà igieniche:

Di sangue umano
Sa qui sempre… Arabia intera
Rimondar sì piccol mano
Co’ suoi balsami non può.

giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo vareseE dall’altra Macbeth si dibatte tra rimorso, paura, ferocia, solitudine e rimpianto…

E sì, potevano pensarci prima – ma, forza di Shakespeare e di Verdi, noi non siamo capaci di restare insensibili alla disperazione dell’uno e dell’altro.

Dopodiché tutto comincia ad assumere l’inconfondibile forma di una pera.

Lady M. muore – se di affanno, suicidio o altro non è chiaro – e Macbeth la prende in maniera… stramba.

Ma non basta, naturalmente, e arriva una sentinella ad annunciare che, o prodigio, la foresta di Birna(m)… er, si muove.

E Macbeth si scuote un po’ di più. Ma è un fiero signore della guerra scozzese: di nuovo, invece di scappare strillando, impugna la spada e va ad affrontare il suo destino.

Che gli si presenta nella forma di… Macduff. giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo varese

Oh, d’accordo. Avremmo preferito qualcuno di un po’ più.. un po’ meno… Però state a sentire: quando Macbeth lo invita a levarsi di torno, perché nessun nato da donna può fargli un baffo, Macduff si svela. Non so se conti come un’agnizione, ma sta di fatto che il nostro tenore-non-amoroso è nato con parto cesareo. Tecnicamente non è nato da donna.

Vatti a fidare delle streghe.

E sì, è un inqualificabile cavillo, ma che vogliamo farci? Macduff e Macbeth escono di scena duellando, e tutti sappiamo come va a finire. E poi tutto succede offstage, e Macduff rientra trionfante, e il coro esulta, e Malcolm si proclama re, e la Scozia è liberata, e tutti sono molto felici, e noi parteggiavamo per il baritono, ma fa lo stesso.

Sipario.

Ecco qui. Quando ebbe messo tutto in musica, Verdi cominciò a seguire le prove con la ferocia incontentabile di un gallo da combattimento. Le prove furono un massacro creativo. Sopravvivono le lettere in cui Verdi istruisce puntigliosamente il baritono Carlo Varesi, primo Macbeth. Marianna Barbieri-Nini, la prima Lady Macbeth (scelta perché era brutta e di voce aspra come Verdi voleva), scrive nelle sue memorie di avere provato un certo duetto non meno di centocinquanta volte, prima che fosse cupo e “quasi parlato” come lo voleva il compositore…

giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo vareseMa Verdi aveva ragione: nel marzo del 1847 il Macbeth debuttò alla Pergola di Firenze, e fu un successo maiuscolo – con la possibile eccezione del libretto.

A quanto pare c’è un intrecciarsi di nemesi beffarde, quando si tratta di libretti. Vi ricorderete che il nome di Piave non compariva, ma si sapeva che l’autore era lui. A Firenze Piave non era popolare – e che le stroncature dei versi fossero un po’ partito preso lo dimostra il fatto che i pezzi più presi di mira furono proprio il coro delle streghe e la scena del sonnambulismo. Quelli di Maffei. Quelli di cui il povero Piave era del tutto innocente.

 

 

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* Cawdor, in realtà. E a dire il vero non so nemmeno se valga la pena di cominciare con la toponomastica scozzese ad uso dei melomani…

** Yes well, dubito che l’equivalente operistico di “dormiamoci su e domattina andrà tutto meglio” sia fatto per funzionare in caso di assassinio.

Lug 8, 2013 - Anno Verdiano, Storia&storie    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: Attila

Librettitudini Verdiane: Attila

giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffei“Perché non Attila?” disse Maffei – e Verdi, se avesse avuto delle antenne, le avrebbe rizzate.

Andrea Maffei – marito della più celebre Clarina – era un poeta, un librettista, un traduttore dall’Inglese e dal Tedesco. Per cui conosceva bizzarrie germaniche come il dramma di Zacharias Werner sul re degli Unni…

Verdi qualche tempo prima aveva letto De l’Alemagne, di Mme de Staël, in cui, tra l’altro, proprio quel dramma si riassumeva con entusiasmo. E ne era rimasto colpito. Gli pareva una bella storia cupa e romantica (nel senso meno sentimentale del termine), piena di forza tragica e ambientata in un tardo impero tanto oscuro da essere esotico di risulta. Figurarsi quando Maffei glielo propose come soggetto “barbaro”!

Dopo la batosta napoletan-peruviana dell’Alzira, bisognava andare sul sicuro: la collaudata Fenice e il fidato Solera sembravano una buona combinazione… peccato che Solera fosse a Madrid, in autoesilio per sfuggire ai creditori, e fosse men che sollecito nel consegnare i versi. Per di più aveva le sue idee su come dovesse essere il libretto, continuava a battere sull’aspetto risorgimental-patriottico, a discapito delle psicologie individuali e dell’Impero che franava a valle – che a Verdi interessavano molto di più. giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffei

Quando diventò evidente che Solera nicchiava con l’atto terzo – e forse in considerazione del fatto che battere troppo su un’Italia che si libera dei barbari occupanti significava cercar grane con la censura – Verdi si rivolse a Piave chiedendogli (con la consueta abbondanza di istruzioni e raccompandazioni) di risistemare e finire il tutto.

Solera, dalla Spagna, si offese a morte e non volle mai più collaborare con Verdi. Il povero Piave-Gatto si lesse Mme de Staël, si lesse Werner (forse tradotto da Maffei) e sistemò tutto come voleva Verdi.

Quindi: Verdi, Solera, Piave – e anche Werner, e probabilmente un po’ Maffei… Vediamo che ne uscì.

Il Prologo comincia ad Aquileia caduta. Eruli, Ostrogoti & Unni si aggirano tra le macerie fumanti, compiacendosi coralmente dell’abbondanza di urli, rapine, gemiti, sangue, stupri e rovine…  Credevano forse di resistere ad Attila, questi scemi di Aquileiesi? Ha!

giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffeiEd eccolo qui, Attila su un carro trainato dagli schiavi, duci, re, ecc…* E prima che noi possiamo farci domande su quell’affascinante ecc…, il coro barbarico accoglie il suo condottiero così:

Viva il re delle mille foreste,
Di Wodano ministro e profeta;
La sua spada è sanguigna cometa,
La sua voce è di cielo tuonar.
Nel fragore di cento tempeste
Vien lanciando dagl’occhi battaglia;
Contro i chiovi dell’aspra sua maglia
Come in rupe si frangon gli acciar.

E Attila (basso) sarebbe soddisfatto, non fosse che il suo fedele schiavo Uldino entra conducendo un gruppo di donne locali che, contrariamente agli ordini, ha salvato per offrirle in dono al Re. Dopo tutto sono una rarità esotica, e hanno pugnato in armi.

Allor che i forti corrono
Come leoni al brando
Stan le tue donne, o barbaro,
Sui carri lagrimando.
Ma noi, donne italiche,
Cinte di ferro il seno,
Sul fumido terreno
Sempre vedrai pugnar,giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffei

chiarisce Odabella**, il nostro soprano – e chi vuole intendere, intenda. Attila s’innamora sur-le-camp, le offre una grazia a scelta e, quando lei chiede una spada, le offre gentilmente la sua e la lascia libera di vagare a suo gusto per il campo.

Ora, voi sapete che ho una predilezione per le voci gravi, ed è mia convinzione che, in questo come in molti altri casi, nessuna donna sana di mente che non ci fosse costretta dal libretto, potrebbe preferire il tenore al basso e/o al baritono. Ciò detto, se non vi siete fatti l’impressione che Attila sia candidabile al Nobel per la fisica, non so biasimarvi…

E infatti Odabella, che ha un padre e un moroso da vendicare, gioisce tra sé – perché quella spada non ha intenzione di usarla al posto delle forbicine da ricamo. E Attila si stupisce di come l’ardire e la bellezza di Odabella dolcemente gli fiedano il cuore. 

Ma non distraiamoci. La guerra è guerra, e Attila manda tutti quanti per la loro strada, perché ha da ricevere l’inviato di Roma.

E l’inviato di Roma altri non è che Ezio, il nemico preferito di Attila, quello che gli ha rifilato una batosta di tutto rispetto ai Campi Catalaunici – e l’abbiamo già capito, ad Attila piace la gente tosta, purché non se ne venga con proposte di pace…

Peccato che Ezio se ne venga a proporre qualcosa di peggio della pace. giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffei

Perché Ezio, vedete, è uno di quei generali di sangue barbaro che sono più fedeli a Roma dei Romani stessi, e la cui lealtà in genere viene ricompensata così così***. Ed Ezio non ne può davvero più dell’imbelle giovine**** Valentiniano che siede sul trono d’Occidente. Seccherebbe molto ad Attila spartirsi con Ezio questo vecchio impero malconcio e tanto bisognoso di una mano energica – o due?

Poffarbacco!

Noi Ezio lo perdoniamo (o almeno sospendiamo il giudizio) perché è un baritono, ma Attila, che non è frenato da queste considerazioni timbriche ed è un nobile re guerriero, s’indigna. Se Roma è così malmessa che il suo eroe più valido pratica tradimento e spergiuro, allora è proprio tempo che gli Unni radano tutto al suolo.

Ah be’, ma se la mettiamo così, Ezio non ha altro da dire, se non: guerra! Dopo tutto, gliele ha suonate una volta, ad Attila, ed è capacissimo di farlo ancora. E i due si separano vicendevolmente furibondi.

Chiudesi il prologo dalle parti della futura Venezia, dove un coro di eremiti accoglie un coro di aquileiesi in fuga, guidati da… Foresto? Possibile? Il comandante e salvatore dei fuggiaschi è un tenore che non è poi così morto come noi e il soprano credevamo, e che si dispera perché la sua bella è prigionera del nemico conquistatore – da cui, incidentalmente, vuole liberare la patria afflitta…

E lo so, suona familiare, ma fidatevi: secolo diverso, continente diverso, costumi diversi, finale diverso. Insomma, abbastanza diverso… oh well.

E con questo siamo soltanto alla fine del prologo. Sarà meglio che ci affrettiamo all’Atto Primo.

E cominciamo con Odabella che vaga nottetempo nei boschi e pensa ai casi suoi, giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffeifinché non le arriva addosso Foresto travestito da Unno. E forse anche questo vi suonerà vagamente familiare, perché a lei quasi prende un coccolone nel vedersi davanti il moroso redivivo, ma lui è furibondo perché la crede collaborazionista: com’è che se ne gira libera e armata, eh?

E lei fatica un po’, tra giuramenti e citazioni bibliche, a convincerlo che tutto quel che vuole è vendicarsi infilzando Attila con la sua stessa spada.

“E perché non l’hai ancora fatto?” sarebbe la domanda sensata, viste le generali circostanze…

Ma Foresto è un tenore, e invece va in estasi, chiede perdono e i due cinguettano e s’invitano a vicenda a inebriarsi nell’amplesso–

Ma no, cosa avete capito? Opera, Ottocento, censura! Tutto molto casto – e comunque fade to

La tenda di Attila che, in una scena reminiscente del Riccardo III*****, si sveglia da un incubo. Perché insomma, imman gli apparve un veglio, che l’ha preso per i capelli e gli ha ingiunto di lasciare in pace Roma, che il suo incarico divino prevedeva la flagellazione dei mortali, ma Roma è di Dio.

Raccapriccio!

esclama il fedele Uldino – ma Attila si riprende prima di subito, arrossice della sua debolezza e anzi, convoca il coro tutto: armi e bagagli, ragazzi, che si parte per Roma.

Ma…

Che d’è quella religiosa armonia che risponde alle trombe guerriere degli Unni?

giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffeiÈ Papa Leone, con sei anziani e un corteo di vergine e fanciulli in bianche vesti. C’è anche Foresto, nascosto in mezzo al coro, ma nessuno bada a lui. Cosa più interessante, nel vecchio disarmato, Attila riconosce l’uomo del suo incubo. E, guarda caso, Leone ripete proprio le parole del sogno: basta così, grazie, flagellato abbastanza, Roma no…

Aiuta che alle sue spalle Attila veda un paio di gigantesche figure armate di spade fiammeggianti. Chi l’avrebbe mai detto? Per lo sbigottimento degli Unni e la meraviglia dei locali (e, a quanto pare, di Leone stesso), Attila cade in ginocchio, pronto a prendere, incartare e portare a casa la divina ammonizione.

E qui (soprattutto dalle mie parti), saremmo anche disposti a considerare finita la faccenda. E invece no: è finito solo l’atto primo.

E l’Atto Secondo comincia con Ezio, di umor nero perché il pavido Valentiniano lo riconvoca in tutta fretta a Roma, proprio adesso che si potrebbe dare il colpo di grazia agli Unni in ritirata… ah, dov’è finita la potenza di Roma? Dove andremo a finire? Non ci sono più le mezze stagioni, eccetera.

Ma a interrompere le lamentazioni del generale arriva uno stuolo di schiavi d’Attila, recante richiesta di un abboccamento. E perché mandare uno stuolo di schiavi a parlamentare? Ma perché così ci si può nascondere in mezzo, e poi restare indietro inosservato, Foresto. Foresto che viene a giocare agl’indovinelli. Non chiedermi perché, non ti dico chi sono o come lo so, ma in serata si fa fuori Attila. Tu tieniti pronto e, al segnale, attacca.

E magari sarebbe legittimo dubitare, non vi sembra? Trappola, imboscata, ruse de guerre?

Ma no: ad Ezio non par vero di avere l’occasione di ignorare gli ordini imperiali. Per mal che vada, morirà in battaglia, risparmiandosi il resto del declino di Roma.

E noi facciamo appena in tempo a tornare al campo di Attila, dove Eruli, Ostrogoti & Unni gozzovigliano, e Attila presiede con Odabella al fianco vestita da amazzone, e Foresto si nasconde in mezzo al coro (again)… Facciamo appena in tempo a tornare, dicevo, che arrivano Ezio e i suoi.

E salta fuori che, nonostante il carattere piuttosto truculento dei brindisi, quel che vuole Attila è offrire una tregua e celebrarla con una buona cena. giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffei

Il che, fanno lugubremente notare i druidi, porta malissimissimo… E se Attila crede di risollevare gli animi con un po’ di musica, sbaglia: il vento interrompe il già non allegerrimo canto delle sacerdotesse e spegne fuochi e lucerne, e tutti cominciano a farsi un nonnulla nervosi. 

Foresto ne approfitta per sussurrare a Odabella che il fedele Uldino è in realtà pronto ad avvelenare Attila; Odabella s’indigna perché Attila lo vuole infilzare lei; Uldino, col veleno in mano, cerca di farsi coraggio; il coro si agita; Ezio torna a proporre alleanza contro Valentiniano; Attila rifiuta sdegnato ma, a mezza via tra Winnie the Pooh e (again) Riccardo III, deve ammettere che:

Oh rabbia! Non sento più d’Attila il cor!

E poi il cielo si rasserena all’improvviso, e potremmo quasi credere a un anticlimax, se non fosse che Attila, nell’ansia di superare il momentaccio, sta per bere. Per bere dal boccale che gli ha portato Uldino…

Ma no! Odabella lo ferma, gli rivela il tentato avvelenamento e, quando Attila, non incomprensibilmente, vuol sapere chi è stato, è Foresto a farsi tenorilmente avanti.

Sensazione.

Attila riconosce il capitano aquileiese che tanto filo da torcere gli ha dato in battaglia – e adesso gliela fa vedere lui.

Poco sforzo, adesso! provoca Foresto.

E Odabella chiede in premio la sua vita.

E Attila acconsente, e ci aggiunge la corona di regina degli Unni, da suggellarsi con matrimonio l’indomani.

E Foresto fugge non senza avere prima maledetto Odabella (again), e dite la verità: non potremmo quasi crederci tornati in Perù?

giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffeiA riprova del fatto che invece siamo ad Aquileia, Ezio si morde le nocche per il fiasco, Uldino pensa che l’ha scampata bella e che deve un gran favore a Foresto, e il coro non ne può davvero più: facciamogliela vedere, a questi Romani arroganti e avvelenatori, e che diamine!

Sipario.

Atto Terzo, e non ci stupiamo di trovare Foresto nel bosco tra il campo di Attila e quello di Ezio – lui che passa di qua e di là come se nulla fosse. Ad ogni modo, adesso è lì nella terra di nessuno a mangiarsi le unghie al pensiero di Odabella fedifraga. Ed entra Uldino a dire che la sposa è appena salita in automobile partita col corteo verso la tenda di Attila. Ed entra Ezio a chiedere che cosa stanno aspettando. E Foresto vaneggia ancora sull’infedeltà di Odabella. Ed Ezio, con tutta l’aria di avere sentito i vaneggiamenti molte e molte volte, gli fa notare che lui ha in mente cose più importanti di una ragazza poco seria – tipo il destino dell’Impero. Ed entra Odabella vestita da amazzone/sposa/regina******, vaneggiando a sua volta. Si direbbe che lo spettro del babbo sia venuto a tirarle le coperte: ma proprio Attila, doveva sposare? Foresto, ça va sans dire, concorda col fantasma.giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffei

E mentre Ezio cerca di affrettare i tempi, Odabella si proclama innocente e ultrice, e Foresto non le crede (again)…

Ed Ezio non aveva tutti i torti, perché arriva Attila, cercando la sua novella sposa.

E la trova abbracciata a un riluttante Foresto in presenza di Ezio.

Ops.

Ma come? s’infuria Attila. Lui ha sollevato Odabella da schiava a regina, ha risparmiato Foresto e non ha distrutto Roma – e adesso tutti cospirano contro di lui?

E a noi viene il dubbio che a Solera sia sfuggito qualcosa – o che Piave ci abbia messo parecchio di suo. Siamo sinceri: tra Foresto che passa il tempo a nascondersi tra gli alberi e le comparse e a maledire ingiustamente Odabella*******, Uldino che viene trattato come un figlio e ricambia col veleno, ed Ezio che, baritono o meno, muore dalla voglia di tradire qualcuno fin dal prologo, per chi dovremmo simpatizzare, se non per Attila?

giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffeiE mi sembra degno di nota che Odabella dica di non poter consumare il matrimonio con Attila perché lui le ha ucciso il padre. Non per altri motivi come, ad esempio, Foresto.

Ma a questo nessuno ha l’aria di badare troppo. Mentre si sentono in quinta le grida dei Romani che assaltano gli Unni già piuttosto su di giri, Foresto parte per pugnalare Attila, ma Odabella lo precede… Anche a voi sembra un gesto da donna innamorata? Ad Attila, devo dire, non molto.

E tu pure, Odabella?

mormora – e poi muore.

E in quella che credo sia la scena più breve della storia dell’opera, guerrieri romani irrompono da tutte le parti per informarci che

Appien sono
Vendicati, Dio, popoli e re!

Sipario.

E insomma, sì. C’erano grandi aspettative per questo Attila. Verdi ne scriveva dicendo che i suoi amici la consideravano la sua opera migliore – con quel genere di tono che implica “lo penso anch’io, ma non lo dico”, e doveva essere il riscatto dopo l’Alzira.

Tutto quel che si può dire è che la carriera di Verdi non fu un progresso trionfale di successi da far crollare il loggione, e che l’Attila andò tutt’altro che male.  

E sapete, tuttavia, quale fu la beffa più maiuscola? Verdi si aspettava grandi cose dai finali secondo e terzo, e invece la Fenice applaudì “con maggior fanatismo” proprio il più patriottico, più risorgimentale, più soleriano atto primo.

Solera, da Madrid, avrebbe potuto trarne tutta la consolazione che voleva.

 

_________________________________________________

* Holla, ye pampered jades of Italy… No, scherzi a parte, non è bizzarro che nessuno abbia tratto un’opera dal Tamburlaine di Marlowe? Ci sono almeno un paio di Tamerlani – uno di Haendel, l’altro non ricordo – ma nessuno, per quanto ne so, tratto da Marlowe…

** Un giorno ci chiamerò una gatta.

*** Belisario, anyone? E sì, era Costantinopoli e non Roma – but still.

**** Werner, Solera e Piave ce lo fanno passare per adolescente, ma in realtà Valentiniano nel 452 aveva ben passato la trentina. Ma d’altronde nemmeno l’Imperatore d’Oriente Marciano era poi così tardo per gli anni e tremulo come vuole il libretto… Però così Ezio ci fa una figura vagamente migliore.

***** Altra cosa da cui è strano che nessuno abbia mai tratto un’opera. Almeno per quanto ne sappia. Qualcuno ha qualcosa da segnalare in proposito?

****** No, davvero.

******* D’altra parte, Vedi per primo… C’è una favolosa lettera con cui chiede a Piave di verseggiargli una romanza supplementare per Foresto, su richiesta del tenore russo Ivanoff. Ed è davvero una forma di consolazione leggere che Verdi descrive Foresto come quell’imbecille di amoroso.

Lug 1, 2013 - Anno Verdiano, musica    2 Comments

Librettitudini Verdiane: Alzira

Se mai opera nacque sotto i migliori auspici, probabilmente fu l’Alzira. giuseppe verdi, anno verdiano, salvatore cammarano, alzira, voltaire, teatro san carlo

Insomma, il San Carlo di Napoli era un teatro difficile da accontentare. Venirci chiamati – come capitò a Verdi nel ’44, e vedersi offrire la collaborazione con un principe dei librettisti come l’esperto, celebre e notevole Salvadore Cammarano, era un’opportunità non da poco.

Verdi accettò di slancio e diede a Cammarano carta bianca – bianchissima: qualsiasi cosa il librettista avesse in mente, lui l’avrebbe musicata con entusiasmo.

giuseppe verdi,anno verdiano,salvatore cammarano,alzira,voltaire,teatro san carloE Cammarano aveva in mente Voltaire. Ma non un Voltaire qualunque: Alzire, Ou Les Américains – tragediona in cinque atti con gli Incas e i Conquistadores, il Buon Selvaggio e il Cristianesimo, l’Amore e la Vendetta – tutto in maiuscole. E, giusto per non farsi mancare nulla, il tutto si svolgeva in Perù! Che si poteva volere di più in fatto di esotismo?

Per un po’, Verdi e Cammarano si danzarono intorno in reciproco entusiasmo come due uccelli-lira nella stagione del corteggiamento, sotto lo sguardo benevolo di Vincenzo Flauto, impresario del San Carlo. Poi…

Be’, poi cominciarono i guai.

Cammarano si rivelò verseggiatore lento.

Verdi si ammalò.

L’Eugenia Tadolini, il supersoprano su cui Verdi aveva messo gli occhi per il ruolo eponimo, si rivelò incinta.

Di Anna Bishop, la possibile Alzira inglese caldeggiata da Flauto, Verdi non voleva nemmeno sentir parlare.

Cammarano diceva sempre di sì a tutte le modifiche richieste da Verdi – e poi faceva sempre di testa sua.

Verdi seguitava in cattiva salute.

Flauto cominciò a credere (forse non del tutto a torto) che Verdi stesse tergiversando.

Il libretto dopo tutto era molto meno meraviglioso di quanto fosse parso in un primo momento.

Anna Bishop sobillò melomani e stampa contro il compositore forestiero…

Alla fine fine, tanto si procrastinò che la Tadolini rientrò in servizio e Verdi, col libretto finalmente completo, si mise al lavoro. Leggenda vuole che musicasse tutto quanto in venti giorni – per poi precipitarsi a Napoli per le prove. giuseppe verdi,anno verdiano,salvatore cammarano,alzira,voltaire,teatro san carlo

Con Flauto seccato, la Tadolini convalescente, Verdi convalescente e seccato, Cammarano freddino, la città ostile e la Bishop che soffiava sul fuoco, potete immaginare che il clima non fosse dei migliori.

E per di più il libretto era… yes, well.

Ma vediamo.

Per cominciare, immaginatevi una vasta pianura, irrigata dal Rima: l’oriente è ingombro di maestose nubi, imporporate dai raggi del sole nascente. Quando il sipario si apre sul prologo, una tribù di Americani è intenta a pregustare in coro le brutte cose da farsi al prigioniero spagnolo – nientemeno che il vecchio e canuto governatore del Perù.

E vi riporto, perché ne vale la pena…

Muoja, muoja coverto d’insulti,
I martiri sien crudi, ma lenti,
(Con accento ferocissimo)
Strappi ad esso codardi singulti

Il tormento di mille tormenti. –
O fratelli, caduti pugnando,
Dalle tombe sorgete ululando…
L’inno insieme del trionfo s’intuoni,
Mentr’ei sparge l’estremo respir.

Ecco, appunto. Ma mentre già levano dardi (!), picche e tizzi ardenti per grigliare Don Alvaro, piomba tra loro in canòa il tenore – accolto con gran gioia da tutti senza che, cosa rilevante, nessuno lo chiami per nome.

A dimostrazione del fatto che non è poi così selvaggio, il giovanotto fa grazia a Don Alvaro e lo rimanda per la sua strada. Solo a questo punto si rivela essere il capo locale Zamoro, che tutti credevano morto, e ci racconta come a) le voci sulla sua morte fossero decisamente premature; b) non abbia altra brama al mondo se non quella di vendicarsi di Gusmano, figlio di Don Alvaro; c) sia ansioso di riunirsi alla sua bella Alzira.

giuseppe verdi,anno verdiano,salvatore cammarano,alzira,voltaire,teatro san carloAh, ma il fatto si è che Alzira, insieme al babbo capo Ataliba, è prigioniera degli Spagnoli a Lima… Ebbene, ragione di più per raccogliersi attorno tutte le tribù furibonde, marciare su Lima e dare agli Spagnoli quel che spetta loro, giusto? E così, galvanizzati dalla prospettiva, i nostri Americani si avviano tumultuosi, agitando all’aura vivamente e dardi, e clavi, ed aste.

Sipario – e Atto Primo, che, alla maniera di Cammarano, ha un suo titolo: Vita per vita.

Siamo a Lima, adesso, dove è appena arrivata una nave recante dispaccio reale.

Alvaro comunica a soldati, ufficiali e popolo che Madrid gli ha concesso il sospirato pensionamento. Il nuovo governatore è suo figlio Gusmano – che è, badate bene, baritono.

E Gusmano comincia il suo governatorato stringendo la pace con Ataliba, re Inca – pace da suggellarsi con il matrimonio tra Gusmano stesso e Alzira, la bella figlia di Ataliba.

Ataliba chiede un po’ di tempo: Zamoro, il precedente fidanzato della fanciulla, è morto in battaglia e lei è ancora un tantino scossa… Gusmano capisce, ma è innamorato e non ha nessuna particolare voglia di aspettare. Vorrebbe, per favore, Ataliba esercitare la sua autorità paterna?

Perché insomma, va bene essere capitani vittoriosi, va bene essere governatori del Perù – ma senza il cor d’Alzira/un mondo è poco a lui…

Ataliba vorrebbe, e tutto il coro spagnolo simpatizza.

Chi non vorrebbe affatto è Alzira che, dicono le sue donzelle americane, di giorno e di notte, nel sonno e nella veglia, non fa altro che invocare Zamoro – che, ricordatevi, crede morto. E qui a noi balza vagamente l’idea che Alzira sia una tremenda rompiscatole, ma fingiamo di nulla e stiamo ad ascoltarla mentre si sveglia, racconta di avere sognato un’altra volta il defunto Zamoro, cui intende essere fedele, morte o non morte.giuseppe verdi,anno verdiano,salvatore cammarano,alzira,voltaire,teatro san carlo

Per cui, quando Ataliba arriva e le comunica che non c’è più trippa per gatti ed è gioco forza sposare Gusmano, la fanciulla non è per nulla contenta. Ma come, e Zamoro?

Ataliba le fa notare che: 1) Zamoro è, you know, morto; 2) solo sposando Gusmano può restituire la pace al suo popolo; 3) poteva andarle peggio, visto che Gusmano è sinceramente innamorato di lei; 4) e comunque glielo ordina suo padre: poche storie e agl’imenei si proceda.

E mentre Alzira fa sopraneschi propositi di morte, l’ancella Zuma le annuncia che… Be’, di fatto le annuncia che secondo una sentinella c’è un Americano che chiede udienza – ma qui siamo all’opera, per cui Zuma dice che:

Alcun fra loro, cui vegliar le porte
S’ingiunge, annunzia che venirne implora
Un de’ nostri al tuo piede.

Chi fia? E indovinate un po’?

Ma Zamoro, naturalmente – che dapprima Alzira scambia per un fantasma. Ma no, è lui in carne, ossa e sete di vendetta, per non parlare di un’ombra di sospettosa indignazione: ma come, davvero è pronta a sposare uno Spagnolo? Quello specifico Spagnolo fra tutti? Alzira, con notevole sottigliezza, risponde che non era pronta affatto: doveva farlo e basta. Al che Zamoro si scioglie, e i due cinguettano un diluvio di teneri e appassionati emistichi…

…Fino all’ingresso di Gusmano con Ataliba e coro al seguito!

Gusmano, non incomprensibilmente, non è colmo di letizia nello scoprire che Zamoro è ancora vivo, e lo condanna a morte.

Alzira strilla, Ataliba è perplesso, il coro si divide in pro e contro e, nel mezzo del pandemonio, entra Alvaro, che riconosce in Zamoro il nobile selvaggio che gli ha salvato la vita nel prologo.

Segue confusione: incalzato da Alzira, Ataliba e parte del coro, Alvaro supplica il figlio di essere clemente; Zamoro pensa di migliorare la sua situazione insultando Gusmano; il resto del coro chiede misure drastiche; Gusmano comincia inflessibile, poi è scosso quando il babbo gli s’inginocchia davanti, poi spiega di non poter cedere perché c’è di mezzo Alzira…

giuseppe verdi,anno verdiano,salvatore cammarano,alzira,voltaire,teatro san carloMa all’improvviso, odesi un murmure lontano. Vi eravate dimenticati delle tribù furibonde, vero? Be’, eccole qui, le tribù furibondo, che vengono a riprendersi Zamoro, Alzira, Ataliba e, già che ci sono, Lima tutta e il maggior numero possibile di teste spagnole.

Questo sì che decide Gusmano – e, badate bene, non perché speri di placare gli attacanti. Scosso dalle preci del genitore, punto sul punto d’onore e ansioso di battaglia, rimanda Zamoro da dove è venuto (vita per vita!), con la promessa d’incontrarlo sul campo.

Il coro accoglie variamente la prospettiva di altro spargimento di sangue, Gusmano e i suoi escono da una parte, Zamoro dall’altra e Alzira, trattenuta dal padre e dalle donzelle americane, vaneggia di scudi umani.

Sipario.

L’Atto Secondo, che s’intitola La vendetta di una selvaggio, si apre sull’inequivocabile costatazione che gli Spagnoli sono più tosti degli autoctoni. Gli autoctoni le hanno prese di santa ragione (again), Zamoro è prigioniero (again) e Gusmano si appresta a firmare la sua condanna a morte (again). Arriva Alzira a supplicare la grazia per Zamoro (again), con il ricattatorio argomento che, se muore lui, muore anche lei.

Ma in fatto di ricatti, anche Guzmano non scherza: non c’è nessun bisogno che Zamoro muoia. Basta che Alzira ceda e il selvaggio è salvo.

Contro-contro-ricatto: ma non capisce Gusmano che tradire il suo giuramento ucciderebbe Alzira non meno della morte di Zamoro?

Ed è qui che Gusmano scopre il bluff di Alzira: sì, tutto molto poetico, ma la scelta resta tra le nozze e l’esecuzione.

E che deve fare un povero soprano? Alzira cede e Gusmano, nel suo entusiasmo, convoca il suo SIC per impartirgli queste affascinanti istruzioni:

Il pronubo
Rito solenne appresta…
E sia di tede innumeri
Splendente la città…

E quello corre. E Alzira si lancia nei consueti propositi di morte a’ pie’ dell’ara – cosa che potrebbe allarmare un nonnulla Gusmano, se non fosse troppo occupato a effondere sulla sua immensa gioia e sulla natura del suo amore…

Butta male, non pare anche a voi?

Ma spostiamoci per un momento in un’orrida caverna. Non potevamo assolutamente farci mancare un’orrida caverna. E in questa specifica orrida caverna si riuniscono i rimasugli della malconcia orda peruviana, a lamentare la batosta e a rallegrarsi della marginale consolazione di essere riusciti a liberare Zamoro corrompendo i suoi custodi.

Ed eccolo, Zamoro, cui secca maledettamente di essere giuseppe verdi,anno verdiano,salvatore cammarano,alzira,voltaire,teatro san carlostato sconfitto da Gusmano, e non è ancor nulla. Quando i suoi gli fanno notare le luci di Lima in lontananza e gli svelano le nozze imminenti, Zamoro perde la testa, maledice la fedifraga (again), giura vendetta e allarma i suoi correndo via nell’intento di imbucarsi al matrimonio – e non per scroccare i canapé.

Torniamo a Lima anche noi, e troviamo Gusmano che gongola, Alzira che si strugge e il coro che fa quel che i cori sono pagati per fare almeno una volta in ogni opera: compiacersi di un imene.

Ma proprio mentre Gusmano tende la destra alla sua riluttante e lacrimosa sposina, ecco Zamoro che, con balzo felino, esce di tra le quinte e pugnala lo sposo. A morte.

Orrore! Orror!!

Le sezioni armate del coro inorridito si avventano sull’omicida – ma aspettate… Colpo di scena! Con l’equivalente operistico di una conversione a U, Gusmano ferma tutti. Se non dispiace a nessuno, lui, che selvaggio non è, preferirebbe perdonare l’accoltellatore selvaggissimo e adoratore di dei crudeli.

Sensazione.

Il coro è perso in lacrimosa ammirazione. Zamoro è attonito (e forse anche un po’ seccato: che figura si fa a pugnalare un uomo che ti perdona?). Alzira, folgorata da tanta generosità, si converte all’istante. Don Alvaro è distrutto.

Gusmano non fa le cose a mezzo: ricongiunge i due innamorati, ingiunge loro di vivere felici e scagiona Alzira da qualunque intento matrimoniale. Sta a vedere che dopo tutto l’aveva ascoltata più di quanto sembrasse?

Il coro tutto è ammirato e commosso.

Gusmano barcolla, cade ai piedi del padre, gli chiede e ottiene una benedizione in extremis e manda l’estremo anelito per la disperazione del povero Don Alvaro e la commozione generale.

Spirò!…

commentano utilmente Gli Altri – caso mai il particolare ci fosse sfuggito.

Doppio accordo conclusivo regolamentare. Sipario.

E siamo alle solite, vero? Che un baritono possa vivere felice e/o amare ricambiato è proibito dalle leggi del Fato Operistico. Figurarsi. Oh well.*

giuseppe verdi,anno verdiano,salvatore cammarano,alzira,voltaire,teatro san carloAd ogni modo, quando alla fine andò in scena nell’agosto del ’45, l’Alzira non piacque. Il pubblico la trovò cortina, frettolosa, bruttarella di musica e parole…

La prima fu accolta freddamente, le tre repliche furono fischiate. Peggio ancora andarono le riprese di Roma e Milano. Dopo avere difeso senza troppa convinzione il suo lavoro per un po’, Verdi stesso giunse alla celebre conclusione che l’Alzira fosse proprio brutta.

Quanto questo giudizio del suo stesso autore abbia pesato sulla fortuna successiva di questa escursione peruviana, è difficile a dirsi. Di certo, quasi nessuno la mette in scena – e che vi devo dire? Di solito, se un’opera non viene rappresentata per decenni e decenni e decenni… be’, un motivo c’è.

 

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* E sì: ho un debole per i baritoni. So sue me. E vi avverto: rants come questo – e peggiori di questo – ne leggerete ancora.

 

 

Giu 24, 2013 - Anno Verdiano    5 Comments

Librettitudini Verdiane: Giovanna D’Arco

giuseppe verdi, giovanna d'arco, temistocle solera, friedrich schiller, teatro alla scalaRicordate Gaetano Merelli, il direttore della Scala? Era da dopo il successone dei Lombardi che sollecitava Verdi a scrivergli qualcosa d’altro – e Verdi nicchiava.

Però nel 1844 il compositore riallacciò il sodalizio con Solera, invitandolo a scegliere un soggetto per Merelli. E Solera scelse Giovanna – o meglio, per dirla con Schiller, Die Jungfrau von Orléans. Verdi, a dire il vero, non fu travolto dalla letizia. Tra l’altro, c’erano già un paio di opere tratte dal dramma tedesco, e anche un balletto del solito Viganò, ma tutto sommato non voleva dire granché. Anche perché Solera non aveva intenzione di essere terribilmente fedele a Schiller.giuseppe verdi, giovanna d'arco, temistocle solera, friedrich schiller, teatro alla scala

Per dire, al grido di semplifichiamo, semplifichiamo, il librettista sfrondò due dei personaggi principali: il cavaliere inglese Lionel, di cui la Giovanna schilleriana s’innamora fatalmente, e la bella Agnes Sorel, amante del Delfino e poi re. Il che, lo capite bene, lasciava ben poche alternative per l’obbigatoria storia d’amore tenore/soprano…

Ebbene sì: Giovanna e il Re, che qui è già incoronato.

E sì, lo so – ma non era come se Schiller per primo fosse storicamente attendibile, giusto? E poi, francamente, chi è che va all’opera per il rigore storico? Per cui non formalizziamoci e vediamo un po’…

Il Prologo (ebbene sì, abbiamo un prologo) comincia a Dom-Remy*, con ufficiali e borghigiani che si lagnano dell’andamento della guerra. Quegli accidenti d’Inglesi vincono e vincono e vincono, e persino Orléans è sul punto di cadere. Entra il re Carlo VII e, dopo che il popolo s’è brevemente commosso sulla sua combinazione di bellezza, giovinezza e sfortunaccia nera, annuncia un’abdicazione sacrificale. Se l’è sognato, dice. Ma in realtà quel che si è sognato è un’immagine della Madonna in un bosco…

Oh, Sire – ma è qui nei dintorni! esclama il coro. È un postaccio infestato da streghe e diavoli, ma c’è. E sarà anche un postaccio, ma è là che Carlo, con uno di quei salti logici che solo all’opera, decide di dover andare a rimettere la sua corona nelle mani di Dio. Oh, e degli Inglesi, of course.

E noi lo precediamo nel postaccio boschivo e tempestoso dove, in effetti, c’è una cappellina. E ci sono anche – ciascuno per conto proprio – il canuto pastore Giacomo e sua figlia, la contadinella Giovanna. Questi due sono uno più pio dell’altro. Lei non trova altro luogo sacro per venire a pregare che il Cielo le conceda di salvare in qualche modo la Francia, e lui l’ha seguita per vedere se, come teme, la figliuola è una strega, un’indemoniata o qualche altra cosa poco raccomandabile.

Quando Giovanna si addormenta arriva Carlo e, senza accorgersi di padre nascosto e figlia ronfante, si mette in preghiera. E arriva anche un coro demoniaco che, a tempo di valzerino, tenta la Giovanna con una collezione di immortali versi che in parte vi riporto:

Quando agli anta
L’ora canta
Pur ti vanta
Di virtù
Tu sei bella,
Tu sei bella!
Pazzerella
Che fai tu?

giuseppe verdi, giovanna d'arco, temistocle solera, friedrich schiller, teatro alla scalaE a questo punto è molto, molto chiaro che Solera non era in vena… Per fortuna a interrompere gli spiriti malvagi** intervengono gli spiriti celesti** che svegliano la ragazza con la notizia che i non meglio precisati “celesti” hanno deciso di darle retta – a patto, badate bene, che s’impegni a tenere il cuore ben chiuso a ogni affetto terreno…

E Giovanna si sveglia, afferra elmo e spada che Carlo aveva deposto per pregare e, da contadinella, eccola trasformata in eroina!

Carlo è folgorato – e non solo dall’impeto guerriero di Giovanna. I due se ne escono mano nella mano per andare a dare agl’Inglesi quel che spetta loro… e Giacomo? Vi eravate dimenticati di Giacomo, vero? E invece il padre sospettoso era nascosto in un angolo e ha visto e sentito tutto. O almeno, non deve aver sentito granché dell’estasi mistico-patriottica della figlia, ma in compenso ha visto abbastanza da decidere che Giovanna ha venduto l’anima al diavolo per amore del re… orrore, orror!

Sipario – e Atto Primo

Siamo nei dintorni di Rems*, e gl’Inglesi sono ammaccati e abbacchiati. Hanno perso Orleàno* e, in generale, le hanno prese di santa ragione da quando i mangiarane Francesi sono comandati dalla diavolessa.

Ed ecco Giacomo. Il suo crine è scomposto, i suoi atti dimostrano il disordine della mente. Voi che fareste se un nemico scarmigliato e squadrellato si presentasse al vostro campo promettendovi la consegna della diavolessa da cucinare come preferite – a patto di lasciarlo combattere con voi? Dubitereste, giusto? Ma qui siamo all’opera e agli Inglesi non par vero.

Le tue ciglia gemon pianto,

osservano gli isolani, al che Giacomo ammette che la diavolessa è un tantino sua figlia. Però poi sforna questa ineffabile variazione sul tema carne debole e spirito pronto:

Languido è il fral, ma l’anima
Maggiore è d’ogni duol!

Comprensibilmente folgorati gli Inglesi lo prendono con sé. giuseppe verdi, giovanna d'arco, temistocle solera, friedrich schiller, teatro alla scala

Nel frattempo a Rems* Giovanna non ne può più di guerra e dell’adorazione generale e cieca. Ha vinto, giusto? E allora può tornarsene a casa dal babbo e dalle sue pecorelle. Chi non vuol sentirne parlare è Carlo, che la farebbe tanto volentieri sua regina… Giovanna, sia detto a suo credito, resiste per trentuno versi. Ma che vogliamo fare? è un soprano e si sa come va a finire; al trentaduesimo verso cede e subito gli spiriti eterei si manifestano per ricordarle che aveva giurato: niente affetti terreni!

Ops…

E a questo punto non ci mancava altro che il popolo festante – perché vorrebbero, per favore, Carlo e la Pulzella, recarsi al tempio** per l’incoronazione***? Giovanna a dire il vero vorrebbe tanto essere morta in battaglia, ma Carlo che non ha sentito gli spiriti celesti e non capisce il motivo di tanto scombussolamento, la ricopre di futili rassicurazioni e profferte d’amore, e se la trascina via.

E non vi fate un’idea di come gongolano gli spiriti malvagi e stornellatori!

Atto Secondo

Davanti al tempio tutto è letizia ed esultanza – con l’eccezione di Giacomo, che chiaramente cammina avanti e indietro tra il campo inglese e quello francese senza l’ombra di un impiccio. Ma d’altra parte, chi si azzarderebbe a fermare un uomo che viene per detergere tutte le sue fibre di padre e diventare fulmine del Signor crucciato?

giuseppe verdi, giovanna d'arco, temistocle solera, friedrich schiller, teatro alla scalaCosicché, quando Giovanna esce dal tempio, cercando invano di sfuggire al re e al popolo che vogliono farla santa subito, il vecchio è pronto per far scoppiare la sua bomba: altro che santa, la mia sciagurata figlia è una strega venduta al diavolo per un non meglio precisato amore terreno****…

Orrore, orror!

Carlo protesta, con singolare logica ed efficacia, che Giovanna è troppo bella per essere una strega. Il popolo chiede prontamente la sua testa. E Giacomo è molto scosso, ma tiene duro perché, scopriamo, un bel rogo è l’unica cosa che può ancora salvare l’anima della sacrilega ragazza.

E Giovanna? Giovanna sacrilega ci si sente, visto che ha contravvenuto alle istruzioni celesti innamorandosi del re, per cui non solo non si difende, ma è prontissima a seguire il padre verso il rogo degli Inglesi. Perché non possano bruciarla i Francesi, vista la veemenza del loro pio disgusto, non è ben chiaro, ma… Oh, wait! Non funzionerebbe altrettanto bene il…

Terzo Atto.

Atto Terzo che comincia in una prigione inglese, dove Giovanna ascolta da lontano i rumori dell’ennesima battaglia, si mangia le unghie perché i Francesi stanno perdendo, si strugge per Carlo in pericolo, prega e protesta la sua innocenza davanti al cielo… giuseppe verdi, giovanna d'arco, temistocle solera, friedrich schiller, teatro alla scala

E di nuovo, celato nell’ombra a una quinta di distanza, c’è Giacomo, questo origliatore di professione, che dopo avere pensato di lei tutto il male possibile per due atti, all’improvviso le crede. Ed è vero, tecnicamente è ancora sacrilega – in pensieri e parole, se non in opere – ma, in un altro di quegli aloni lasciati dalle rimozioni della censura, in fondo a Giacomo importa che Giovanna sia a) ancora vergine; b) sempre pia. E allora la libera, le dà la sua spada e la fa scappare. Da una bifora/un verone/ una ringhiera/ la cima della torre il padre pentito&angosciato osserva le sorti della battaglia mutare dopo l’ingresso in campo della Pulzella. Peccato che si perda il finale a causa di un turbine di polvere, ma male non dev’essere andata: quando Carlo arriva è trionfante e in vena di perdono.

I due uomini si stanno felicitando a vicenda, ma si felicitano troppo presto. Il coro sciama in scena portando la defunta Giovanna – già nella bara. Carlo si dispera insieme al coro (già dimentico del finale dell’Atto Secondo), ma all’improvviso…

Gran Dio! Silenzio… Represso gemito mandò l’estinta,

esclama Giacomo, senza notare che allora forse del tutto estinta non è.

E dite la verità: non vi sembrava strano che Giovanna non morisse in scena? Oddìo, magari vi sembra anche strano che sia morta in battaglia e non sul rogo – ma per quello potete biasimare più Schiller che Solera. Anche perché il rogo ci avrebbe privati dell’ultima scena in cui Giovanna ha tutto il tempo di delirare, perdonare, andare in estasi e vedersi assunta al cielo, tra le lacrime, le suppliche e la meraviglia di Carlo, Giacomo e coro tutto.

E se a chiudere ci aspettavamo gli spiriti celesti, aspettavamo male. Ecco a noi, invece, gli spiriti malvagi:

Torna, torna, esulante sorella,
Sovra i vanni dell’angelo al ciel!
È il signore, il signor che ti appella,
E ti cinge inconsuntile vel.
Più che il fuoco che n’arde e ne scuoia,
Più che il buio di notte crudel,
N’è tormento d’un’alma la gioia,
N’è supplizio il trionfo del ciel!

E non so se mi piaccia di più il velo inconsuntile o i diavoli che hanno paura del buio, mentre una siderea luce spandesi improvvisa pe’l cielo e tutti si prostrano davanti al glorioso cadavere.

Sipario.

giuseppe verdi, giovanna d'arco, temistocle solera, friedrich schiller, teatro alla scalaE no, il buon Solera non era in stato di grazia, e poi aggiungeteci i molteplici rimaneggiamenti della censura vicereale, e… well.

Ad ogni modo, Verdi musicò tutto in quattro mesi, litigò come un dannato con direttore, orchestra e cantanti e poi, alla fin fine, si ebbe una prima abbastanza mediocre, con un successo limitato e della cattiva stampa. Lui disse che i giornalisti milanesi lo danneggiavano di proposito e alla fine, irritato e deluso, prese una decisione drastica: non avrebbe più scritto per la Scala.

Era destinato a cambiare idea – ma ci sarebbero voluti decenni.

 

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* Sic, sic, sic. È la toponomastica francese secondo Solera.

** E questi in origine erano, l’avete indovinato, diavoli e angeli. E il tempio era la chiesa. Poi capitò la censura… Noi forse fatichiamo un po’ a capire che materia scabrosa fossero, all’epoca, le vicende della Pulzella.

*** Era già re, dite? Be’, lo era nel prologo. Poi aveva abdicato – o quanto meno espresso l’intenzione di farlo. E comunque, che volete che sia? Le incoronazioni fanno tanta scena. E a ben pensarci, non è l’ultima volta che vediamo incoronare un re già regnante. Ne riparleremo.

**** E non è che Giacomo sia diventato all”improvviso troppo prudente per accusare re di avergli sedotto la figlia. È che nel libretto originale – come in Schiller – Giacomo si agitava molto sulla questione della supposta verginità perduta di Giovanna. Poi la censura intervenne, e rimase soltanto il sacrilegio, con tanti cari saluti alla logica generale della storia.

 

 

Giu 17, 2013 - Anno Verdiano, Storia&storie    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: I Due Foscari

Librettitudini Verdiane: I Due Foscari

giuseppe verdi, anno verdiano, francesco maria piave, i due foscari, byronEra un po’ di tempo che Verdi aveva in mente di tentare Byron, e in particolare The Two Foscari, una di quelle cupe storiellone veneziane, ispirata alle vicende del doge Francesco Foscari e del suo sfortunato figlio.

Solo che a Venezia la censura non aveva voluto saperne – e non del tutto incomprensibilmente, perché non è che Byron faccia fare una gran figura alla Serenissima, implacabile fino alla crudeltà, a tutto beneficio delle vendette private…

Insomma, per la Fenice non se ne parlava, ma Roma era tutt’altra faccenda e, forte del suo nuovo contratto con il teatro Argentina, Verdi mise il buon Piave a verseggiare prim’ancora che le autorità avessero approvato la selva. La selva, per capirci, era una specie di sinossi dettagliata del libretto, su cui la censura esercitava un controllo preventivo.

La selva dei Foscari passò lo scrutinio in trionfo, e Verdi e Piave ci si misero di buzzo buono. E non dovete pensare che, dato il successo dell’Ernani, Verdi si fosse messo quieto nei confronti di Piave – anzi. Presa confidenza e passato al tu, il compositore è ancor più draconiano nelle sue richieste. È chiaro che Piave doveva essere un buon verseggiatore senza troppa idea di come funzionasse il teatro dell’opera, perché le lettere che abbiamo in fatto di Foscari sono un susseguirsi ininterrotto di istruzioni e desiderata di notevole perentorietà. 

Fai questo e fai quello, caro il mio poeta-gatto, e non fare quell’altro – per carità! E quell’altro ancora è bellissima poesia, ma in teatro non si fa così… giuseppe verdi, anno verdiano, francesco maria piave, i due foscari, byron

Piave, brav’uomo, pare essere stato assai cedevole in questo principio di carriera. Non ho mai letto le sue lettere in risposta, ma vien da sospettare che a cose fatte, nel vedere il suo nome stampato sul libretto, dovesse abbandonarsi a qualche risatella amara…

Ad ogni modo, Verdi era molto soddisfatto. Il libretto gli piaceva molto – e ciò benché, tutto sommato, nei Due Foscari in scena succeda ben poco.

Per dire, al principio dell’Atto Primo, incontriamo il coro d’ordinanza nel ruolo del Consiglio dei Dieci che, a notte alta, in gran silenzio e mistero, si riunisce a Palazzo Ducale per deliberare su che si debba fare di Jacopo Foscari, il figlio del Doge, richiamato a bella posta dall’esilio cretese.

Che cosa Jacopo abbia combinato, al momento non è chiaro, ma di certo è ben felice di respirare di nuovo l’aria della sua amatissima Venezia. Un po’ meno di simpatia il giovanotto riserva per i Dieci: quando il comprensivo fante di scorta lo incoraggia ad aspettarsi pietà e misericordia, Jacopo inveisce contro la sete di sangue dei suoi nemici annidati in consiglio.  Apparentemente, non è comodissimo essere un Foscari nella Venezia del 1457 – e che l’innocenza serva a qualcosa è più materia di speranza che altro… Notate che questa tirade l’aveva voluta Verdi, cui pareva che lo Jacopo di Piave fosse deboluccio. Diamogli più carattere, insiste il compositore più e più volte. Diamogli più fuoco! Ed ha tutt’altro che torto – ma vedremo in futuro che per i suoi tenori non avrà sempre tutto questo riguardo.

Ma lasciamo passare qualche ora e spostiamoci a Palazzo Foscari, dove Lucrezia Contarini, la bella sposa di Jacopo, apprende con notevole furia che i Dieci hanno condannato Jacopo all’esilio a vita. Perché, nel modo che è tipico di quest’opera, tutto si è deciso fuori scena. Ma Lucrezia non è un soprano-mammoletta. Tuona contro la falsa misericordia dei patrizi, invoca la vendetta divina sulle loro teste – e non dà gran retta al coro che l’esorta alla pia rassegnazione.

Nel frattempo, alla fattoria… er, no: nel frattempo, a Palazzo Ducale, i Dieci e la Giunta sciamano fuori dall’aula, commentando quel che sappiamo già. Di Jacopo bisogna fare un caso esemplare… ma che diamine ha fatto lo sciagurato ragazzo? Ebbene, ha tenuto corrispondenza con l’arcinemico: lo Sforza di Milano. Vero è che lui nega, ma che vogliamo farci?

giuseppe verdi, anno verdiano, francesco maria piave, i due foscari, byronPersino il Doge, nelle sue stanze private, ammette a se stesso di non poterci fare nulla: tutto sembra condannare Jacopo, e il tribunale ha deciso. Come padre lamenta il tutto, ma come Doge deve sostenere con imparzialità la giustizia.

Di tutt’altra opinione è Lucrezia, che irrompe al grido di:

L’amato sposo rendimi,
Barbaro genitor!

Al che il povero Doge risponde quel che ha già cantato a noi: un conto è quel che pensa il padre, e un conto quel che deve fare il Doge. Il vecchio Francesco vorrebbe tanto credere all’innocenza di Jacopo, ma che può fare di fronte alle lettere che lo incriminano? Perdonare, incalza Lucrezia – e tanto più che si è trattato solo di un’imprudenza commessa al fine di rivedere Venezia…

Il Doge rifiuta ancora, ma piange – ciò che induce la nuora alla speranza. Vuoi vedere che ce la caviamo? E su questa palliduccia alba, il sipario cala.

L’Atto Secondo ci porta alle prigioni, dove il povero Jacopo non si sente affatto bene. Torturato e febbricitante, delira per un po’, crede di vedersi davanti il fantasma minaccioso del defunto Carmagnola in cerca di vendetta, e sviene.

E qui apro una parentesi per un aneddoto: quest’opera l’ho vista una volta soltanto, all’Arcimboldi, un certo numero di anni fa. Il vecchio Foscari era Leo Nucci, il direttore d’orchestra era Muti. Chi fossero gli altri, francamente, l’ho dimenticato. Quel che non dimenticherò facilmente è che il tenore che interpretava Jacopo era troppo sferico per poter cantare altro che in piedi – o forse necessitava di un argano per essere rialzato da terra una volta che ci si fosse steso. Fatto sta che, al momento giusto, una comparsa entrò recando una sedia, in modo che Jacopo potesse “svenirci” sopra. A svenimento concluso, la comparsa ritornò, recuperò la sedia e la portò via. Eh…

Ma torniamo a noi giusto in tempo per vedere Lucrezia che entra nella cella e vede il marito svenuto. Il primo e non del tutto incomprensibile pensiero è che sia morto – ma siamo solo al principio dell’atto secondo, e Jacopo rinviene. Vero è che scambia la moglie per il defunto Carmagnola – ma sono dettagli. Quando è lucido a sufficienza scopre di doversene tornare in esilio e, mentre cerca di trovare qualche consolazione nella promessa di Lucrezia di seguirlo a Creta con i figlioletti, odonsi in lontananza delle voci festanti. giuseppe verdi, anno verdiano, francesco maria piave, i due foscari, byron

È il gondoliero
Che pel liquido sentiero
Provar debbe il suo valor,

spiega Lucrezia.

Jacopo sforna qualche maledizione – ma attenti, chi arriva avvolto in ampio e nero mantello? È il vecchio Francesco, venuto a consolare ed abbracciare un’ultima volta il figlio innocente. Ecco, Jacopo forse si sentirebbe più consolato se il padre non fosse così ansioso di andarsene – perché c’è un limite alla debolezza che il Doge può mostrare…

Ma a tagliar corto il congedo arriva Loredano, membro del Consiglio dei Dieci e nemico giurato dei Foscari, con la notizia che la galea per Creta è ferma in attesa sul primo binario, che Lucrezia ha il più assoluto divieto di seguire il marito, e vogliamo darci una mossa, per favore?

Jacopo e Lucrezia tirano accidenti a Loredano e il Doge li ammonisce severamente: la giustizia di Venezia va rispettata e non ci piove. Loredano gongola – fade to: la sala del Consiglio dei Dieci.

Anche qui c’è un gran parlare della giustizia di Venezia, e una certa impazienza per la partenza di Jacopo che, apprendiamo qui, ha anche ucciso un uomo. Jacopo, portato al cospetto del Doge, si dichiara innocente una volta di più e supplica misericordia…

Segue uno di quei meravigliosi passaggi in ottonari a rima baciata – che vi riporto:

CORO:
Non s’inganna qui la legge,
qui giustizia tutto regge.

DOGE:
Il Consiglio ha giudicato;
parti, o figlio, rassegnato.
(S’alza, tutti lo imitano)

JACOPO:
Mai più dunque ti vedrò?

DOGE:
Forse in cielo, in terra no.

JACOPO:
Ah, che di’? Morir mi sento.

LOREDANO: (ai custodi che gli si pongono al fianco, e si avviano)
Da qui parta sul momento.

giuseppe verdi, anno verdiano, francesco maria piave, i due foscari, byronA interrompere la tempesta di ottonari arriva Lucrezia – irrompitrice di professione – con i due pargoletti al seguito. Suppliche, lacrime, abbracci e, a dirla tutta, persino qualche senatore della Giunta si commuove. Ma non i Dieci e di certo non Loredano. Jacopo viene trascinato via mentre ancora supplica il padre di badare ai figli* – orfanelli a tutti gli effetti pratici – ed è il turno di Lucrezia per svenire.

Sipario.

giuseppe verdi, anno verdiano, francesco maria piave, i due foscari, byronE l’Atto Terzo si apre nell’antica piazzetta di San Marco, in vista di un subisso di gondole che vanno e vengono per il canale, mentre il sole volge all’occaso. Per la cronaca, il sole che volge all’occaso era uno dei tanti e tanti cambiamenti che Verdi aveva chiesto al povero Piave, perché il tramonto del sole è così bello…

E suppongo che avesse in mente le luci, perché al tramonto non accenna nemmeno per sbaglio il coro, gaio, ridanciano e barcarolante fino al momento in cui arriva la giustizia del leon, nella forma del corteo armato che scorta il povero Jacopo alla galea. E allora il coro si zittisce e ritira in buon ordine…

Questo volgo ardir non ha,

commenta sprezzante Loredano. E, considerando come fa esercitare la giustizia, forse non dovrebbe stupirsene… Segue ancora un po’ di mesto congedo fra Lucrezia e il povero Jacopo, che comincia ad accarezzare pensieri luttuosi. Ma Loredano è proprio malvagio oltre ogni dire: nell’ansia del suo odio per i Foscari, sente persino l’esigenza di far tagliare corto l’addio tra i due poveri innamorati che non si vedranno mai più…

Eh. Diciamo che non tutti gli antagonisti verdiani con voce di basso sono pieni di sfumature e di tormenti.

Anyway, Jacopo parte e noi ci trasferiamo nella stanze del Doge, a vederlo tormentarsi. Perché il povero Francesco, dovete sapere, ha già perso quattro figli giovani, e al quinto, superstite e amatissimo, abbiamo visto quel che capita. Il povero padre è intento a maledire il suo dogado quando un senatore non ostile entra con la prova dell’innocenza di Jacopo – quantomeno in fatto di omicidio**. Il tradimento a quanto pare diventa all’improvviso secondario, perché Francesco esulta: il cielo pietoso ha voluto rendergli un figlio! 

O forse no, dopo tutto: Lucrezia arriva a puntino per annunciare che, appena salito sulla galea, Jacopo è morto – presumibilmente di crepacuore.

Basta? No, non basta: Francesco Foscari non la prende troppo bene, ma non ha nemmeno il tempo di abbandonarsi al suo dolore, perché i Dieci vogliono parlargli.

E sapete che cosa vogliono i Dieci, guidati dall’esecrabile Loredano? Nientemeno che l’abdicazione, perché hanno il dubbio che il povero Foscari, rammollito colpito dall’età e dalla morte del figlio, non sia più all’altezza meriti pace e riposo.

Foscari, che in precedenza per ben due volte aveva chiesto invano di abdicare, ed era stato costretto a giurare di morir Doge, rifiuta fieramente dapprima, poi accondiscende in feroce amarezza.

Ma mentre si spoglia dei simboli del potere, odonsi le campane di San Marco.

Ops. Si direbbe proprio che Venezia si sia data un nuovo Doge – senza nemmeno aspettare l’abdicazione del precedente…

È davvero troppo. Senza più figli, senza trono, umiliato e vilipeso, tra la commozione di tutti – tranne uno – Francesco Foscari si abbatte per terra morto.

Pagato ora sono,

esulta l’implacabile Loredano, in mezzo all’inorridito sconcerto generale.

Sipario.

E insomma ecco qui. Verdi era riuscito ad avere il soggetto che voleva, il libretto che voleva, aveva passato il setaccio della censura ed era soddisfatto della musica che aveva composto. Gli piacevano proprio, questi Due Foscari…

E a questo punto sarebbe bello dire che all’Argentina fu un successo, ma… no. I cantanti stonarono, le aspettative del pubblico erano astronomiche, in teatro non si lavorò così bene come si sarebbe potuto.

Se i Foscari non sono del tutto caduti poco è mancato.

Scriveva Verdi all’indomani della prima.

Il fatto si è che l’opera ha fatto mezzo fiasco.

Del che si dispiaceva molto. Poi le cose andarono meglio, e i Foscari, pur non raggiungendo mai la popolarità di un Ernani o di un Nabucco, restarono ragionevolmente apprezzati e rappresentati per tutto l’Ottocento. Poi sparirono un po’ dalle scene, con l’occasionale ripresa e qualche incisione – ad onta della molta predilezione di Verdi, e di tutta la sua puntigliosa preoccupazione per il libretto.

 

 

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* Per la cronaca, è qui che si parla della celebre illagrimata polvere destinata di li a poco a scendere all’avello.

** In realtà, lo Jacopo storico uccise davvero quell’Ermolao Donà – apparentemente in una rissa di strada. Una di quelle cose che va’ a sapere. In compenso aveva davvero corrisposto con il Visconti e, non bastandogli, col Gran Turco. Se poi fosse davvero un traditore o solo uno scervellato, è difficile a dirsi. Di sicuro, qualunque cosa avesse fatto, la pagò cara, con la tortura e la morte in carcere a Creta. Il Francesco storico, meno intransigente di quello letterario, tentò di proteggere il figlio e lo fece anche fuggire una volta, ma non bastò – e mal gliene incolse. Dopo un anno di braccio di ferro con i Dieci, che tra l’altro gli rimprovaravano la debolezza nei confronti del figlio, fu davvero esautorato, e morì pochi giorni dopo.

 

 

 

Giu 10, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: Ernani

Librettitudini Verdiane: Ernani

I Lombardi a Milano erano andati benone, ma quando approdarono alla Fenice di Venezia, l’accoglienza fu molto, molto, molto più tiepida. Nondimeno il conte Mocenigo, direttore del teatro, propose a Verdi un contratto per un’opera.

giuseppe verdi, francesco maria piave, ernani, victor hugoVerdi non disse di no e, con un librettista nuovo, si mise alla ricerca di un soggetto che gli piacesse. Il librettista nuovo era Francesco Maria Piave – del quale avremo modo di riparlare – e la scelta dei due cadde su un dramma storico di Victor Hugo, una vicendona spagnuol-cinquecentesca chiamata Hernani, celebre per avere scatenato a Parigi una furibonda querelle tra classicisti e romantici…

Non doveva essere facilissimo lavorare con Verdi. Le sue lettere al povero, inesperto Piave e al segretario della Fenice che faceva da tramite tra i due, sono estremamente istruttive. Non mi sognerei mai di se(c)care un poeta per fargli cambiare un verso, protesta Verdi, salvo poi tempestare per pagine intere su quel che Piave deve o non deve fare. Le raccomando la brevitànon so capire perché voglia fare un cambiamento di scena nell’atto terzo…. per l’amor di Dio non finisca col Rondò

Per un librettista alle prime armi dovette essere qualcosa a metà strada tra un incubo e un addestramento intensivo, ma è davvero interessante vedere come Verdi fosse attentissimo a ogni piega narrativa e drammaturgica in vista di quel che era praticabile in teatro e musicalmente efficace.

Che cosa uscì da questo passaggio di Piave al tritacarne? 

giuseppe verdi, francesco maria piave, ernani, victor hugoNe uscirono quattro atti truci e un nonnulla gonfi – persino per gli standard operistici… Lasciate che vi racconti.

Atto I – Il Bandito.

Il coro in apertura stavolta è composto di banditi che, in mancanza di meglio, si risollevano il morale col vino e il gioco. Ma quando il loro capo, il giovane Ernani, confida loro che la fanciulla del suo cuore sta per essere costretta a sposare il suo vecchio zio, gli allegri compari come un sol uomo si dichiarano pronti a rapire la nobile Elvira.

Elvira che, nel frattempo, si strugge nel castello dello zio e promesso sposo. Dove, dove, dov’è Ernani? Perché non viene a liberarla? Ha un bel gorgheggiare sulle gioie del matrimonio il coro delle ancelle (e vi pareva che potesse mancare il coro preimeneale?), Elvira è d’umor cupo.

Né è di grande aiuto l’arrivo di Don Carlo– no, non quel Don Carlo. Un altro, seppure imparentato. In fondo siamo soltanto nel 1519, giusto? Questo Don Carlo qui è (per ora) il re di Spagna e, guarda caso, è anche lui innamorato di Elvira. Essendo lui un baritono, però, lei non ne vuole sapere, e accoglie le sue avances strappandogli il pugnale dal fianco e minacciando di uccidere entrambi. Fateci caso: non è l’ultima volta che Elvira fa di queste minacce…

Ma sul più bello chi balza dentro dalla finestra?

Ma Ernani, ovviamente. I due giovanotti* si guardano in cagnesco e se ne dicono quattro. Ernani è bandito e orfano grazie alle tenere cure del predecessore e padre di Don Carlo. Vieni, adunque, disfidoti** o re! Elvira si mette in mezzo e minaccia di pugnalarsi se non la piantano – again. Peccato che Don Carlo provi pietà e qualche simpatia per l’aspirante vendicatore, che ha intenzione di lasciar fuggire. giuseppe verdi, francesco maria piave, ernani, victor hugo

Il che, a voler vedere, leverebbe parecchio vento alle vele e ai febbrili proclami di Ernani, per non parlare dei propositi suicidi di Elvira, but never fear. Giusto per non farci mancare nulla, ecco che arriva anche il vecchio Ruy Gomez da Silva, basso della varietà nobile-ma-tirannica. Sarà l’età, ma Silva non riconosce il nemico pubblico numero uno, e nemmeno – cosa più grave – il suo sovrano. Però s’infuria, non del tutto incomprensibilmente, per la presenza di due baldi giovani nella stanza della sua promessa sposa, e li sfida entrambi a duello.

O li sfiderebbe, se non arrivasse molto a puntino uno scudiero reale a svelare l’identità di Don Carlo. Ops. Mentre Silva si profonde in scuse, il re dimostra di non essersi dimenticato i suoi propositi di misericordia. Con una scusa fa allontanare e fuggire Ernani – che pianta una grana, reitera giuramenti di vendetta nei confronti del re e poco manca che Elvira debba spingerlo tra le quinte per evitare che si faccia decapitare lì dov’è.

Don Carlo dice di volersi consultare con Silva sulle sue chances di ottenere la corona imperiale, il coro rapsodizza sulle virtù dell’augusto giovinotto, Silva comincia masticando amaro e finisce entusiasmandosi per le prospettive del suo sovrano, Elvira lamenta la sua sorte e le ancelle commentano che no, proprio non ci siamo – e cala il sipario.

giuseppe verdi, francesco maria piave, ernani, victor hugoAtto II – L’Ospite

E rieccoci qui, col coro che canta le gioie dell’imminente matrimonio tra Elvira e Silva. Sì, ancora – non fateci caso, o meglio, fatecelo. Le cose in quest’opera tendono a succedere più di una volta.

Per esempio, arriva di nuovo Ernani, in vesti di pellegrino, e di nuovo Silva non lo riconosce. Non si direbbe che essere Grandi di Spagna stimoli granché i neuroni, vero? Ma quel che a Silva manca in fatto di cervello è compensato in senso dell’onore. Quando il pellegrino chiede ospitalità, il nobile veglio gliela promette con la stravaganza di termini che ci aspettiamo in questo genere di circostanza, e già che c’è lo mette a parte del suo imminente imene. Al che Ernani perde un nonnulla la testa, si svela, ci mette tutti a parte del fallimento della sua ribellione (che ne sarà stato degli allegri compari dell’Atto Primo?) ed esorta Silva a consegnarlo al re per ottenerne il favore.

Mille guerrier m’inseguono
Siccome belva i cani…
Sono il bandito Ernani,
Odio me stesso e il dì.

Elvira inorridisce, ma Silva ha promesso ospitalità, ricordate? A lui non importa granché che Ernani voglia morire: è ospite e lo si proteggerà – contro il re, se occorre. E se ne va per andare a predisporre le difese.

Ora, ricordate quel che si diceva sulla saggezza di lasciare da soli soprano e tenore? Dapprima Ernani respinge Elvira che, in fondo, ha colto sul punto di sposare Silva per la seconda volta in due atti. Ma poi lei gli racconta come, credendolo morto, avesse deciso di fingere obbedienza solo per pugnalarsi sull’altare. Again. E a noi viene da chiederci se pugnalarsi nelle sue stanze non fosse abbastanza dimostrativo, ma Ernani va in estasi. E com’è ovvio, nell’istante in cui i due si abbracciano rientra Silva, che giura vendetta. Again. giuseppe verdi, francesco maria piave, ernani, victor hugo

Ma chi è che giunge alla guarnitissima porta di Silva in questo terribile momento? Nessun altro che il re. Again. Ma stavolta il re è all’inseguimento del ribelle sconfitto, e Silva è in un bel pasticcio: deve salvare Ernani – perché ha promesso di farlo e perché se lo consegna poi non può più tagliarlo a striscioline di persona. Così Ernani viene precipitosamente nascosto in una cavità dietro un ritratto – appena in tempo.

Entra Don Carlo, comprensibilmente sospettoso, e piuttosto alterato dopo che Silva ammette di avere il bandito nascosto da qualche parte, ma rifiuta di consegnarlo. Promettendo di stanare le idre della ribellione dai merlati covi col ferro e col fuoco, Don Carlo ordina una perquisizione lampo del castello, e dopo qualcosa come un paio di minuti il coro se ne torna lamentando che, benché del castello si sia esplorata ogni latebra più occulta, Ernani non si trova. Il re non è contento, e finirebbe male se Elvira non arrivasse a supplicare mercede. Supplica per due versi. Due. E Don Carlo cede – non senza decidere di portarsela dietro come ostaggio per la buona fede dello zio.

Silva non è contento, ma che può farci? Tra l’altro non sa che il re ha intenzioni a proposito di Elvira. Questo glielo dice Ernani quando esce da dietro il ritratto, e i due giurano vendetta. Again. Solo che questa volta giurano insieme. Ernani chiede di essere della partita e, siccome Silva non si fida molto di lui, offre in pegno la sua vita. Dà a Silva un corno da suonare nell’istante in cui lo vorrà morto:

Se uno squillo intenderà,
Ernani morirà.

E una volta stipulato questo allegro patto, Silva raccoglie i suoi cavalieri, Ernani i suoi banditi (ah, ecco dov’erano finiti! Non lontano…) e tutti se ne partono invocando sangue e vendetta. Sipario.

giuseppe verdi, francesco maria piave, ernani, victor hugoAtto III – La Clemenza

Siamo ad Aquisgrana, signore e signori, nella cripta dove è sepolto Carlo Magno. Don Carlo si aggira attorno alla tomba del suo role model per a) soprendere i cospiratori che cospirano (e che altro?) contro di lui; b) attendere l’esito della Dieta che deve scegliere il nuovo imperatore; c) rimuginare sulla natura del potere.

E qui Piave inanella tre perle di cui devo mettervi a parte. Che stanno facendo gli Elettori? Ebbene,

Cribrano i diritti cui spetti del mondo la corona…

Ovvero, vagliano chi abbia più diritto alla corona imperiale. E come vuole Don Carlo essere avvisto, casomai spettasse a lui?

Tre volte il bronzo ignivomo
Della gran torre suoni…

E questa potete usarla alle feste, promettendo un premio in caramelle a chi indovina che il bronzo ignivomo è poi solo un cannone. E mentre aspetta le tre cannonate, Don Carlo rimugina e filosofeggia. Che sono mai scettri, dovizie, onori, bellezza e gioventù? Sono, sappiatelo…

Cimbe natanti sovra il mar degli anni.

Ed è meraviglioso sentire Placido Domingo (che era stato impostato come baritono) raccontare di come avesse cantato l’aria in questione a un concorso, pregando non tanto di cantare bene, quanto che nessuno si sognasse di chiedergli che diavolo fossero le cimbe. Ci voleva più di un dizionario comune per scoprire che si tratta di barchette…

Ma non divaghiamo e torniamo alla nostra cripta, dove entrano quatti quatti i cospiratori, con gran sfoggio di parole d’ordine, giuramenti e scambi d’informazioni a beneficio del pubblico. Dopodiché questa gente ammantellata procede ad estrarre a sorte il fortunato regicida – e indovinate a chi tocca? A Ernani, si capisce. Silva cerca di farsi cedere il biglietto vincente, ma figurarsi se Ernani si lascia sfuggire l’occasione di vendicare il babbo defunto.

Ma… è un bronzo ignivomo quello che sento tuonare in lontananza – una, due e poi tre volte? Ebbene sì. Don Carlo si palesa per lo sgomento generale, solo che non è più Don Carlo. Adesso è… Carlo Quinto!*** giuseppe verdi, francesco maria piave, ernani, victor hugo

Entrano elettori, cavalieri e dame (Elvira compresa), e ormai è un po’ tardi per fare alcunché. I cospiratori sono arrestati e divisi: conti, duchi e grandi in generale sono condananti a morte. Ed è qui che apprendiamo che Ernani non si chiama affatto Ernani. Siccome un’opera non è un opera senza almeno un’agnizione, si scopre che il giovanotto è in realtà Don Giovanni d’Aragona – e quindi può morire con i suoi pari.

Ma non dimentichiamoci di Elvira, per favore. Elvira si getta ai piedi del re – no, pardon: dell’imperatore e supplica. Again. Carlo Quinto esita un filo di più dell’ultima volta, ma non molto. Dopo tutto vuole essere un sovrano virtuoso, e che c’è di meglio che cominciare con un atto di clemenza? Tutti graziati, tutti salvi e, per buona misura, che Ernani ed Elvira convolino a giuste nozze. Tutti esultano – tranne, non del tutto incomprensibilmente, lo scornato Silva. E sipario.

Atto IV – La Maschera

Ci siamo spostati a Saragozza, nel castello di Don Giovanni d’Aragona. Il coro giubila in vista del matrimonio… again. Quel che cambia è che stavolta lo sposo dev’essere Don Giovanni, e che a gettare un’ombra sulla canora letizia del coro si aggira un uomo intabarrato e mascherato di nero. Chi credete che sia?

Ma intanto Elvira e l’ex Ernani si compiacciono delle loro mutate circostanze e dell’imminente imene… non l’hanno ancora imparato che in quest’opera le nozze non vanno a buon fine? E infatti, mentre tubano, s’ode un lontano suon di corno.

Ve lo ricordate, il corno? Ernani/Don Giovanni sì, e allontana con una scusa la perplessa Elvira. Entra Silva paludato di nero, con il corno, una coppa di veleno e un pugnale. E l’ex Ernani… avreste detto che si gettasse ad adempiere al suo giuramento con l’impeto dissennato che ha dimostrato per tre atti? Be’, no: l’ex Ernani esita, vacilla, rilutta e tergiversa. Oh, per favore, è stato tanto infelice per tutta la vita e adesso gli si dischiudono le porte della gioia… non potrebbe Silva, almeno, ripassare domattina?

giuseppe verdi, francesco maria piave, ernani, victor hugoMa no, Silva è implacabile. Nemmeno il ritorno di Elvira, questa supplicatrice professionista, lo smuove di un soffio. Anzi: è proprio perché Elvira lo ama che l’ex Ernani deve morire… E insomma, un gentiluomo spagnuolo non può sottrarsi ai dettami dell’onore. Il giovinotto affera il pugnale e procede all’atto sanguinoso. Poi canta ancora per un po’**** per dissuadere Elvira, che vuole pugnalarsi. Again. E poi, avendo fatto tutto quello che un tenore deve fare, Ernani muore tra le braccia della sua sventurata fanciulla. Silva si compiace, Elvira sviene. Fine.

Successone, applausi, chiamate. E altrettanto a Milano e poi a Parma – dove si allungò il terzo atto a beneficio del tenore russo Nicolai Ivanov. E successo fu dovunque Ernani arrivasse – ma sapete chi non apprezzò affatto? Victor Hugo che, avendo concluso il suo dramma con il triplice suicidio di Hernani, Doña Sol (Elvira) e Don Ruy Gomez (Silva) trovava il finale sciaguratamente annacquato…

 

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* Se, stando a Hugo, Ernani ha vent’anni, Don Carlo ne ha 19 stando ai libri di storia.

** Disfidoti. No, davvero. Un giorno ci chiamerò un gatto…

*** Non ve l’avevo detto che era parente dell’altro Don Carlo?

**** “Si vede che non si è mica preso il polmone,” commentò in dialetto romagnolo il mio anziano vicino di posto, a Vigoleno di Verlasca.

Giu 3, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: I Lombardi

Librettitudini Verdiane: I Lombardi

…alla Prima Crociata.

Se già quello del Nabu(c)co(donosor) era considerato un titolo tipograficamente lungo, figuratevi questo…

giuseppe verdi, temistocle solera, i lombardi alla prima crociata, tommaso grossiE il libretto era di nuovo di Temistocle Solera.

Ci si trovava bene, Verdi con Solera – figlio di un magistrato imprigionato allo Spielberg, educato a Vienna, fuggito da scuola per unirsi a una troupe di funamboli tzigani*, poeta, musicista, impresario teatrale, antiquario, neoguelfo, agente segreto, riorganizzatore di polizia in Egitto** e, soprattutto, librettista.

E Solera aveva occhio. Dopo il Nabucco aveva saccheggiato un poema epico di Tommaso Grossi – I Lombardi alla Prima Crociata. Grossi, vedete, era un poeta e romanziere occasionale, che intendeva scrivere una nuova Gerusalemme Liberata – solo più aggiornata e scorrevole. Francamente non saprei dire se i Lombardi fossero più scorrevoli e aggiornati della Gerusalemme, ma di sicuro furono un bestseller. Oggi ci si caverebbe un film, nel 1843 ne fecero un dramma e poi un’opera. 

Un’opera piena di ammenicoli religiosi: non solo la crociata del titolo, ma anche un subisso di preghiere e processioni, nonché un battesimo. Tanto che furono le autorità religiose a richiedere l’intervento della censura… Avremo modo di riparlare di Verdi&censura – ma con i Lombardi andò bene. Quando già Solera e Verdi cominciavano a sudare freddo, il capo della polizia in persona richiese perentoriamente una sola modifica al primo atto: l’Ave Maria in teatro non si poteva cantare. Prima che Verdi, feroce anticlericale, potesse inalberarsi, Solera parafrasò la preghiera in un capolavoro di diplomatica bizantineria che dimostra come, a volte, non ci volesse poi moltissimo a danzare attorno alla censura… 

Ma, Ave Maria a parte, che genere di storia avevano messo insieme Grossi e Solera? Vediamo un po’.

giuseppe verdi, temistocle solera, i lombardi alla prima crociata, tommaso grossiL’Atto Primo si apre con il consueto coro che, questa volta, funge anche da espositore. Siamo nel Duomo di Milano nel 1097, e apprendiamo che il nobile Arvino (incidentalmente il capo designato dei crociati lombardi) è occupato a perdonare in tutta solennità il fratello Pagano, esiliato a lungo per avere cercato di uccidere il fratello per i begli occhi di Viclinda. Adesso che Viclinda è moglie di Arvino e che gli anni sono passati, Pagano si dichiara pentito e rientra a Milano.

Non è che il coro si fidi molto – e a dire il vero non ha tutti i torti. Pagano non perde tempo a confidarsi con il suo bieco scudiero Pirro: altro che perdono! Lui (Pagano) era un bravo ragazzo, ma respingendolo Viclinda ha fatto di lui una bestiaccia*** e adesso che tutti ne paghino le conseguenze. Pirro la prende allegramente, e promette sangue insieme a un’allegra combriccola di sicari che imperterriti, tacenti, d’un sol colpo in paradiso l’alme altrui godon mandar… 

Ma qualcosa va storto. Mentre Viclinda e la figlia Giselda, che si sentono ancor l’anima tutta tremante, fan voto di andare pellegrine a Gerusalemme se nulla di brutto accade ad Arvino, Pagano e Pirro irrompono, incendiano e assassinano – e tentano di rapire la scalpitante e presumibilmente vedovata Viclinda. Ma Arvino appare a difendere la sposa… 

E allora chi è che è morto sotto il pugnale di Pagano?

Ma Folco, il vecchio padre di Pagano e Arvino!

Ops…

Arvino, Viclinda e i coro maledicono il parricida – che si maledice anché da sé, e non avrebbe obiezioni a lasciarsi uccidere dal fratello. Ma Giselda intercede, e il coro conviene che una vita di rimorso è una punizione peggiore della morte…

Sipario. giuseppe verdi, temistocle solera, i lombardi alla prima crociata, tommaso grossi

L’Atto Secondo si sposta nel palazzo di Antiochia, dove il tiranno Acciano e i suoi lamentano l’arrivo dei ferocissimi crociati guidati da Arvino. Intanto il principe Oronte spasima per una bella prigioniera cristiana che, la sua criptocristiana madre Sofia lo (e ci) informa, è disposta a ricambiare il suo puro affetto solo se lui si converte. E adesso? Dosi massicce di conflitto interiore? Macché: lo sappiamo tutti come sono i tenori… Apparentemente, la bella prigioniera val bene una messa…

Ma spostiamoci per un attimo nella caverna un santo eremita vive in solitudine e in attesa dei crociati, cui vuole unirsi per cercare riscatto ai suoi peccati. Noi, che ne sappiamo più della maggior parte dei personaggi perché abbiamo letto il libretto, sappiamo benissimo che il santo veglio è Pagano – ma Pirro non lo sa. Ricordate Pirro, che era così disinvolto in fatto di omicidi? Ebbene, si direbbe che abbia avuto anche lui una crisi di coscienza, e così si è fatto musulmano, diventando il custode della porta di Antiochia. Però adesso preferirebbe riscattarsi anche lui. Ottimo, dice l’eremita, che ha riconosciuto il suo ex scudiero – e non ne è stato riconosciuto a sua volta: perché non apri le porte della città ai crociati?

Neanche Pirro – che pure è un basso – ha molto spazio per i dubbi nella sua composizione: senza nemmeno domandarsi se sia bello tradire la gente che lo ha accolto a beneficio della gente che ha a suo tempo tradito, abbraccia il piano. E bisogna dire che Pagano sia molto cambiato, perché nemmeno Arvino, arrivando molto opportunamente a ricevere notizia della breccia nella sicurezza di Antiochia, lo riconosce affatto. Ah, i prodigi di una barba di stoppa e un po’ di cerone…

giuseppe verdi, temistocle solera, i lombardi alla prima crociata, tommaso grossiSe sapessero che i crociati sono in arrivo, forse le ancelle dell’harem di Acciano perderebbero meno tempo e meno fiato a dileggiare la bella straniera che ha fatto innamorare il principe Oronte eppure sospira notte e dì. E chi può mai essere la bella straniera, se non Giselda – che evidentemente in pellegrinaggio c’era andata davvero, ha perso la madre, è stata fatta prigioniera e si è innamorata (orror!) di un nemico e di un infedele?

E Giselda dovrebbe essere contenta dell’arrivo dei crociati, giusto? Dopo tutto sono i suoi, dopo tutto vengono a liberarla… ma no. Quando Sofia le annuncia che Oronte è morto in battaglia, la nostra fanciulla prorompe in maledizioni. Ora: è uno dei misteri buffi dell’opera quello per cui la gente non sente quel che viene cantato a mezzo metro di distanza, ma arriva dall’altro capo di Antiochia/un continente/l’orbe terracqueo giusto in tempo per udire quel che non dovrebbe. E così Arvino entra, ode, inorridisce, maledice la figliuola ritrovata – e l’ucciderebbe sui due piedi, se non intervenisse l’eremita, sant’uomo, pieno di simpatia per gli eccessi che amore&dolore dettano a Giselda.

Essì, i soprani ne passano di tempo a farsi rinnegare e disconoscere per amore… ma sipario. giuseppe verdi, temistocle solera, i lombardi alla prima crociata, tommaso grossi

Comincia l’Atto Terzo, e ci siamo spostati nella Valle di Giosafat, in vista (lontana) di Gerusalemme. Qui i crociati seguitano ad avanzare, ma Giselda non è felice, e così è uscita per una passeggiatina ristoratrice nel deserto – dove trova… indovinate un po’? Oronte! Travestito da cavaliere lombardo! Oh giusto ciel!

Ma non era morto? E no, era solo ferito e adesso, braccato e malconcio, vuol solo rivedere Giselda e poi morire. Sennonché, non bisogna mai sottovalutare il cuore di un soprano: Giselda è pronta a fuggire con lui – ovunque e comunque. Due cuori e una caverna. E un corsiero arabo per la fuga.

Arvino arriva troppo tardi per fermarli e ri-maledice la figlia. Un’altra volta. E già che c’è, ri-maledice anche il fratello che, qualcuno lo informa, è stato visto aggirarsi per il campo cristiano…

Possibile, ci chiediamo noi, che nessuno abbia capito che Pagano è l’eremita e l’eremita è pagano? Possibilissimo: siamo all’opera, ricordate?

Cosicché non ci stupiamo poi troppo nemmeno quando Giselda barcolla in una grotta in riva al Giordano sorreggendo Oronte ferito**** e ci trova di nuovo l’eremita, pronto a convertire in articulo mortis il giovanotto – che poi muore, cristiano e felice, tra le braccia della sua fanciulla.

Disperazione, lacrime a fiotti, conforti religiosi, sipario.

giuseppe verdi, temistocle solera, i lombardi alla prima crociata, tommaso grossiEd ecco l’Atto Quarto. Giselda, non incomprensibilmente, non ha preso benissimo la dipartita di Oronte, e ha somatizzato in un febbrone da cavallo. Tanto che Arvino, convocato dall’eremita, si commuove e pente di avela maledetta. Tanto più che poi Giselda vede in sogno Oronte, che le svela dove trovare l’acqua per dissetare i Lombardi che, attorno a Gerusalemme, stanno morendo di sete.

E mentre muoiono di sete, cantano O Signore dal Tetto Natio, il coro più celebre dell’opera – con cui, secondo me, Verdi&Solera speravano di ripetere lo hit del Va Pensiero… Ma mentre lamentano la lontananza da casa e l’abbattimento dello spirito, ecco Arvino, Giselda e l’eremita, ad annunciare l’impresa rabdomantica: acqua! Acqua! Acqua!

E non è che i Lombardi bevano, ma l’idea dell’umidità basta a rianimarli e spingerli in battaglia – e fuori scena.

E si direbbe che vincano, perché nell’ultima scena, dopo lungo rumore di battaglia, rientrano trionfanti. Oddìo, forse un po’ meno trionfanti di quanto potrebbero essere, perché l’eremita è ferito, e tutti se ne dolgono assai. Persino quando il moribondo si svela, tutti restano commossi oltre ogni dire. Persino Arvino, di fronte a tanto pentimento e a tanto riscatto, si scioglie. Cosicché Pagano redento può morire beato tra le braccia del fratello e della nipote, mentre i Lombardi eponimi celebrano la vittoria e la presa di Gerusalemme.

E, per l’ultima volta, sipario.

 

___________________________

* No, davvero…

** No, davvero.

*** Suona familiare? Abigaille, anyone? E non è l’ultima volta che sentiamo questo genere di giustificazione.

**** È ancora la ferita della battaglia che si è aggravata? O una nuova raccattata durante la fuga? Buona domanda.

Mag 27, 2013 - Anno Verdiano, musica    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: Nabucco

Librettitudini Verdiane: Nabucco

Ricordate? Dopo il disastro di Un Giorno di Regno, il Giovane Verdi aveva fatto tempestoso voto di non comporre mai più. L’opera, aveva detto a Gaetano Merelli, non era la sua strada…

Merelli, il direttore della Scala, per un po’ lo lasciò dire. Forse aspettava di avere in mano il libretto giusto. E il libretto giusto arrivò nella forma di Nabucodonosor, che Temistocle Solera (quello dell’Oberto) aveva scritto a partire da un intricatissimo dramma francese e dall’argomento del balletto che ne era stato tratto.

giuseppe verdi, temistocle solera, nabuccoSì, il balletto: personaggi ridotti in numero e semplificati in carattere, trama sfrondata e resa più lineare… quel che ci voleva per l’opera. E Solera (una volta o l’altra parleremo anche di lui) era un buon verseggiatore, capace di graziosi nonnulla da salotto come di una certa grandiosità facile e martellante. Il libretto, insomma, funzionava – ma Verdi non voleva nemmeno dargli un’occhiata per accertarsene, perché con l’opera aveva chiuso. Merelli, che non era tipo da prendere no come risposta, glielo cacciò in mano lo stesso, e il compositore se ne andò stizzito e depresso. Una volta a casa, se stiamo a sentir lui, in depressione e stizza scaraventa il manoscritto sul tavolo, e quello si apre a una pagina che comincia con un certo verso:

Va, pensiero, sull’ali dorate…

Verdi legge tutta la parafrasi biblica verseggiata per coro, e ne riporta, parole sue, una grande impressione. Doppdiché si mette a letto con l’intento di dimenticare tutto – ma non c’è verso. Le parole di Solera lo tormentano e lo tengono sveglio. Si alza una volta, due, tre, e ogni volta legge e rilegge il libretto. L’indomani, prima che i suoi ferrei propositi comincino a scricchiolare troppo, si affretta a restituire il manoscritto.

“Bello, eh?” dice Merelli, con un sorriso sornione.
“Bellissimo.”
“Eh! Dunque mettilo in musica.”
“Neanche per sogno,” protesta Verdi. “Non ne voglio sapere.”
“Mettilo in musica, mettilo in musica!” e Merelli spinge Verdi fuori dalla porta con il manoscritto in tasca.

E che potevo fare? domanda Verdi, nel raccontare tanti anni dopo l’episodio a Giulio Ricordi. Oddìo, tante cose, a ben vedere. Per esempio, lasciare il Nabucodonosor sul primo tavolino e non pensarci più. Invece se lo porta a casa e… un giorno un verso, un giorno l’altro, una nota una volta, un’altra volta una frase, a poco a poco l’opera fu composta.

E non so se la gente di teatro vada mai presa del tutto sul serio quando racconta di genesi, miracoli e folgorazioni, ma fatto sta che il 9 marzo del 1842, a fine stagione, Nabucodonosor debuttò alla Scala e, nonostante i costumi riciclati dal famoso balletto, nonostante una Strepponi in crisi di salute e d’ugola, fu un successo travolgente.giuseppe verdi, temistocle solera, nabucco

Di che si trattava? Be’, di una disinvolta rivisitazione di vicende bibliche. 

Siamo nel VI Secolo avanti Cristo, e gli Assiri hanno appena amministrato una sonora sconfitta alle truppe israelite. Il coro che apre le danze, per una volta, non è intento a gioire di un matrimonio imminente… anzi. Leviti & Vergini se ne stanno rifugiati nel tempio in tremante attesa, perché

Di barbare schiere l’atroce ululato
Nel santo delùbro del Nume tuonò!

Entra Zaccaria, Gran Pontefice degli Ebrei e basso profondo, ed esorta il suo popolo ad avere fede. Dopo tutto, Dio li ha sempre guidati e protetti, giusto? Non guasta poi il fatto che Zaccaria abbia convenientemente sottomano Fenena, soprano e principessa assira: l’ostaggio perfetto. Che se ne occupi Ismaele, comandante e nipote del re Sedecia, mentre Zaccaria & C. se ne vanno per un ultima resistenza contro gli Assiri.

E adesso, dite la verità: vi sembra saggio affidare il soprano alla custodia del tenore?* Nel giro di pochi versi biecamente espositivi, scopriamo che Ismaele e Fenena s’amano di tenero affetto dacché lei a Babilonia lo liberò dopo una missione diplomatica andata male – nonostante la feroce gelosia della sorella di lei, Abigaille, una specie di ur-stalker in abiti regali.

E naturalmente, parli del diavolo e… chi deve arrivare a bloccare gli innamorati fuggitivi? Ma Abigaille, si capisce, come principessa guerriera alla testa di un commando di Assiri celati in ebraiche vesti. Segue una scena un po’ confusa, in cui Abigaille si dichiara disposta a salvare gli Israeliti se Ismaele le cede, Ismaele rifiuta e Fenena, per nessuna ragione in particolare, sente pruderle in cuore l’impulso di convertirsi alla fede nel Dio verace d’Israello.

Rientrano Zaccaria e gli Israeliti, che tentavano, ricordate? di fermare Nabucodonosor e non ci sono riusciti. Ma se cercavano rifiuto nel tempio, una brutta sorpresa li accoglie, nella forma di Abigaille e nei suoi.

Chi passo agli empi apriva?

s’infuria Zaccaria. E Ismaele, invece di starsene zitto, si lagna del fatto che sono entrati sotto mentite spoglie. Oh, i tenori!

giuseppe verdi, temistocle solera, nabuccoMa irrompe Nabucodonosor alla testa dei suoi Assiro-Babilonesi, e Zaccaria afferra Fenena e le punta un coltello alla gola in una di quelle situazioni-ostaggio…** Tutti supplicano Nabucodonosor di avere pietà  – tranne la ferocissima Abigaille che, se la sorellina morisse a questo punto, saprebbe farsene una ragione. Chi rompe l’impasse è il consueto Ismaele, che libera Fenena – senza pensare che questo consente a Nabucodonosor di decretare strage, saccheggio e distruzione senza più remore.

Non incomprensibilmente, Zaccaria e compagnia cantante maledicono il giovinotto, e finisce l’atto primo.

Il secondo atto, che s’intitola L’Empio (mentre il primo era Gerusalemme), si svolge a Babilonia e comincia con Abigaille che legge una pergamena sottratta al padre. Ora tutti sappiamo che le pergamene nascoste andrebbero lasciate dove sono… sennò si rischia di scoprire di non essere principesse affatto, ma schiave adottate*** e, come tali destinate ad essere escluse dalla successione. Con l’equivalente musicale della schiuma alla bocca, Abigaille promette vendetta indistinta a sorella, padre, regno di Babilonia, Israele… E dire che ero una cara ragazza, si duole, prima di essere rifiutata da Ismaele e scoprirmi illegittima!

Ed ecco che, con tempismo perfetto, giunge il Gran Sacerdote di Belo (che sarebbe poi Baal), indignato perché Fenena, reggente in assenza del padre, sta liberando gli Ebrei. Perché non spargiamo la voce che il re è morto in battaglia e proclamiamo te regina? Abigaille non se lo fa ripetere due volte. giuseppe verdi, temistocle solera, nabucco

Salgo già del trono aurato
Lo sgabello insanguinato,

proclama, e si avvia per mettere in atto il suo simpatico piccolo coup.

Segue ancora una certa quantità di confusione: Zaccaria, deportato insieme al resto degli Israeliti, si prepara a solennizzare la conversione di Fenena, e quando i leviti tentano di cacciare Ismaele, ammette che dopo tutto il ragazzo ha qualche merito nella conversione – al confronto della quale, ci si lascia capire, un duplice tradimento perde molta della sua gravità.

Ma la commovente riunione è interrotta da Abigaille con i suoi golpisti. Le due sorelle si accapigliano un po’ per la corona ma – colpo di scena nel colpo di stato! – piomba su di loro Nabucodonosor, che non solo non è affatto morto (cosa che noi sapevamo), ma si proclama dio.

Zaccaria, ce lo potevamo immaginare, non è contento e contesta l’autopromozione. Il neodivino re di Babilonia decreta la morte per tutti gli Ebrei – cui si unisce la convertita Fenena.

Nabucodonosor pesta i piedi, strattona la figlia, si dichiara un’altra volta dio e… un fulmine lo colpisce, strappandogli dal capo la corona che si era appena rimesso. E fisicamente sta abbastanza bene, considerando – ma diventa subito chiaro che gli si è fritto il ben dell’intelletto.

Zaccaria gongola cupamente, ma farebbe meglio a preoccuparsi di Abigaille, che si affretta a proclamarsi regina. E dopo questa grandinata di colpi di scena, sipario!

Whew.

giuseppe verdi, temistocle solera, nabucco

Parte terza – La Profezia. Abigaille siede in trono nei celebri orti pensili, sviolinata dal coro e fingendosi riluttante a firmare la condanna a morte della sorellastra. Entra Nabucodonosor, vaneggiante ma non troppo. Tra uno sprazzo di lucidità e l’altro, Abigaille riesce a fargli condannare tutti gli Ebrei. Tutti, capite? Troppo tardi l’ex re si rende conto che quel “tutti” comprende anche Fenena. Cerca di revocare l’ordine, di intimidire Abigaille rinfacciandole le sue origini – ma noi sappiamo chi ha la pergamena. Abigaille la fa a pezzettini davanti agli occhi inorriditi di quello che non è affatto suo padre. E se Nabucodonosor crede d’intenerirla supplicandola di risparmiare il suo cuore di padre, mi sa tanto che abbia sbagliato i suoi calcoli in una maniera epica.

Ed è a questo punto che, sulle rive dell’Eufrate, il coro degl Ebrei esorta il pensiero ad andare sulle ali dorate, a posarsi sui clivi e sui colli dove olezzano tepide e molli l’aure dolci del suolo natal, eccetera eccetera.

E sapete? Checché se ne pensi da centosettantuno anni a questa parte, a Zaccaria il Va Pensiero non piace nemmeno un po’. Che si riscuotano, anziché fissare le arpe appese ai salici!

O qual foco nel veglio balena!

E la parte terza si chiude con gli Ebrei decisi a rompere l’indegna catena. Sipario.

giuseppe verdi, temistocle solera, nabuccoLa parte quarta, L’Idolo Infranto, comincia con Nabucodonosor svegliato dalle grida che preludono all’esecuzione di Fenena. Deciso a salvarla, prega il dio degli Ebrei e così riacquista la ragione – oppure riacquista la ragione e si rivolge al dio degli Ebrei. Non è chiaro. Ad ogni modo,

Rischiarata è l’egra mente,

e i soldati rimasti fedeli sono fin troppo felici di aiutarlo a riprendersi il soglio. Fade to gli orti pensili. E adesso io non so quale fosse il concetto ebraico di rompere l’indegna catena, ma quel che succede è che Fenena va al macello e Zaccaria la sollecita ad affrettarsi al martirio e al cielo…

Ma irrompe Nabucodonosor risanato, che ferma l’esecuzione, fa abbattere la statua di Belo, libera gli Ebrei, promette un nuovo tempio, annuncia la sua conversione, informa tutti quanti che Abigaille ha perso la testa e si è avvelenata**** e tutto va bene.

Mentre tutti esultano, entra Abigaille, avvelenata, pentita, implorante perdono, ansiosa di ricongiungere Fenena e Ismaele (il quale, ci avete badato? non canta una nota tutta sua dalla metà della parte seconda)…

Or chi mi toglie… al ferreo
Pondo del… mio… delitto?

Singulta la poveretta – e tutti quei puntini Solera li mette per indicare che Abigaille non sta affatto bene. Ed essendo questa l’opera che è, anche lei trova conforto ultimo nel convertirsi un istante prima di cadere con due punti esclamativi e altri tre puntini di sospensione.

Spirò…

costatano tutti, con l’aria generale di chi se ne fa una ragione.  giuseppe verdi, temistocle solera, nabucco

Zaccaria rende la corona a Nabucodonosor, perché adesso sì che è un re degno del nome.

Sipario.

E che volete mai? Il finale del dramma è, se possibile anche peggiore, con Abigaille che fa uccidere Fenena, Nabucodonosor che accoltella Abigaille e poi piange, si pente e si converte – e allora un raggio celeste resuscita Fenena per il gaudio generale…

Ma fa nulla. La cosa rilevante è che alla stagione successiva il Nabucodonosor – ribattezzato Nabucco perché il pubblico aveva adottato con entusiasmo la versione apocopata richiesta dalle dimensioni delle locandine – raggiunse il record di cinquantasette repliche consecutive.

E Verdi, dopo tutto, non era più così sicuro che l’opera non fosse la sua strada.

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* Scopriremo, con l’andar delle settimane, che il tenore medio, quali che siano il suo grado, la sua clearance, i suoi legami famigliari, la responsabilità di cui è investito, non spende mai un singolo pensiero prima di tradire patria, amici, famiglia, esercito, missione di una vita e chi più ne ha più ne metta – basta che il soprano gli si pari davanti.

** Nel dramma francese era un Assiro che cercava di uccidere Ismaele, e Fenena lo salvava. Solera rimescola le carte.

*** Evidentemente una figlia adulterina (come nel dramma) doveva sembrare indigesta per un pubblico d’opera…

**** Nella mia edizione Ricordi del libretto, la sinossi c’informa invece che Abigaille il veleno l’ha bevuto per sbaglio. Affascinante.

Mag 20, 2013 - Anno Verdiano, musica    12 Comments

Librettitudini Verdiane: Un Giorno Di Regno

giuseppe verdi, felice romani, un giorno di regno, teatro alla scalaRicordate Oberto? Ebbene, Oberto fu un considerevole successo, tale da valere al suo autore un contratto per altre tre opere.

La prima doveva essere, dopo la storiellona medieval-veneta dell’Oberto, una storiellona medieval-scozzese chiamata Il Proscritto. Non è che a Verdi il libretto piacesse alla follia, ma ebbe modo di rimpiangerlo quando, del tutto fuori dal blu, il direttore della Scala Brtolomeo Merelli se ne uscì con un contrordine e quattro alternative: dopo tutto, pensandoci bene, voleva un’opera buffa. E casualmente aveva sottomano quattro libretti buffi del celeberrimo Felice Romani. 

Ora, dovete capire: Verdi, uomo d’umore poco lieto per natura, si era fatto addirittura lugubre dopo avere perduto due bambini piccoli e la giovane moglie in rapida successione. L’idea di scrivere un’opera buffa non lo allettava nemmeno da lontano, e dei libretti non ce n’era uno che gli piacesse… E tuttavia, la Scala era la Scala, il contratto era un contratto, e i tempi erano strettini anzichenò. Nella necessità di scegliere il meno peggio, il povero Verdi si rassegnò a Un Giorno di Regno – ovvero Il Finto Stanislao che, già dal titolo, si rivelava per un relitto di un’altra epoca.* 

E in effetti, UGdR il buon Romani ce l’aveva pronto dal 1818 e, lui che era stato il librettista di Rossini, Donizetti e Mayr tra molti altri, non si disturbò certo a rinfrescarlo per questo compositore semisconosciuto. Potete immaginare che l’opera non nascesse proprio sotto i migliori auspici. Lontano dal suo genere e assai poco in vena, Verdi la compose distrattamente, rifacendosi a Rossini e Donizetti a piene mani. Il risultato, discontinuo dal punto di vista musicale e zoppicante sul lato drammatico, debuttò alla Scala agli inizi di settembre del ’40, con un cast svogliato, un’orchestra incerta e un pubblico scettico.

E che storia si ritrovò davanti questo pubblico scettico?

Vediamo un po: quando il sipario si alza, ci ritroviamo ad ascoltare un coro che rapsodizza sulle nozze imminenti al castello… dite che suona familiare?

No, fermi – aspettate. Non è di nuovo l’Oberto. Vero: è un’altra faccenda di matrimoni imminenti, mentite spoglie, giuramenti traditi, innamorati divisi, regnanti longanimi e paraninfi, padri decisi a vendicare in duello l’onore delle figliuole rifiutate… solo che qui è tutto in chiave buffa e, per quanto gli ingredienti possano sembrare gli stessi, le cose non sono quel che sembrano.

Per esempio, il coro di camerieri e vassalli è di animo più prosaico, e si compiace dei doppi sponsali in vista sì della gloria del casato, ma ancora di più per le mance che i servitori possono aspettarsi e l’abbondanza culinaria in arrivo.

Perché, vedete, al bretone Barone di Kelbar non par vero di maritare la figlia Giulietta al ricchissimo Tesoriere reale e, nel contempo, la nipote vedova al Conte d’Ivrea, comandante della piazza di Brest – il tutto sotto la benevola egida di Stanislao, re di Polonia in esilio. giuseppe verdi, felice romani, un giorno di regno, teatro alla scala

Ma noi sappiamo dal sottotitolo che qualcosa non va proprio come il Barone crede – e in effetti, al primo aside, il baritono quasi eponimo provvede ad informarci** di essere in realtà uno scapestrato giovane ufficiale, incaricato di lasciar credere a tutti che il Re di Polonia se ne stia quieto e inoffensivo in Bretagna. In realtà, Stanislao è segretamente in viaggio per Varsavia per reclamare il suo trono, ma questo nessuno lo deve sapere, e così il finto Re/Cavalier Belfiore deve mantenere la finzione ad ogni costo. 

I guai cominciano subito, nella forma della seconda sposa imminente: si dà il caso che la nipote del Barone sia la Marchesa del Poggio, l’innamorata di Belfiore. Il nostro eroe si affretta a scrivere a corte, chiedendo di essere rimosso dall’incarico, se possibile, prima che la Marchesa arrivi e lo scopra… Ma è raro che all’opera qualcuno arrivi a scrivere una lettera in pace, e infatti enter Edoardo di Sanval che è: a)un giovane ufficiale squattrinato; b)l’innamorato di Giulietta; c)il nipote del Tesoriere. 

Stanislao poteva non sapere chi fosse la nipote del suo ospite ma, senza che nessuno glielo dica, è informatissimo dei tristi casi di Edoardo, di cui sposa la causa senza un filo di esitazione. E quando il nostro tenorino chiede di poter seguire il Re in Polonia per annegare nel sangue e nell’alloro le sue pene d’amore, Belfiore lo prende come scudiero, e risolve privatamente di approfittare del suo giorno di regno per far trionfare l’amore sul vile calcolo mercenario.

Arriva poi la Marchesa, che riconosce il Cavaliere (di cui, presumiamo senza che il libretto sia molto chiaro in proposito, non aveva notizie dacché aveva intrapreso la sua missione segreta) e decide di metterlo alla prova fingendo di accettare le nozze con l’anziano comandante di Brest. 

Poi, con un altro passaggio limitatamente logico, ci ritroviamo in giardino, ad ascoltare Giulietta che apre il suo cuore a beneficio di un coro di contadinelle e servette, e poi si dichiara d’umor malinconico in presenza del padre e dello sgradevole fidanzato… ma niente paura, Giulietta: giunge infatti il Re con il suo nuovo scudiero. Fingendo di richiedere l’opinione del Barone e del Tesoriere su questioni di politica polacca, Belfiore fa in modo da lasciare Edoardo in compagnia di Giulietta. Gl’innamorati cinguettano, i consiglieri consigliano – fino all’ingresso della Marchesa, che si stupisce di trovare Belfiore riverito come Re di Polonia e pieno di (finta) indifferenza nei suoi confronti. 

Cosicché, rimasta sola con Edoardo e Giulietta, la povera e frastornata Marchesa fatica alquanto a concentrarsi sui loro casi. E assicura sì il suo aiuto ai due giovani, ma è chiaro che ha altro per la testa.

Più promettente sembra il piano di Belfiore che, fingendosi colpito dall’acume politico del Tesoriere, gli offre un ministero, un titolo, terre, la mano di una principessa – tutto in Polonia, e a patto che rompa il fidanzamento con Giulietta. Il Tesoriere accetta al volo ma, inutile dirlo, il Barone è men che elettrizzato dalla rottura del cogiuseppe verdi, felice romani, un giorno di regno, teatro alla scalantratto matrimoniale. La faccenda degenererebbe in una sfida a duello, se non intervenissero Edoardo e le due donne. La Marchesa suggerisce di vendicarsi dell’affronto dando subito in sposa Giulietta a un altro – magari proprio il nipote del tesoriere che, guarda caso, è proprio sottomano… Ma ormai lo sappiamo come sono i padri di sangue blu, vero? Il Barone non intende farsi sottrarre la sua vendetta. Ci vuole l’intervento del finto sovrano per placare le acque – almeno per il tempo dell’intervallo.

L’atto secondo si apre con un coro perplesso, un Edoardo speranzoso e un Tesoriere e una Giulietta che cercano il consiglio del Re. Come convincere il Barone a dare la figlia in sposa a Edoardo – che, a parte tutto, è uno spiantato? Facilissimo, spiega Belfiore. Basterà che il Tesoriere ceda al nipote un castello e una rendita. Il sacrificio è grosso e il Tesoriere nicchia, ma poi chiude gli occhi e pensa alla Polonia -e questa faccenda sembrerebbe sistemata – se non fosse che al Barone, proibizione regia o meno, interessa assai meno delle sostanze di Edoardo che della macchia sul suo onore. Suona familiare? Però qui siamo in territorio buffo, e il Tesoriere se la cava pretendendo un duello a colpi di barile di polvere da sparo. Il Barone s’infuria, ritira la sfida e promette una buona  bastonatura – il che sarebbe un’offesa sanguinosa, ma il Tesoriere è uomo pratico: di offese, dopo tutto, non si muore…

Nel frattempo il nostro eroe ha altre gatte da pelare. La Marchesa torna a minacciare di sposare il Conte. Belfiore freme, ma non può scoprirsi. Indispettita, la Marchesa accoglie il Conte come suo sposo – sempre che Belfiore non si presenti entro un’ora…

E parrebbe proprio di no, visto che Edoardo se ne arriva per annunciare a Giulietta che il Re parte e lui, come suo scudiero, deve seguirlo. La nostra fanciulla non la prende affatto bene, e nemmeno la Marchesa… ma fa male a dubitare. Il finto Re in partenza reclama la presenza al suo fianco del Conte d’Ivrea per segretissimi motivi di stato. Quali? Non si sa, ma dopo tutto l’importante è che la Marchesa non si sposi, giusto? giuseppe verdi, felice romani, un giorno di regno, teatro alla scala

Ed è a questo punto, con operistico sense of timing, che arriva il corriere da Parigi con LA lettera. Belfiore legge, esulta, sospira di sollievo. Poi ordina, come ultimo atto del finto Re di Polonia, il matrimonio tra Edoardo e Giulietta. Il Barone accetta – che può fare? E poi, a titolo di dénouement, il nostro eroe dà lettura della missiva, svelando l’arcano, annunciando l’avvenuta incoronazione a Varsavia del vero Stanislao e, ça va sans dire, chiedendo la mano della Marchesa.

Gaudio generale… o quasi. Perché a ben pensarci, il Tesoriere, il Barone e il Conte, raggirati, usati e beffati, potrebbero avere qualcosa da dire, potrebbero rimangiarsi le promesse estorte, potrebbero sfidare a duello il millantatore patentato… ma forse non è del tutto prudente – tanto più che Belfiore è appena stato ricompensato delle sue prodezze col bastone di maresciallo di Francia. E poi, che diamine, siamo all’opera! serve forse una ragione logica per concludere un’opera buffa in un diluvio di fiori d’arancio?

Facciamo l’uom di spirito… tacere converrà,

mugugnano in coro i nostri tre. Doppie nozze, esultanza generale, sipario.

E, alla prima scaligera, più fischi che applausi. Insomma, ricapitoliamo: il libretto era antiquato, la musica così così, gli interpreti approssimativi, il pubblico scontento… A quanto pare, di questa povera operina non importava un bottone a nessuno – tanto che, dopo l’accoglienza fredda incontrata dalla prima, Merelli si affrettò a disdire le cinque repliche previste, e Verdi, amareggiato e disgustato, decise che non avrebbe composto mai più…

Ma sappiamo tutti come va a finire, giusto? Merelli scioglie Verdi dal contratto, poi torna alla carica con tatto, diplomazia e un gran bel libretto – ma ne parleremo la settimana prossima. Però una cosa è certa: scottato dal Finto Stanislao, Verdi impiegherà cinquant’anni e rotti a decidersi a mettere mano di nuovo a un’opera buffa!

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* Per bizzarro che sembri, la commedia da cui Romani trasse il libretto, poggia su un granello di verità storica. Stanislao Leszczynski, Re di Polonia on and off nella prima metà del XVIII secolo, nel 1733 se ne tornò avventurosamente in patria travestito da cocchiere, nell’intento di farsi (ri)incoronare dalla Dieta. Intanto, in Francia, c’era questo ufficiale incaricato di spacciarsi per lui, così che i suoi nemici lo credessero inoffensivo e lontano… In realtà al vero-vero Stanislao non andò terribilmente bene. Niente elezione, fuga, nuovo esilio e, tanto per dire, Guerra di Successione Polacca.

** Dite la verità: voi non adorate la maniera in cui, al grido di “non sappia il ver!”, la gente ulula i suoi segreti con tutti i suoi decibel, a un metro e mezzo di distanza dalla gente che non deve sapere il ver? Ah, l’opera…

Mag 13, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: Oberto

Librettitudini Verdiane: Oberto

Non vi chiedevate come mai su SEdS non si fosse ancora vista nemmeno l’ombra dell’Anno Verdiano? Ebbene, ecco l’ombra. Da oggi cominciamo a parlare di opere, ma ma più per iscritto che in musica – dal lato dei libretti, il lato trascurato. E detto così magari non sembra, ma preparatevi a dosi massicce di nonsense, perché la musica… ah, la musica è (nella maggior parte dei casi) magnifica – ma avete mai provato a badare a quel che dicono?

È mia teoria – teoria eterodossa, mi rendo conto, ma d’altra parte non sono una melomane vera e propria – che l’opera richieda una buona dose di sense of humour

giuseppe verdi, temistocle solera, oberto conte di san bonifacioAllora, da qualche parte bisogna pur cominciare – e Verdi cominciò, giovanissimo, con Oberto, conte di San Bonifacio. O forse non è nemmeno del tutto vero, perché nel 1836 nella sua corrispondenza il compositore ventitreenne diceva di avere in gestazione un Rocester, vale a dire il Rochester su libretto di Antonio Piazza, destinato al Ducale di Parma. A Parma non andò mai in scena nulla del genere, ma in compenso, nel novembre del ’39, Verdi debuttò alla Scala di Milano con l’Oberto.

E l’Oberto, scrisse l’autore molti anni più tardi,

fu aggiustato e ampliato da Solera sopra un libretto intitolato Lord Hamilton di Antonio Piazza…

E dunque? Un’opera? Due? Tre? Ebbene, mistero. Dei due libretti di Piazza – sempre che fossero davvero due – non resta traccia, e l’Oberto di Solera, traslocato da qualche epoca inglese al Veneto medievale, è una di quelle spostabilissime storiellone di amore, onore, vendetta & virtù oltraggiata: cambiate nomi e costumi, e andrà bene per tutti i secoli e tutti i climi.

Noi però, condotti dal Temistocle Solera, la vediamo in quel di Bassano nel 1228.

Andiamo a incominciar. giuseppe verdi, temistocle solera, oberto conte di san bonifacio

Sappiatevi che il sipario si apre su una scena di deliziosa campagna. Non sghignazzate: l’ha scritto Solera. Alla sinistra, in poca lontananza, scorgesi Bassano.

La deliziosa campagna, benché sia appena l’alba*, pullula di cavalieri, dame e vassalli che tripudiano all’indirizzo di Riccardo, conte di salinguerra e tenore, giunto per sposare la principessa Cuniza da Romano. Riccardo risponde con altrettanto entusiasmo, e noi non ci stupiamo che, oltre a cantare la celestiale collezione di virtù della sua promessa sposa, il giovinotto pregusti il momento in cui prostrate a terra vedrà le balde cervici degl’invidi nemici… È chiaro che Riccardo ha qualche piccola intenzione preterimeneale – ma il coro non ha l’aria di volergliene e tutti escono in inabbattuto giubilo.

E subito entra il nostro soprano. Ora, noi sappiamo dalla distribuzione che questa fanciulla misteriosa è Leonora di San Bonifacio, figlia dell’Oberto eponimo. E Leonora, nel corso di una scena&cavatina, procede a informarci che, avendola Riccardo di Salinguerra sedotta sotto mentite spoglie e poi abbandonata, ella è qui oggi nell’amabile intento di impedire le nozze con Cuniza e, possibilmente, vendicare il suo onore oltraggiato. Ah sì, ci sarebbe il piccolo particolare che è ancora innamorata dell’ingrato seduttor spergiuro, ma son dettagli…

Quando anche Leonora si allontana per mettere in atto il suo piano, entra Oberto che, con voce di basso, canterebbe la sua gioia nel rivedere le terre natali – non fosse che si trova in territorio nemico e in pericolo mortale, in cui s’è cacciato per riprendersi la sciagurata figlia disonorata…

Sapete come si dice – parli del diavolo… Manco a farlo apposta, eccola qui, Leonora, di ritorno dopo avere scoperto che da queste parti ci si sposa di sera. La nostra eroina passeggia per il palco cantandosi i suoi truci propositi, quando scorge qualcuno, spalanca gli occhi, si porta la mano alla gola…

“O ciel! chi vedo!”
“Qual voce! È dessa!”
“Tu…! Padre!”
“Son io!”

Perché è così che ci s’incontra all’opera. Ma non aspettatevi una lieta riunione: Oberto è pieno d’amarezza e di rimproveri, almeno finché la povera Leonora non dichiara l’intenzione di vendicarsi o morire – o magari entrambe le cose. Questo vale alla ragazza un perdono condizionato e poi padre e figlia, indipendentemente dall’ora delle nozze, s’involano verso Bassano.

La scena cambia per spostarsi nel castello di Ezzelino, dove il coro è intento a rapsodizzare sulla bellezza, la nobiltà d’animo, il candore di Cuniza, e le sante gioie che l’attendono nel matrimonio. Cuniza, a quanto pare, è meno ottimista in proposito. Noi sappiamo che fa bene. Lo sapremmo anche se non avessimo appena sentito le doléances di Leonora, perché Cuniza è un mezzosoprano, e il mezzosoprano medio la fortuna in amore non sa nemmeno che cosa sia. Ad ogni modo, la povera Cuniza se lo sente nelle ossa, e si confida con un men che allegro Riccardo. I due cercano di risollevarsi l’animo a vicenda, ma siamo seri: che ci verremmo a fare all’opera se ci si sposasse tutti alla fine del primo atto?

E badate che, fino a questo momento, noi non avremmo nessun motivo per fidarci davvero di quel che dice Leonora. Nemmeno il fatto che suo padre sia il protagonista eponimo è una garanzia di granché. No: quello che ci fa schierare con lei è il timbro della sua voce: soprano = innocenza oltraggiata. E difatti anche Cuniza, nel momento in cui vede la misteriosa fanciulla e ode da lei i poco edificanti precedenti di Riccardo, ci crede senza esitare nemmeno il tempo di una biscroma. La misteriosa fanciulla è la figlia del Nemico? Fa nulla. La figlia del Nemico si è tirata dietro al castello il Nemico stesso? Fa meno ancora. Cuniza non finge nemmeno di pensare che Riccardo possa essere innocente – e anzi, si schiera prima di subito con Leonora e Oberto, cui promette ogni sostegno e appoggio.

giuseppe verdi, temistocle solera, oberto conte di san bonifacioD’altra parte qualora fossimo disposti a concedere il beneficio del dubbio al giovane Salinguerra, ci andrebbe storta: accusato davanti a tutta la corte, Riccardo (primogenito di tutta una schiera di tenori verdiani men che eroici) non trova miglior difesa che respingere al mittente l’accusa d’infedeltà. How ungentlemanlike! Nessuno gli crede, ma il maldestro tentativo basta a stanare Oberto, che esce dal suo nascondiglio con la spada in pugno per difendere l’onore della figliola. Sgomento generale, sfida a duello, amarezza, furia, dolore delle due donne e caos diffuso- in uno dei finali primi più confusi della storia dell’opera.

Sipario.

È all’inizio dell’atto secondo che scopriamo come, in qualche modo, sia Oberto che Riccardo abbiano tagliato momentaneamente la corda. Cuniza ha preso Leonora sotto la sua protezione e, con quella longanimità che rasenta l’idiozia e che si trova tanto spesso all’opera, intende costringere Riccardo a sposarla. Al coro, alla confidente Imelda e a Leonora stessa, per qualche motivo, questa sembra una buona idea…

Intanto, nella foresta del primo atto, dopo uno sconsolato intervento della sezione maschile del coro, giunge la notizia che Ezzelino, dietro intercessione della sorella, ha perdonato Oberto che però, più interessato alla vendetta che alla pace, non accoglie la notizia con quel gioioso sollievo che si potrebbe immaginare. Giunge Riccardo, e per un po’ i due conti non fanno nulla di peggio che dirsene di tutti i colori. Il fatto è che, pur essendo l’apripista di tutti gli antitenori verdiani, il nostro giovanotto pare avere sviluppato un briciolo di coscienza durante l’intervallo, e gli par brutto duellare a morte con un uomo tanto più vecchio di lui – e offeso a ragione. Ma Oberto lo insulta sempre più sanguinosamente, finché, tenore o no, Riccardo s’infuria e sguaina la spada…

Si sbranerebbero a vicenda, se non irrompesse Cuniza con Leonora, dame, vassalli, cavalieri e compagnia cantante, per proibire il duello, perdonare tutti e spingere Riccardo tra le braccia dell’estatica Leonora. Dunque, ricapitoliamo: Oberto è perdonato, Riccardo è pentito e il matrimonio riparatore è combinato. Non c’è più motivo di battersi, giusto?

Sbagliato.

Siamo all’opera, cari miei, e nessuno toglie a un basso la sua vendetta. Seccatissimo per l’ondata di novità pacificatrici, Oberto sibila a Riccardo di fingere di accettare – così Cuniza e seguito si levano dai piedi e ci si può battere in privato. E che può fare un povero tenore? Una finta pace è suggellata, e le donne se ne vanno con l’impressione che tutto sia bene quel che finisce bene. I cavalieri, meno ingenui, lamentano la scarsa convinzione dei conti rappacificati – e lo! 

La musica esprime improvvisamente l’azione di un duello.**

Oh! Qual rumor! Feroce
Cozzo è di nudi acciar.
Oh! Qual sospetto atroce!
Si corra ad osservar.

Il coro corre ad osservar, ma immagino che arrivi troppo tardi: Riccardo rientra con la spada insanguinata in pugno, lamenta quel che ha combinato aristotelicamente fuori scena, si dichiara oppresso dal rimorso e taglia la corda – un istante prima che rientri Cuniza con le sue donne.

giuseppe verdi, temistocle solera, oberto conte di san bonifacio


Orrore orror! Oberto è morto, Riccardo manca all’appello*** e Leonora è arrivata giusto in tempo per vedere l’uomo che ama uccidere suo padre. Quando si dice trauma… Serve a poco che la principessa, la confidente e l’intero organico del coro la consolino, e ancor meno confortante suona il messaggio in cui il fuggitivo si dichiara pentitissimo, avviato all’esilio, ansioso di perdono e riparazione. Altro che perdono! Squassata dal dolore e dai sensi di colpa, Leonora dichiara cupe intenzioni claustrali in termini che lasciano qualche dubbio sulla sua salute mentale.

Infelice! Un rio tormento
Già l’assale e stringe il core,

lamenta difatti il coro.

Ella geme… il suo lamento
Possa il cielo impietosir.

Accordi finali – sipario.

Ecco, vi siete fatti un’idea. Sovrabbondanza sentimentale e linguistica, una sovrana indifferenza per la logica e il buon senso, l’occasionale perla lessicale e la più pittoresca inverosimiglianza. È così che si scriveva per l’opera nel secolo decimonono…

 

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* Del che Solera c’informa magnificando la luce “della stella che il sembiante d’Amatunzia in ciel vestì.” La mia prossima gatta…

** Solera scripsit. Oh essere una mosca sul muro e vedere la prima reazione di Verdi alla lettura di questa didascalia!

*** Cercate Salinguerra? Era qui un attimo fa – or or s’allontanò a sinistra.

 

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