Tagged with " giuseppe verdi"
Giu 11, 2018 - teatro, teorie    Commenti disabilitati su Vivremo Insiem, Morremo Insiem…

Vivremo Insiem, Morremo Insiem…

Francesco da Melzo e RaffaelloÈ un fatto universalmente riconosciuto che, all’opera, l’amore tende a finir male – ma diciamo la verità: non è che l’amicizia se la cavi molto meglio.

E sto parlando di amicizia maschile, per lo più, perché per quanto mi sforzi, di amicizie femminili all’opera non me ne vengono in mente molte. Well, yes – i soprani tendono ad avere delle confidenti con cui, per l’appunto, si confidano: di solito cameriere, donzelle, dame di compagnia e mezzosoprani misti assortiti, senz’altro gran uso che quello di ricevere confidenze a beneficio del pubblico. Non è del tutto impossibile che Mimi e Musetta diventino amiche prima dell’ultimo atto – ma non è che se ne veda granché; e nel Don Carlos c’è la (muta) Contessa d’Aremberg, bandita ingiustamente da corte – il che scatena una bella aria della Regina… Ma si tratta di gente e di vicende tutt’altro che centrali all’interno delle rispettive trame.

L’amicizia maschile è tutt’altra faccenda: ci sono un tenore e un baritono che si giurano amicizia e fratellanza fino alla morte – e, come dicevamo, non va mai a finir bene.

In Verdi questo genere di storia ricorre spesso.

CatturaGuardiamo per esempio La Forza del Destino, in cui Don Alvaro (tenore), nel fuggire con la morosa marchesina (soprano) uccide involontariamente il babbo di lei (basso) e poi si perde per strada la povera fanciulla – che lui crede morta, ma in realtà resta a vagare per la Spagna, abbandonata e non terribilmente stabile. Possiamo biasimare del tutto il fratello baritono, che va a caccia dell’assassino/seduttore  nell’intento di fargliela pagare? Sennonché, per farlo, si arruola sotto falso nome – e quando incontra il tenore, che non ha mai visto e che a sua volta si è arruolato sotto falso nome nello stesso reggimento, i due si piacciono subito e, prima che si possa dire “nemico giurato”, si sono già promessi eterna amicizia. Ebbene sì: da sconosciuti a fratelli d’elezione in cinque minuti – salvo poi, nel giro di un altro paio di scene, scoprire le rispettive identità e ritrovarsi nemici mortali. Duellano una volta, duellano due, e alla fine il baritono ci rimette le penne.

Potremmo obiettare che in questo caso l’eterna amicizia era stata fulmineamente* giurata sulla base di false premesse e informazioni insufficienti – ma non è come se una conoscenza più approfondita garantisse un esito migliore… 838689

Il Ballo in Maschera, anyone? Il tenore Riccardo è il governatore del Massachussets** , apprezzatissimo dai governati – ma, di fatto, talmente svagato e irresponsabile, che siamo costretti a chiederci quanta della sua popolarità si deva agli sforzi del suo assennato e vagamente ansioso braccio destro – il baritono Renato. Qui di giuramenti espliciti non ce ne sono, ma l’adorante e protettiva devozione di Renato è lampante, la maniera di consuetudine tra i due inequivocabile, e tutti sanno che Renato ha ripetutamente “versato il suo sangue” per Riccardo. Per cui, non so a voi – ma a me pare davvero brutto che Riccardo lo ricambi flirtando con la sua bella moglie… Ora, se l’adulterio vero e proprio si consumi è diventata negli ultimi anni una questione di regia – ma, anche quando il fattaccio non succede, è più per le reticenze del soprano e il tempismo dei cospiratori che per la decenza interiore del tenore… Hence, quando Renato scopre di essere stato tradito dalle due persone che ama di più al mondo, il passo da amico devoto a vendicatore furibondo è operisticamente breve. Per una volta è il tenore a soccombere alla rottura – ma è chiaro che il futuro del baritono non si prospetta per nulla lieto.

a1738f40a5e05bc25cee6d4fec0f68eeE non va molto meglio nemmeno agli amici d’infanzia – nemmeno quando non ci sono donne di mezzo. Il fatto che tra l’eponimo tenore Don Carlos e il baritono Rodrigo di Posa non ci siano padri assassinati, sorelle sedotte o mogli contese sembra promettere abbastanza bene. I due sono amici dalla più tenera età, e quando si giurano eterna amicizia nel secondo*** atto tutto ci fa pensare che non sia la prima volta. Il guaio è che Rodrigo s’illude di fare dell’instabile e molliccio Carlos un grande sovrano, ed è disposto a mentire e uccidere per questo – nonché a sacrificarsi drasticamente. Peccato che, quando Rodrigo resta fatalmente impigliato nelle sue stesse trame, a Carlo sembri bello gettar via qualunque vantaggio il suo amico gli abbia procurato facendosi uccidere – per nient’altro che il gusto di far sentire in colpa suo padre…

E non so, è probabile che, se davvero credeva che Carletto potesse regnare con magnanima efficacia, Rodrigo si sia meritato tutto quel che poteva capitargli – ma c’è motivo di pensare che nemmeno un certo grado di consapevolezza sia di grande aiuto in queste situazioni. Gunn Burden

Passiamo a Bizet e ai Pescatori di Perle: il tenore Nadir si ricongiunge al suo fraterno amico, il baritono (e capovillaggio) Zurga, proprio mentre arriva la semisacerdotessa Leila, deputata a pregare per la buona e sicura riuscita della pesca delle perle. E naturalmente entrambi i giovanotti sono attratti da lei – ma, nel rendersene conto, si giurano reciprocamente che mai, mai, mai permetteranno a una donna di separarli… E come no? Prima di subito, Nadir si precipita da Leila – la cui castità, badate bene, è essenziale al rito. Non del tutto incomprensibilmente, Zurga si sente doppiamente tradito, perché lui era davvero pronto a rinunciare a Leila per amicizia e per la sua responsabilità nei confronti dei pescatori. E nondimeno, dopo un po’ di baritonale furia, è disposto a sacrificare il villaggio e se stesso per salvare l’amico infedele e la men che irreprensibile Leila. Ora, il finale è stato rimaneggiato all’infinito – ma nessuno dubita che, accoltellato subito o condannato a morte poi, Zurga faccia una pessima fine mentre tenore&soprano se ne vanno verso il tramonto…

Impareranno mai i baritoni a non far troppo conto sui tenori? Di sicuro, noi pubblico abbiamo imparato che, quando all’opera due uomini si giurano amicizia fraterna e imperitura, la faccenda è destinata a finire nel sangue – di solito quello del baritono.

________________________________

* Nulla di più fulmineo, d’altra parte, dell’innamoramento di Calaf – che, più o meno due minuti dopo avere visto Turandot da lontano, decide che ha sofferto troppo per amore, e si lancia in una quest suicida per ottenere la mano della pericolosissima principessa… Se non altro, Don Alvaro ha salvato Don Carlo dalle conseguenze della sua imprudenza.

** And I have to wonder: non si poteva scegliere uno stato americano con un nome meno ostico (e potenzialmente meno buffo) per il melomane medio? Non mi risulta che la scelta abbia la minima ragione di plausibilità storica – e ammetto che Boston suona bene, ma… Massachussets! Salute!

*** O primo. Dipende. Lunga storia.

 

La Bambinaia Spagnola?

E questo è il Giovane Inglese di Tiziano - ma è così che ho sempre immaginato Rodrigo.

E questo è il Giovane Inglese di Tiziano – ma è così che ho sempre immaginato Rodrigo.

Discutevasi di Don Carlos, e a un certo punto L. mi dice questo: “Ma tu, che ce l’hai tanto con le Bambinaie Francesi e gli anacronismi psicologici, dimmi una cosa: e il tuo beneamato Marchese di Posa?”

E io sussulto un pochino, perché…

Potrei obiettare che il Marchese di Posa, pur baritono, non è più tanto il mio beneamato Marchese di Posa, e che da anni la mia simpatia va a Re Filippo – ma non non lo faccio. E potrei anche obiettare, con più pertinenza, che ai tempi di Schiller l’anacronismo non era una preoccupazione, e l’idea di anacronismo psicologico nemmeno esisteva – ma il punto che sollevava L. non è questo. Il punto è, immagino, la percezione dal nostro lato: è dunque Rodrigo, Grande di Spagna, Cavaliere di Malta, campione del libero pensiero, amico del cuore dell’ineffabile Carletto e figlio immaginario di Re Filippo, nient’altro che una ur-Bambinaia Francese? Verdi stesso ha tutta l’aria di pensarlo, e lo dice in una lettera – se non mi sbaglio – a Ricordi:

Posa, essere immaginario, che non avrebbe mai potuto esistere sotto il regno di Filippo.

E in effetti, tutto si può dire, ma non che il giovanotto pensi, senta e agisca come un convincente nobiluomo spagnolo di metà Cinquecento. Rodrigo è chiaramente l’alter-ego e portavoce di Schiller, un uomo del tardo Settecento. Lo dice bene H.W. Nevinson, nella sua Life of Friedrich Schiller:

In Posa sembra di vedere prefigurati i grandi leader della Gironda nella Francia rivoluzionaria: come loro è nobile e vocato al martirio, come loro è eloquente ed amabile – e come loro è del tutto inefficace.

Oppure così: Thomas Hampson

Oppure così: Thomas Hampson

E dunque? Un Girondino in farsetto di velluto è o non è l’equivalente settecentesco della Bambinaia?

Nel complesso e dopo accurati rimuginamenti, direi di no. In primo luogo, il grado di storicità del Don Carlos non solo è abissale – ma è anche, in tutta evidenza, l’ultima delle preoccupazioni del giovane Schiller: davvero vogliamo impuntarci sugli anacronismi psicologici in una tragedia che fa coincidere la morte di Carlos (1568) con il disastro dell’Armada (1588) e il fidanzamento della principessa di Eboli con Ruy Gomez (1553)…? Ecco, appunto. Se Schiller avesse avuto il minimo interesse in proposito, forse avrebbe cominciato a leggere un po’ di storia spagnola prima di pubblicare i primi due atti della tragedia su una rivista, giusto? Il che magari ci induce a domandarsi che cosa avesse in testa Goethe, quando fece il diavolo a quattro per procurare al suo amico Fridrich una cattedra di storia all’Università di Jena…

Ma questa è un’altra faccenda: è chiaro che nel Don Carlos Schiller non vuole insegnarci la storia spagnola. Questa Spagna di mezza fantasia – tutta intrighi, giardini e solitudini calcinate dal sole – è uno sfondo perfetto per le idee che gli stanno a cuore e che mette in bocca al suo Spagnolo immaginario.DonCarlos

Spagnolo immaginario che, badateci bene, alla fine soccombe. Con tutti i suoi altissimi ideali, la sua eloquenza appassionata e il suo coraggio, Rodrigo alla fine precipita in una macchinazione goffamente suicida – e del tutto inutile, neutralizzata prima di subito dal supposto beneficiario… E non cominciamo nemmeno a proposito del fallimento in alta politica, e del tradimento della fiducia del re, volete? Per uno che parla per l’Umanità e per i Secoli Futuri, il ragazzo non fa una gran figura…

E infine non dimentichiamoci che il pubblico per cui Schiller scriveva sapeva benissimo a che gioco si stesse giocando, ed era un gioco del tutto diverso: pochi si preoccupavano della mentalità della Spagna filippina, e nessuno andava a teatro aspettandosi d’impararla – ma d’altra parte Schiller non era partito con l’intento deliberato di dare una lettura fuorviante dell’epoca.

Quindi, no: se il carattere distintivo della Bambinaia Francese è quello di un personaggio che l’anacronistico perseguimento di valori “moderni” rende moralmente superiore ai personaggi “period” direi che Rodrigo di Posa, eroe romantico confuso e alla fin fine fallimentare, does not fit the bill. Schiller ci chiede di considerarlo un giovanotto di nobili ideali e scarso senso della realtà, il benintenzionato campione di idee destinate a soccombere. Possiamo commuoverci quando si fa uccidere per salvare il suo amico – ma dobbiamo davvero credere che l’amico in questione sia la speranza della Spagna e delle Fiandre?

E lo ripeto: a Schiller non sarebbe mai passato per la mente di porsi il problema dell’anacronismo psicologico – ma persino noi, in epoca di Bambinaie Francesi, possiamo dire che siamo davanti a un cavallo (spagnolo) di tutt’altro colore.

 

Dic 9, 2015 - musica, teatro    Commenti disabilitati su Il Ritorno della Pulzella

Il Ritorno della Pulzella

Questo post avrei dovuto farlo lunedì – prima della Prima della Giovanna d’Arco alla Scala – e poi mi sono dimenticata.

È l’età che avanza, credo… Ci vuol pazienza.

Ma in fondo, nulla impedisce di farlo oggi, giusto? E allora vi ripropongo un episodio delle Librettitudini Verdiane pubblicate a suo tempo, in onore del successone della Giovanna scaligera.

E cominciamo col dire che quando nel 1844 il librettista Temistocle Solera scelse la schilleriana Jungfrau von Orléans. Verdi non fu precisamente travolto dalla letizia. Tra l’altro, c’erano già un paio di opere tratte dal dramma tedesco, e anche un balletto del solito Viganò, ma tutto sommato non voleva dire granché – anche perché Solera non aveva intenzione di essere terribilmente fedele a Schiller.giuseppe verdi, giovanna d'arco, temistocle solera, friedrich schiller, teatro alla scala

Per dire, al grido di semplifichiamo, semplifichiamo, il librettista sfrondò due dei personaggi principali: il cavaliere inglese Lionel, di cui la Giovanna schilleriana s’innamora fatalmente, e la bella Agnes Sorel, amante del Delfino e poi re. Il che, lo capite bene, lasciava ben poche alternative per l’obbigatoria storia d’amore tenore/soprano…

Ebbene sì: Giovanna e il Re, che qui è già incoronato.

E sì, lo so – ma non era come se Schiller per primo fosse rigorosissimo in fatto di storia, giusto? E poi, francamente, chi è che va all’opera per il rigore storico? Per cui non formalizziamoci e vediamo un po’…

Il Prologo (ebbene sì, abbiamo un prologo) comincia a Dom-Remy*, con ufficiali e borghigiani che si lagnano dell’andamento della guerra. Quegli accidenti d’Inglesi vincono e vincono e vincono, e persino Orléans è sul punto di cadere. Entra il re Carlo VII e, dopo che il popolo s’è brevemente commosso sulla sua combinazione di bellezza, giovinezza e sfortunaccia nera, annuncia un’abdicazione sacrificale. Se l’è sognato, dice. Ma in realtà quel che si è sognato è un’immagine della Madonna in un bosco…

Oh, Sire – ma è qui nei dintorni! esclama utilmente il coro. È un postaccio infestato da streghe e diavoli, ma c’è. E sarà anche un postaccio, ma è là che Carlo, con uno di quei salti logici che solo all’opera, decide di dover andare a rimettere la sua corona nelle mani di Dio. Oh, e degli Inglesi, of course.

E noi lo precediamo nel postaccio boschivo e tempestoso dove, in effetti, c’è una cappellina. E ci sono anche – ciascuno per conto proprio – il canuto pastore Giacomo e sua figlia, la contadinella Giovanna. Questi due sono uno più pio dell’altro. Lei non trova altro luogo sacro per venire a pregare che il Cielo le conceda di salvare in qualche modo la Francia, e lui l’ha seguita per vedere se, come teme, la figliuola è una strega, un’indemoniata o qualche altra cosa poco raccomandabile.

Quando Giovanna si addormenta arriva Carlo e, senza accorgersi di padre nascosto e figlia ronfante, si mette in preghiera. E arriva anche un coro demoniaco che, a tempo di valzerino, tenta la Giovanna con una collezione di immortali versi che in parte vi riporto:

Quando agli anta
L’ora canta
Pur ti vanta
Di virtù
Tu sei bella,
Tu sei bella!
Pazzerella
Che fai tu?

giuseppe verdi, giovanna d'arco, temistocle solera, friedrich schiller, teatro alla scalaE a questo punto è molto, molto chiaro che Solera non era in vena… Per fortuna a interrompere gli spiriti malvagi** intervengono gli spiriti celesti** che svegliano la ragazza con la notizia che i non meglio precisati “celesti” hanno deciso di darle retta – a patto, badate bene, che s’impegni a tenere il cuore ben chiuso a ogni affetto terreno…

E Giovanna si sveglia, afferra elmo e spada che Carlo aveva deposto per pregare e, da contadinella, eccola trasformata in eroina!

Carlo è folgorato – e non solo dall’impeto guerriero di Giovanna. I due se ne escono mano nella mano per andare a dare agl’Inglesi quel che spetta loro… E Giacomo? Vi eravate dimenticati di Giacomo, vero? E invece il padre sospettoso era nascosto in un angolo e ha visto e sentito tutto. O almeno, non deve aver sentito granché dell’estasi mistico-patriottica della figlia, ma in compenso ha visto abbastanza da decidere che Giovanna ha venduto l’anima al diavolo per amore del re… orrore, orror!

Sipario – e Atto Primo

Siamo nei dintorni di Rems*, e gl’Inglesi sono ammaccati e abbacchiati. Hanno perso Orleàno* e, in generale, le hanno prese di santa ragione da quando i Francesi sono comandati dalla diavolessa.

Ed ecco Giacomo. Il suo crine è scomposto, i suoi atti dimostrano il disordine della mente. Voi che fareste se un nemico scarmigliato e squadrellato si presentasse al vostro campo promettendovi la consegna della diavolessa da cucinare come preferite – a patto di lasciarlo combattere con voi? Dubitereste, giusto? Ma qui siamo all’opera e agli Inglesi non par vero.

Le tue ciglia gemon pianto,

osservano gli Isolani, al che Giacomo ammette che la diavolessa è un tantino sua figlia. Però poi sforna questa ineffabile variazione sul tema carne debole e spirito pronto:

Languido è il fral, ma l’anima
Maggiore è d’ogni duol!

Comprensibilmente folgorati, gli Inglesi decidono di tenerselo. giuseppe verdi, giovanna d'arco, temistocle solera, friedrich schiller, teatro alla scala

Nel frattempo a Rems* Giovanna non ne può più di guerra e dell’adorazione generale e cieca. Ha vinto, giusto? E allora può tornarsene a casa dal babbo e dalle sue pecorelle. Chi non vuol sentirne parlare è Carlo, che la farebbe tanto volentieri sua regina… Giovanna, sia detto a suo credito, resiste per trentuno versi. Ma che vogliamo fare? è un soprano e si sa come va a finire; al trentaduesimo verso cede e subito gli spiriti eterei si manifestano per ricordarle che aveva giurato: niente affetti terreni!

Ops…

E a questo punto non ci mancava altro che il popolo festante: vorrebbero, vorrebbero, vorrebbero, per favore, Carlo e la Pulzella, recarsi al tempio** per l’incoronazione***? Giovanna a dire il vero vorrebbe tanto essere morta in battaglia, ma Carlo che non ha sentito gli spiriti celesti e non capisce il motivo di tanto scombussolamento, la ricopre di futili rassicurazioni e profferte d’amore, e se la trascina via.

E non vi fate un’idea di come gongolano gli spiriti malvagi e stornellatori!

Atto Secondo

Davanti al tempio tutto è letizia ed esultanza – con l’eccezione di Giacomo, che chiaramente cammina avanti e indietro tra il campo inglese e quello francese senza l’ombra di un impiccio. Ma d’altra parte, chi si azzarderebbe a fermare un uomo che viene per detergere tutte le sue fibre di padre e diventare fulmine del Signor crucciato?

giuseppe verdi, giovanna d'arco, temistocle solera, friedrich schiller, teatro alla scalaCosicché, quando Giovanna esce dal tempio, cercando invano di sfuggire al re e al popolo che vogliono farla santa subito, il vecchio è pronto per far scoppiare la sua bomba: altro che santa, la mia sciagurata figlia è una strega venduta al diavolo per un non meglio precisato amore terreno****…

Orrore, orror!

Carlo protesta, con singolare logica ed efficacia, che Giovanna è troppo bella per essere una strega. Il popolo chiede prontamente la testa di quella che, una pagina addietro, era la sua adorata eroina. E Giacomo è molto scosso, ma tiene duro perché, scopriamo, un bel rogo è l’unica cosa che può ancora salvare l’anima della sacrilega ragazza.

E Giovanna? Giovanna sacrilega ci si sente, visto che ha contravvenuto alle istruzioni celesti innamorandosi del re – per cui non solo non si difende, ma è prontissima a seguire il padre verso il rogo degli Inglesi. Perché non possano bruciarla i Francesi, vista la veemenza del loro pio disgusto, non è ben chiaro, ma… Oh, wait! Non funzionerebbe altrettanto bene il…

Terzo Atto.

Atto Terzo che comincia in una prigione inglese, dove Giovanna ascolta da lontano i rumori dell’ennesima battaglia, si mangia le unghie perché i Francesi stanno perdendo, si strugge per Carlo in pericolo, prega e protesta la sua innocenza davanti al cielo… giuseppe verdi, giovanna d'arco, temistocle solera, friedrich schiller, teatro alla scala

E di nuovo, celato nell’ombra a una quinta di distanza, c’è Giacomo, questo origliatore di professione, che dopo avere pensato di lei tutto il male possibile per due atti, all’improvviso le crede. Ed è vero, tecnicamente è ancora sacrilega – in pensieri e parole, se non in opere – ma, in un altro di quegli aloni lasciati dalle rimozioni della censura, in fondo a Giacomo importa che Giovanna sia a) ancora vergine; b) sempre pia. E allora la libera, le dà la sua spada e la fa scappare. Da una bifora/un verone/ una ringhiera/ la cima della torre il padre pentito&angosciato osserva le sorti della battaglia mutare dopo l’ingresso in campo della Pulzella. Peccato che si perda il finale a causa di un turbine di polvere, ma male non dev’essere andata: quando Carlo arriva è trionfante e in vena di perdono.

I due uomini si stanno felicitando a vicenda, ma si felicitano troppo presto. Il coro sciama in scena portando la defunta Giovanna – già nella bara. Carlo si dispera insieme al coro (già dimentico del finale dell’Atto Secondo), ma all’improvviso…

Gran Dio! Silenzio… Represso gemito mandò l’estinta,

esclama Giacomo, senza notare che allora forse del tutto estinta non è.

E dite la verità: non vi sembrava strano che Giovanna non morisse in scena? Oddìo, magari vi sembra anche strano che sia morta in battaglia e non sul rogo – ma per quello potete biasimare più Schiller che Solera. Anche perché il rogo ci avrebbe privati dell’ultima scena in cui Giovanna ha tutto il tempo di delirare, perdonare, andare in estasi e vedersi assunta al cielo, tra le lacrime, le suppliche e la meraviglia di Carlo, Giacomo e coro tutto.

E se a chiudere ci aspettavamo gli spiriti celesti, aspettavamo male. Ecco a noi, invece, gli spiriti malvagi:

Torna, torna, esulante sorella,
Sovra i vanni dell’angelo al ciel!
È il signore, il signor che ti appella,
E ti cinge inconsuntile vel.
Più che il fuoco che n’arde e ne scuoia,
Più che il buio di notte crudel,
N’è tormento d’un’alma la gioia,
N’è supplizio il trionfo del ciel!

E non so se mi piaccia di più il velo inconsuntile o i diavoli che hanno paura del buio, mentre una siderea luce spandesi improvvisa pe’l cielo e tutti si prostrano davanti al glorioso cadavere.

Sipario.

giuseppe verdi, giovanna d'arco, temistocle solera, friedrich schiller, teatro alla scalaE no, il buon Solera non era in stato di grazia, e poi aggiungeteci i molteplici rimaneggiamenti della censura vicereale, e… well.

Ad ogni modo, Verdi musicò tutto in quattro mesi, litigò come un dannato con direttore, orchestra e cantanti e poi, alla fin fine, si ebbe una prima abbastanza mediocre, con un successo limitato e della cattiva stampa. Lui disse che i giornalisti milanesi lo danneggiavano di proposito e alla fine, irritato e deluso, prese una decisione drastica: non avrebbe più scritto per la Scala.

Era destinato a cambiare idea – ma ci sarebbero voluti decenni. E credo che, se avesse potuto constatare l’ottima rappresentazione di lunedì (nonostante Re Carlo vestito da cioccolatino…), la bravissima Netrebko e gli interminabili applausi, persino il terribile Giuseppe si sarebbe riconciliato con la Giovanna alla Scala.

 

________________________________________

* Sic, sic, sic. È la toponomastica francese secondo Solera.

** E questi in origine erano, l’avete indovinato, diavoli e angeli. E il tempio era la chiesa. Poi capitò la censura… Noi forse fatichiamo un po’ a capire che materia scabrosa fossero, all’epoca, le vicende della Pulzella.

*** Era già re, dite? Be’, lo era nel prologo. Poi aveva abdicato – o quanto meno espresso l’intenzione di farlo. E comunque, che volete che sia? Le incoronazioni fanno tanta scena. 

**** E non è che Giacomo sia diventato all”improvviso troppo prudente per accusare il re di avergli sedotto la figlia. È che nel libretto originale – come in Schiller – Giacomo si agitava molto sulla questione della supposta verginità perduta di Giovanna. Poi la censura intervenne, e rimase soltanto il sacrilegio, con tanti cari saluti alla logica generale della storia.

 

 

Gen 11, 2015 - musica    Commenti disabilitati su Non Si Butta Via Niente ♫

Non Si Butta Via Niente ♫

3pa310Ora, non so se questo sia l’inizio di una nuova Crisi Semestrale da Don Carlo(s), ma le cose stanno così: ho finalmente guardato il Don Carlo salisburghese diretto da Pappano che avevo ricevuto in regalo per il mio compleanno* e, pur con qualche perplessità visiva, l’ho trovato molto bello a sentirsi.

Tra l’altro – cosa che spesso Pappano fa – quest’edizione ripristina il compianto del Marchese di Posa, nel IV atto, che secondo me è uno dei più meravigliosi scampoli d’opera del creato universo, e piange il cuore a pensare che a suo tempo sia stato cassato per consentire ai parigini di prendere l’ultimo tram per le periferie, perché il balletto non si poteva omettere… Ah well, in realtà c’erano anche altre ragioni, e ne avevamo parlato.

Ad ogni modo, sapendo bene di avere per le mani qualcosa di magnifico, anni più tardi Verdi riprese in mano il compianto, e lo riciclò nel Lachrymosa del Requiem.

Perciò oggi vi propongo prima Carlo e Re Filippo che si dolgono in mezzo a un coro di seccatissimi Grandi di Spagna. Benché il video citi soltanto Alagna, il basso è José Van Dam, e il direttore è Pappano, nella meravigliosa produzione targata Théàtre du Châtelet del 2001.

E poi ecco qui un Lachrymosa di lusso, con Pappano che dirige Renée Fleming, Violeta Urmana e René Pape.

E buona domenica a tutti.

__________________________

* Sì, ad aprile. Certe volte sono di rapide reazioni…

Ott 17, 2014 - elizabethana, grilloleggente, libri, libri e libri, teatro    Commenti disabilitati su L’Angolo Elisabettiano

L’Angolo Elisabettiano

Letters and Journals 2Martedì sera, come preannunciato, Ad Alta Voce è tornato – ed è tornato molto bene.

Partecipazione più folta del consueto, un certo numero di facce nuove, una selvaggia varietà di interpretazioni del tema della serata – Lettere & Diari – da Guareschi a Helene Hanff, da Tamaro a Baricco, da Wiesel a Mino Milani, fino alle feroci lettere di Verdi al suo infelice librettista – passando per i diari di un medico di bordo appassionato di lettura e i ricordi di viaggio di una romantica cacciatrice di atmosfere… E abbiamo avuto persino una lettura in Spagnolo.

E poi l’Angolo Elisabettiano.

Essendo l’anno che si è,* Ad Alta Voce si è provvisto di un Angolo Elisabettiano. Ogni volta, fino a dicembre, una lettura dedicata al tema visto da uno dei festeggiati – basandosi sull’assunzione che non ci sia nulla, ma nulla che non si trovi in Shakespeare o Marlowe o entrambi. Con la possibile eccezione della fusione fredda – ma non abbiamo nemmeno l’ombra della fusione fredda tra i temi in programma, e quindi il problema non sussiste.

Martedì sera, per Lettere & Diari, ho cominciato con Shakespeare. Sapevo che di lettere in Shakespeare ne compaiono parecchie, lette, spedite, ricevute, intercettate, smarrite, scritte, sottratte, sostituite, dettate, falsificate… Mi si dice che le lettere compaiano in tutti i titoli del canone – tranne cinque – e che in tutto se ne contino 111. book of common prayer

È evidente che Will le considerava un ottimo device per la trama. La falsa lettera di Olivia che precipita l’antipatico e innamorato Malvolio, le lettere di credito così importanti nel Mercante di Venezia, la lettera con cui Rosencrantz e Guilderstern consegnano senza saperlo la propria sentenza di morte, la lettera con cui Edmund mette nei guai il fratellastro Edgar e quella che proverà l’adulterio di Goneril ed Edmund, la lettera che ripristina Perdita da pastorella a principessa, la lettera che, fatalmente, Fra’ Giovanni non consegna a Romeo…

E potrei continuare a lungo, ma non lo faccio.

Martedì sera ho scelto di leggere la lettera di Macbeth alla moglie – missiva trepidante e incerta che ci mostra subito come, pur essendo il primo generale della corona scozzese, il nostro non sia precisamente quello che pensa. A pensare è Lady Macbeth – che tra sé legge le stupefacenti nuove del marito e, per prima e unica reazione, si preoccupa della sua insufficiente perfidia. Oh sì, il giovanotto è ambizioso, ma non vuole sporcarsi le mani… E all’improvviso, viste attraverso gli occhi della lucida e spietata Gruoch,** le sue parole – pronunciate e scritte – acquistano tutto un altro senso.

macb3La lettera così serve a stabilire due personaggi e la relazione che corre tra loro, e a gettare fin da subito delle ombre molto lunghe sul futuro del mittente, della destinataria, del buon Re Duncan e della Scozia tutta.

Mica male, per un pezzettino di carta.

E quindi, tema centrato, in ottima poesia e con interessanti implicazioni. Direi che l’Angolo Elisabettiano ha debuttato a gonfie vele. Next time, la forza della natura – e di nuovo ci sarà soltanto l’imbarazzo della scelta.

____________________________________

* Sì, lo so – non ne potete più di sentirmelo ripetere. Abbiate pazienza, è passata la metà di ottobre. Ancora un mese e mezzo, e l’anno shakeloviano è finito.

** No, Shakespeare non la nomina mai altro che Lady Macbeth, ma la signora è basata sulla moglie del Macbeth storico – che si chiamava Gruoch ingen Boite.

Nov 4, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: Don Carlo(s) – Parte I

Librettitudini Verdiane: Don Carlo(s) – Parte I

giuseppe verdi, friedrich schiller, don carloQuest’opera esiste in quattro e in cinque atti, in Italiano e in Francese, con i balletti, senza balletti e in ogni possibile combinazione delle precedenti, è stata scritta, potata, riscritta, rivista, tradotta e ritradotta, accorciata, modificata – ed è, in tutta probabilità, la mia opera preferita.

E naturalmente il fatto che  sia la mia opera preferita (di sicuro il mio Verdi preferito) non ha nulla a che fare con la sua genesi, né con granché d’altro, ma spiega in parte perché il post in proposito sarà diviso su due settimane. L’altro motivo è che, per non farci mancare nulla, il libretto lo racconteremo nella versione in cinque atti, con un certo numero di annessi e connessi che non si sono (quasi) mai rappresentati o che non si rappresentano (quasi) più, con l’occasionale riferimento al dramma di Schiller da cui l’opera è tratta, e con qualche considerazione storica a parte. Capite bene che la faccenda potrebbe essere lunghetta.

Ma andiamo a incominciar, volete?

Atto I

Siamo in Francia, nella foresta di Fontainebleau, nel cuore dell’inverno. C’è un coro di boscaioli che si lamenta del freddo, delle tasse, della guerra…giuseppe verdi, friedrich schiller, don carlo

E poi c’è un altro coro di cacciatori che scorta la nostra primadonna, la principessa Elisabetta di Valois, figlia del re e, c’informano i boscaioli, tanto buona quanto bella. Elisabetta entra e distribuisce elemosine, e rincuora il popolo afflitto: la guerra con la Spagna sta per finire, e proprio ora il re sta discutendo con gli inviati di Madrid i termini di una pace che prevede nozze reali tra Elisabetta stessa e l’Infante di Spagna.

Entusiasmo generale, gratitudine, felicitazioni, auguri reciproci, e poi Elisabetta e il suo seguito passano oltre… ma chi sarà il giovanotto che è apparso appena in tempo per bearsi della vista di Elisabetta?

È, naturalmente, il tenore eponimo, che si ferma sulla scena deserta ad informarci dettagliatamente su come abbia lasciato la Spagna di straforo contro il volere del padre Re Filippo, e si sia precipitato qui in incognito per dare un’occhiatina preliminare alla sua nobile fidanzata e, avendola vista per tutto un minuto, se ne sia innamorato giuseppe verdi, friedrich schiller, don carloperdutissimamente.

E la seguirebbe volentieri – non fosse che si è attardato un po’ troppo per metterci a parte, e ha perso di vista e d’udito la caccia… Ma niente paura: anche Elisabetta, si direbbe, ha perso di vista e d’udito la caccia, e torna in scena accompagnata da un paggio, stanca e infreddolita, e piuttosto incerta su come tornare a casa. Figurarsi se Carlo non si offre di fare da scorta e da compagnia alla principessa mentre il paggio torna a palazzo a procurare un mezzo di trasporto. 

E così i nostri due rimangono soli – tenore e soprano. Non è l’ultima volta che capita in quest’opera, e tanto vale che lo sappiate: la combinazione non prelude mai a nulla di buono. Oh, all’inizio pare di sì. Elisabetta e il misterioso Spagnolo fanno conversazione, lui accende un focherello millantando esperienze militari*, spiega che la pace è sul punto di essere firmata. È solo naturale che Elisabetta gli chieda del suo futuro sposo, non credete? E guarda caso, il misterioso giovanotto non solo è appassionatamente certo che l’Infante sia già innamorato della sua promessa francese, ma ha anche una miniatura da farle vedere. Lei prende il medaglione, lo apre, e… chi ci trova?

Estasi, gaudio, amore reciproco, aerei nonnulla – fino al colpo di cannone che segna la conclusione dei negoziati: la pace è stretta, il matrimonio deciso. Si può essere più felici di così?

Entra il paggio di Elisabetta, guidando un corteo con le fiaccole di cui fa parte il Conte di Lerma, ambasciatore di Re Filippo, e tutti quanti salutano Elisabetta… regina di Spagna!

Ops…

Il matrimonio è concluso eccome, ma si direbbe che, all’ultimo momento, Enrico di Valois sia riuscito a strappare un prezzo migliore in cambio della pace: sua figlia regina anziché infanta.

Catastrofe indicibile. Mentre il coro inneggia, Elisabetta e Carlo si guardano annichiliti e inorriditi. Ma… piano, forse c’è ancora uno spiraglio… Lerma, a quel che pare, ha istruzioni di chiedere anche il consenso della sposa: vuole Elisabetta sposare Re Filippo?

Elisabetta esita solo per il tempo che serve alla compagine femminile del coro per ricordarle che solo lei può porre fine alla guerra che infiniti lutti addusse ai Francesi.

“Sì,”** mormora la povera ragazza con un fil di voce.

Tutti festeggiano la pace raggiunta e la nuova sovrana – tranne i due poveri innamorati – ma che si può fare contro il destino crudele? Il corteo scorta Elisabetta offstage in un tripudio di torce e inni, e Carlo, rimasto solo in scena, può soltanto gemere e dolersi sulla sparizione del suo bel sogno, mentra cala la tela.

Atto Secondo

Siamo in Spagna, adesso – e ci resteremo. Per la precisione, siamo nel chiostro del convento di San Giusto, dove un cupo coro di frati, guidato da un ancor più cupo frate/corifeo, canta cupissime considerazioni sulla mortalità e pochezza umane – particolarmente del defunto Carlo V, che proprio qui è venuto a ritirarsi tra l’abdicazione e la morte.

Ora, dovete sapere, nella versione in quattro atti l’opera comincia qui, con Carlo che ci riassume in un’aria-bignami tutto quel che dobbiamo sapere dell’atto di Fontainebleau. Ma noi di atti ne abbiamo cinque, per cui Carlo non ha bisogno di riassumerci nulla. Arriva a San Giusto nel vano intento di trovar pace e dimenticare Elisabetta presso la tomba del suo grande nonno… peccato che il frate/corifeo torni alla carica con le cupissime (pur se pertinenti) considerazioni, e nella sua voce Carlo creda di riconoscere quella del defunto imperatore… giuseppe verdi, friedrich schiller, don carlo

Orror! Terror! Sul capo gli si rizza il crine, e starebbe per abbandonarsi al panico se, molto a proposito, non entrasse in scena Rodrigo, Marchese di Posa, tornato dopo lunga assenza. E Rodrigo è il grande amico di Carlo, un baritono, un Cavaliere di Malta e una specie di illuminista travestito da Grande di Spagna. Pur essendo un idealista di tre cotte, il nostro giovanotto ha una testa più salda di quella di Carlo… o forse dopotutto no, considerando che vuole che Carlo salvi le Fiandre. Perché le Fiandre, vedete, soffrono da matti sotto il gioco spagnolo, e Carlo, che è dopo tutto l’erede al trono, dovrebbe fare della loro salvezza la missione della sua vita.

“Ma io sono innamorato,” pigola Carlo.

Rodrigo accantona la questione.

“Ma io sono innamorato infelicemente!”

Rodrigo comincia a spazientirsi.

“Ma io sono innamorato infelicemente di Elisabetta!”

Ecco, questo cambia un pochino le cose: non è bello essere innamorati della propria matrigna, specie quando il babbo è il Re di Spagna, e un Re di Spagna geloso e tirannico come Filippo… ma Rodrigo ha in mente una soluzione. Indovinate quale? Ma le Fiandre, perbacco! Dandosi anima e corpo alla causa delle Fiandre, non avrà più tempo per sospirare e languire – che oltretutto sono attività inadatte a un futuro re.

Carlo si lascia trascinare con commovente facilità, e i due giovanotti si scambiano il tipo di eroico giuramento d’amicizia che all’opera tende a non promettere troppo bene. E in effetti, Carlo pare subito pronto a crollare, non appena le trombe annunciano l’ingresso di Filippo ed Elisabetta*** – ma Rodrigo è un rapido pensatore e lo trascina via prima che possa dare spettacolo di se stesso.

giuseppe verdi, friedrich schiller, don carloMa spostiamoci un istante qui fuori, nel giardino del convento dove, in una delle pochissime scene soleggiate di quest’opera, le dame della regina si annoiano a morte in attesa dei sovrani. A vivacizzare l’atmosfera pensano il paggio francese di Elisabetta e l’ardente (pur se monocola) Principessa di Eboli, che cantano una ballata saracena di sultani infedeli e mogli astute…

Li interrompe l’arrivo della regina, sempre malinconica da non dirsi, e poi del Marchese di Posa – venuto ostensibilmente a portare a Elisabetta una lettera della madre dalla Francia, e di fatto a consegnarle un bigliettino di Carlo che chiede un incontro.

Ma come? Non si proponeva di fargli dimenticare Elisabetta per le Fiandre? Magari Carlo ha posto questo incontro come condizione, o magari non c’è una buona ragione: preparatevi all’idea che quel che Rodrigo fa non è sempre terribilmente sensato. Ad ogni modo, Elisabetta legge mentre Rodrigo distrae la curiosissima Eboli con un po’ di gossip parigino e poi, invitato a chiedere una grazia alla regina, il nobile messaggero accetta e non per sé: il povero Carlo è così infelice, vorrebbe partire per le Fiandre, ma il Re non vuol sentirne parlare… Non vorrebbe Elisabetta intercedere? Elisabetta è lacerata tra amore e dovere, mentre la Eboli si domanda se Carlo non sia così infelice perché è innamorato proprio di lei – che sarebbe ben felice di ricambiarlo.

Alla fine Elisabetta cede: il figlio è pronta a riveder. Tutti si ritirano – seppur con qualche perplessità nel lasciare sola la regina in violazione del protocollo di corte – ed entra Carlo.

E Carlo non ci sta ad essere chiamato figlio, né è poi così interessato a partire come Rodrigo aveva suggerito. A lui interessava solo di rivedere la sua ex fidanzata, a dichiararle il suo amore ancora una volta, a rimproverarla perché vuole essere leale con il re, a farsi dire che lei lo ama ancora, a svenire ai suoi piedi, a delirare un pochino, a saltare adosso a una commossa Elisabetta… giuseppe verdi, friedrich schiller, don carlo

È proprio solo per merito di lei se la faccenda non trascende. Messo con qualche rudezza di fronte alla realtà dei fatti, Carlo inorridisce e fugge – appena in tempo per non essere colto in fallo dal Re che arriva con i suoi. Ma a Elisabetta, colta da sola, non va altrettanto bene. Per lo sconcerto generale, un furibondo Filippo bandisce dalla Spagna la dama d’onore francese che non avrebbe dovuto staccarsi dal fianco della Regina, e poi congeda la corte – tranne Rodrigo, con cui è curioso di scambiare qualche parola. 

Come mai, si chiede, questo viaggiatore e soldato di buona famiglia ha lasciato il servizio in Fiandra per tornarsene in Spagna? Con candore potenzialmente suicida, Rodrigo risponde che lui è, per l’appunto, un soldato e non un macellaio, e quel che si sta facendo nelle Fiandre è bassa macelleria. Filippo non è abituato a sentirsi parlare così, e s’indignerebbe molto volentieri, ma c’è qualcosa, nella passione e nella fierezza con cui Rodrigo perora la causa dei Fiamminghi, qualcosa che gli tocca il cuore. Ah, come vorrebbe che fosse questo suo figlio, invece dello squadrellato inaffidabile e inefficace che gli è toccato in sorte… in un inconsueto impulso di fiducia e simpatia, nomina Rodrigo suo consigliere, e lo incarica di sorvegliare la Regina e l’Infante, sui cui nutre seri dubbi. E ad essere sinceri, il modo in cui Rodrigo a questo punto gongola tra sé sull’insperata chance, non ce lo rende simpaticissimo. Mentre, al contrario, quasi ci commuoviamo quando Filippo, a titolo di congedo, raccomanda al suo nuovo giovane amico di guardarsi dall’Inquisizione.

E cala la tela sull’atto secondo, e noi per ora ci fermiamo.

Che ne sarà dei nostri eroi? Riuscirà Carlo a ricongiungersi con l’amata Elisabetta o si farà spedire nelle Fiandre? E che farà Rodrigo, preso tra l’amicizia per Carlos, la causa delle Fiandre e la fiducia del vecchio Re solitario? E Filippo? Ha finalmente trovato un amico leale? E potrà fidarsi del suo instabile figlio e della malinconica moglie? E come reagirà la bella Eboli scoprendo che Carlo è innamorato – ma non di lei? E soprattutto, sarà poi vero che nessuno si aspetta l’Inquisizione spagnola?

Per scoprirlo, non perdete il prossimo appassionante episodio delle Librettitudini Verdiane: Don Carlo(s), Parte II.

 

______________________________________________________

* Allora, questa è una di quelle cose su cui si può discutere finché si vuole, ma se lo chiedete a me, nulla mi convincerà mai che Carletto abbia mai fatto vita al campo. Aspettate di conoscerlo meglio. Ne riparliamo fra un paio d’atti, e mi saprete dire. Oh, ed è inutile cercare soccorso nell’originale schilleriano, perché tutto quest’atto è un’aggiunta dei librettisti francesi Mery&Du Locle.

** Narrasi che alla prima parigina del 1867 il soprano Marie Sass, in un momento di distrazione, rispondesse “No”, per la comprensibile furia di Verdi e, immagino, lo sconcerto del pubblico…

*** Sì: per dimenticare Elisabetta si era precipitato nel posto in cui sapeva che suo padre avrebbe condotto la sua sposa. Tenori.

Ott 28, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: La Forza Del Destino

Librettitudini Verdiane: La Forza Del Destino

giuseppe verdi, la forza del destino, francesco maria piave, antonio ghislanzoniÈ il 1861 quando capita che il Teatro Imperiale di Sanpietroburgo (il futuro Marjinski) chieda a Verdi un’opera. L’incarico è prestigioso, e Verdi accetta di buon grado – ma quale opera? Il teatro propone il Ruy Blas di Hugo, subito scartato per ragioni di censura, e allora, Spagna per Spagna, Verdi propone Don Alvàro, o La Fuerza del Sino, drammone iperromantico e affollato dello spagnolo duca di Rivas. E i Russi accettano, così Verdi si rivolge al vecchio amico Piave (povero Piave!) per un adattamento.

Successone pietroburghese, entusiasmo di Zar e Zarina, ordine imperiale e reale di San Stanislao per Verdi… Vogliamo pensare che per una volta sia andata dritta al primo colpo? Niente problemi di censura, libretto visto e piaciuto?

Ma no, naturalmente: figuratevi che alla Scala, anni dopo, la Forza del Destino ci arrivò rimaneggiata da Ghislanzoni, accorciata, con un morto e mezzo in meno e un atto rifatto… Povero Piave, indeed.

Adesso la Forza, con una fama lievemente iettatoria a traino, si esegue sempre nella versione di Ghislanzoni, e dunque è questa che procedo a raccontarvi.

Atto Primo

Siamo a Siviglia alla metà del Settecento, nella stanza della bella Leonora di Vargas, marchesina di Calatrava, cui l’affettuoso babbo marchese è andato a dare la buonanotte. E i padri operistici non impareranno mai a levare il sopracciglio quando le loro sopranili figliole si torcono le mani senza causa apparente… il Marchese non fa in tempo a girare l’angolo che la servetta Curra riapre il balcone e comincia a preparare il genere di bagaglio sommario che una nobile fanciulla si porta dietro per andarsi a sposare di nascosto… Ed è così che scopriamo come il tenore Don Alvaro sia in arrivo per rapire la sua bella.

Leonora, a dire il vero, ha qualche remora, e quando arriva, l’impetuoso Alvaro ha il suo daffare a convincerla a calarsi dal verone. Perché, vedete, il guaio si è che Alvaro è, nelle parole di non so chi fra i due librettisti, un indo di regale stirpe, di anima ardentissima, indomita e sempre nobilmente generosa. Ops… non solo un coloniale, ma un indigeno delle colonie – di stirpe regale finché si vuole, ma socialmente inacettabile per i nobilissimi e spagnolissimi Vargas di Calatrava. E allora fuggir bisogna, ma Leonora è un soprano di varietà singolarmente irresoluta, ed esita, e periclita, e tentenna, e chiede di rimandare la fuga all’indomani… 

E tu contento, gli è ver, ne sei?
Sì, perché m’ami, nè opporti dei;

E come no? Contento come una Pasqua, Alvaro propone di sciogliere il fidanzamento sur le camp, il che pare decidere la bella tentennatrice – ma è tardi. La porta si spalanca e il nobile babbo rientra brandendo la spada di famiglia e ordinando ai servi di incaprettare il vile seduttore. E allora Leonora supplica con scarso effetto, e Alvaro chiede di morire in duello, e il Marchese rifiuta, e Alvaro in vena di gesti drammatici estrae la sua pistola e la getta a terra, e parte un colpo – e indovinate chi becca?

A titolo di esempio del perché quest’opera sia considerata sfortunatella, il Marchese la prende nelle costole e muore – non prima di avere maledetto la figlia disonorata e disonoratrice della famiglia. Orrore e confusione, e Alvaro si trascina via Leonora per il balcone – e via verso l’ignoto, mentre si chiude il sipario.

Atto Secondogiuseppe verdi, la forza del destino, francesco maria piave, antonio ghislanzoni

È passato un anno e mezzo, e ci siamo spostati a Hornachuelos, in quel di Cordoba, in una pittoresca osteria, dove arriva, in vesti di studente, Don Carlo** di Vargas, fratello di Leonora a caccia di sorelle degeneri e incas seduttori. Ora, giusto perchè lo sappiate, Don Carlo è un baritono e a me è simpatico. Il librettista ce lo descrive come giovane ardente di 22 anni. Animato sempre dalla sete di vendicare l’offeso onore della sua casa; che risolutamente e tenacemente affronta ogni difficoltà, sprezza ogni pericolo pur di giungere al suo scopo. How very Spanish, isn’t it? E comunque, ammetetelo: ha le sue ragioni. Comunque, con tutta l’Andalusia a disposizione, proprio qui deve arrivare Leonora – sola e vestita da uomo – e scomparire rapidamente dopo avere riconosciuto il fratello? Ma quest’opera è così, e comunque siamo subito distratti dall’apparire della zingarella Preziosilla, che canta, danza, legge la mano e si direbbe che lavori in subappalto per i sergenti reclutatori, visto lo zelo con cui invita gli uomini ad arruolarsi e andarsene a caccia di gloria in Italia…

Preziosilla prende in subita antipatia Don Carlo, che non le sembra affatto uno studente… Di certo, quando tutti vanno a guardar passare il coro di pellegrini diretti al giubileo, e Leonora esce come il cucù di un orologio, per pregare in pubblico che il cielo la salvi dal fratello vendicatore, la nostra zingarella fa due più due – e tanto più quando poi il falso studente mostra un po’ troppo interesse per il misterioso ospite che cena in camera, e sul quale nessuno sembra disposto a dirgli nulla. Carlo ha i suoi sospetti, ma anche il coro comincia ad averne su di lui, così che il giovanotto deve cavarsi d’impaccio raccontando di come abbia abbandonato momentaneamente i suoi studi di legge per assistere il suo buon amico, il cavaliere di Vargas, nella caccia al delinquente che gli ha ucciso il padre e la sorella e che adesso pare stia fuggendo nel Nuovo Mondo… Non che Preziosilla gli creda, ma gli altri sono impressionati e convinti.

Cambio di scena.

Voi ci credete che Alvaro se ne stia fuggendo da solo nelle Americhe, lasciando indietro Leonora? Lei ci crede eccome, tanto che, al riaprirsi del sipario, la troviamo che bussa alla porta di un convento mentre fa l’inventario delle sue molte infelicità: il babbo morto, il fratello che vuole il suo sangue, il moroso che l’ha piantata in asso… dopo un breve intermezzo semicomico con il portinaio Fra Melitone, cui non par bello aprire a uno sconosciuto nel cuore della notte, arriva l’angelico Padre Guardiano, cui Leonora rivela i suoi guai e chiede rifugio. Il Padre Guardiano le propone la più sensata soluzione di un convento femminile – ma Leonora no, vuole restare dov’è, e minaccia, se verrà respinta, di andarsene per le balze, gridando aìta finché qualche animale selvatico non metterà fine alle sue sofferenze. Commosso dal suo dolore, e forse spiazzato dalla minaccia di ritrovarsi una squilibrata che balza per le balze ululando aìta, il Padre Guardiano le assegna un saio e uno speco*** in cui soggiornare romita, orante e semidigiona per purgarsi l’anima. Siccome è quasi l’alba e gli altri frati arrivano per cantare le lodi, Leonora fa in tempo a ricevere la comunione, e poi se ne va al suo speco con vista monti, mentre il coro invoca su di lei la celebre benedizione della Vergine degli Angeli – e sipario. 

Atto Terzo

Seguendo a nostra volta l’invito di Preziosilla, andiamo in guerra. Siamo in quel di Velletri, ai margini del campo spagnolo, dove scopriamo che Don Alvaro non è affatto nelle Americhe – anzi. Lo ritroviamo prode capitano dell’esercito spagnolo, sotto falso nome, occupato a passeggiare nottetempo e a maledire la sua sorte. Sangue reale, orfano, infelice, Leonora, omicidio colposo – e tutta la faccenda che conosciamo già – a parte il fatto che il nostro tenore, per qualche motivo, crede che Leonora sia morta. Né è troppo occupato a maledire la sorte per salvare un giovane ufficiale inesperto che, appena arrivato al campo, è entrato nella bisca sbagliata e per poco non ci lascia le penne. E indovinate, in questa fiera della coincidenza, di chi si tratta? Ma di Don Carlo, naturalmente.

Però ricordate che i due non si sono mai visti in faccia, e sono entrambi arruolati sotto falso nome… E la beffa è che si piacciono subito a vicenda, e prima di subito si giurano eterna&fraterna amicizia.

Cosicché, quando nella battaglia successiva Alvaro/Federico resta ferito gravemente e crede di morire, è proprio all’afflitto e sollecito Carlo/Felice che chiede di distruggere le sue carte senza leggerle. Carlo/Felice giura, ma ha qualche dubbio. È capitato che, in un momento di trasporto malguidato, prometesse all’amico l’ordine di Calatrava, e la proposta fosse accolta con orrore… Sta a vedere, sta a vedere! A questo punto, mentre Alvaro/Federico è sotto i ferri del cerusico, i sospetti di Carlo/Felice lievitano. Però lui è un prode nobiluomo spagnolo, e non può infrangere la parola data, per quanto ne sia tentato… Peccato che, nell’affidargli le consegne, il nostro Indo si sia dimenticato di includere nel patto la miniatura che si tiene in valigia. Su questa Piccoli Casuisti Crescono non ha giurato nulla, e dunque la apre e ci trova… Leonora! Tombola. Trovato il vile seduttore – solo che non muoia sotto i ferri… ma no: il chirurgo arriva con buone notizie, e il cavaliere di Vargas si rallegra. Il seduttore è vivo, e può ucciderlo lui.

Fast forward del tempo che ci vuole a guarire da una ferita. È di nuovo notte, e Alvaro, di nuovo in piedi, ha ripreso l’abitudine di passeggiare attorno al campo maledicendo la sorte. Ma stanotte la sorte maledetta la incontra nella persona di quello che ancora crede il suo amico, e che invece si rivela per Don Carlo di Vargas, e se non è troppo disturbo lo ucciderebbe volentieri. Alvaro tergiversa, perchè gli par brutto infilzare il suo ex-amico, e anche l’uomo cui ha ucciso il padre… Nonché sedotto e abbandonato la sorella, gli ricorda Carlo. E Alvaro protesta di no, che Leonora lo ricambiava, ma è morta, miserella – dopo che lui, ferito gravemente la notte della fuga, l’ha persa per strada… Ma niente affatto, lo informa Carlo, e a questo punto Alvaro sarebbe pronto a dimenticare il passato, cercare Leonora e sposarla – perché lui, dopotutto, è di sangue reale…**** Al che Carlo fa notare che poco importa che sangue abbia, resta il piccolo dettaglio dell’assassinio del Marchese, per vendicare il quale ha ogni intenzione di uccidere lui e Leonora senza distinzione di trattamento. Ed è la minaccia a Leonora a decidere Alvaro: i due sguainano le spade e si battono per un po’, ma arriva la ronda e li separa e trascina fuori scena.

Segue un lungo quadro di colore locale, con Preziosilla, i camp-followers, le reclute, i soldati spagnoli, i soldati italiani, le vivandiere e persino Fra Melitone – perché in fatto di coincidenze, l’abbiamo detto, qui non ci facciamo mancare nulla. E poi sipario.

Atto Quarto

È passato oltre un lustro,***** e Fra Melitone è tornato in convento a Hornachuelos, dove distribuisce la minestra ai poveri, con tanta bruschezza e così scarsa carità, che i mendicanti rimpiangono quell’angelo e santo del Padre Raffaele che si occupava di loro prima.

giuseppe verdi, la forza del destino, francesco maria piave, antonio ghislanzoniMa Raffaele, c’informa Melitone, è non poco squadrellato, e troppo preso da digiuni, cilici e penitenze per occuparsi di qualcosa di così prosaico come la minestra dei poveri. Vi viene il dubbio di chi possa essere? Alla fine, i mendicanti se ne vanno più o meno soddisfatti, e si bussa alla porta. È un misterioso e arrogante cavaliere, che viene a cercare proprio Padre Raffaele. E scommetto che nessuno si sorprende nello scoprire, quando i due s’incontrano, che il frate è Alvaro e il cavaliere Carlo. Ecco che ci siamo. Alvaro/Raffaele in un primo momento rifiuta di battersi – per l’abito che porta, per la pace che cerca, per l’umiltà che ha accettato… chiede perdono, e s’inginocchia, e supplica. Ma lo sapete come sono questi nobiluomini spagnoli una volta che si sono intestarditi in una vendetta: Carlo insulta, vilipende e schiaffeggia, finché Alvaro getta alle ortiche i suoi scrupoli, e i due corrono offstage a battersi.

E dove correranno mai? Nei pressi dello speco di Leonora, ovviamente, che prega e digiuna da una decina d’anni (dipende da quanto è più di un lustro), ma ancora non è riuscita a togliersi di testa Alvaro, e vorrebbe tanto morire… Appena lei è tornata a richiudersi nel suo speco, entra in scena Alvaro, che ha ferito a morte Carlo, e cerca disperatamente un confessore per il secondo Vargas che ha fatto fuori nel giro di dieci anni. E bussa allo speco dell’eremita, e l’eremita non ne vuole sapere, e quando apre la porta… oh numi! Leonora! Alvaro! Non dirmi che abbiamo vissuto dentro e fuori dallo stesso convento per cinque anni e non lo sapevamo! Sì! Giusto cielo, siamo riuniti! Er… non proprio: sai com’è, ho appena spacciato tuo fratello… giuseppe verdi, la forza del destino, francesco maria piave, antonio ghislanzoni

Leonora, disperata, corre offstage per abbracciare un’ultima volta il fratello morente, e Alvaro si torce le mani. Magari un parente assassinato una ragazza può anche perdonarlo, ma due? E però il problema sta per farsi irrilevante. Odesi uno strillo, e Leonora rientra sorretta dal Padre Guardiano – e ferita a morte. Carlo, che non era nulla se non coerente, prima di morire ha accoltellato la sorella degenere.

Orrore, orror! Alvaro impreca, ma Leonora e il Padre Guardiano lo esortano all’umiltà e al pentimento. Lui non ne vorrebbe sapere, ma che può fare a questo punto? Dopo avere smaniato per quattro atti, Alvaro si pente e si umilia, così Leonora muore contenta promettendogli il perdono di Dio.

Morta!

costata Alvaro, al che il Padre Guardiano corregge: no,

Salita a Dio!

E sipario. Nella versione Piave, il finale era più truce: Carlo feriva la sorella e moriva in scena e Alvaro, persa del tutto la trebisonda, balzava per le balze imprecando e poi si buttava giù. I Russi non avevano mostrato compunzioni in proposito, ma parve che più a occidente il pubblico si sgomentasse, e così il finale fu sanitizzato. Che non lo fosse di più è merito di Verdi che si impuntò sulla morte di entrambi i fratelli Vargas.

Un’ultima nota di colore. Ricordate il Ruy Blas rifiutato dai censori russi? Qualche anno più tardi lo musicò Filippo Marchetti, che ebbe la sfortuna di debuttare alla Scala alla fine della stagione 1869, dopo il travolgente successo dell’approdo scaligero della Forza del Destino. Del Ruy Blas nessuno si accorse troppo, e l’opera rimase in scena per due serate soltanto per essere ripresa soltanto nel 1873. Allora ebbe un successone e ventuno repliche – più dell’Aida. Se lo chiedete a me, avevano avuto ragione nel Sessantanove, ma così vanno gli alti e bassi dell’opera.

____________________________________________________

** E con questo facciamo due Don Carli verdiani. Presto saranno tre.

*** Eccola qui, la grotta in dotazione!

**** Casomai noi o qualcuno in scena si avesse la tentazione di dimenticarsene. Non vi ricorda Alan Breck Stewart, who bears a king’s name? A parte il fatto, si capisce, che Alan è incommensurabilmente più simpatico.

***** E che mai vorrà dire “oltre un lustro”? Cinque anni sono cinque anni, sei anni sono sei anni, sette anni sono sette anni… mah.

Ott 21, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: Un Ballo In Maschera

Librettitudini Verdiane: Un Ballo In Maschera

giuseppe verdi, antonio somma, un ballo in maschera, una vendetta in domino, gustavo IIIQuesta faccenda era partita come Gustavo III, sulla base di un omonimo e francese libretto di Scribe, poi italianizzato da Antonio Somma. Solo che, capite, c’erano faccende (peraltro piuttosto storiche) di corna, stregoneria e regicidio – in ordine di gravità crescente, I believe – tutte cose che rovinavano la digestione ai censori di Napoli, per il cui San Carlo l’opera era stata scritta. E sì, diciamolo: era un libretto imprudente. Tant’è che i censori imposero un trasloco in Pomerania of all places, e Somma obbedì producendo Una vendetta in domino, e i censori, non contenti, pretesero di mutilare la vicenda tanto che Verdi s’inalberò, e la censura proibì la rappresentazione, e il San Carlo, con cui proprio Verdi non riusciva ad andare d’accordo, fece causa al compositore per violazione di contratto, e Verdi querelò per danni, e il San Carlo ritrattò, e Verdi promise un’altra opera più avanti, e se ne fuggì a Roma, per tentare la fortuna con la censura papalina. Andò marginalmente meglio: anche a Roma pareva brutto far morire un sovrano in scena – per non parlare di una strega nella civile Europa alla metà del Settecento, ma per il resto non avevano soverchie remore… Alla fin fine Verdi e Somma se la cavarono degradando il Re di Svezia a Governatore del Massachussets e spostando il tutto al cupo e superstizioso Seicento coloniale – e così adesso sapete a chi e a che cosa dovete il nonsense esotico che adesso vi racconto.

Atto Primogiuseppe verdi, antonio somma, un ballo in maschera, una vendetta in domino, gustavo III

Siamo a Boston, come si diceva, ed è la fine del secolo decimosettimo. È anche mattina, e nel palazzo del governatore deputati, uffiziali, popolani e gentiluomini attendono il lever di Riccardo, Conte di Warwick. E mentre parte del coro canta le lodi di Riccardo, gli scontenti Tom e Samuel hanno l’aria di pensare diversamente. Con buona pace delle censure di due stati, qui si medita conticidio.

Ma eccolo, l’amato e detestato Riccardo, pieno di zelo nei confronti del suo popolo e di joie de vivre. Tra un decreto e una grazia, si occupa anche degli inviti per il ballo mascherato insieme al suo paggio Oscar – ma un nome* tra le belle invitate lo colpisce: Amelia! Nel bel mezzo della folla, Riccardo si astrae un istante per pindareggiare un istante sulla donna che ama…

Tutti se ne accorgono, ma i candidi bostoniani lo credono assorto a pensare al loro bene.

Yes, well.

Forse sentendosi osservato, Riccardo congeda tutti per pensare in pace ad Amelia. Ma la pace dura poco, perché subito arriva, al modo di chi non ha bisogno di essere annunciato, Renato. Ora, vedete, Renato è un gentiluomo coloniale di seconda generazione, amico fraterno del Conte e… marito di Amelia.

Ops.

A peggiorare le cose…

D’accordo, fermiamoci un attimo e mettiamo le cose in chiaro. Ormai il mio debole per i baritoni è cosa risaputa – e Renato non è solo un baritono, ma uno dei miei baritoni verdiani preferiti. E per di più non posso fare a meno di parteggiare fiercely per il personaggio oggetto del genere di slealtà che tocca al povero Renato. Per cui siete avvisati: qualunque cosa Renato finisca per fare, sarò spudoratamente dalla sua.

E torniamo a noi. A peggiorare le cose, dicevo, Renato si preoccupa delle paturnie del suo amico e signore – ed è convinto di conoscerne la ragione. Capirete che Riccardo sobbalza un nonnulla, ma Renato è candido: sa di una congiura ai danni di Riccardo, sa chi siano i congiurati, sa come troncare sul nascere– Reso imprudente dal sollievo, Riccardo lo zittisce quasi bruscamente: non gli cale, non ne vuole sapere nulla e non si abbasserà a fare il tiranno. Che provino a ucciderlo, se ci riescono.

E sì: qualora ve lo stiate chiedendo, Riccardo è un tenore.

Renato è preoccupato – non a torto. E lo è ancora di più quando, all’arrivo di un giudice che chiede una condanna per una strega, Riccardo decide di fare un salto a vedere di persona – in incognito e senza scorta. Oh, d’accordo, con mezza corte (parimenti in incognito) al seguito, ma non sembra anche a voi la situazione ideale per un attentato?

Inutilmente Renato predica la prudenza: Riccardo è troppo preso dal suo nuovo gioco, Tom&Samuel gongolano, e tutti si danno appuntamento all’antro di Ulrica** – anche Renato, intenzionato a badare a Riccardo se Riccardo non vuole o non sa badare a se stesso.

giuseppe verdi, antonio somma, un ballo in maschera, una vendetta in domino, gustavo IIIAndiamoci anche noi, all’antro di Ulrica, che legge il futuro in pretesa combutta con il diavolo e ha un gran seguito popolare. Riccardo, in abiti da pescatore, arriva in tempo per sentirla predire ricchezza e fortuna a un baldo marinaio – e, un po’ perché l’uomo gli ispira simpatia e un po’ perché è divertito dal senso del teatro della maga, provvede istantaneamente una borsa e un brevetto da ufficiale. Figurarsi il marinaio quando si ritrova tutto quanto in tasca, e figurarsi la folla nel veder avverare la predizione. Ma mentre tutti si rallegrano, arriva in gran segreto un uomo – che Riccardo riconosce come un servitore di Amelia. Quando la maga congeda tutti con qualche bruschezza, Riccardo si nasconde, e così assiste insieme a noi all’arrivo di Amelia. Amelia, la moglie di Renato, è arrivata a chiedere alla maga un filtro per dimenticare un amore colpevole… Ulrica dà istruzioni un tantino sinistre, e Riccardo si bea di essere riamato.

Sciagurato, don’t you think?

Ma ecco che torna il coro – per metà composto adesso di cortigiani travestiti, compresi Samuel e Tom. Amelia si dilegua, e Ulrica riprende le consultazioni. Prossimo…

E prossimo si fa avanti Riccardo per farsi leggere la mano. Ulrica riconosce in lui un grand’uomo abituato al mestiere delle armi e… destinato ad essere assassinato.

Tom e Samuel cominciano a sudare freddo.

Ad essere assassinato per mano di un amico.

Tom e Samuel per poco non si strozzano.

Riccardo ci ride su.

Ulrica ammonisce che c’è poco da ridere: destinato ad essere assassinato dal primo che gli stringerà la mano.

Nell’idea di smentire il vaticinio, Riccardo cerca qualcuno che gli stringa la mano – ma nessuno sembra disposto a farlo… finché entra Renato, che non ha sentito nulla e non ha obiezioni a stringere la mano al suo amico.

Ops…

L’amico, badate bene, che si appresta a tradire. Ma a Riccardo pare di avere sbugiardato Ulrica – cui, ad ogni modo, concede la grazia. E lei ringrazia ma torna ad ammonire: tra i suoi c’è un traditore… E vero è che la sua credibilità è un tantino franata a valle, ma Riccardo si guarda bene dal crederle, e anzi, all’arrivo del marinaio alla testa del popolo festante, si crogiola nell’entusiasmo generale, incurante tanto delle preoccupazioni di Renato quanto degli sguardi truci di Tom&Samuel.

E sipario.

Atto Secondo

Mezzanotte. Orrido campo alla periferia di Boston – nientemeno che il luogo delle esecuzioni capitali. E che ci fa qui Amelia, da sola e a quest’ora? Ebbene, è proprio qui che Ulrica l’ha mandata a procurarsi le verdurine per il filtro disamorante: l’erba che cresce ai piedi della forca. E Amelia è venuta, perché così le detta il dovere, ma ci si strugge. E mentre si strugge arriva Riccardo che, se ricordate, aveva sentito tutto. E magari è anche vero che è venuto per proteggerla nel luogo solitario e nell’ora notturna, ma già che c’è le chiede di dirgli almeno una volta che l’ama, e lei dice no, poi dice ni, poi dice t’amo, e sapete come vanno queste cose… ma chi è che arriva? O, per dirla con Riccardo,

Chi giunge in questo
Albergo della morte?

E chi volete che giunga? Ma Renato, naturalmente. Renato che non riconosce sua moglie fittamente velata, ma è venuto a salvare Riccardo dai cospiratori che sono sulle sue tracce. È o non è un leale, buon e coraggioso ragazzo? E vi pare che meriti quello che questi due sciagurati gli stanno facendo? Guardatelo, mentre fa cambio di mantelli, pronto a farsi uccidere al posto del suo amico se occorre… Riccardo esita un nonnulla ad andarsene, più che altro per via di Amelia, che però gli ordina di andare e salvarsi. E che cosa gli pare bello fare? Affida la signora velata a Renato, con la più stretta ingiunzione di scortarla in città senza cercare di capire chi sia. Se lo fa giurare – come se sospettasse Renato di potergli disobbedire – e Renato, abituato alle scappatelle amorose del suo amico e ansioso di vederlo fuggire, giura. Finalmente Riccardo sguscia via, e Renato si appresta a riportare la signora velata in città, quando irrompono Tom&Samuel, con un coretto di cospiratori armati e ammantellati. giuseppe verdi, antonio somma, un ballo in maschera, una vendetta in domino, gustavo III

E si seccano un tantino di trovare soltanto Renato invece del Conte, ma decidono di rifarsi con la bella signora velata – cominciando col capire chi sia. Renato, solo contro un coro intero ma coraggioso, sguaina la spada e si appresta a… well, a farsi fare a striscioline, in realtà. Ed è allora che Amelia si mette di mezzo strappandosi il velo.

Sensazione!

Tom&Samuel e compagnia si abbandonano a un musicalissimo convulso di risa – credendo, si sottintende, che questi due, sposati e provvisti di casa confortevole, se ne vadano a fare kinky sex nei prati desolati di notte – ma Renato… ah, povero ragazzo. Mentre tutti attorno sghignazzano e cachinnano (con l’eccezione di Amelia che si torce le mani – ma per se stessa e non per il marito), può solo contemplare tragicamente i cocci del suo mondo, perché non c’è altra possibile spiegazione alle circostanze: l’adorata moglie e l’amatissimo amico (per cui era disposto a farsi uccidere) l’hanno tradito. Talk of broken hearts! E i risultati si vedono subito, quando Renato dà appuntamento a Samuel&Tom per l’indomani. Una sfida a duello? si domandano non incomprensibilmente i due – che, tra l’altro, hanno l’impressione di essersi appena autodenunciati come aspiranti conticidi… Ma no, Renato ha ben altro in mente, come vedremo ben presto.

Atto Terzo

L’indomani, nello studio di Renato – dominato, badate bene, da un ritratto a figura intera di Riccardo. Ci credete se vi dico che Amelia ha il coraggio di negare? E se è vero che tecnicamente può sostenere di non avere macchiato l’onore del marito, poi si lascia un po’ prendere la mano e le pare bello protestare così:

Sallo Iddio, che nel mio petto
Mai non arse indegno affetto.

Al che, per quanto mi riguarda, e considerando che l’abbiamo sentita tutti ululare il suo amore per Riccardo, perde ogni diritto a qualsiasi considerazione e simpatia. Cosicché, chiamatemi dura di cuore, ma davvero non riesco a commuovermi quando supplica Renato di non ucciderla, o almeno di lasciarle rivedere il figlio un’ultima volta…

Semmai mi commuovo quando Renato glielo concede e, rimasto solo, si rivela ancora innamorato di lei e riluttante a ucciderla – e molto più disposto a biasimare Riccardo – ma si sa che io sono di parte.

giuseppe verdi, antonio somma, un ballo in maschera, una vendetta in domino, gustavo IIIAd ogni modo, arrivano Tom&Samuel, più che un po’ preoccupati. Tutto s’aspettano, fuorché di sentirsi offrire la collaborazione di Renato per far fuori Riccardo. E a dire il vero, e non del tutto incomprensibilmente, non è che credano del tutto a questa inversione a U. Ci vuole che Renato dia loro in ostaggio il figlio perché si convincano. E adesso il problema è che tutti e tre vogliono vibrare di persona la coltellata fatale… Mezzo istante prima che la faccenda degeneri in una baruffa indecorosa, decidono di tirare a sorte – e per la I Legge dell’Opportunità Teatrale, chi ti arriva se non Amelia, ad annunciare Oscar*** con un messaggio del Conte? Renato costringe la moglie ad estrarre un nome da un urna – cosa che Amelia fa con i peggiori e più funesti presagi. E naturalmente estrae il nome di suo marito. E poi arriva il paggio Oscar, cinguettando di inviti dal ballo in maschera. E allora Amelia esita, e Renato invece accetta. E Amelia fa due più due, e si domanda come salvare Riccardo senza tradire Renato. E intanto i tre cospiratori, in base alla I Legge della Stupidità Operistica, si accordano per vestirsi tutti e tre dello stesso colore… ottimo per riconoscersi tra tutte le maschere, ma potenzialmente quando uno dei tre avrà agito e sarà il caso di sparire con discrezione, don’t you think? Ma d’altra parte, è una cosa che i congiurati all’opera fanno spesso – come abbiamo visto l’altra settimana nei Vespri.

Ma fa nulla. Badate solo di non vestirvi in domino azzurro e sciarpa vermiglia, perché ci andiamo anche noi, al ballo – e non vorremmo essere scambiati per cospiratori. Per il momento troviamo solo il padrone di casa, che sta firmando ordini per risolvere i suoi guai  rimandando Renato in Inghilterra con Amelia. Esita, sì, e gli brucia da matti, ma che altro può fare di vagamente onorevole per liberarsi dalle tentazioni? È occupato a dirsi che, se non altro, al ballo rivedrà Amelia un’ultima volta – quando Oscar gli porta un messaggio anonimo in cui si annuncia l’attentato senza svelare i nomi degli attentatori. Ma volete mai che Riccardo sia prudente per una volta? Non vuole che qualcuno debba crederlo timoroso, e poi c’è da rivedere Amelia… tutti al ballo! giuseppe verdi, antonio somma, un ballo in maschera, una vendetta in domino, gustavo III

Il ballo comincia, e sappiate che tutto spira magnificenza e ilarità.

O forse non proprio tutta questa ilarità, dopo tutto: Tom&Samuel sono nervosetti anzichenò, e Renato – sia che sappia delle iniziative di Amelia, sia che, da quel bravo ragazzo che è, cominci a nutrire qualche dubbio – si dice convinto che il Conte non verrà. Però poi compare Oscar, a dirgli che invece il Conte c’è, e a rivelargli, dopo qualche insistenza, com’è mascherato.

Ma lo troviamo prima noi – e anche Amelia che, visto il fallimento del messaggio anonimo, ci riprova di persona, nascosta dietro una maschera. Naturalmente Riccardo la riconosce prima di subito, e le rivela la decisione di rimandarla in Inghilterra, e si fa ripetere un’altra volta che lai lo ama – e proprio così, impegnati a scambiarsi teneri addii li soprende Renato. Potete biasimarlo se estrae il pugnale e agisce?

giuseppe verdi, antonio somma, un ballo in maschera, una vendetta in domino, gustavo IIIIo non molto – ma gli allegri bostoniani mascherati sì. Non sono più affatto allegri mentre cercano di linciarlo, fermati soltanto dall’ordine di Riccardo che, ferito a morte, impiega l’ultimo respiro per graziare Renato, garantirgli che tra lui e Amelia era tutto platonico e dargli l’ordine che lo rispedisce in Inghilterra.

Renato si torce le mani in rimorso.

Tom&Samuel non credono alla loro fortuna.

Oscar si dispera.

Amelia comincia a dubitare di avere qualche responsabilità in tutto questo.

Riccardo muore invocando la diletta America.

Tutti inorridiscono.

Il sipario cala.

E dite quel che volete: assassino o no, a me continua a dispiacere più che altro per Renato.

________________________________________________

* E, date le circostanze, non si vede troppo perché debba stupirsi di trovarlo dov’è…

** Sì, un’indovina nera di nome Ulrica. Inutile dire che il nome nordico è, come vari altri, un relitto svedese/pomeraniano.

*** E tutte le volte mi chiedo: non ce l’hanno un servitore di qualche tipo che apra la porta e conduca gli ospiti invece della padrona di casa?

Ott 14, 2013 - Anno Verdiano    2 Comments

Librettitudini Verdiane: Simon Boccanegra

giuseppe verdi, simon boccanegra, francesco maria piave, arrigo boitoTra il 1855 e il 1856 Verdi mette all’opera Piave (povero Piave!) su un altro dramma di Antonio Garcìa Gutierrez, lo stesso del Trovatore.

E Piave (povero Piave!) produce, ma Verdi non è soddisfatto e fa aggiustare il libretto sottobanco da Montanelli – e poi, decenni più tardi, da Boito.

Per cui, se vogliamo vedere, non è che questo Simone nasca proprio sotto i migliori auspici… Storia molto cupa, a parte tutto. Vogliamo vedere?

Prologo

Siamo a Genova di notte, e il filatore d’oro Paolo Albiati intriga. Non sarà l’unica volta che glielo vediamo fare: ce l’ha coi patrizi, e intende veder Doge il prode corsaro Simone Boccanegra, commoner e flagello dei pirati barbareschi.

E se Simone ha dei dubbi, Paolo impiega cinque versi della lunghezza media di tre parole ciascuno per convincerlo che, una volta Doge, nessuno potrà più negargli la mano dell’amata Maria de’ Fieschi, che i suoi tengono chiusa in casa per aver dato troppa confidenza al baldo popolano…

Ci vuol poco a convincere il coro che: a) Simone è l’uomo che ci vuole; b) i Fieschi sono torturatori di fanciulle; c) i Fieschi sono in combutta col demonio – e il coro convinto si disperde per andare a gridare il nome di Boccanegra nelle strade e nei carrugi.

A scena vuota, arriva Fiesco père, ad annunciarci che la povera Maria è passata a miglior vita – e figurarsi quando arriva Simone, gongolando del fatto che sta per diventare Doge. Ed ecco, fossi un Genovese forse mi perprlimerebbe un nonnulla il modo in cui a costui il dogato interessa soltanto per maritare la povera Maria – ma immagino che faccia nulla.

Badiamo piuttosto al duetto-scontro tra Simone e Fiesco. Simone supplica perdono; Fiesco nega; Simone supplica; Fiesco nega; Simone supplica; Fiesco propone uno scambio: dammi la figlioletta illegittima che la povera Maria ti ha dato, e io ti perdono. Perché sì – c’è anche una figlioletta illegittima, ma Simone non è in grado di darla ad alcunchì, perchè rubella sorte lei rapì. Ovvero, se l’è persa.

Al che Fiesco se ne va ribadendo i suoi propositi di odio eterno, e trascurando di avvisare il mancato genero della sorte della povera Maria. Simone entra nel palazzo buio, costata da sé ed esce sconvolto, proprio mentre Paolo e il coro arrivano ad acclamarlo Doge. Sipario.

Atto Primogiuseppe verdi, simon boccanegra, francesco maria piave, arrigo boito

Fast Forward venticinque anni. Nel giardino con vista mare dei nobili Grimaldi – fuori Genova – la bella Amelia se la canta da sola, giusto per informarci che è un’orfana* adottata bene, e che il suo corteggiatore patrizio non le dispiace per nulla.

E guarda caso, eccolo qui: Gabriele Adorno che, per lo sconforto di Amelia, cospira con il suo padre adottivo, Andrea Grimaldi, contro il tiranno Boccanegra.

E siccome, guarda caso, anche lui è qui – o quanto meno chiede un colloquio per negoziare le nozze di Amelia con Paolo Albiati (promosso da filatore d’oro a cortigiano), la nostra ragazza spedisce Gabriele ad organizzare un fulmineo matrimonio con la collaborazione di Andrea.

Amelia esce e, molto a proposito, entra il vecchio Andrea Grimaldi. Avete già indovinato chi è? Nel prologo lo conoscevamo come Fiesco e, alle frettolose spiegazioni di Gabriele, risponde con il piccolo dettaglio che Amelia non è una Grimaldi genuina, ma un’orfanella adottata eccetera eccetera. Gabriele accusa il colpo per meno di un istante – ma poi l’amore è più forte del pedigree, e il vecchio Fiesco Grimaldi benedice le nozze ed entrambi escono, sgombrando il campo per il Doge Simone.

Torna Amelia per una buona chiacchierata. E il supposto tiranno comincia bene, perdonando i fratelli di Amelia – ribelli ed esuli. Al che, la nostra fanciulla procede a raccontargli che è innamorata ma che un malvagio cortigiano la concupisce, e che non è una Grimaldi, ma un’orfanella adottata eccetera eccetera… Avete già indovinato di chi si tratta? Baritono e soprano sono un po’ più lenti di noi. Sarà che lo fanno in versi, ma insomma confrontano miniature, e richiamano nomi, posti, e ricordi, e alla fine sono molto più sorpresi di quanto lo siamo noi nello scoprire che Amelia Grimaldi è in realtà Maria Boccanegra.

Celestiale felicità per entrambi, e ad Amelia – da orfanella a first daughter in un passo solo – non sembra passare per il capino che adesso avrà qualche difficoltà in più a convolare con il suo Gabriele.

Chi non è contento è Paolo, cui il Doge poteva essere disposto a dare in sposa la figlia dei Grimaldi – ma non certo la sua. E che può fare un povero villain in un caso simile? Ma è ovvio, signori: architettare un rapimento.

giuseppe verdi, simon boccanegra, francesco maria piave, arrigo boitoMa non ora. O quanto meno non in scena – perché noi ci trasferiamo a Palazzo degli Abati, nella Sala del Consiglio, dove** Simone si dichiara toccato dalla lettera con cui nessun altri che Petrarca lo supplica di non gettare Genova nell’ennesima guerra fratricida con Venezia. Sennonché non sono in molti a considerare che ci sia alcunché di fratricida nel suonarle ai Veneziani…

Non so come andrebbe a finire se non arrivassero i rumori di una sommossa. È quella di Andrea Grimaldi e Gabriele: patrizi contro popolani, popolani contro patrizi e tutti contro il Doge. I consiglieri cominciano a darsi addosso e a cedere al panico più scomposto, ma Simone è fatto d’altra pasta. Fa aprire le porte e manda un araldo ad informare i facinorosi che li aspetta e non ha paura.

E noi saremmo tentati di domandarci com’è che Paolo ha quest’aria così colpevole – ma non c’è tempo. Si sente la folla acclamare in distanza, e poi la si vede irrompere al grido di “viva il Doge”, e trascinando con intenzioni non del tutto benevole Gabriele e Grimaldi.

E Gabriele ci informa tutti di avere avviato la sommossa solo perché un uomo del partito popolare ha rapito Amelia. Su ordine del Doge, lui ritiene – ma noi sappiamo che non è vero. Simone, non del tutto incomprensibilmente, non prende bene l’accusa. Una volta di più, chissà che succederebbe se non fosse per un altro colpo di scena.

Proprio mentre Gabriele va per pugnalare Simone, Amelia irrompe, si mette in mezzo, supplica Gabriele di desistere e Simone di perdonare. Simone, Doge di pastafrolla, cede prima di subito – ma vuol sapre com’è stata rapita la ragazza.

E chi di noi, richiesta di spiegazioni, non comincerebbe così?

Nell’ora soave che all’estasi invita
Soletta men givo sul lido del mar.

Ad ogni modo, rapita, fuggita, tornata – e sa chi è stato. Simone capisce perfettamente, e dopo avere amministrato una ramanzina a patrizi&plebei capaci solo di sospettarsi a vicenda, e dopo avere stretto una tregua di fatto con Gabriele, costringe Paolo a maledirsi da sé, cosa che sconvolge nel profondo l’anima medievale del malvagio. E sipario.

Atto Secondo

Di nuovo, Paolo non è contento. Guardatelo mentre a notte fonda, nelle stanze del Doge, gli versa il veleno nell’acqua e, giusto per non lasciar nulla al caso, si fa condurre i prigionieri Fiesco/Grimaldi e Adorno per proporre loro di assassinare Simone. Fiesco rifiuta con sdegno ed è rispedito in cella – ma Gabriele è un tenore, povero ragazzo, ed è facile da manipolare. Quando Paolo gli dice che Amelia è col Doge – e lo dice con le peggiori implicazioni possibili – il candido giovanotto si scopre un’improvvisa propensione al dogicidio.

Ed è lì che cerca di convincersi da sé quando arriva Amelia. Cioè, Maria – ma lui non lo sa ancora. E Amelia/Maria non solo non ha affatto l’aria prigioniera ed afflitta, ma ammette senza remore che il Doge l’ama e lei lo ricambia, ma si rifiuta di spiegarsi meglio. Perché? Per nessun buon motivo apparente, se non perché così, quando Simone arriva e lei nasconde Gabriele sul balcone, lui può decidere definitivamente di passare alle truci vie di fatto.

Padre e figlia parlano, lei confessa il nome del suo innamorato, Simone inorridisce, Maria supplica, Simone la manda via mentre ci pensa… Ah quanti problemi ha un Doge. E tanti problemi mettono sete, you know.

M’ardono le fauci,

c’informa memorabilmente Simone, e… giuseppe verdi, simon boccanegra, francesco maria piave, arrigo boito

No, no, non farlo! Non bere! si sente gridare dal loggione – ma non c’è nulla da fare: le ferree leggi della narrativa lo impongono, e Simone beve acqua e veleno. E gli pare amarognola, ma nemmeno per un istante dubita che non siano i dispiaceri a fargli il palato cattivo.

E poi, confortato dall’abominevole gusto della figliola in fatto di uomini, si addormenta.

E di tra le tende compare armato Gabriele che, in obbedienza alla Legge della Sordità Operistica, non ha udito nulla e, pur sentendo qualche inesplicabile remora, è pronto al tirannicidio. Ma… indovinate un po’? Amelia/Maria si mette in mezzo. Again. E Gabriele s’indigna, again. E Simone si sveglia e fa la voce grossa, e Gabriele spavaldeggia, e Maria supplica e non parla. Ma stavolta ci pensa Simone, e l’effetto è istantaneo: Gabriele si ravvede, capisce che è stato usato, chiede perdono… e Simone sta per cedere quando…

Sì, questo libretto funziona così. Ogni volta che sta per succedere qualcosa, arriva un ‘interruzione – e non sempre si tratta di un’interruzione di natura unica. Stavolta, per esempio, è il ritorno dei facinorosi guelfi che vengono per assassinare il Doge, again. Ma, come succede in questi casi, il ravveduto Gabriele si schiera con Simone, per la gioia di Amelia/Maria – cui, come al solito, sembra sfuggire qualche piccolo particolare, tipo il fatto che i Guelfi armati sono ancora alla porta al calare del… sipario!

Atto Terzo

Ma tutto sommato si vede che Amelia/Maria non aveva tutti i torti: Guelfi sconfitti, Genova illuminata a festa, clemenza dogale, Fiesco liberato, Paolo condannato a morte…

Ma mentre lo portano via, non si trattiene dal vantarsi con Fiesco di avere rapito Amelia e avvelenato Simone. E sapete una cosa? A Fiesco dispiace quasi. Lo odia, sì – ma morire di veleno e di tradimento… Tanto più che è proprio una brava persona: ha persino ordinato di spegnere le luminarie e moderare i festeggiamenti per riguardo ai morti.

Un festeggiamento che non si modera, a giudicare dai gorgheggi del coro, è il matrimonio tra il guelfo Adorno e la figlia del Doge – ma questo è uno di quei matrimoni che suggellano le paci.

E quando arriva il Doge – che non si sente affatto bene – Fiesco lo avvisa in termini tra il truce e il profetico, e solo allora Simone (che, lo abbiamo visto, pur essendo un baritono è un po’ lento a fare due più due) lo riconosce per Fiesco. Ma d’altra parte, questi due fanno il paio, perché quando Simone gli annuncia di avere la nipote da restituirgli, è Fiesco a cadere dalle nuvole. E guarda un po’, dopo venticinque anni Simone è ancora in cerca di perdono, e la Mariolina perduta è ritrovata***… Anche Fieso si scioglie, pentito e stanco e pieno di rimorso. Troppo tardi per tutto, spiega – e finalmente rivela l’arcano in termini comprensibili.

All’arrivo di Maria con Gabriele e il coro, Simone supplica Fiesco di non dire ancora nulla. C’è ancora tempo per un’altra agnizione ancora, mentre Fiesco/Grimaldi e Maria/Amelia si scoprono nonno e nipote, e tutti sarebbero molto felici se non fosse che Simone vacilla e impallidisce, e comincia a distribuire lugubri consigli e benedizioni…

Orrore e sconforto generali. Persino Fiesco è commosso. Simone fa ancora in tempo a indicare il suo successore in Gabriele, e poi muore tra le lacrime generali. Tocca a Fiesco di proclamare il nuovo Doge a una non proprio entusiasta Genova – e poi cala il sipario.

Cupo, pessimistico, pieno di clichés e di situazioni ripetute… Non un granché, vero?

Non fu un successo. Il debutto di Venezia nel marzo del ’57 fu proprio un fiasco. Ci sarebbero voluti vent’anni, Arrigo Boito e una seria revisione musicale perché il giudizio del pubblico cambiasse – ma non poi di troppo. E ancora oggi, questo povero Simone rimane, tra le opere della maturità verdiana, quella in penombra.

________________________________________________

* E noi ci domanderemmo chi sia quest’orfana misteriosa, se non sapessimo che all’opera non esistono coincidenze…

** Scena interamente rifatta da Boito.

*** Sì, lo so, era ritrovata anche prima – solo che nessuno lo sapeva.

Ott 7, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: I Vespri Siciliani (Parte II)

Librettitudini Verdiane: I Vespri Siciliani (Parte II)

giuseppe verdi, vespri siciliani, eugène scribeRieccoci qui – appena in tempo per il levarsi del sipario sul…

Terzo Atto

E cominciamo con Monforte che, nel suo palazzo, si tormenta sulla crudeltà di una defunta amante recalcitrante, che per tre lustri gli ha nascosto di avere avuto da lui un figlio – salvo farglielo sapere (per iscritto) prima di morire.

Che dobbiamo dedurne? Che Arrigo ha quindici anni*? Che Monforte sapeva di avere un figlio illegittimo, ma poi se n’è scordato? O che quando il frugoletto aveva, diciamo, tra i tre e i dieci anni, la madre l’ha dato per morto? Vi dirò, son quei misteri che ciascuno si risolve a piacimento, mentre Monforte c’informa che adesso sì che la sua vita ha un senso, e che riconquisterà il figlio alienato, eccetera eccetera.

Anyway, Arrigo viene condotto in scena, perplesso e più petulante che battagliero**, e Monforte gli fa gl’indovinelli. Ma Arrigo non si è chiesto perché Monforte sia così indulgente nei suoi confronti? Non gli dice nulla l’alma? Che cosa crede che possa far lacrimare un cuore di pietra come Monforte?

E Arrigo rabbrividisce aside, ma non ci arriva. Bisogna che Monforte gli mostri la lettera della defunta madre, scatenando quest’epica reazione:

Gioia! e fia vero? sogno o son desto?
(Leggendo il foglio.)
Cifre materne!… qui sul mio cor!

O ciel! che scopro?… arcan funesto
(gettando un grido)
Mi si rivela… fremo d’orror!

E perché freme d’orror? Perché il detestato comandante angioino è sangue del suo sangue? Acqua. Perché ha giurato di uccidere quello che non sapeva essere suo padre? Acqua. Perché si ritrova assai meno siciliano di quanto credesse? Ma nemmeno per idea! Il principale, il solo problema per Arrigo è che Elena potrà soltanto odiare il figlio di Monforte.

Cosicché, quando poi respinge con sdegno le profferte d’affetto di Monforte, noi non è che prendiamo poi troppo sul serio la sua fierezza, o le lacrime sulle molte sofferenze della madre. Semmai troviamo che Monforte dia prova di una notevole tolleranza (o appiccicosità – la cosa è aperta a interpretazioni) di fronte agli insulti e alle tirate di Arrigo, che comunque poi se ne fugge sconvolto e inorridito – e tanto più perché, per un istante, ha avuto la tentazione di far pace con il babbo ritrovato.giuseppe verdi, eugène scribe, vespri siciliani

Oh well, spostiamoci in un’altra ala del palazzo, dove è in corso la famosa festa da ballo – quella cui Arrigo era stato “invitato”. Oh, guardate: è arrivato anche Monforte. Infelice e corrucciato quanto volete, ma non per questo si sottrae al balletto delle Stagioni, questo indispensabile accessorio da Grande Opéra. E d’altra parte, Monforte è francese, giusto? Oh, never mind. Mentre Arrigo vaga senza meta per la scena, gli si avvicinano due misteriosi festaioli mascherati. Festaioli un po’ lugubri, a dire il vero… E a dire il vero, chi altri userebbe mantelli neri e parole d’ordine e nastri di riconoscimento a una festa da ballo, se non dei cospiratori***? E difatti si tratta di Elena e Procida, venuti di persona a liberare Arrigo e, già che ci sono, uccidere Monforte. E volete una sorpresa? Arrigo ha delle remore. Così è timido e tremebondo e criptico con i suoi amici, e poi sussurra a Monforte di tagliare l’angolo fin che può… E allora Monforte esulta di questa parvenza d’affetto filiale, e chiede i nomi dei congiurati, e Arrigo rifiuta, e allora Monforte rifiuta di andarsene, e mentre bisticciano Elena e Procida si fanno avanti, pugnali alla mano e seguaci alle spalle.

Ma, come ognun sa, uomo avvisato è mezzo salvato, e Monforte fa il resto chiamandosi attorno i suoi armigeri, e quando Elena si fa avanti per vendicare di persona il fratello…**** ecco che Arrigo si mette di mezzo e fa scudo al padre.*****

Sensazione.

Tanto più che l’illeso Monforte ordina ai suoi di arrestare tutti quelli che portano il nastro di riconoscimento che Arrigo gli ha indicato, e ringrazia il leale nemico che gli ha svelato il tradimento.

Doppia sensazione.

Colpo orrendo, inaspettato!
Ei sì perfido, sì ingrato!
Gli sia pena il suo rossor!
Onta al vile, al traditor!

lamentano Elena, Procida e i Siciliani tutti. Arrigo si torce le mani, i Francesi gongolano, i neo-prigionieri la buttano sul patriottico, Arrigo supplica perdono, Elena e compagnia lo respingono con orrore e, quando tutti vengono portati via, il nostro giovanotto oppresso, annichilito, vacilla e cade nelle braccia di Monforte. Ed essendosi manifestato lo svenimento standard, possiamo calare il sipario e passare oltre.

Atto Quarto

giuseppe verdi, eugène scribe, vespri sicilianiCome ci si poteva aspettare, Arrigo è macerato dai sensi di colpa e va a visitare i suoi ex-amici in prigione. Elena arriva, e non è contenta. Arrigo tenta di spiegarle, cosa che richiede qualche sforzo, perché lei non ascolta. Quando finalmente Arrigo riesce a far passare il concetto, i nostri due danno in amorose escandescenze, si perdonano a vicenda, si giurano eterno amore – e odio a Monforte, che adesso Arrigo ha ripagato della vita che gli ha datto – e poi si congedano con affettuosa commozione. Ma aspettate, ecco arrivare Procida che, avendo buoni agganci, è riuscito a sapere che una nave aragonese arriva in soccorso – e loro non ci possono fare niente… Mentre si mangia le mani, Procida vede Arrigo. Che ci fa qui? Si pente, cinguetta Elena – e quando Procida la invita a svegliarsi un po’, la sua bruschezza sembra avvalorata dall’arrivo di Monforte con i suoi, pronti a passare a fil di spada i ribelli. E Arrigo supplica la grazia, e Procida la rifiuta sdegnosamente – e ancora non sa che Arrigo è figlio…

Da lor tanto oltraggio a te spettava,
Arrigo!… a te mio sangue!…

declama Monforte, con perfetto tempismo. Ecco, adesso Procida lo sa. E dà in ismanie, e Elena dà in ismanie un poco più gentili, e Arrigo dà in ismanie – e Monforte dà l’ordine di procedere. Quando Arrigo chiede di morire con Elena se non può ottenerle la grazia, Monforte coglie il destro per un po’ di sano ricatto. Vuole Arrigo che Elena, Procida e il coro siano risparmiati? Nulla di più facile: padre lo chiami, e salvi son.

Elena gli ordina di non farlo, se vuole che qualcuno creda almeno un po’ al suo pentimento. Arrigo esita e si mangia le unghie. Procida mugugna. Monforte alza la posta facendo entrare il carnefice… e indovinate un po’? Arrigo cede. Non l’avreste mai sospettato, vero?

O gioia! e fia pur vero?

giubila Monforte. E perbacco, sì: niente come una scure sospesa sul collo della fidanzata per risvegliare l’amor filiale… Ma Monforte è contento lo stesso. Tanto che non solo grazia tutti quelli che ha promesso di graziare, ma decreta seduta stante il matrimonio tra Arrigo ed Elena – che nutre qualche fugace remora a diventare la nuora del tiranno, ma Procida la incita a procedere e avere fiducia nella vendetta. Possiamo sposarci domani, babbo? chiede l’istantaneamente conquistato Arrigo.****** Ma oggi stesso! replica Monforte, in un impeto di benevolenza, mentre al carnefice si sostituiscono i coppieri e tutti, Angioini e Siciliani, brindano al futuro. Ed è uno di quei momenti in cui tutti cantano insieme, per cui forse Monforte e i suoi sono scusabili se non afferrano le truci minacce nel brindisi degli isolani? Ma questa è l’opera, o Lettori – e comunque sta calando il sipario.

Atto Quintogiuseppe verdi, eugène scribe, vespri siciliani

Ci spostiamo nei giardini del palazzo, dove il coro gorgheggia il suo entusiasmo per le nozze pacificatrici, ed Elena riceve omaggi di fiorellini dalle fanciulle – e da come si effonde sull’amor suo, non possiamo fare a meno di chiedercelo: possibile che abbia frainteso i livorosi sussurri di Procida all’atto quarto? E si direbbe di sì. Persino con Arrigo è tenera e gioiosa come se nessuna rivolta incombesse… Tant’è vero che, quando Arrigo si allontana e Procida arriva ad annunciarle angioinicidio diffuso e massacro indifferenziato al segnale del suo “sì” nuziale, lei spalanca gli occhioni e domanda a nessuno in particolare qual mai fato incomba su di lor.

Procida, uomo di scarsa pazienza, procede ad informare la nostra graziosa storditella che è tutto molto semplice: o lei tace e lascia che le cose seguano il loro sanguinoso corso, o è una traditrice di patria, amici e invendicato cenere fraterno.

Ops.

Questa volta, Elena afferra la natura del dilemma. Deve lasciar trucidare Arrigo? Deve tradire i suoi amici? O ciel, chi la consiglia? È, se ci badate, lo stesso dilemma di Arrigo all’atto terzo. Ma Elena è una donna. Quando Arrigo torna (così entusiasta del regal vessillo di Francia che non sembra nemmeno lui), si accorge che qualcosa non va e pur con il lugubre Procida che le borbotta accanto, la nostra ragazza ha un’illuminazione che salva capra e cavoli. Certo, Arrigo ci resta male nel sentirsi dire che dopo attenta considerazione Elena ha deciso di non poterlo sposare – ma almeno è vivo. Vivo e furibondo, visto che, di conserva con Procida, si getta con entusiasmo in quello sport tenorile – l’immeritata maledizione del soprano. La povera Elena, che fin qui tecnicamente non ha tradito nessuno, non ha l’aria di chi può tenere duro indefinitamente.

giuseppe verdi, eugène scribe, vespri sicilianiArrigo, da buon adolescente, corre a farsi consolare dal babbo e Monforte, sempre sbrigativo, non trova di meglio che affrettare le nozze. Poco importa che Elena resista – e qui si dimostra che non bisognerebbe mai forzare una donna a sposarsi contro la sua volontà. Considerazioni morali a parte, è chiaro che non porta bene: nel momento in cui il bronzo squilla annunciando l’avvenuta unione, Procida ed i Siciliani si scagliano su Monforte e sui Francesi, e cala la tela – ma non prima che Elena sia debitamente svenuta.

Fine. E se volete, qualche dubbio resta – per esempio, che ne è di Arrigo? Ora, dovete sapere che nel dramma di Casimir Delavigne a cui (benché se ne parli pochino) il libretto è ispirato, Lorédan, omologo di Arrigo, si uccide… sì, è vero, si uccide per il rimorso di avere ucciso Monfort… che comunque non è suo padre, ma il suo amico e fratello d’armi, nonché cavalleresco rivale per le attenzioni di una principessa sveva. E d’altra parte il padre di Lorédan è l’inflessibile Procida… giuseppe verdi, eugène scribe, vespri siciliani

Sì, d’accordo, non ci somiglia poi troppo. Però resta il fatto che il primo amoroso fa una pessima fine – cosa che si rispecchia in più d’una regia moderna, in cui Arrigo fa la stessa fine di Monforte. E in genere la fa in qualche tipo di uniforme risorgimentale, perché è pratica comune spostare il tutto all’Ottocento, provvedere gli Angioini di uniformi e bianchi mantelli asburgici e fare di Procida ed Elena due ardenti carbonari.

All’epoca, tuttavia, figurarsi! L’opera debuttò in Francia, ed ebbe successo, e tutto andò abbastanza bene. Quando arrivò in Italia, fu necessario provvedere libretti alternativi: una Giovanna di Guzman, una Batilde di Turenna… insomma, tutto sommato bastava spostare l’ambientazione dovunque fuorché in Italia, e in un secolo passato a piacere… non sono certissima che i censori ottocenteschi considerassero bene i tagli che imponevano e i placet che concedevano.

________________________________________________

* Yes well, nel primo atto è stato chiamato da Monforte “giovinetto” o qualcosa del genere – ma io ho quest’immagine di Chris Merrit che canta il ruolo attorno al 1990, e allora…

** E sì, dopo tutto forse ha davvero quindici anni.

*** Rivedremo tutto l’armamentario – nastri, maschere, parole d’ordine e compagnia cospirante. Lo rivedremo presto – e allora avremo un vago senso di déjà vu.

**** Questi puntini di sospensione altro scopo non hanno se non quello di preparare un colpo di scena particolarmente tosto.

***** E qui, nell’originario Duca d’Alba, l’Arrigo fiammingo a nome Marcello si mette parimenti di mezzo per salvare il terribile babbo eponimo, ma Amelia d’Egmont, l’omologa fiamminga di Elena, è un soprano ancor più tosto e dal polso più saldo, e l’incauto Marcello ci lascia le penne.

****** E a questo punto non ci sono più dubbi, credo: ha davvero quindici anni.

Pagine:123»