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Mag 10, 2010 - anglomaniac, libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Libri In Regalo

Libri In Regalo

Mi è capitato qualcosa che mi ha riportata alla lontana infanzia.

A titolo di regalo di compleanno tardivo, sono stata rapita e condotta in libreria, con l’ingiunzione di scegliere “dei libri”. Da anni acquisto la maggior parte dei miei libri su Internet (adesso, poi, li scarico direttamente sul Kindle), e quindi già la cosa in sé è stata molto sul genere tè-al-tiglio-e-madeleine. Ho girellato tra gli scaffali con quel senso di anticipazione e di scoperta che un tempo apparteneva alle sere di Santa Lucia – assoluta delizia!

E alla fine ho scelto Il Grande Gioco, di Peter Hopkirk, una magnifica storia della guerra di spionaggio tra Inglesi e Russi in Asia Centrale – praticamente lo sfondo di tante storie di Kipling! – e L’Uomo Dagli Occhi Glauchi, di Patrizia Debicke Van der Noot, romanzo storico incentrato su un meraviglioso ritratto tizianesco e sul servizio di spionaggio di Robert Cecil. 

E’ stato un incantevole regalo di compleanno. O di non-compleanno, se vogliamo virare sul carroliano – e io vorrei, perché il tutto è stato davvero un po’ nonsense.

Per di più, sabato è arrivato per posta The Infernal World of Branwell Bronte, di Daphne Du Maurier, e quindi adesso ho una piccola pila di tre libri che voglio tanto leggere, ma al momento non ho davvero tempo: se ne stanno lì, uno sopra l’altro come sirene rilegate, mi guardano ogni volta che passo nelle vicinanze, ammiccano, mi chiamano… Leggici, leggici, leggici! Lascia perdere il Riccio, dimenticati quel che devi recensire, prenditi una vacanzuola dalla storia bizantina. Leggi noi, noi, noi…

Per ora resisto, legata alla sedia maestra e con striscioline di to-do-lists appallottolate nelle orecchie. Fino a quando? Non si sa. 

Arte & Mestiere

Più o meno sapevo che questo post avrebbe avviato un principio di dibattito, perché l’argomento tocca corde tese (molto tese) tra l’immaginario collettivo e la cruda realtà, o almeno una certa percezione della cruda realtà.

L’idea generale sembra essere che la scrittura consista nell’aprire il proprio cuore e versare il contenuto sulla carta. Messy, se lo chiedete a me, e del tutto irrealistico, ma profondamente radicato. Per contro, il concetto che scrivere sia un mestiere che s’impara, che ha i suoi principi, le sue teorie, le sue astuzie, le sue tecniche e i suoi strumenti, fa inorridire molta gente. Addirittura, come si evince dai commenti a questo post altrui, l’uso di strategie viene visto come qualcosa di sleale o disonesto.

Credo che sia necessario fare una distinzione: da un lato c’è la tecnica della scrittura propriamente detta, dall’altro c’è il mercato editoriale.

La tecnica è la cosa che, quando abbiamo sedici anni e riempiamo vecchie agende di racconti scritti a biro, ci fa rabbrividire. Non c’è da stupirsi visto che viviamo in una temperie culturale istericamente ansiosa di porre tutta l’enfasi possibile su spontaneità, istinto, ispirazione e natura. Poi qualcuno dovrebbe prendersi la briga di spiegarci, mentre cresciamo, che spontaneità, istinto, ispirazione e natura da soli non bastano. Nemmeno il talento basta, se vogliamo perché, come l’elettricità, se non è incanalato, disciplinato e convogliato attraverso i giusti strumenti, non accenderà mai nessuna lampadina. Qui, badate bene, non stiamo parlando di genio, che segue regole tutte sue e non è classificabile. Parliamo invece di una combinazione di attitudine, gusto e immaginazione, che deve essere educata e disciplinata. Disciplina, altro tabù culturale: guai a dire che la pratica dell’arte richiede disciplina… o meglio, questo non è del tutto vero. E’ generalmente accettato che eseguire lavori altrui richieda applicazione e fatica. Tutti si aspettano grandi quantità di pratica e di sforzo da una ballerina classica o da un pianista, ma quando dall’esecuzione si passa alla creazione, ecco che torna alla ribalta l’immagine dell’artista libero, spontaneo e spettinato che lavora febbrilmente sotto la spinta irresistibile dell’ispirazione. Ebbene, sorpresa: l’immagine è carina, ma fasulla. Narrare una storia è una questione di logica, di causa ed effetto, di conseguenze e di estrema consapevolezza. Narrarla bene, poi, richiede di saper calcolare con accettabile precisione l’effetto di ogni singola parola, figura retorica e frase. E questi sono strumenti che s’imparano. S’imparano leggendo molto, provando a riprodurre, sperimentando strade nuove, leggendo ancora, studiando, scrivendo e riscrivendo, rileggendo ad alta voce, leggendo ancora un po’ studiando ancora di più… E’ il lavoro di una vita, se si fa sul serio. Ma, così come c’è differenza tra chi strimpella il pianoforte per il proprio piacere e chi si esibisce come concertista, allo stesso modo c’è differenza – una differenza nettissima – tra l’impegno richiesto a chi scrive per sé e chi pubblica.

E questo ci porta al mercato. Il mercato è molto, molto competitivo. Il mercato dovrebbe fornire una forma di selezione naturale. Il mercato non sempre funziona come dovrebbe, almeno non dappertutto e non a tutti i livelli. Il mercato non è una sudicia invenzione dei nostri tempi barbari e globalizzati – il mercato è sempre stato recipiente e stimolatore dell’arte, fin dalla prima occasione in cui qualcuno è stato pagato per una creazione artistica. Provate a contare quanti Caravaggio sono stati dipinti su commissione, e quanti perché il pittore si era svegliato in preda una piena alluvionale di spontaneità, istinto, ispirazione e natura.  Ma non divaghiamo e torniamo alla scrittura. Il mercato essendo quello che è, gli scrittori sviluppano strategie che integrano nella scrittura forme, diciamo così, di marketing. I Tre Ganci sono una di queste strategie, e il loro scopo non è quello di costringere con l’inganno l’ignaro lettore-pastorello a spendere i suoi sudati quattrinelli una porcheriola rilegata in brossura, ma di catturare l’attenzione di un potenziale acquirente bombardato da un’enorme quantità di offerte. L’onestà in scrittura è questione dai molteplici livelli, perché se non mi piacesse essere condotta in tondo per un po’, non leggerei romanzi, ma mi aspetto di essere condotta in tondo con finezza, grazie. Tuttavia, è onesto offrire sempre la migliore scrittura che si è in grado di produrre, in termini di struttura e di stile. Ciò detto, però, l’attenzione del lettore va guadagnata e mantenuta. Catturare il lettore, trascinarlo dentro la mia storia, tenercelo fino alla fine e lasciarlo andare desideroso di averne ancora, non è disonesto: è il mio mestiere. Cosa mi fa presumere che il mio stile, per quanto mi sforzi, sia così superiore a quello di chiunque altro da darmi l’incondizionata attenzione del lettore senza nessuno sforzo? Beata ingenuità, direi, e forse un soffio di presunzione.

Insomma, nel momento in cui decido di pubblicare una storia, essa assume una sua forma di vita indipendente da me. Dal punto di vista di questa vita, quanta gente legge la mia storia, quanta gente la legge fino in fondo, quanta gente la apprezza davvero, non sono questioni irrilevanti: sono rilevantissimi numeri che il mio libro dovrà contendere ad altri libri a colpi di molti tipi di superiorità e di appeal. E dunque, se voglio mandarlo Là Fuori, devo anche equipaggiarlo per la lotta.

Apr 15, 2010 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Dieci Libri Che Vorrei Avere Scritto

Dieci Libri Che Vorrei Avere Scritto

Non i miei dieci libri preferiti, ma dieci libri che sono davvero seccata di non avere scritto io. E’ diverso.

1) Lord Jim, di Joseph Conrad. Ma va’? direte voi. E’ una questione di potenza, di bellezza, d’intensità e di nitidezza. Nonostante la selva di narrazioni indirette, Conrad riesce a mettere tutto quanto in una prospettiva vertiginosa, centrata su un singolo errore del protagonista, conseguenza dopo conseguenza. Credo che potrei mentire, rubare, truffare e uccidere per saper fare questo…

2) History Play, di Rodney Bolt. Il più brillante, raffinato, intelligente e spiritoso gioco letterario che mi sia capitato di leggere – e ci sono pure cascata in pieno. Ci ho messo un bel po’ di pagine a capire che i dubbi su Shakespeare erano costruiti ad arte e che parte delle fonti erano immaginarie… e quando me ne sono accorta, ero talmente catturata dal gioco che non mi sono nemmeno seccata. Vorrei saper barare con tanta finezza e grazia.

3) Un Uomo Per Tutte Le Stagioni, di Robert Bolt*. Francamente non è che mi piaccia molto, e di sicuro non ho simpatia per Thomas More, ma accidenti, se vorrei saper mettere in scena dei personaggi storici (per tacere dell’occasionale figura allegorica) e farli parlare di ragion di stato, di Dio, di coscienza e di massimi sistemi con la plausibilità e naturalezza che a Bolt riesce così bene!

4) Poesie, di Emily Dickinson. Non scrivo poesia, ma quelle immagini che ti folgorano come un raggio di luce improvvisa e poi ti rimangono dentro, lustre e taglienti come gemme, chi è che non vorrebbe saperle mettere su carta?

5) Gli Ultimi Giorni di Costantinopoli, di Sir Steven Runciman. E’ rigorosissimo, ma si legge come un romanzo; è ricco e tumultuoso, e perfettamente chiaro al tempo stesso; e fa sperare, gioire e soffrire con i difensori, anche se sappiamo tutti benissimo come va a finire. Storia scritta al livello più entusiasmante.

6) Un libro qualsiasi di Gerald Durrel. Con la possibile eccezione di Storie Dal Mio Zoo, che posso accettare serenamente di non avere scritto io, sono tutti piccoli capolavori di humour leggermente surreale, memorie famigliari, viaggi e divulgazione scientifica, frullati con un’apparenza di disinvoltura noncurante che è tutta la mia invidia.

7) Kipling, di Renato Serra. Un gioiello di critica letteraria per profondità, intuizione, spessore, entusiasmo contagioso e bellezza della scrittura. E’ semplicemente impossibile non lasciarsi trascinare da Serra.

8) Annibale, di Gianni Granzotto. Letto e riletto così tante volte che la copertina si sta sbriciolando: una combinazione perfetta ed appassionante di rigore storico, capacità divulgativa e adesione profonda al personaggio, con l’occasionale speculazione intelligente.

9) La Figlia Del Tempo, di Josephine Tey. Già il fatto di dare ritmo a un giallo in cui l’investigatore è a letto con una vertebra fratturata non è impresa da poco. Qualora non bastasse, il giallo diventa una meravigliosa riflessione sulla storia e sulla verità, ed è anche condito di dialoghi scintillanti. Molto vicino alla mia idea di perfezione, grazie.

10) Il Pozzo Delle Trame Perdute, di Jasper fforde. Magari la trama non è la più tesa e compatta fra le avventure di Thursday Next ma, per una volta, non m’importa: è alla meravigliosa burocrazia del mondo dei libri, agli artigiani che producono pezzi di ricambio per i romanzi, al Gatto del Cheshire bibliotecario e a tutto questo splendore d’invenzioni metaletterarie che vorrei avere pensato io!

E poi, a dire il vero, è dura fermarsi qui**. La scelta non è stata facile: sono molti i libri che ammiro, e l’elenco si allunga continuamente (cosa che prendo per un buon segno). Però questa lista è già indicativa di quello che voglio non solo da quello che leggo, ma da me stessa quando scrivo. A giudicare dai titoli qui sopra, direi che intensità, idee, rigore, vividezza e personaggi che non si dimenticano sono sul menu, con un po’ di nonsense per dessert.

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* Non avevo mai fatto caso all’omonimia con l’autore precedente. Non so se ci sia parentela.

** Tant’è vero che debbo citarne almeno un altro: Jonathan Strange e il Signor Norrel, di Susanna Clarke, non foss’altro che per la brillante idea dei maghi inglesi che confondono le idee alle truppe napoleoniche spostando a destra e a manca strade, fiumi e villaggi di Spagna!

 

Mar 25, 2010 - grilloleggente    Commenti disabilitati su Promessi Sposi, Capitolo XIX

Promessi Sposi, Capitolo XIX

Oggi XIX capitolo dei Promessi Sposi alla UTE, ultimo per questo Anno Accademico.

Il Capitolo XIX è quello del match Conte Zio – Padre Provinciale dei Cappuccini, ed è una vera e propria gemma, di quelle cose che da sole valgono il prezzo del libro, di quei dialoghi che, per sottigliezza delle intenzioni, tridimensionalità della caratterizzazione e raffinata ironia, mutano momentaneamente ogni altro scrittore in un mostro dagli occhi verdi.

Cominciamo col dire che, quasi tre mesi e tredici capitoli fa, avevamo assistito a qualcosa di simile al palazzotto, tra Don Rodrigo e Fra Cristoforo, ovvero i due diretti interessati. E’ sempre di loro che si parla anche nel palazzo milanese dello zio: in pratica, lo stesso scontro elevato a potenza e condotto a un livello abissalmente diverso. Qualcosa come la differenza tra una rissa in piazza e l’alta politica.

Possiamo dimenticare (anzi, faremo bene a ricordare per amor del contrasto) il sarcasmo rabbioso, le insinuazioni grossolane e le minacce scoperte di Don Rodrigo, come pure la faticosissima umiltà e lo spirto guerrier di Fra Cristoforo. Qui siamo su un altro pianeta: dopo un pranzo di commensali titolati e un sacco di conversazione sulle aderenze della famiglia a Madrid, il Conte Zio fa professioni di amicizia verso l’Ordine Cappuccino in generale e il Padre Reverendissimo in particolare, finge di voler rendere un buon servigio, insinua che il padre Cristoforo debba essere un continuo grattacapo per i suoi stessi superiori…

Il Provinciale non ci casca, e difende la reputazione del suo sottoposto, ma vede addensarsi la tempesta… e non ha torto: per prima, il Conte Zio gioca la carta della sovversione, dipingendo il povero Renzo come un arruffapopoli della peggior specie, e il padre Cristoforo come un connivente. D’altra parte, con quel po’ po’ di precedenti che ha lui stesso…

Il Provinciale para di nuovo la botta: Sua Magnificenza deve pur sapere che a) l’Ordine ha per missione di recuperare i traviati, e b) la vocazione religiosa offre riscatto dal passato, del che Fra Cristoforo è la prova vivente. Il Conte Zio deve allora ricorrere al secondo argomento, rivelando (come se proprio ci si costringesse a malincuore) che tra il frate e Don Rodrigo c’è qualche ruggine. Nessun riferimento a Lucia, o anche solo alla natura della ruggine stessa, per carità. Lo zio, assai più scaltro del nipote, dipinge la faccenda come una questione di puntiglio, scusabile in un giovane nobiluomo scapestrato, ma del tutto fuori posto per un Cappuccino.

Il Provinciale resta sulle sue, avanza cauti dubbi, promette indagini, ma sa già dove vuole andare a parare il suo avversario. E infatti, puntualmente, il Conte Zio si scopre giusto quanto basta: indagini e dubbi? Ma perché mai il Reverendissimo Padre vuole andare a sollevare un vespaio? Perché non possono accomodare la questione tra loro due, senza che degeneri in zuffe, ritorsioni e scandali?

La minaccia è sottile, ma inequivocabile. E’ sicuro che l’Ordine saprebbe difendersi in un confronto, ma ne vale davvero la pena? Non è meglio per tutti tacitare il subbuglio cercando di salvare tutte le capre e tutti i cavoli possibili? Guarda caso, a Rimini vogliono un predicatore per la quaresima, e il padre Cristoforo è proprio quello che ci vuole. “Molto a proposito,” approva il Conte Zio. “E… quando?”

Il Provinciale prova a nicchiare, a prender tempo, a negoziare qualche forma di rispetto che Don Rodrigo paghi all’Ordine, per salvaguardare la dignità dell’abito… Il Conte Zio a questo punto potrebbe anche mostrarsi generoso, ma non lo fa: invece si limita a qualche promessa che più vaga non si potrebbe, e a cedere il passo alla porta. “Conosciamo per prova la bontà della famiglia,” replica amaramente il Padre Provinciale, di fronte all’ennesima promessa vuota di amicizia, di assistenza, di qualsiasi cosa…

Chiaramente, Conte Zio – Padre Provinciale è finita 2- 0.

Niente “verrà un giorno”, niente alterchi, niente vecchi servitori impauriti, niente cappa e spada: solo due canizie, due esperienze, dice Don Lisander, e la canizie laica ha vinto alla grande: con un pranzo e qualche parola, ha spedito Fra Cristoforo a piedi da Pescarenico a Rimini.

Non posso fare a meno di accostare questo dialogo a qualcosa d’altro: il grandioso, corrusco, feroce duetto tra Re Filippo e il Grande Inquisitore (cieco nonagenario) del Don Carlo/Don Carlos di Verdi. L’atmosfera è tutt’altra, molto più cupa e più fatale, (e d’altronde in gioco non c’è il trasferimento di un frate, ma la vita e la morte di due uomini, nonché tutto un sistema di pensiero e il destino di un impero) ma la struttura è poi la stessa: potere temporale e potere religioso che si affrontano. Però nel caso di Verdi/Schiller è il Grande Inquisitore (c.n.) a spingere il suo avversario nell’angolo a implacabili colpi di logica e di dogma. Re Filippo resiste invano. Prima della fine si farà imporre la condanna a morte di non uno, ma due figli: quello di sangue e quello del cuore. “Dunque il trono piegar dovrà sempre all’altare!” conclude amarissimamente il Re.

A quanto pare, non sempre. O, almeno, non nel Seicento milanese di Manzoni, dove l’altare, per evitare guai, piega non di fronte al trono, ma a una corona comitale bene introdotta a Madrid.

Mar 22, 2010 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su La Sovrana Lettrice

La Sovrana Lettrice

Alan Bennet è, fra l’altro, l’autore de La Pazzia di Re Giorgio, un testo teatrale intelligente, raffinato e amarognolo, da cui è stato tratto anche un film. Sia in teatro che sugli schermi, Re Giorgio era Nigel Hawthorne, e ho ancora il rimpianto di non essere riuscita a procurarmi un biglietto per vedere la commedia al Festival di Edimburgo.

Nel 2007, sedici anni dopo Re Giorgio III e la sua supposta porfiria, Bennet è tornato ad occuparsi della Corona d’Inghilterra (e delle teste che la portano), con The Uncommon Reader, tradotto in Italiano come La Sovrana Lettrice. La “paziente” questa volta è Elisabetta II, e la “malattia” è meno preoccupante della porfiria: tutto comincia quando la Regina scopre il piacere della lettura, che una vita fitta d’impegni regali non le ha mai permesso di coltivare. Ma naturalmente nulla è del tutto privato a Buckingham Palace: l’improvvisa passione per i libri non è senza conseguenze per Sua Maestà, il numerosissimo (e alquanto cinico) staff che la circonda, i sudditi  in udienza e, in definitiva, tutta l’Inghilterra…

Bennet dipinge un quadro graffiante della monarchia inglese, ma la Regina ne esce a testa alta – altissima – come una deliziosa anziana signora, lievemente eccentrica, ma di buon senso, determinata e provvista di un certo tipo di sovrano candore. Benché gli eventi siano immaginari, mi piace immaginare che il ritratto sia, almeno in parte, veritiero: l’idea della Regina d’Inghilterra che discute di Dickens con i suoi sudditi in udienza è troppo incantevole per essere completamente dismessa.

La Sovrana Lettrice (gradevolissima traduzione di Monica Pavani per Adelphi) è un libro di una sera, delizioso, spassosissimo e intelligente. Dall’iniziale sconforto del Presidente della Repubblica Francese interrogato su Jean Genet, Bennet ci conduce, di libro in libro, fino al coup de théatre finale – proprio all’ultima riga – regalandoci una piccola storia perfetta, leggermente nonsense e dalla prospettiva inattesa. E, volendo, c’è anche di che meditare: di più non si può chiedere.

Mar 9, 2010 - libri, libri e libri, Spigolando nella rete    Commenti disabilitati su Settimana Internazionale del Libro Elettronico

Settimana Internazionale del Libro Elettronico

Ci crediate o no, questa (7-13 marzo) è la International Read an E-Book Week.

Senza Errori di Stumpa partecipa segnalando dal Progetto Manuzio:

Come le Foglie, di Giuseppe Giacosa: amaro dramma in quattro atti su ciò che dissolve le famiglie e ciò che le tiene insieme.

Le deliziose Poesie di Giuseppe Giusti, piccole satire ottocentesche, tra cui Sant’Ambrogio e L’Amor Pacifico.

Ancora poesie, con Guido Gozzano: farfalle, salotti, viaggi in India… (scorrere fino in fondo alla pagina).

L’istruttivo Breviario dei Politici del Cardinal Giulio Mazzarino (per una volta, non fidatevi di Dumas: Sua Eminenza era una testa fina!)

e, per restare in tema e in periodo, le Memorie del Cardinale di Retz, quel Monsignor de Gondi che di Mazzarino fu nemico.

E poi la (bizzarra, lo ammetto) raccolta italiana del Project Gutenberg, buona per scoprire autori che non avete mai nemmeno sentito nominare, abbastanza divertente anche solo da scorrere.

Buona lettura!

 

 

 

 

Feb 8, 2010 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Chi ha paura di Virginia Woolf?

Chi ha paura di Virginia Woolf?

VW_-_Hogarth.jpgL’anno scorso Guanda ha pubblicato una traduzione di A Boy at the Hogarth Press, di Richard Kennedy, con il (goffo?) titolo Io Avevo Paura di Virginia Woolf*.

Goffo ma funzionale e, probabilmente, necessario per il pubblico italiano, non tenuto a sapere che la Hogarth Press era la casa editrice fondata nel 1917 da Leonard e Virginia Woolf.

Virginia non stava bene: nel ’13 aveva tentato il suicidio e negli anni successivi i suoi problemi mentali si erano ripresentati, più allarmanti che mai. I medici suggerivano una sana vita in campagna (che Virginia trovava deprimente) e un’occupazione che la assorbisse. Probabilmente avevano in mente qualcosa come le marmellate o il giardinaggio, e invece Leonard fondò una casa editrice piccola, raffinata e tremendamente snob.

Dieci anni più tardi, nel 1927, enter Richard Kennedy, sedicenne di discreta famiglia dal passato scolastico burrascoso, e dall’allarmante mancanza di qualsiasi inclinazione pratica. O almeno così ritiene il semi-disperato zio architetto che supplica Woolf di assumerlo come tuttofare alla Hogarth Press. Leonard accetta, ed avrà di che pentirsene.

Candido e svagato, Richard non è un granché come garzone: appende scaffali che crollano prontamente, è lento nell’impacchettare i libri, batte a macchina con due dita (e una grammatica abissale), corteggia indebitamente la graziosa segretaria, si lancia in osservazioni prive di tatto sui nipoti dei suoi datori di lavoro… La sua prodezza più epica è anche l’ultima: un colossale errore nell’ordine di carta per l’opera omnia di Virginia gli costa il licenziamento in tronco. “Il più spaventoso idiota che abbia mai avuto il privilegio d’incontrare in una lunga carriera di sopportatore di stupidi”, lo definisce un esasperato Leonard Woolf**.

Ma intanto Richard ha osservato, ha tenuto un diario, ha fatto degli schizzi, abbastanza per offrirci un ritratto del tutto inconsueto dei Woolf: Leonard, impaziente e petulante, capace di razionare la carta igienica o d’insegnare al suo garzone come si fuma la pipa; Virginia tirannica, irrequieta, maligna e affascinante; e attorno a loro tutta un’eccentrica e litigiosa clique di Bloomsbury.

Il risultato (a parte il fatto che Leonard dovette evidentemente riordinare tutta la carta) è un piccolo libro incantevole: non sarebbe bello se ogni grande della letteratura avesse avuto un Richard ad osservarlo e prendere appunti, in tutto candore e senza un’ombra di timore reverenziale?

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* Traduzione, molto gradevole, di Alba Bariffi.

** Never fear: Richard farà strada, studierà arte e diventerà un celebre illustratore. Si vede che così idiota non era, dopo tutto.

Kindle, Cinque Settimane Dopo

Ricevo questa email in cui mi si chiedono notizie del mio Kindle e, più precisamente, se è un acquisto che mi senta di consigliare. Ho pensato che un aggiornamentino sul fidanzamento tra me e l’Arnese potesse essere utile, per cui:

D: [M]i è capitato sotto il naso un e-book… purtroppo non ho avuto il tempo di fermarmi a guardarlo bene, perchè in effetti l’oggetto era un po’ sconcertante: come dimensioni sembrava tanto un palmare un po’ cresciuto, però era tutto bianco, al punto da non capire dove cominciava lo schermo.

R: Ok, bellissimo non è… Almeno non di suo. Direi che una copertina è assolutamente necessaria, sia per proteggerlo dai graffi e dagli urti, sia per attenuare l’impressione frigidaire, sia per maneggiarlo. Non ho mai provato davvero a usare il mio Kindle senza copertina di pelle, ma devo ammettere che, da come sono posizionati i tasti, sospetto che non sia comodissimo. La copertina risolve il problema. Quando ho comprato la mia, ho dovuto farla arrivare dagli USA, perché non c’era nulla del genere in commercio in Italia. Però adesso che il Kindle è in commercio anche qui, forse le cose sono migliorate.

D: Mah, tu come ti trovi?

Dopo cinque settimane di fidanzamento, sono ancora perfettamente felice. Ho constatato che la batteria, leggendo due o tre ore al giorno, dura un mesetto, e che Calibre consente di caricare praticamente qualsiasi cosa (alla peggio è necessario convertire il testo di partenza in PDF). L’unica cosa simile a un problema, per ora, resta l’impossibilità di organizzare l’elenco dei libri caricati. Tra l’altro, ho la sensazione che sposti i titoli secondo criteri che non ho ancora individuato… Questo potrebbe diventare una seria seccatura quando avrò caricato molti files.

D: E’ facile reperire poi i testi da inserire in memoria?

R: In Inglese si trova praticamente di tutto*, per le altre lingue non altrettanto, però direi che la situazione si sta evolvendo. Qui e qui ci sono due elenchi di siti da cui è possibile scaricare gratuitamente ebooks in Italiano, e poi c’è sempre il mio amato Progetto Manuzio. Per lo più si tratta di classici. Alcuni editori italiani** cominciano a muovere timidi passi in questa direzione, ma forse è presto per dire se il mercato italiano recepirà.

D: Una volta che hai inserito un libro lì dentro, che ne fai del cartaceo? O ci metti solo cose che ancora non hai letto?

R: Personalmente carico sul Kindle due tipi di testi: narrativa o saggistica che non ho ancora letto, e materiale di riferimento che voglio poter avere al seguito senza trascinarmi dietro quintali di carta, come dizionari specialistici, glossari, enciclopedie, cronologie e cose del genere. L’unico libro che ho caricato pur possedendolo in versione cartacea è Lord Jim, perché… be’, perché sì. A parte tutto, non ho nessuna intenzione di sostituire i miei adorati libri-veri-e-propri con il Kindle: è spazio per altri 1500 titoli, complementare, non alternativo.

D: E la memoria non si può cancellare o perdere in qualche modo?

R: Scampi e liberi! Però sospetto che possa accadere… per cui un po’ di backup non fa mai male. Quello che compri su Amazon rimane in memoria nel tuo account per i secoli eterni (anche se sembra esserci qualche controversia attorno al numero di volte in cui un testo può essere scaricato…), e il resto per ora lo tengo in memoria anche nel computer, per esempio per mezzo di Calibre. I miei sogni di fare spazio nell’hard disk si stanno rivelando un po’ velleitari, ma pazienza.

D: E se un giorno non funziona più?

R: L’Arnese ha una garanzia. Il mio ne ha una internazionale perché è stato acquistato negli USA, ma immagino che comprato in Italia venga con tanto di garanzia italiana. Se davvero sia riparabile, non lo so (e francamente spero di non doverlo nemmeno mai scoprire…). A giudicare da quel che si legge sui forum di Amazon, i guasti sono rari e, se avvengono sotto garanzia, l’apparecchio viene sostituito. Vale di nuovo il discorso di prima: meglio avere un backup dei propri files, così da poterli ripristinare in caso di guai.

In conclusione, acquistare o no? Direi che tutto dipende dall’uso che se ne vuole fare. L’e-reader (non solo il Kindle) è un aggeggio estremamente specializzato: serve a leggere, e questo è quanto. Se si legge tanto, se si viaggia spesso, se non si sa più dove mettere i libri, se si detesta leggere sullo schermo di un computer, allora direi che l’e-reader è una scelta molto sensata. Con una buona conoscenza dell’Inglese (o una seria intenzione d’impararlo), probabilmente, lo si sfrutta meglio e di più.

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* Un vantaggio (dal mio punto di vista impagabile) è quello di rendere accessibili molti, molti, molti libri introvabili: titoli fuori commercio che ora vengono ripubblicati soltanto in formato digitale.

** Piccoli come Bruno Editore o grandi come Mondadori…

Se Questo E’ Un Uomo

Ho cominciato ieri un laboratorio nuovo alle Scuole Medie di Roncoferraro.

In occasione della Giornata della Memoria, per quattro venerdì leggerò e commenterò brani di Se Questo E’ Un Uomo, di Primo Levi, con i ragazzi di due classi terze. Sono sempre in ansia quando inizio un lavoro nuovo in una scuola, specialmente quando si tratta di un laboratorio creato su richiesta e mai sperimentato prima. Tra l’altro, Se Questo E’ Un Uomo è un libro ostico, di quelli che pretendono attenzione per entrare sotto la semplicità apparente della scrittura. L’asciuttezza deliberata e scarna della cronaca può non coinvolgere a prima vista, e non ci sono personaggi con cui un quattordicenne possa identificarsi d’istinto. Così il mio mestiere è aprire delle porte tra la realtà di questi ragazzi e quella del libro, mostrare loro l’ansia di raccontare del giovane Primo, decifrare l’appello nascosto nella durezza apparente dell’epigrafe, tradurre i civili fantasmi cartesiani e il soldato tedesco irto d’armi in termini che possano riconoscere.

Come ho detto, è il genere d’inizio che mi mette in ansia. Mi domandavo mai, a quattordici anni, se gli adulti che mi spiegavano qualcosa temessero di non riuscirci a sufficienza? Forse no.

Poi però arrivano i buoni segni. Il primo è quando cercano d’impressionarti, vogliono far vedere che capiscono, che partecipano, fanno qualche falsa domanda (“Ma non c’era anche Lenin, in Russia, oltre a Stalin?”). Non è ancora davvero promettente, ma è un inizio: vuol dire, se non altro, che hai la loro attenzione. E poi arrivano le domande vere, in tutta la gamma dal candido al pratico all’acuto, e guai a farsi cogliere alla sprovvista. E poi, quando domandi a tua volta, arrivano le risposte, qualcuna un po’ a caso, qualcuna ingenua ma nella direzione giusta, qualcuna singolarmente pronta.

Vuol dire che seguono, che parliamo, almeno un po’, la stessa lingua, e che, se sono fortunata, almeno qualcuno di loro porterà a casa un modo diverso di leggere, di farsi domande, una nuova considerazione per la storia, per la forza dei libri e della parola scritta. Ed è allora che, tutte le volte, mi ricordo perché mi piace fare questo lavoro.

Gen 19, 2010 - libri, libri e libri    19 Comments

Perché Diamine “Lord Jim” è Il Libro Della Mia Vita

Dialoghetto ieri a Gonzaga:

Una Signora: “Le è piaciuto Il Tiranno di Manfredi? “

Io: “Non mi è dispiaciuto, ma non è il libro della mia vita.”

Un’altra signora: “E qual è il libro della sua vita?”

Sobbalzo sembre quando vengo presa alla lettera in queste circostanze, ma naturalmente ho risposto che il libro della mia vita è Lord Jim, di Conrad. Come al solito, pochi lo avevano letto, e di quei pochi nessuno lo apprezzava alla follia (tranne una signora di origine inglese). Sempre così. Lo raccontavo ieri sera per telefono ad A., e lei, che LJ non lo sopporta, è sbottata:

“Lo vedi che è malsano avere Lord Jim per libro della tua vita? Si può sapere perché, poi?”

Indignata, ho ribattuto per un’infinità di ottimi motivi, al che A. si è messa a ridere, e poi siamo passate a discutere se andare o no a vedere Avatar. Ora, non so se andremo a vedere Avatar, ma ho rimuginato sulla domanda. Ebbene, A., ecco perché:

1) Perché la prima volta che l’ho letto l’ho piantato a pagina dodici, convinta che non mi piacesse, ma ero già talmente catturata che ho dovuto riprenderlo in mano e leggerlo tutto.

2) Perché dopo vent’anni seguito a rileggerlo ancora e ancora, e ogni volta ci trovo qualche sfumatura nuova, qualche sottigliezza che mi era sfuggita, qualche meraviglia sepolta un po’ più a fondo.

3) Perché il suo protagonista è così ben scritto che per me non è meno reale di una persona in carne ed ossa. Io conosco Jim, so che voce ha, che tipo di sguardo, come si muove, in che modo ragiona. Quasi un membro della mia famiglia.

 4) Perché nei momenti difficili e di fronte alle decisioni epocali, quello è il libro che riprendo in mano, anche se (o forse proprio perché) è una storia dolorosa, di colpa e di fallimento, di paura e di occasioni mancate, e di redenzione che sembra raggiunta e poi sfugge di mano.

5) Perché a diciotto anni, leggendone una versione semplificata in lingua originale mi sono innamorata dell’Inglese con un entusiasmo che dura tutt’oggi, e ho scoperto che leggere un libro tradotto e leggerlo in originale sono due esperienze completamente diverse.

6) Per la scena in cui, dopo la vittoria sugli uomini di Ali, la gente del villaggio acclama tumultuosamente Jim, con i gong e i tamburi, sventolando bandierine bianche, rosse e gialle. La scena è narrata al lettore da un narratore che riferisce di come Marlow gli abbia raccontato la versione di Jim. E in cinque righe, attraverso questo cannocchiale rovesciato di punti di vista, mi si è impressa in mente con una vividezza indimenticabile.

7) Perché in mani diverse questa vicenda sarebbe stata solo un melodramma avventuroso, e invece Conrad ne fa una tragedia dell’incapacità di vivere all’altezza delle proprie aspettative: Jim non solo non è perfetto, ma soccombe alla sua imperfezione, travisa se stesso e gli altri, insegue o rifugge cose che non esistono, non impara mai a venire a patti con la realtà, e paga (e fa invoontariamente pagare a tanti altri) un prezzo altissimo, nel finale più desolato che si possa immaginare.

8) Perché a sedici anni, leggendo questa storia, ho capito per la prima volta che un autore deve essere spietato con i suoi personaggi, non deve risparmiare loro nulla, non deve proteggerli né da loro stessi, né da ciò che accade nelle storia, né dal giudizio del lettore.

9) Perché dalla complessità della sua struttura e della sua caratterizzazione ho avuto la prima impressione che scrivere non fosse questione di aspettare l’ispirazione, aprire il proprio cuore e vuotarne il contenuto sulla carta: tra letture, riletture, analisi, dissezioni e uno sciagurato tentativo di riduzione teatrale, Lord Jim è stato la mia prima scuola di scrittura.

10) Perché negli ultimi vent’anni la mia aspirazione è stata (e ancora è) non quella di scrivere un libro come questo, ma di scrivere un libro che ne abbia l’intensità, le ombre, la passione, la potenza e la bellezza. Wish me luck.

E voi? Che cosa ha fatto per voi il libro della vostra vita? Che cosa avete trovato tra le sue pagine?  

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