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Il Diavolo È Bianco

william palmer, the devil is white, romanzo storicoAvviso ai naviganti: Libro Non Tradotto ahead.

Non avevo mai letto nulla di William Palmer, fino al giorno in cui mi è capitato fra le mani, a fini di HNR, il suo The Devil is White.

Ed è stata una sorpresa. 

La storia comincia in Inghilterra, nel 1792, con un gruppo di entusiasti decisi a fondare la loro utopia coloniale su un’isola vicina alla costa occidentale dell’Africa.

Una società libera e democratica, senza schiavitù, basata sul duro lavoro, sul merito e sull’onesta interazione con le tribù della costa.

E sì, è vero, le tribù della costa praticano il commercio degli schiavi con lucroso entusiasmo – ma solo per mancanza di solida guida morale. L’esempio degli isolani liberi&felici e la conversione al Cristianesimo sono destinati a cambiare tutto… 

E sì: ingenui fino a questo punto.

Almeno alcuni di loro.

Perché noi non tardiamo ad accorgerci che accanto agli idealisti in perfetta buona fede, come il Capitano Coupland, l’aristocratico poeta Caspar Jeavons e il Reverendo Tolchard, ci sono anche sogetti meno disinteressati, come il futuro governatore Sir George, più ansioso di gloria personale che di duro lavoro, o i Meares, in fuga dalla prigione per debiti…

E ci accorgiamo anche che tutti – candidi e profittatori alike – vanno alla ventura nella più superficiale delle maniere. Nessuno ha mai messo piede sull’isola, nessuno si preoccupa del perché i precedenti coloni portoghesi abbiano rinunciato dopo pochi anni, nessuno ha pensato di selezionare in qualche modo gli aspiranti isolani, nessuno si preoccupa della stagione delle piogge.

A pagina 7 sappiamo già che l’impresa è destinata al disastro. Ma i personaggi non lo sanno, e noi li seguiamo, con affascinato orrore, mentre precipitano. Leggiamo le lettere senza destinatario di Caspar, alternate alla voce onnisciente e a una manciata di altri punti di vista. E simpatizziamo viepiù con Mr. Knox, il disincantato mercante (di non si sa troppo bene cosa) che fa da interprete e balia a questi sconsiderati. E guardiamo i nodi venire al pettine, l’uno dopo l’altro. E ci domandiamo a quale punto idealismo e perseveranza diventino follia…

E il tutto in un linguaggio asciutto ed elegante e apparentemente distaccato persino nel descrivere la ferocia dell’isola nei confronti dei suoi would-be colonizzatori. Ma dietro l’eleganza, è l’incrociarsi dei punti di vista a costruire spessore e ironia drammatica.

E no, non è tradotto – né potrei giurare che lo sarà mai. Però è una storia crudele, intelligente, aguzza e scritta magnificamente, e vale del tutto la pena.

Annibale, Di Nuovo?

“Non ti andrebbe di riscrivere un po’ il Somnium?” mi domanda allegramente G.-La-Regista.

Me lo domanda così, come se niente fosse, mentre camminiamo sotto la neve dopo che ho fatto una visita a sorpresa alla compagnia.

“Perché sai, ho ripreso in mano il romanzo proprio ieri pomeriggio, e anche solo spulciando qua e là ci ho ritrovato tante cose che mi piacciono da matti, e che sono rimaste fuori dalla versione teatrale… Adesso che non abbiamo più il problema delle scuole e il limite di tempo, perché non lo riprendi in mano?”

E io non so se G. abbia ben chiaro che razza di bomba abbia sganciato, perché…

Ma cominciamo dall’inizio – e poi no, nemmeno quello. Cominciamo di lato.

Se avete mai presentato un libro, o se avete mai avuto la ventura di lasciarvi scappare che scrivete, odds are che qualcuno prima o poi vi abbia chiesto quanto impiegate a scrivere un libro. Quanto meno, a me capita tutto il tempo, e rispondere a proposito del Somnium Hannibalis può essere divertente o imbarazzante, a seconda dell’interlocutore. Perché l’ineludibile verità è che a scrivere SH ho impiegato più o meno vent’anni.

E adesso sì che cominciamo dall’inizio, e dalla Clarina sedicenne che, dopo avere divorato tutto il G.B. Shaw della ben fornita libreria di casa, decide di provarci e scrive a matita su fogli gialli a quadretti… Annibale – dramma storico in un prologo, tre atti e un epilogo.

Sì, davvero. E no, non ridete. Oppure ridete pure – a distanza di vent’anni e rotti ci rido anch’io, e all’epoca mio padre non finiva di divertircisi. Io però lo prendevo molto sul serio. E lo finii, sapete? Fu la prima cosa più lunga di un raccontino che finii sul serio.

Che dire? Se davvero l’imitazione è la forma più sincera di adulazione, lo spirito di Shaw aveva di che sentirsi molto lusingato. E da qualche parte devo averli ancora, i foglietti gialli a quadretti con il mio primo dramma scritto a matita. Quel che ricordo con vera felicità di quella stesura è che ero capace di lavoraci, in piena concentrazione, nel bel mezzo di qualsiasi grado di casino. E adesso smetto di sdilinquirmici, ma abbiate pazienza: è un bel ricordo.

Poi, in sporadici e successivi sussulti di buon senso, eliminai l’epilogo. E poi il prologo. E poi un atto. E poi un altro. Arrivando a Pavia da matricoletta, mi portai dietro un atto unico. Ed era ancora un atto unico quando partii per Cardiff – solo che era stato trascritto su foglietti azzurri. Sempre a quadretti. E si svolgeva tutto la sera dopo la battaglia di Canne.

Maarbale, e la vittoria, e nimini dii nimirum dederunt, e perché diavolo dopo Canne non aveva attaccato Roma? Perché il punto era quello: sapevo bene che c’erano tutte le buone e solide ragioni strategiche del mondo per non cacciarsi ad assediare una città murata in territorio ostile, eppure l’idea che la tentazione dovesse pur essersi presentata, e poi nulla, mi dava i brividini alla schiena.

Avete presente quando sapete, proprio sapete con assoluta certezza di avere una buona idea per le mani – solo che sappiate darle la forma giusta? Ecco, così. Peccato che la forma giusta continuasse a sfuggirmi. Ho perso il conto delle stesure di quell’atto unico. Ho anche quelle, da qualche parte. Foglietti azzurri in una copertina ad anelli azzurra, pieni di cancellature e correzioni. Sapevo quel che volevo, solo che non riuscivo a dargli la forma che avevo in mente.

E immaginatevi gli anni che passano, le stagioni che si succedono e la Clarina che, tra Cardiff, Pavia, la Vandea e Londra, decide che forse dopo tutto la sua strada non è il teatro, ma il romanzo storico. Fast forward un certo numero di anni, mentre scrivo tutt’altro, eppure, eppure… Annibale resta sempre lì, tra le quinte, in attesa che mi decida a farne qualcosa.

Ma in realtà nel frattempo è diventato difficile. Non che sia mai terribilmente facile, ma Annibale è peggio della media. Se non fosse buffo, direi quasi che non riesco ad essere debitamente lucida…

Finché, dopo due volumi di Vandea e il Rinascimento mantovano, dopo la Francia seicentesca e Costantinopoli moribonda, ecco che arriva la folgorazione: Annibale, sì, ma in forma di romanzo. E comincio a strologarci su, e prendo… come chiamarla? Una deviazione? Immagino di sì. Una consistente deviazione: un metaromanzo su… er, gente che non scrive su Annibale. 

I know, I know... Eppure anche quello aiuta. Mentre scrivo di gente che esplora l’idea da vari punti di vista e poi rinuncia per un motivo o per l’altro, in qualche modo mi convinco. Prima di tutto, mi convinco a leggere e studiare di più in proposito, perché a teatro non c’è davvero bisogno di ricostruire minutamente un mondo – basta suggerirlo – ma un romanzo è un’altra faccenda. 

E così si legge in abbondanza e in varie lingue, ci si documenta e si strologa, e si scoprono varie cose. Come la vecchiaia passata presso Re Antioco, ospite di lusso, pericoloso e inascoltato. O come il probabilmente apocrifo episodio del giavellotto scagliato dentro le mura prima di allontanarsi per sempre da Roma… Apocrifo finché si vuole, ma indicibilmente bello.

E allora…

Ma no, che diavolo. È tardi, devo precipitarmi al seggio, da brava piccola segretaria. Mi perdonate se per oggi mi fermo qui?

Ci sarà una seconda puntata di questa storia: giungerà la nostra eroina alla conclusione di riscrivere il Somnium? Staremo a vedere. 

Staremo a vedere tutti, credetemi…

Che Cosa Non È Un Romanzo Storico?

hnrmay09cover.jpgC’era una volta, un paio di anni fa, una lettrice (ed ex collaboratrice, se ho ben capito) di Historical Novels Review, che scrisse alla rivista una lettera furibonda, sollevando la questione di che cosa fosse di preciso un romanzo storico – e di che cosa invece non lo fosse affatto. Il romanzo storico è un genere ben definito, sosteneva la signora in questione, al quale non appartengono romanzi rosa in costume, fantasy a sfondo storico, viaggi nel tempo, ucronie e via dicendo.

HNR, rivista angloamericana specializzata, seguiva e segue una politica molto aperta in materia, e rispose alla lettrice sostenendo che negli ultimi anni la definizione del genere si era allargata a comprendere un certo numero di sottogeneri, la cui natura varia selvaggiamente. Fenomeno difficile da ignorare – ma soprattutto, si chiedeva il redattore nella risposta, era saggio e lungimirante volerlo ignorare?

Non è un caso che la discussione sia nata in ambito anglosassone, nel contesto di un mercato editoriale molto più segmentato del nostro, ma l’argomento è interessante. Al di là della politica editoriale di HNR, è assolutamente vero che il romanzo storico, come genere, si è ramificato in modo notevole, negli ultimi otto o dieci anni.

È lontana l’arcadia candida e un po’ strettina in cui Sir Walter Scott, Dumas e Manzoni, con i loro seguaci, imitatori ed epigoni, esaurivano più o meno il panorama. C’era l’ambientazione in secoli passati, c’era una guerra/battaglia/pestilenza/cospirazione/sollevazione armata, c’era una maggiore o minore libertà rispetto alle fonti, c’era un malvagio destinato alla sconfitta, c’era una giovane coppia destinata all’altare, et voilà: romanzo storico.

Per molto tempo, l’unica distinzione era stata quella tra romanzi storici e romanzi storici per fanciulli – alle volte con risultati bizzarri: sapete tutti che questo è a pet peeve of mine, ma davvero: chi può voler considerare Il Signore di Ballantrae di Stevenson un romanzo per fanciulli?).

Arcadia, come dicevo: adesso si può contare facilmente una decina di sottogeneri.

1. Romanzo rosa storico. Oppure romanzo storico rosa, a scelta. E sì, lo so: tutti pensiamo subito a qualche Harmony in cui personaggi dalla mentalità e dal comportamento contemporanei indossano costumi di un’epoca a scelta, e questo è quanto. Ad ovest della Manica, in realtà, si trovano commercializzati come historical romance dei romanzi di caratura molto superiore (per qualità di scrittura e accuratezza di ambientazione), che da noi sfuggirebbero alla classificazione “rosa”, ma in cui l’elemento sentimentale ha un’importanza prevalente.

2. Fantasy storico. Probabilmente, il caso più famoso è il bellissimo Jonathan Strange & il Signor Norrel, di Susanna Clarke, che ipotizza l’impiego della magia a fini militari nel corso delle guerre napoleoniche. Personalmente, trovo irresistibile l’idea dei maghi dell’esercito inglese impegnati a spostare colline, strade, fiumi e villaggi della Spagna per confondere le idee ai Francesi! Ad ogni modo, si tratta di trame che associano elementi fantastici agli avvenimenti storici, oppure creano mondi immaginari basati su un periodo storico. Se vogliamo, il Calvino de Il Cavaliere Inesistente ricade in questo genere. All’interno del quale, in teoria, bisognerebbe distinguere…

3. Horror storico, il cui punto di forza sono gli onnipresenti vampiri, calati in un’epoca a scelta*. Pensate a Intervista con il Vampiro di Anne Rice – ma non dimenticherei nemmeno licantropi, zombie e streghe. 

4. Giallo storico. Questo non ha quasi bisogno di spiegazione: delitti e indagini in qualche epoca passata. Citiamo Il Nome della Rosa di Umberto Eco, e anche le indagini di Fratello Cadfael di Ellis Peters. Persino Agatha Christie si lasciò tentare, già nel 1945, ambientando C’era una volta (Death comes as the end) nell’antico Egitto. Una variante particolarmente fortunata di questo genere vede personaggi storici all’opera come detectives – e per un esempio italiano citerò La Sposa di Annibale, di Guglielmo Colombero – ma la produzione in questo campo è molto varia – dal fratello di Shakespeare a Jane Austen, da Abigail Adams al Dr. Johnson…

5. Romanzo storico militare. Anche questo è piuttosto autoevidente: protagonisti militari e abbondanza di guerre e battaglie. Bernard Cornwell e Valerio Massimo Manfredi rientrano in questo genere. Un sottogenere è costituito dalla cosiddetta Naval Fiction. Ne abbiamo parlato di recente.

6. Multiperiod. Romanzo che alterna vicende accadute in secoli diversi, e più o meno correlate tra di loro. Mi viene in mente il (mediocre) The Intelligencer, di Leslie Silbert, i cui capitoli si dividono tra la Londra elisabettiana di Christopher Marlowe e la Washington contemporanea, con lo stesso mistero al centro. Se posso essere spudorata, il mio Lo Specchio Convesso insegue l’elusivo Ammirabile Critonio tra la Mantova cinquecentesca, la Scozia del XVII Secolo e la Londra di Dickens. Diverso da…

7. Saga familiare, che segue diverse generazioni della stessa famiglia attraverso il corso degli anni (o dei secoli). Rilevante ai nostri fini quando gli anni in questione appartengono a qualche passato, come i cicli dei Courteney e dei Ballantynes di Wilbur Smith e, più vicino a noi, La Spilla di Janesich, di Antonio Della Rocca.  

8. Viaggio nel tempo. Il nostro eroe, per un motivo qualsiasi, volutamente o per caso, si ritrova in un’epoca diversa dalla sua. I risultati possono variare dalle buffe complicazioni (il capostipite è forse Un Americano alla Corte di Re Artù, di Mark Twain), ai cavoli amari, come in Timeline, di Michael Chricton.

9. Romanzo storico per ragazzi. Citiamo R.L. Stevenson con Il Ragazzo Rapito e Lino Piccolboni con I Cannoni di Venezia, autore e titolo che, per una volta ci consentono di sorvolare sul modo in cui, negli autori italiani di questo sottogenere, l’ansia per il politically correct nuoce al rigore storico.  

10. Ucronia. Ovvero, ipotesi di storia alternativa. Il re del genere è Harry Turtledove, il cui romanzo ucronico più conosciuta in Italia forse è Per il Trono d’Inghilterra, ma c’è, per esempio, Roberto Farneti, con la saga di Occidente.

Il mercato americano distingue ancora almeno due sottogeneri: il western storico (devo spiegarlo davvero?) e il romanzo storico cristiano (a forte contenuto spirituale), che in Italia praticamente non esistono. E si possono aggiungere ancora le “psedudostorie”, come L’Isola del Giorno Dopo di Eco, o Il Viaggio dell’Elefante di Saramago, che narrano avvenimenti storici filtrati attraverso una voce autoriale moderna o a-storica.

Se non bastasse, esistono poi romanzi che mescolano vari sottogeneri. Il Teschio di Cristallo di Manda Scott (sì, quello…) è un multiperiod con forti elementi fantasy e una trama pseudogialla. Personalmente non mi azzarderei a definirlo un romanzo storico, ma è pur vero che per metà si svolge nel Cinquecento, e quindi, per dire, rientra nei criteri di HNR, che peraltro lo ha recensito, seppur senza eccessivo entusiasmo.

Insomma, il romanzo storico, come tutti i generi letterari, è in continua evoluzione, in una dialettica continua tra sperimentazione e mercato. E, tornando alla domanda iniziale, che bisogna fare di questa fioritura fuori dalle aiuole?

Ecco, a me sembra che la fioritura sia qui per restare, e che volerla ignorare sia un genere di esercizio singolarmente futile – oltre che miope. A che serve rinchiudere un genere letterario in un quadratino? A mio timido avviso il discrimine è altrove, tra il tentativo di ritrarre in modo onesto e plausibile i modi, gli usi e la mentalità di un’epoca e le collezioni di anacronismi psicologici in crinolina – ma anche questa è una valutazione d’altro tipo, che non può funzionare come criterio pratico per la delimitazione del genere…

E allora trovo ragionevole la definizione di HNR:

Per essere considerato storico ai nostri fini, un romanzo deve essere stato scritto almeno 50 anni dopo gli eventi narrati, o da qualcuno che non era vivo all’epoca in cui gli eventi si sono svolti, e quindi le conosce soltanto attraverso la ricerca.

E la distanza di cinquant’anni può essere arbitraria, ma in fondo è tutto quel che serve: al di là di quel limite c’è spazio per tutte le evoluzioni, gli esperimenti, le ibridazioni e le ipotesi che possono mantenere vivo il genere. 

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*Non credo che sia stato tradotto in Italiano, ma esiste un ciclo di romanzi che ritraggono il Barone Rosso e i suoi piloti come una squadriglia di supervampiri… giuro!

 

 

Davvero Deprimente

Sotto molti aspetti gli Elisabettiani non erano gente simpaticissima. Erano pieni di pregiudizi sessuali e razziali, spesso intolleranti, spesso spudoratamente crudeli con gli animali e con i loro simili. Dare a persone vissute quattrocento anni fa delle belle opinioni liberali in fatto di omosessualità, femminismo o persino democrazia (che era poco meglio di una parolaccia per l’Elisabettiamo medio) sarebbe tanto sciocco quanto vestirli in cilindro e redingote anziché farsetto e gorgiera, e armarli di Colt 45. Ho fatto del mio meglio per evitare gli anacronismi psicologici, che considero un delitto detestabile e irritante, e tuttavia sarebbe davvero deprimente se si pensasse che condivido le opinioni di certi miei personaggi in fatto di politica o religione, razza o orientamento sessuale.

E questa era Patricia Finney, nella nota dell’autore a Firedrake’s Eye. Condivido ogni parola, compreso il cri de coeur che aleggia, inespresso ma nemmen troppo, nell’ultima riga e mezzo. È chiaro che la cosa davvero deprimente è già successa: è capitato che qualcuno le rimproverasse le opinioni dei suoi personaggi come se fossero sue. Forse qualcuno si è alzato in piedi durante una presentazione per rinfacciarle l’atteggiamento di David Becket nei confronti delle donne. O qualcun altro le ha scritto mail astiose in cui la definisce una persona orribile per l’intolleranza religiosa di cui traboccano i suoi libri…

Ora, vedete, qualche tempo fa sul blog di Aislinn era comparso un altro cri de coeur, un post in cui si lamentava la feroce prontezza di troppi lettori nell’attribuire l’idioletto di un personaggio all’incompetenza grammatical-sintattica dell’autore. E poi a strategie evolutive Davide Mana ne aveva tratto amarognole riflessioni sulla crescente mancanza di fiducia tra lettore e scrittore.

Mancanza di fiducia e di immaginazione e di capacità di astrarre, aggiungerei – e magari si trattasse soltanto del linguaggio. L’avete letta, Finney: il lettore capace di attribuire all’autore il pregiudizio cinquecentesco del suo personaggio esiste. Oh, se esiste.

E qui interviene un altro malanno di natura diversa: la mancanza di prospettiva storica. Forse vi ho raccontato della vispa quindicenne che veniva a lezione di Latino secoli fa e diceva che, se fosse stata un’antica romana, non avrebbe voluto schiavi.

“Li avresti voluti eccome,” le dicevo io.
“Nemmeno per idea! Anche nell’antica Roma avrei avuto le mie idee.”
“Ne avresti avute di tue, ma non quelle che hai adesso. Saresti cresciuta considerando la schiavitù un indispensabile pilastro dell’economia e della convivenza civile. Avresti potuto voler trattare i tuoi schiavi con umanità, ma avresti anche considerato innaturale una vita senza schiavi.”
“Ma non è giusto…”

E, pur essendo la fanciullina ragionevolmente sveglia, non c’era verso di convincerla troppo che, a distanza di secoli, non erano solo modi e costumi ad essere differenti, ma anche l’idea di ciò che era giusto e ciò che era sbagliato.

On the other hand, ci fu una lettrice sperimentale che mi rimproverò aspramente perché nelle mie storie vandeane i sacerdoti impartivano l’assoluzione preventiva prima delle battaglie. Non era colpa mia. Non me l’ero inventato. Alla fine del Settecento era una pratica comune, antica e radicata. La lettrice sperimentale si scandalizzava del fatto che lo raccontassi, perché era sbagliato. Moralmente sbagliato dal suo punto di vista moderno. E sapeva che non sono una persona religiosa, ma…

Ma le sembrava brutto che scrivessi cose del genere. Perché se l’avevo scritto, bisogna dire che lo condividessi – o quanto meno che non lo disapprovassi, visto che questi sacerdoti, per lo più, ricadevano nel campo dei Buoni. 

Il fatto che nessuno, a fine Settecento, considerasse un sacerdote un Cattivo Sacerdote (o una Cattiva Persona, for that matter) perché praticava le assoluzioni preventive – anzi! – non era rilevante. E io, che scrivevo questa gente senza almeno implicarne l’errore morale, dovevo condividere l’errore stesso.

Il che, suppongo, è frutto della convinzione che scrivere sia questione di versare su carta il contenuto delle coronarie e del proliferare di anacronismi psicologici, soprattutto nella narrativa per fanciulli. E il lettore nutrito ad anacronismi psicologici cresce incapace di prospettiva storica e sa identificarsi soltanto con personaggi psicologicamente anacronistici: in un terrificante uroburo narrativo, le Bambinaie Francesi generano innumeri altre Bambinaie Francesi…

E no, non sto cercando di essere catastrofista – è che mi riesce bene, in un mondo in cui Patricia Finney deve scrivere l’introduzione che avete letto per evitare che qualcuno la consideri piena di pregiudizi, intollerante e crudele come gli Elisabettiani di cui scrive.

Il che, se ci pensate, è davvero deprimente.

‘Zounds!

È inoltre consigliabile, scrivendo narrativa ambientata in qualsiasi periodo storico, evitare distorsioni del linguaggio nel tentativo di creare dialogo d’epoca. Se i personaggi della nostra storia non suonavano antiquati ai loro contemporanei, allora non devono suonare antiquati nemmeno a noi. Può benissimo darsi che un giovanotto dicesse al suo benefattore: La vostra benevolenza mi lusinga assai, signore, e son ben conscio della gratitudine che vi spetta”, ma non è così che le sue parole suonavano all’orecchio del benefattore. Quello che il benefattore capiva era: “Grazie, signore, molto gentile.”

E questa è quella Josephine Tey di cui parlavamo qualche giorno fa, nella Nota al suo romanzo The Privateer. Questo significa che, nel 1952, JT anticipava di una buona sessantina d’anni quello che nell’ultimo decennio o giù di lì è diventato il dibattito sul Nuovo Corso del romanzo storico. La faccenda (come molte faccende serie che riguardano la narrativa di genere) è maturata in ambito anglosassone, quando alcuni autori hanno cominciato a scrivere antichi romani e sovrani Tudor che parlavano un linguaggio decisamente ‘XXI Secolo’. L’idea generale, come la zuppa inglese, ha più di uno strato.

Da una parte c’è la volontà di rendere più facile l’identificazione al lettore. Bisogna ammetterlo, non è sempre facilissimo simpatizzare per cinquecento pagine con gente che procede a forza di “Dei possenti!”, “calami” e “guantiere”. Poi sia chiaro, non si tratta di modernizzare i personaggi: mentalità e atteggiamento restano rigorosamente period, ma il trucco sta nel renderli in un linguaggio tale che il lettore contemporaneo non abbia l’impressione di essere appena sbarcato su Marte.

Ed ecco l’altro lato della questione, che ci riporta al discorso di JT: la maniera cinque, sei o settecentesca, non pareva affatto maniera a chi la usava, e pertanto il romanziere storico dovrebbe produrre l’impressione che i suoi personaggi parlino in modo normale. Quando Riccardo III dice “Zounds!”, non dice nulla di particolarmente esotico o pittoresco, si limita a usare un’imprecazione che è moneta corrente ai suoi tempi. E a quelli di Will Shakespeare, se vogliamo, per cui l’esempio non è del tutto calzante, ma avete capito quello che voglio dire. Supponiamo tuttavia che un romanziere contemporaneo riprenda in mano Richard*, e che lo ritragga in un momento di furore: un’imprecazione contemporanea aiuterebbe il lettore a simpatizzare meglio con la sua rabbia? E glielo farebbe sentire più vicino? Più vero? Più vivo?

Quel che è certo è che un linguaggio troppo desueto produce distacco, intralcia l’identificazione e trascina il lettore fuori dalla storia. Not good. Per rendersene conto (e per vedere che JT non era l’unica precorritrice) basta leggere il primo capitolo dei Promessi Sposi, con il supposto scartafaccio secentesco: fittizio senz’altro, ma ricalcato sullo stile dell’epoca e poco meglio che illeggibile. Per renderlo appetibile al lettore, dice Don Lisander, bisogna rivestire la bella storia di parole diverse, parole che si possano capire a prima vista.

E in realtà oggi sono veramente pochi gli autori che riproducono fedelmente la lingua del loro periodo: per lo più, chi rifiuta l’idea del Nuovo Corso cerca una via di mezzo tra comprensibilità e un certo qual gusto d’epoca, il che risulta in una vasta gamma di linguaggi immaginari, più o meno riusciti, più o meno deliberati, più o meno leggibili**.

E allora? Vexata quaestio… Personalmente, confesso di avere sempre avuto un debole per il linguaggio d’epoca***, per le costruzioni desuete, per i vocaboli astrusi e specialistici, ma devo aggiungere anche che non è la caratteristica della mia scrittura che mi ha procurato più lettori. Da un lato, capisco che se voglio ricreare un’altra epoca, renderla viva per il mio lettore, un linguaggio contemporaneo (purché privo di anacronismi) è di sicuro uno strumento potente. D’altra parte, dove va a finire quella specie di “patina del tempo” che contribuisce tanto al fascino di tutto quello che è antico?

Aneddotino. Secoli fa, per una rappresentazione de L’Uomo del Destino, atto unico napoleonico di G.B. Shaw, avevo fatto fotocopiare dei pezzi di mappa catastale, perché servissero da mappe militari. Nonostante avessi preso la precauzione di procurarmi della carta color avorio (un mestieraccio, trovarne in formato A3!), vedermele in mano mi causò un istante di delusione: non avevano un’aria antica… Ovviamente non dovevano averla! Ovviamente Napoleone aveva mappe nuove con sé, magari un po’ sbrindellate e macchiate dall’uso, ma senz’altro non antiche. E però, da un punto di vista scenografico, non sarebbero parse fuori posto tra le crinoline e le spade e le candele, nell’atmosfera d’epoca creata dalla regia?

Ecco, credo che questo sia un po’ il nocciolo del problema: che cosa si vuole, che cosa si cerca in un romanzo storico? Un senso della sostanziale parentela che ci lega a questi antenati, o uno sguardo agli usi, costumi e pensieri di un mondo che il passare dei secoli ha reso estraneo? Il dibattito è ampiamente aperto.

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* Ipotesi tutt’altro che peregrina: nel mondo anglosassone esiste una folta schiera di romanzi riccardiani. C’è persino una Richard III Society, dedita alla riabilitazione storica del povero Richard.

** Per un gustoso simil-mantovano secentesco, La Pantoffola di Matilda, di Stefano Scansani, vale la pena di un’occhiatina.

*** A dieci anni, giocando “a Medio Evo”, ero solita riprendere i miei amici quando per errore si rivolgevano al re con il lei, anziché il voi, che a me sembrava più period… Me lo rinfacciano ancora.

Una Persona Seduta A Scrivere

Jeffrey Sweet offre un sacco di buone ragioni per il fatto che un romanziere difficilmente possa essere un buon protagonista teatrale.

Lo scrittore è, teatralmente parlando, un personaggio statico e passivo, perché il suo mestiere è quello di osservare, elaborare, starsene seduto a scrivere e, nel complesso fare tutto quel che fa d’interessante all’interno della propria testa.

A meno che non uccida qualcuno – o che non risolva delitti* – ma questo è un altro discorso. Nella sua qualità di scrittore, in scena non funziona granché.

Per quanto ciò mi spiaccia in linea di principio, devo ammettere che tutto questo vale anche per i romanzi. Bisogna essere davvero molto in gamba per rendere drammaticamente interessante la scrittura di un libro. Fare della stesura di un romanzo una trama significa avventuarsi su terreno pericoloso, perché una persona seduta a scrivere è… be’, una persona seduta a scrivere. Non precisamente materiale narrativo.

E questo è il motivo per cui, benché ci siano molti libri che hanno scrittori per protagonisti, sono rari quelli in cui la scrittura in sé costituisce la trama principale. Mi viene in mente New Grub Street, in cui parecchi capitoli sono dedicati al più tormentoso attacco di Blocco dello Scrittore che si possa immaginare – tragico addirittura, visto che alla fine Edwin ci lascia persino le penne. È una storia molto triste, ma appunto per renderla pregnante Gissing ha sentito la necessità di farne una faccenda di vita e di morte in senso stretto.

In questo ristretto panorama, i personaggi che scrivono romanzi storici si contano sulle dita di una mano. Un paio di volte. Così, off the top of my head, mi vengono in mente solo due casi, e devo confessare che nessuno dei due mi riempie di gioia.

Uno è Il Manoscritto di Shakespeare, di Domenico Seminerio. Sia chiaro, il libro in sé è tutt’altro che male, ma… Dunque: uno scrittore siciliano si ritrova tra le mani dei documenti cinquecenteschi, il cui succo sembra essere che Shakespeare era in realtà siciliano a sua volta. Scettico fin dapprincipio, il protagonista-narratore si vede commissionare una trattazione romanzesca del materiale** – e qui cominciano i guai. Perché il Nostro, che è un insegnante di lettere in un Liceo, si mette all’opera praticamente senza ulteriori ricerche e armato solamente di qualche libro di storia dell’arte per avere un’idea di abbigliamento e mobilio. Così equipaggiato, dopo varie settimane di lavoro, produce un romanzo storico. Feu! Feu! Feu!

L’altro – e se possibile peggiore – caso è La Storia dell’Assedio di Lisbona, di Saramago. Qui abbiamo uno stimato correttore di bozze che, in un momento di stravaganza, aggiunge un “non” a un saggio di storia medievale, stravolgendo il significato del testo. La casa editrice, invece di richiamarlo, gli commissiona una bella ucronia basata sul suo colpo di testa, ovvero l’ipotesi che, nel 1147, i Crociati si rifiutino di aiutare il Re del Portogallo a riconquistare Lisbona. E anche qui il Nostro si mette all’opera senza nessuna particolare ricerca, viene mostrato mentre s’interroga su come entrare nella mente di gente del Dodicesimo Secolo, poi mentre scrive una scena in cui un armigero e una lavandaia s’incontrano al fiume e, nel giro di non troppo tempo, lo vediamo consegnare un romanzo storico che rende tutti molto felici.

Ecco. In entrambi i casi, confesso di avere letto con estrema irritazione. So che in parte questa irritazione è irragionevole, so che mesi e mesi (o anni) di ricerche e letture non sono nulla che si possa raccontare in un romanzo, so che le complessità di due lunghe stesure non costituiscono buona materia narrativa… Sì, grazie: sono ben consapevole di tutto ciò.

Tuttavia, vedere quello che so essere un processo complicato, affascinante, lungo e occasionalmente tormentoso – nonché un mestiere di precisione, pazienza, curiosità, immaginazione e finezza – ridotto a una rapida compilazione con mezzi di fortuna e motivazione casuale mi irrita nel profondo. Anche perché, diciamocelo: sarebbe stato così difficile dare al professore una laurea in Inglese, o almeno un interesse particolare per il teatro elisabettiano o qualche altro argomento inerente? O fornire il correttore di bozze di un interesse pregresso per la storia medievale? Era proprio necessario implicare che qualsiasi individuo di buona cultura, con o senza esperienza precedente in fatto di narrativa, privo persino di interesse specifico per il genere, possa produrre un romanzo storico pubblicabile in qualche settimana, senza uno straccio di ricerca e senz’altro motivo che una richiesta altrui?

Se leggeste in un romanzo che un orologiaio, da un giorno all’altro e con la minima provocazione, si mette a produrre gioielli, e che imbrocca risultati di qualità professionale al primo colpo – nonostante la mancanza di un briciolo preparazione specifica o di esperienza? O che, dal giorno alla notte, senza addestramento Jedi e senza nemmeno la scusa di un’urgenza improcrastinabile e vitale, un fonditore di campane comincia a forgiare cannoni che funzionano? La considerereste una grossolana e approssimativa improbabilità, giusto?

Appunto.

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* Per fare due esempi che non sono teatrali, ma televisivi, c’importerebbe molto di Castle se, invece di investigare insieme alla sua bella detective, se ne stesse chiuso in casa a scrivere e nient’altro? O anche se, invece di partecipare alla risoluzione dei casi, si limitasse a osservare, quiet and unobtrusive? Se così fosse, la serie si chiamerebbe “Beckett”.

** Stratagemma che, ne abbiamo parlato, è quasi un topos a sé nei paraggi narrativi di qualsiasi teoria controversa o downright balenga.

Gl’Insorti di Strada Nuova

È con una certa emozione (e con notevole sollievo – se state leggendo qui vuol dire che null’altro è esploso, deragliato, naufragato o altrimenti andato storto, ed era tutt’altro che scontato) che vi presento…

 

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Il mio più serio sforzo in fatto di self-publishing è finalmente disponibile in versione KindleePub e PDF.

Vi ricordo la presentazione su Twitter oggi pomeriggio a partire dalle 17.00. Cercate @laClarina e seguite l’hashtag #stradanuova. Sarò lì a twittare e rispondere.

E a questo punto non posso che invitarvi a scaricare, regalare per Natale, leggere, commentare, spargere la voce, discutere, recensire… Soprattutto, vi sarò grata se vorrete farmi sapere che cosa ne pensate.

Buona lettura!

 


 

Questioni D’Iridescenza

In teoria, la fedeltà alle fonti storiche è il primo articolo del mio credo di autrice. Voglio dire: in un mondo perfetto, il mestiere del romanziere storico consisterebbe nel ricreare quello che non sappiamo sulla base ed entro i limiti di ciò che sappiamo.

Il mondo non essendo perfetto, alle volte il confine tra ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo è un tantino confuso, e anche ciò che sappiamo non è poi così certo.

Il mondo non essendo perfetto, inoltre, i romanzieri storici hanno una certa tendenza a non razzolare tanto bene quanto predicano. O almeno io ce l’ho. Sia chiaro: faccio sempre del mio dannato meglio per non contraddire nessuna fonte certa, per attenermi ai fatti, per essere tanto precisa quanto posso con date, luoghi e persone…

E tuttavia, se esistono versioni differenti, fonti che riportano diversamente lo stesso avvenimento, la stessa battaglia, lo stesso personaggio? Non è colpa mia, giusto? E succede, sapete? Forse non avete idea di quanto spesso succeda… E che cosa può fare in questi casi una povera ragazza? *makes cocker spaniel eyes*

Be’, questa povera ragazza ha raggiunto un compromesso con se stessa e con la Storia: in caso di fonti non uniformi o contrastanti, sceglie sempre la versione che le fa più comodo dal punto di vista narrativo…

Sì, sì – questa ragazza sa perfettamente che esistono gerarchie delle fonti e criteri per stimarne, se non proprio stabilirne, l’affidabilità, ma al tempo stesso, ringrazia spesso il Cielo che, per le sue vie e ragioni imperscrutabili, l’ha condotta a scrivere narrativa anziché saggistica.

Piccolo esempio illuminante: visitando il palazzo dell’Ajuntament a Barcellona, ci si ritrova a un certo punto nel Salò des Cròniques, dove nel 1929 Josep Maria Sert ha dipinto un ciclo di affreschi che narrano le vicende di Roger de Flor, cavaliere senza macchia e senza paura, che dopo aver generosamente salvato l’Impero Bizantino da qualche tipo di Turchi, viene ricompensato con l’inganno, il tradimento e l’omicidio. Che pessima gente sono questi Bizantini… Ebbene, più guardavo gli affreschi, più mi sembrava che ci fosse qualcosa di strano. Ero certa di avere ricordi in proposito: i nomi erano quelli, il secolo era quello, eppure la storia non quadrava. Poi, folgorazione! Ma certo, Roger de Flor, ex Templare, pirata e capitano della Compagnia Catalana – una delle più costose, pericolose e celebri compagnie mercenarie del XIII secolo. A sentire i bizantinisti anglosassoni (gente come Norwich e Runciman), il suo “generoso aiuto” veniva a un prezzo astronomico (comprendente, tra molte altre cose, la mano di una principessa imperiale) e, una volta respinti i Turchi, i Catalani si rivelarono il classico rimedio peggiore del male, scatenandosi in saccheggi, incendi, stupri e distruzioni miste assortite in giro per l’Impero… E allora i Bizantini, che non andavano tanto per il sottile, adottarono la sperimentata tecnica tradimento-assassinio. Quando si dice a mali estremi… con quel che segue.

Rogerelaprincipessa.jpgInsomma, due storie diametralmente opposte. A sentire Norwich, Roger era un pessimo soggetto; i Catalani hanno l’aria di pensarla diversamente. A Barcellona c’è una Calle Roger de Flor. Ci sono monumenti, hotel, istituti intitolati a lui. Ci sono siti web celebrativi… Una rapidissima ricerca su Google rivela almeno una trilogia di romanzi storici che ha Roger e i suoi Catalani, o Almogàvares, per eroi, ma non mi stupirei se ce ne fossero altri.

E tuttavia, se io volessi scrivere un romanzo i cui protagonisti ed eroi fossero gli Imperatori Paleologi, Andronico II e Michele, intenti a salvare il loro impero da quello stormo di cavallette, gli Almogàvares, capitanati dal crudele, esoso e infingardo Roger? Il bello è che potrei! Anzi, non sono nemmeno certa che qualcuno non l’abbia già fatto – di sicuro le fonti lo consentirebbero senza eccessivi patemi d’animo.

La morale di tutto questo è varia. In primo luogo, un romanziere storico può fare pressoché di tutto anche conservando una coscienza decente; e questo è cosa buona e giusta per la letteratura, se non proprio per il fegato degli storici. In secondo luogo, ma in realtà questo è il punto fondamentale, non da oggi penso che la Storia abbia un quid d’inafferrabilità. I contemporanei la narrano con un’ottica deformata dalla loro posizione al suo interno; i posteri la interpretano da distanze cronologiche e culturali che non possono non essere deformanti a loro volta. Aggiungiamo a questo che i documenti vanno perduti, o sopravvivono in modo parziale, o vengono trascurati, e che il peso relativo dei fattori di valutazione cambia attraverso i secoli… È inevitabile: come dice Gianni Granzotto nel suo Annibale, “ci sono cose che non sapremo mai. Cose che non sappiamo più”.

E questo è forse uno degli aspetti più affascinanti della Storia. Per gli storici sono vuoti da riempire cercando e ricercando, e per i romanzieri è un’iridescenza (o un’opacità, a seconda dei casi) da raccontare ancora e ancora, da ricreare, da immaginare. E non sempre nello stesso modo – anzi.

Alla fin fine, la forza vitale di tutte le cose risiede sempre in ciò che ancora non sappiamo.

 

Dic 9, 2010 - grilloleggente    Commenti disabilitati su Entered From The Sun – The End

Entered From The Sun – The End

Finito.

Finito e sono molto perplessa. No, non è vero: dovrei essere perplessa, perché non ho capito moltissimo. Ho capito che è stato Sir Walter Ralegh a ingaggiare Barfoot, il quale, in una bellissima serie di scene notturne concitate e sospese, va a rapporto e spiega che secondo lui a far uccidere Marlowe è stato Tom Walsingham.

Non sono sicura di aver capito se il committente di Hunnyman fosse lo stesso Tom Walsingham. Secondo Ralegh e Barfoot sì, per verificare se ci fosse modo di risalire fino a lui – ma, ripeto, non sono sicura. Ad ogni modo, Hunnyman non ha capito un bottone (men che meno l’esatta natura del servizio per cui è stato pagato). Al posto di Walsingham – sempre che sia davvero lui – non mi sentirei troppo al sicuro per non essere stata sgamata da un investigatore tanto inetto…

Non ho capito affatto la rilevanza della linea narrativa in cui il fantasma di Marlowe visita la vedova Alysoun, specialmente perché per fare svanire il fantasma stesso è bastato che Alysoun ne parlasse al Dottor Forman (senza nemmeno dirgli di chi si trattava). Fantasma timido?

Ho capito che la gente sveglia non necessariamente trionfa alla fine. Barfoot muore combattendo in Irlanda durante la campagna del conte di Essex; Alysoun, che si è fatta mettere incinta da Barfoot, si libera del povero Hunnyman, sposa convenientemente un giovane apprendista, sembra avere ottenuto tutto quel che voleva, e poi muore di peste con marito e prole. Il misterioso poeta-narratore in prima persona è morto, assassinato dagli uomini del misterioso-giovanotto-che-forse-è-Walsingham (era al servizio di Ralegh, lui, e tutta la faccenda l’ha narrata da morto). Hunnyman riprende la sua vita d’attore in una compagnia di giro particolarmente scalcinata e, parecchi anni dopo, lo troviamo installato in un maniero di campagna, scoprendo che ha sposato un’altra vedova e, alla morte di lei, ha ereditato castello e terre, su cui regna con benevolenza se non con particolare sagacia, generoso, amato da tutti, finalmente soddisfatto e del tutto dimentico di Marlowe.

Insomma, ricapitolando: la trama ha senz’altro un inizio, ma se ha un mezzo non me ne sono accorta, e la fine è solo vagamente imparentata con l’inizio; l’arco narrativo non c’è; i punti di vista sono più di quanti riesca a contarne – e neanche sempre individuabilissimi; i personaggi entrano ed escono di scena senza un briciolo di logica e agiscono per motivi non sempre comprensibili; il linguaggio è eccentrico e convoluto, con punte sperimentali ai limiti dell’azzardo sintattico; il finale non conclude la storia in modo soddisfacente, non risponde davvero alle domande sollevate all’inizio, non mostra cambiamento ed effetti del cambiamento causati dallo svolgersi della vicenda… se Garret avesse deliberatamente scritto un libro con tutte le caratteristiche che mi irritano nel profondo, non avrebbe potuto fare di meglio. Eppure…

Eppure mi è piaciuto alla follia. I want more. E per di più, voglio saperlo fare anch’io – qualunque cosa fosse. E forse, qualche volta, sono un pochino intransigente nella mia ossessione per la fabula? Ecco, tra le altre cose, Entered From The Sun mi porta ad ammettere che magari, forse -talvolta – molto raramente e appena un pochino, tanto quanto se ne potrebbe mettere sulla lama di un coltello – può anche capitare che lo sia.

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