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Ott 8, 2018 - grillopensante    2 Comments

E Se Non Volessi Chiamarle Emozioni?

PassiMi è ricapitato sott’occhio un vecchio post sul modo in cui la passione (insieme con “le passioni”) era diventata un pilastro del marketing: da un lato le passioni vanno gratificate; dall’altro la passione nobilita qualsiasi cosa. Vogliamo mettere una merendina prodotta con passione? O un perborato che ci rende liberi di perseguire le nostre passioni?

Yes well.

Eppure… possiamo sghignazzare – ma è mia ferma convinzione che la pubblicità sia un buon indicatore di come pensa la società in un dato momento. Una singola campagna impostata in un certo modo può essere un tentativo, un errore di giudizio, un fatto isolato. Una tendenza è una faccenda diversa: significa che l’approccio funziona – e funziona perché ha colto qualcosa che risuona con i consumatori. Che li fa sentire bene spingendoli a comprare le merendine e il perborato.

E questo era quattro anni fa – ma non è come se le cose fossero cambiate terribilmente. Anzi, semmai la tendenza in questione ha fatto talea, e ha sconfinato dal campo del marketing: un segno di successo, se mai ce ne fu uno.

passion-heartLe talee sono in realtà due, perché alla passione/i si sono affiancati l’amore e le emozioni. Tutto è fatto con amore, tutto è fatto per suscitare emozioni. Il formaggio, le automobili, le crociere, i decreti legge… No, really: non l’avete sentito quel ministro della Repubblica che arrivando a Genova ha vantato l’amore e la passione che aveva messo nello stilare la sua bozza di decreto? E non era il solo.

Strategia facile e piaciona, buona per tutte le stagioni e in tutti i campi. Why, provate a chiedere a un implume delle medie perché gli piace tanto il tal libro, il tal film, la tale canzone… Se si tratta di un esemplare appena un po’ articolato, le possibilità che vi risponda “perché mi ha suscitato tantissime emozioni” sono altine. E per contro, naturalmente, perché non ti piace? “Non mi dà emozioni.” D’altronde, perché non dovrebbero farlo? Gli implumi, come i ragazzi del marketing, sono prontissimi nel capire quello che funziona.

Dite che sono cinica? Si sa. E probabilmente lo sono ancor di più nel pensare che questo sia profondamente diseducativo – ma d’altra parte, che cosa implica questo tipo di enfasi? Che non c’è ragione di coltivare capacità, talento, tecnica e competenza, tanto la passione azzera ogni considerazione di livello e qualità.  Che le passioni vanno gratificate sempre e comunque – e possibilmente subito. Che le decisioni si prendono col cuore, con le emozioni, con i sentimenti. Che non esiste altro che questo. emozioni2

Qualche anno fa, sul suo blog, Holly Lisle lamentava il modo in cui, in American English, il verbo “to feel” (sentire, provare sentimenti) stava sostituendo “to think” (pensare). Non si pensa più, diceva Holly. Si sente e basta – e, quel che è peggio, si viene incoraggiati su questa strada, fino al punto in cui farsi governare dalle emozioni diventa una specie di punto d’onore, mentre pensare è cosa fredda, meccanica e leggermente disdicevole.

Ecco, non sono certa di poterle dar torto. Rimpiango un po’ di non avere fatto qualche ricerchetta a suo tempo, per vedere da che cosa derivasse lo scivolamento linguistico – ma è probabile che Oltretinozza ci stessero precedendo per questa china emotiva. Si comincia con i blog, le riviste femminili, i venditori di perborato… per arrivare alla scuola e ai ministeri: non c’è motivo di cercare, capire, pensare, analizzare, porsi domande: o l’emozione c’è (e allora va bene) o non c’è (e allora anatema!). Fine della storia.

Voi non lo trovate leggermente spaventoso?

Ott 1, 2018 - grillopensante    Commenti disabilitati su Storia e/o Arte (e Tutto il Resto…)

Storia e/o Arte (e Tutto il Resto…)

artCome molti, ho studiato Storia dell’Arte per tre anni quando ero al Liceo. Un paio d’ore la settimana, mi par di ricordare… E ricordo che, vista dal Ginnasio, l’idea mi piaceva proprio tanto – in una maniera che, me ne rendo conto adesso, era alquanto fumosa. Non sapevo di preciso che cosa aspettarmene ma, persino a quindici anni, non avevo dubbi sul fatto che una materia il cui nome comprendeva la parola “storia” dovesse essere interessante…

E invece magari qualche dubbio avrei fatto bene ad averlo.

Per tre anni, un paio d’ore alla settimana, quel che si sentiva spiegare, leggeva e studiava, erano infinite descrizioni di scultura dopo scultura, quadro dopo quadro – sempre con qualche enfasi sull’interpretazione sentimentale delle singole opere. Era carino, ma non era interessante.

Man mano che procedevamo notando espressioni dolcissime, gesti drammatici, panneggi morbidi, colori intensi and stuff, mi rendevo conto che le cose che avrei voluto sapere erano altre. Perché scolpivano, costruivano, dipingevano in quel modo? Quali erano le loro influenze – generali e personali? Chi erano i committenti? Perché volevano quel tipo di opere? Sulla base di quali esigenze? A che scopo? Che tecniche, che materiali si usavano? In che modo? Come si riflettevano sull’arte i grandi cambiamenti, le grandi scoperte, le guerre, i crolli degli imperi? Che rapporti c’erano fra arte, scienza, economia, società? Che posizione occupava l’artista? Come si formava? Da quali basi partiva ciascun grande innovatore? Da dove saltavano fuori le intuizioni, le ribellioni…?

E invece no, niente da fare. All’inizio di ogni capitolo c’era un paio di pagine di contesto storico che a nessuno passava per il capo di spiegare o approfondire granché, c’era qualche cenno biografico sull’uno o l’altro artista e poi si ricominciava opera per opera, con i panneggi morbidi, e i colori intensi and stuff. Come se l’arte fosse un grazioso accessorio, appuntato lì dov’è un po’ per caso e un po’ per vago senso del bello. Come se esistesse per conto proprio, eterea e incontaminata. E magari a quindici anni non lo sapevo con estrema chiarezza, ma l’idea mi sembrava abbastanza irritante.

Morale, per tre anni di Liceo non sono mai riuscita a farmi piacere sul serio la storia dell’arte, né ho mai fatto faville nelle interrogazioni. Di sicuro avrei potuto – avrei dovuto – studiare di più, imparare panneggi, espressioni e colori, e poi magari approfondire per conto mio. Invece ero una ragazzina piuttosto impossibile, seppure a modo mio. Non contestavo quasi mai, ma mostravo la mia disapprovazione e il mio disinteresse navigando sul sette e ostentando un’aria di generale sufficienza… Sì, ero insopportabile. A posteriori, mi rendo conto che non strangolarmi è stato un atto di notevole tolleranza da parte dell’insegnante d’arte.

Anyway, poi sono cresciuta, e ho cominciato a colmare le mie lacune per conto mio – e mi sono resa conto viepiù che la colpa non era in particolare del mio insegnante ma l’effetto di una  mentalità didattica sciaguratamente diffusa, per cui la storia è la storia, l’arte è l’arte, la letteratura è la letteratura, e guai a sconfinare. È una mentalità pericolosa da acquisire: potrei citare l’amica che si giocò diversi punti discutendo una tesi che ignorava completamente le motivazioni politiche della politica culturale dei Gonzaga… ma, al di là delle ripercussioni strettamente accademiche, imparare a pensare in questo modo toglie un sacco di prospettiva, don’t you think?

E questo è vero per tutte le arti, per le scienze – in fact, per tutti i campi dell’umana attività. Da dove saltava fuori il pittore/filosofo/poeta/imprenditore/scienziato/riformatore/younameit? In che mondo viveva? Come ci viveva, pensava, imparava, esercitava la sua attività? Come ne viveva? In che modo questo ha influenzato la sua produzione? Arte, storia, economia, società, pensiero – non sono mai stati sfere separate: ha davvero senso studiarli come se lo fossero?

Tutto Inventato

governessMillenni fa, quando davo ripetizioni private, la mia allieva preferitissima, vispa liceale quindicenne senza alcun vero bisogno di ripetizioni, pensò bene di sconvolgermi annunciando trucemente che non le interessava studiare Latino, non le piaceva e non ne vedeva l’utilità, visto che di sicuro nessuno l’aveva mai parlato.

Io, al momento appollaiata su una scaletta in cerca di un vecchio libro di versioni, scoppiai a ridere.

“No, dico davvero,” insisté R. “Non vorrai farmi credere che qualcuno fosse tanto idiota da parlare questa roba con le declinazioni, vero?”

“Un sacco di gente parla roba con le declinazioni,” dissi io. “Ancora adesso: il Tedesco ha le declinazioni, il Russo ha le declinazioni…”

“Be’, è diverso. Quelle sono lingue che la gente parla. Il Latino no.”

“Adesso no, magari*, ma fino a nemmeno tantissimo tempo fa… lo sai che il Quartiere Latino di Parigi si chiama così perché ancora nel Settecento…”

” È inutile, non sforzarti. Tanto non ci credo che lo parlassero davvero. E non credo nemmeno alla storia, se è per questo.”Ladder

E qui per poco non caddi dalla scaletta. Come, non credeva alla storia? Non credeva che fossero successe le cose raccontate nei libri di storia. E secondo lei, perché le avrebbero raccontate, allora? Oh, chi lo sa? Magari si erano messi d’accordo. Ma chi? E Perché? Oh, chi lo sa? Per far fare bella figura a Roma, per esempio. E quindi c’era una Roma? Boh, magari sì. E cosa facevano questi Romani, mentre non facevano quello che dicono gli storici? E chi lo sa? Di sicuro non quelle cose troppo ovvie e troppo prevedibili che dicono i libri. Ovvie e prevedibili?! Sì, come Cesare, che va in Senato anche se gli dicono di non andarci, e poi lo accoltellano…

D’accordo, la piccola R. aveva detto qualcosa a caso perché non aveva voglia di cercare cognovi sul vocabolario, e si era ritrovata in pasticci più grossi, come la necessità di difendere un’affermazione a cui non aveva pensato granché… E però non posso fare a meno di pensare che la sua insofferenza nei confronti della storia e del Latino fosse in parte sincera.

idesofmarch15Considerando che R. era sveglia e studiosa, una di quei ragazzini a cui piace andare a scuola, l’idea era e resta un po’ scoraggiante. Non da oggi penso che insegnare la storia come una serie di date, nomi e fattori economici sia deleterio. Come è possibile appassionarsi alla complessità multiforme dei processi che ci hanno resi quelli che siamo, mandando a memoria il progressivo diffondersi della patata sul continente europeo?

E d’altra parte, me ne rendo ben conto, le ore e i programmi sono quelli che sono, e offrire una panoramica generale è il meglio che si può fare. Chi si interessa approfondirà poi all’università o per conto proprio…

Eppure… che non ci sia un modo diverso? Che non si possa da un lato stimolare l’interesse e consentirgli di svilupparsi, e dall’altro offrire gli strumenti intellettuali per farlo?

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* In realtà, di recente, un’amica di mia madre mi ha raccontato di una serata lontana, in una discoteca della Swinging London anni Sessanta, in cui conversò lungamente in Latino con un giovane ingegnere tedesco…

Nov 2, 2016 - teatro    Commenti disabilitati su Campogalliani70: Allieva Benazzi a Rapporto…

Campogalliani70: Allieva Benazzi a Rapporto…

ScuolaAbbiamo parlato di tante cose a proposito dei settant’anni dell’Accademia – tra le altre la Scuola, ovvero lo strumento con cui la Campogalliani coltiva la sua continuità nel segno della grande tradizione teatrale italiana. I prossimi settant’anni (come minimo), come ha detto il Direttore Artistico, si fondano anche su questo.

E allora oggi schiudiamo i battenti della Scuola, e facciamo quattro chiacchiere con una degli allievi…

Chiara Benazzi, come sei arrivata al teatro in generale e alla Campogalliani in particolare?

come spettatrice sono sempre stata, sin da piccola, affascinata dal mondo del teatro ma allo studio vero e  proprio mi sono approcciata quasi per scherzo. Un’amica, una quindicina di anni fa, mi ha chiesto di partecipare assieme a lei a un corso di teatro, perché non voleva farlo da sola. Lei ha seguito solo le prime tre lezioni mentre io non solo ho portato a termine quel corso ma ho anche proseguito con altre esperienze tra Mantova e Verona. Alla Campogalliani sono arrivata solo lo scorso anno, anche se li ho sempre seguiti,  grazie all’indicazione di un’amica di Diego Fusari che mi ha avvisata dell’istituzione della borsa di studio per partecipare ai loro corsi.

È inevitabile arrivare a un’istituzione come la Campogalliani con delle attese – e forse anche qualche ansia:  com’è stato l’impatto con la scuola e con la vita della compagnia? La scoperta più inaspettata? Il momento che hai preferito?

Ansia moltissima, che si è però stemperata subito alla prima lezione grazie agli attori della compagnia che mi hanno fatta sentire subito parte della “famiglia”. Credo che questa sia stata anche la scoperta più inaspettata: proprio la disponibilità degli attori a condividere le loro esperienze e conoscenze, senza porsi su di un piedistallo. Vederli sempre sul palco me li aveva fatti vivere un po’ come irraggiungibili… Ai corsi si respira un’aria professionale, sì, ma anche di divertimento – e ho avuto la fortuna di avere anche compagni molto simpatici e collaborativi.
Il momento che preferisco è quell’attimo di buio e respiro trattenuto che precede l’apertura del sipario – sia che debba recitare sia che faccia da direttore di scena. L’adrenalina è forte così come l’entusiasmo. Un altro momento che amo è quello che segue lo spettacolo, quando la compagnia si riunisce per la cena e commenta la serata. Oltre ad essere divertente è anche un ulteriore momento formativo. Insomma amo vivere e respirare il teatro. man_074_01

Come ti capisco… E adesso quali sono i tuoi programmi futuri, in fatto di teatro?

Al momento sto frequentando il secondo anno di corso esplorando altre realtà teatrali, come la possibilità di scegliere le musiche piuttosto che l’illuminotecnica o la scenografia… Poi spero di continuare  a collaborare con la Compagnia.

E c’è un ruolo dei sogni  – un personaggio, un testo, un autore con cui desideri cimentarti?

In realtà due sono i testi che vorrei poter affrontare, entrambi contemporanei, che mi hanno appassionata nella lettura. Piccoli crimini coniugali di Éric-Emmanuel Schmitt e From Medea di Grazia Verasani. Sono due testi drammatici che descrivono donne apparentemente forti ma con una fragilità interiore che traspira dai loro gesti folli – o almeno questa è la mia lettura.

Ebbene, Chiara – ti auguro Schmitt e Verasani, e una felice continuazione con la Scuola.

Se, o Lettori, ve ne pungesse vaghezza, potete trovare informazioni sui Corsi di Teatro qui. E non abbiamo finito con Campogalliani70, ma può darsi che saltiamo la prossima settimana…

Mag 10, 2013 - teatro, teorie    2 Comments

Il Tognin, Gl’Implumi & Lo Spirito Del Bardo

Ecco, non so se ve l’avessi raccontato, ma venerdì – otto giorni orsono – la prova generale de Il Benefico Burbero era stata un ineffabile disastro.

Gl’implumi erano fuori come altrettanti contatori del gas, il computer in dotazione funzionava come poteva (vale a dire non un granché), il sonoro non era fatto per sentirsi su casse alte un palmo, i costumi erano ancora in parte una speranza, i tempi sembravano al di là di ogni speranza, gl’insegnanti dubitavano, e io ero in vena di omicidio plurimo con l’aggravante dei futili motivi.

fondazione antonio nuvolari, antonio nuvolari, laboratorio didattico, laboratorio di scrittura, laboratorio teatraleChe poi, chiariamo: a me non sembravano futili affatto. Un tredicenne che non sa contare fino a trenta, un altro che sostiene di non poter reperire una camicia bianca, un altro che ti assedia chiedendoti ogni quindici secondi come fa se non ha un paio di pantaloni così e così, e una fanciulletta che non capisce il semplice atto di inspirare contrarre il diaframma e sollevare il braccio per indicare, et multa caetera similia – son cose che a me fanno anche capire Erode…

E poi gli insegnanti. Ormai sono quattro anni che faccio questo genere di laboratorio nella stessa scuola e con gli stessi insegnanti. C’è chi collabora con entusiasmo indefesso e infaticabile allegria, ma ogni benedetto anno, attorno alla prova generale, qualcuno arriva a informarmi che va malissimo, che facciamo brutta figura, che così non si può. E altri, ostinatamente seduti dietro le casse alte un palmo, arrivano ogni dieci minuti a dire che non si capisce nulla, che il sonoro è disastroso, che bisogna cambiare metodo… E sia chiaro, non è che sia andata bene, e non è che il sonoro sia la perfezione audio* – è tutto vero. Ma, cribbio, ci sono i precedenti e c’è che, in fatto di teatro e solo di teatro, ho più esperienza di loro, e c’è che la generale non è mai significativa, e c’è la Vita di Shakespeare in miniatura che porto al collo… Perché diamine non possono fidarsi quando dico che non tutto è perduto?

Ma poi, sapete, sono una lettrice di Kipling, e mi piace tanto andarmene attorno compiacendomi di non perdere la testa quando tutti attorno a me la stanno perdendo… e poi chi voglio prendere in giro? VdSiM o no, Kipling o no, venerdì me n’ero tornata a casa un nonnulla avvilita, e con la sensazione che il BB non sarebbe stato proprio l’apice fiorito della mia carriera.fondazione antonio nuvolari, antonio nuvolari, laboratorio didattico, laboratorio di scrittura, laboratorio teatrale

Dopodiché nel corso del finesettimana non avevo avuto tutto questo tempo di pensarci, se non per spiegare brevemente agli Heaney perché non potevo accompagnarli a Bologna. E a quel punto, francamente, ero troppo al settimo cielo per volermi avvilire sul BB. Immaginatemi dunque mentre mi precipito all’Istituto Nuvolari con un sorriso che interferisce con la navigazione aerea e una rinnovata fede in me stessa, negli implumi e nelle misteriose dinamiche del teatro.

E sotto la pioggia, dovrei dire.

Quando ho parcheggiato davanti all’Istituto non pioveva ancora, ma il cielo era inequivocabilmente minaccioso, ed era chiaro che saremmo stati al chiuso, nel teatrino. Ora, “stare al chiuso nel teatrino” magari suona anche bene, ma all’atto pratico significava comprimere tutto in un palcoscenico delle dimensioni di una scatola da scarpe, praticamente senza spazio dietro le quinte. Non precisamente l’ideale, con trentacinque implumi e numerosi cambi di scena…

Però avevamo un sipario. Un vero sipario rosso, per la gioia dell’implume PP, che dal primo giorno aveva espresso il desiderio di essere l’uomo del sipario – solo che il sipario non c’era… e invece, dopo tutto, sì. Ecco, qualunque cosa ne pensassero tutti gli altri, almeno PP era estatico.

E gli altri, per la mia vaga sorpresa, erano già in costume e caricatissimi.

“Profe, profe!” di qua, e “Profe, profe!” di là, ciascuno con una dozzina di domande, dubbi e curiosità, e cestini di arance, e turbanti da annodare, e vanno bene queste bretelle, e dove si mettono i direttori di palcoscenico, e R che doveva occuparsi dei cartelli non è venuto, e il volume delle casse è basso, e sono troppo truccata per fare la nonna, e quando accendo la candela, e potevamo fare nel parco che non piove, e mi fa il nodo alla cravatta, e ho lasciato a casa le scarpe nere, e come, e dove, e quando, profe, profe, profefondazione antonio nuvolari, antonio nuvolari, laboratorio didattico, laboratorio di scrittura, laboratorio teatrale!

E com’è piaciuto allo spirito del Bardo, siamo anche riusciti a cacciare fuori tutto il pubblico e a fare qualcosa di molto simile a una prova. Una discreta prova, a dire il vero. Molto più liscia della generale, se non altro. Con tempi ragionevoli e il minimo sindacale d’incidenti…

Al punto che, all’avviarsi della musica conclusiva, M la direttrice di palcoscenico mi ha guardata con gli occhi tondi, e… “Profe! Ma siamo stati bravi!” ha mormorato. E forse bravi era una parola grossa, ma… Era come guardare qualcuno che fa il gioco del quindici, e riconoscere l’istante in cui capisce come arrivare in fondo alla partita. I pezzi cominciavano ad andare a posto…

Succede, ed è una sensazione elettrizzante – e a dire il vero sarebbe meglio che non capitasse un quarto d’ora prima di andare in scena, ma fa nulla.

“E adesso lo saremo ancora di più,” ho detto a M, ottenendo in cambio un sorrisone.

“Come, adesso?” sobbalza PP con gli occhi tondi. “Ma non abbiamo finito?”

“Questa era una prova. Adesso facciamo entrare il pubblico e lo mostriamo anche a loro.”

PP ha storto la bocca, perplesso. “Però alla fine ci danno da mangiare, vero? E già che ci siamo, che cos’è quella roba che ha al collo?”

E così, mentre in sala sindaco, presidente della fondazione, direttore didattico e assessore alla cultura si dilungavano parecchio, mentre cercavo (con modesto successo) di mantenere un minimo di silenzio dietro le quinte, ho raccontato a PP e a M e all’altro M e al nuovo uomo dei cartelli T del mio ciondolo, dello Spirito del Bardo e del fatto che il teatro non è un’occupazione assennata – nemmeno un po’.

E tutti abbiamo storto un po’ la bocca quando, memore della prova generale di venerdì, l’assessore ha supplicato il pubblico di avere indulgenza perché i ragazzi non erano attori… “Gliela facciamo vedere noi,” ha esclamato trucemente l’altro M, e il sentimento era condiviso.

Mano a mano che i minuti scorrevano (e tra un discorso e l’altro ne sono scorsi un bel po’) sono cominciati a fioccare domande di altro genere: “Profe, ho paura. È normale?” e “Profe, siamo bravi, vero?” e “Profe, ci si abitua e si smette di agitarsi?”

E allora via a spiegare sottovoce che sì è normale, e no non è paura – è adrenalina ed è cosa buona & giusta, e sì siamo bravi, e no non ci si abitua mai ma è proprio questo il bello…fondazione antonio nuvolari, antonio nuvolari, laboratorio didattico, laboratorio di scrittura, laboratorio teatrale

E che volete che vi dica? Le luci si sono spente, la musica è partita, T è uscito col primo cartello, il sipario si è aperto e la II C è entrata in scena, ha fatto la sua parte e poi è uscita, e poi è stata la volta della II B, e le scene procedevano fluide e vivaci, e il sipario si apriva e chiudeva senza intoppi, e il pubblico rideva al momento giusto, e chi era stato distratto e vago era diventato bravo, e chi era stato bravo scintillava… Lo Spirito del Bardo sorrideva su di noi, e N nella parte della piccola Lucia ha avuto un applauso a scena aperta.

Ed è vero che M (un altro M ancora) ha riso quando non doveva, e che A ha pensato di fare un salutino al pubblico prima di uscire di scena l’ultima volta, e che c’è stato un piccolo incidente con le sedie a sipario chiuso, e i fiammiferi erano vetusti e non si sono accesi affatto – ma ripeto: è andata bene, bene, bene.

fondazione antonio nuvolari, antonio nuvolari, laboratorio didattico, laboratorio di scrittura, laboratorio teatraleGli implumi hanno scoperto il gusto degli applausi, e un paio hanno dichiarato di voler fare teatro, e i dubitatori hanno dimenticato le loro fosche profezie, e la Fondazione è estremamente soddisfatta.

E io non voglio essere superstiziosa – davvero non voglio. Però non mi beccherete facilmente dietro le quinte senza la mia Vita di Shakespeare in Miniatura al collo. Perché sono giunta alla conclusione che a volte in teatro la logica comune non basta e non arriva. A volta, se si vuole restare anche solo remotamente lucidi ed equilibrati, non c’è altro che affidarsi alle immemorabili tradizioni, allo Spirito del Bardo e a un ciondolo portafortuna.

 

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* E potrei anche far notare che parte di questi altri sono in parte responsabili della qualità discutibile, visto che è parso loro necessario segnare il territorio impedendoci di usare la LIM giusta per le registrazioni… Ma sono dettagli.

 

Apr 17, 2013 - teatro, tecnologia    2 Comments

Microfono III – Una Tecno-Epopeuzza

Il mio microfono a gelato, quello che uso per registrare di tutto un po’, dal testo dei booktrailers al sonoro dei laboratori didattici, era defunto qualche tempo fa, dopo non lunghissimo ma onorato servizio.

Era defunto ai tempi del reading di Strada Nuova, a ben pensarci… Registrava bene per una decina o quindicina di secondi e poi la voce cominciava a farsi metallica e distante e andava a sfumare in nulla.

La cosa non mi aveva per nulla divertita, ma ho dato per scontato che fosse normale tear&wear dell’arnese – e quindi, all’approssimarsi del nuovo laboratorio – che, detto en passant, culminerà in uno spettacolo intitolato Il Benefico Burbero – ho acquistato un microfono nuovo e molto simile.

Lunedì dovendosi iniziare la registrazione, domenica sera l’ho provato con lo spartanissimo registratore di suoni di The Beastie, il mio beneamato netbook. Ho registrato una poesia di Kipling due volte di fila e tutto è andato bene. Buona qualità, uso semplicissimo… Che si poteva volere di più?

Ecco, magari si sarebbe potuto volere che funzionasse.

Perché lunedì mattina, quando mi sono presentata in classe con tutta la mia attrezzatura e ci siamo messi al lavoro, la prima registrazione di prova è andata perfettamente e la seconda anche. E poi, quando eravamo tutti molto felici e stavamo riascoltando quella che consideravamo la versione definitiva del primo segmento… you guess it: le voci si sono fatte metalliche e distanti, e sono andate a sfumare in nulla.

E non dovete credere che abbiamo registrato ore e ore di sonoro: un segmento di un paio di minuti, e qualche strofa del Sant’Ambrogio giustiano, a titolo di prova. Tutto lì. Pronta a biasimare The Beastie, ho collegato il microfono al computer della LIM, e tutto è parso andare bene per tutta la prova giustiana. Gli implumi hanno registrato di nuovo il segmento e… metallico, distante, sfumante in nulla. 

Furore tremendo.

Una volta al Ginnasio mi hanno affibbiato un tema così concepito: L’ira è un vento maligno che soffoca e spegne la fiamma della ragione. Lo ricordo ancora con profonda infelicità, quel tema, ma bisogna dire che non fosse del tutto campato in aria. Se il furore tremendo, stretto parente dell’ira, non mi avesse soffocato e spento la fiamma della ragione, forse mi sarei ricordata di che cosa succede al commercio il lunedì mattina – e me ne sarei ricordata prima di scapicollarmi per dodici miglia fino al magazzino dove ho comprato il microfono…

Ma non era come se si potesse far finta di nuolla, tornare a casa e mettersi a intrecciare coroncine di margherite, perché il programma del martedì mattina prevedeva altre quattro ore di registrazione – con due classi. E allora, nel pomeriggio, seconda scampagnata.

Il gentilissimo commesso del magazzino mi ha sostituito prontamente l’arnese, ma non si è rivelato di grande aiuto nella mia quest for knowledge. Perché vedete, un decesso di microfono capita, ma due decessi identici e in relativamente rapida successione mi fanno pensare di avere sbagliato qualcosa…

“Dove sbaglio, secondo lei?”

“Da nessuna parte, credo. I microfoni muoiono.”

“Ma questo era nuovo…”

“Alcuni microfoni muoiono giovani.”

“Ma il fatto è che sono due microfoni diversi per tipo e per marca, e sono morti alla stessa maniera…”

“Coincidenza.”

“Ma cosa causa questo genere di deliqui?”

“Buona domanda.”

“Ma secondo lei è possibile che la presa di un computer surriscaldi o altrimenti frigga il jack…?”

“Mmm… no.”

E così me ne sono venuta via assetata di conoscenza come lo ero prima – ma provvista di un microfono nuovo. La cosa sensata sarebbe stata provarlo subito, ma che devo dire? Non mi ci sono saputa indurre. Non ho avuto il coraggio di connettere Microfono III a The Beastie: checché ne dica il commesso, qualche medievalissimo angolo della mia mente non sa fare a meno di immaginare in quella presa tanti minuscoli denti pronti a fare cose poco belle ai jack innocenti.

Cosicché ieri mattina me ne sono arrivata a scuola col microfono ancora imballato e la tentazione di intrecciare danze propiziatorie prima di vararlo. Gl’implumi ci hanno accolti entrambi con scetticismo.

“Non è mica il microfono di ieri, vero, Profe?”

“No, ragazzi. È un altro.”

“Ma è uguale?”

“No, è di un’altra marca.”

“L’ha pagato di più?”

“Er… no.”

E ho capito che il fatto di essere più economico del microfono difettoso non ha fatto nulla per lo standing di Microfono III agli occhi dei fanciulli. E non è che fossi fiduciosissimissima nemmeno io. E l’insegnante di lettere degli implumi cominciava a guardarmi con una certa dose di dubbio negli occhi – il genere di dubbio riservato al momento in cui comincia a sembrare umanamente impossibile che lo spettacolo sia pronto in tempo.

Per cui, quando abbiamo registrato il primo segmento della prima scena e tutto è andato bene, nessuno si è fidato troppo. Be’, ok, anche ieri all’inizio sembrava che tutto andasse bene, ci siam detti l’un l’altro – a voce o con lo sguardo. Così, visto che il primo segmento non era venuto poi troppo bene, abbiamo cancellato tutto e ri-registrato.

E di nuovo tutto è andato bene. Persino quando gl’implumi hanno cominciato a smanettare con le impostazioni audio per eliminare i rumori di fondo e a me è mancato un pochino il cuore – persino allora tutto è andato bene.

“Profe, vuole fare la prova? Come ieri? Con la poesia?” Mi ha chiesto a un certo punto l’implume deputato allo smanettamento. “Per sentire se non fruscia più?”

Con un principio di cauto ottimismo, me ne sono partita un’altra volta ancora con Vostra Eccellenza Che Mi Sta In Cagnesco, e sono andata avanti per quattro strofe, e quando abbiamo riascoltato, tutto andava bene, senza fruscii, senza allontanamenti, senza metallicizzazioni, senza cali a finire in nulla…

E così è stato che con una classe abbiamo registrato una scena intera, e con l’altra addirittura due, e tutto è andato bene, e gl’implumi hanno riacquistato fiducia, e l’insegnante di lettere ha spianato il cipiglio, e dopo tutto non sembra più umanamente impossibile che Il Benefico Burbero sia pronto in tempo.

Adesso sembra solo un tantino improbabile – il che, come ognun sa, in teatro e dintorni è una condizione normale, normalissima, quasi rassicurante. 

E il vero trionfatore di tutta questa storia è, io credo, Microfono III: entrato in scena a mo’ di cenerentolo, tra la sfiducia generale e nel Momento Più Buio – e poi ha salvato la giornata.

Se poi qualcuno di voi avesse idea di che cosa possa essere accaduto ai suoi predecessori, ogni suggerimento è il benvenuto.

 

 

Nov 21, 2012 - considerazioni sparse    11 Comments

Domare Gli Implumi

Allora, per prima cosa fate un salto su strategie evolutive* e leggetevi questo post. E poi passate dal Blog di Siminore, e leggete quest’altro post.

Fatto? Anche i commenti?

E allora parliamone.

Perché la mia prima reazione nel leggere il post di Davide è stata: oh sì. Tristemente sì. È capitato anche a me. I gruppetti di gente seduta di tre quarti**, i bisbigli, le facce annoiate/ostili/superiori, il silenzio tombale in cui cadono i vostri attempts at humour e le vostre domande…  

E dico gruppetti, badate. La dinamica in un’aula scolastica è diversa da quella di una platea. Tra i banchi si vedono piuttosto distintamente crocchi, alleanze, gerarchie – ed è una faccenda del tutto diversa dal singolo fanciullo annoiato. Perché i crocchi vengono dalla necessità di dimostrare che si è troppo cool per degnare di un briciolo di attenzione l’anziana signora che parla di… oh, di qualsiasi cosa, importa davvero poco.

Perché sì, signori: il fatto è che per questi ragazzini siamo vecchi. Ho quasi quarant’anni, probabilmente sono più stagionata delle loro madri e, quando avevo la loro età, la mia idea di soglia della vecchiaia si era appena spostata dai diciotto ai venticinque.

E questo è un altro ostacolo da aggiungere alle dinamiche del branco. Un po’ di tempo fa mi è capitato di trovarmi a cena con alcuni insegnanti in scuole diverse, e tutti lamentavano il momento in cui anche la classe più deliziosa, curiosa e interessata decide come un sol fanciullo di chiudersi in un guscio. Diventano cinici, fanno a gara a chi è più disinteressato e a chi fa di meno – e le ragazzine sono peggio dei ragazzini, gemeva un’insegnante di Lettere che ho visto all’opera e ho constatato essere molto in gamba. Una volta non era così

E che posso dire? È vero.

Esperienza dello scorso anno: HSH ha messo in scena il mio Somnium per sei classi tra quinte elementari e prime medie, e allo spettacolo era abbinata una serie di incontri sul passaggio dalle fonti storiche al testo teatrale e dal testo allo spettacolo. No, non scuotete la testa: è molto meno dreary di quanto possa suonare. E in effetti le quinte elementari hanno partecipato con un entusiasmo gratificante oltre ogni misura, facendo ricerche di loro iniziativa, sommergendomi di domande, provando a scrivere piccole scene a partire da aneddoti storici e fornendo un Annibale bambino per lo spettacolo… Poi si passava alle prime e lo stesso progetto incontrava silenzi, blank eyes e file di bambine che si osservavano le doppie punte.

Salvo poi il singolo fanciullo (o fanciulla) che viene a cercarti quasi di nascosto durante l’intervallo per chiederti il titolo di un libro che hai citato, o un particolare storico o teatrale, o com’è scrivere un libro… Ed è chiaro che in classe non poteva – ma proprio non poteva.

Dopodiché non è sempre così – e anzi, ho lavorato con un certo numero di incantevoli terze medie, ma c’è quel momento in cui smettono di fidarsi degli adulti, e da lì la storia può prendere varie direzioni.

Ad ogni modo, tenete conto del fatto che una conferenza e un laboratorio che dura settimane o mesi non sono assolutamente la stessa cosa. La conferenza/incontro/singola lezione è rischiosissima: o li catturi o non li catturi – e se non intendono farsi catturare, se sono particolarmente maleducati, se gli insegnanti non si sforzano almeno un po’, è una battaglia persa in partenza e pressoché*** impossibile da recuperare nel giro di un’ora.

Ma con un po’ di tempo a disposizione, le cose possono cambiare. A un certo punto dite o fate qualcosa che li incuriosisce. O si lasciano prendere dal fascino del teatro, della scrittura o – qualche volta – della storia. E allora cominciano a chiamarvi “Profe, profe…” a farvi domande a raffica, a salutarvi se v’incrociano per strada****, a fidarsi di voi, a volervi impressionare.

E non si tratta di corteggiarli, sapete? Sono una persona estremamente impaziente, non ho nessuna simpatia preconcetta per gli implumi come categoria e non faccio mistero della mia preferenza per gli esemplari svegli. Se dovessi corteggiare terze medie, starei fresca. È solo che, con un po’ di tempo per studiarli, di solito si trova il modo di ottenere la loro attenzione e, ripeto, la loro fiducia. Di convincerli che non sono terribilmente simpatica, ma vale la pena di starmi a sentire.

Ci vuole tempo, non sempre funziona con tutta la classe – anzi, diciamo pure che non sempre funziona, period. Quando funziona, un branco di implumi motivati è capace di cose sorprendenti. Può essere uno spettacolo intero o un po’ di occhi tondi e brillanti di fronte alla scoperta che la storia non è poi così morta e polverosa.

Per contro l’occasione singola… che posso dire? Mi terrorizza abbastanza, perché il disinteresse, il branco, il cinismo in erba, la maleducazione, l’immaginazione rattrappita, l’incapacità di astrarre ci sono. E non è divertente sbatterci contro. 

E voi? Pensieri? Idee? Impressioni? Esperienze? Come ve la cavate con gli implumi?

 

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* Nota per il Dr. Dee: ho imparato a non metterle, le maiuscole, but it so very much goes against the grain

** Ai  fanciulli tendo a parlare nelle scuole, quando voltare la sedia non è un’opzione, e così c’è la variante Trequarti.

*** Sì, va bene, ci sono storie di miracoli compiuti in corsa, di folgorazioni collettive, di colpi di reni e catture prodigiose. In genere succedono nei film americani.

**** E più tardi, nell’istante in cui il sipario calerà e il laboratorio sarà finito, le ragazzine faranno a gara nel darvi del tu e chiamarvi per nome, mentre i ragazzini continueranno a chiamarvi Profe fino alla fine dei giorni…

Mag 6, 2012 - anglomaniac, musica, teatro    2 Comments

Oliver

Non crederete che ci si sia dimenticati di volgere in musical proprio Le Avventure di Oliver Twist, vero? Certo che no – ed ecco la versione della faccenda al Drury Lane Theatre di Londra:

E non crederete nemmeno che parli ancora di Dickens senza secondi fini, vero? Perché in effetti non è così: stasera alle 17.30, nella Corte Grande di Roncoferraro le mie III Medie presentano Raccontami Un Romanzo, ovvero Le Due Città e Oliver Twist visti e interpretati da loro.

No, così per dire.

E buona domenica.

Dieci Rimuginamenti Pedagogici Assortiti

Se dovessi definire il mio rapporto attuale con le scuole, credo che mi chiamerei una aunteacher.

Ci sono gli insegnanti preposti all’apprendimento e alla disciplina quotidiani, e poi c’è quella che arriva a primavera con il laboratorio collaterale e (si spera) interessante, quella che induce i fanciulli a scrivere, a fare un pochino di teatro, a leggere, a guardare la storia (sempre si spera) in modo diverso… Sempre con l’insegnante titolare accanto, comunque: un’insegnante-zia.

Per cui è molto probabile che molte cose della vita scolastica d’oggidì mi sfuggano: in fondo, vo carotando di qua e di là e tutto quel che vedo sono fette di discenza e docenza, cunei di vita sui banchi tra la quinta elementare e la terza media. Lo dico per invitarvi a prendere i miei rimuginamenti con quel tanto di sale.

E i miei rimuginamenti, in ordine sparso, sono questi:

1) Ho questa abitudine di esordire dicendo che la storia non è una serie di date o un elenco di episodi, ma una corrente complessa, in cui circostanze, decisioni ed eventi a monte influenzano circostanze, decisioni ed eventi a valle… No, non lo dico in questi termini, ma il concetto è quello – e ogni volta trovo reazioni miste dalla folgorazione ai blank eyes, passando per una vasta gamma di stadi di sorpresa e incomprensione. L’idea a me non pare terribilmente esoterica, ma per qualche motivo sembra riuscire sempre nuova ai fanciulli…

2) Qualcuno un giorno mi spiegherà cose come il bollino giallo affibbiato alle innocue indagini di Jessica Fletcher. Parental guide? Qualcuno teme che gli implumi s’impressionino all’idea dell’omicidio? Lo chiedo considerando il vivace dibattito scatenato in una quinta elementare dai due seguenti quesiti: ma dove lo ha trovato Annibale il veleno con cui si è ucciso? E quando ha perso l’occhio dopo il passaggio degli Appennini, vuol dire che l’occhio è proprio caduto di suo, o glielo hanno levato con un coltello?* Anche il particolare degli orci pieni di serpenti e scorpioni ha avuto molto successo. 

3) A volte, specialmente alle medie, c’è molto silenzio – e dubito di annoiare la classe… “Niente affatto,” mi ha detto di recente una giovane insegnante. “I ragazzini non si annoiano in silenzio: lo fanno rumorosamente. Se c’è silenzio è un buon segno. Vuol dire che li hai interessati.” O forse narcotizzati? ho pensato – ma non ho avuto il coraggio di chiedere…

4) Poi ci sono le classi che proprio non seguono – e in effetti quelle sono rumorose. Per quanto si faccia, dica, supplichi e minacci, loro chiacchierano. “Non sono abituati ad ascoltare un’ora di spiegazione,” mormora sconsolato il docente di turno. E poi “Non sono abituati a rispondere alle domande.” E ancora”Non sono abituati a leggere un testo/vedere un film e discuterne, individuare le informazioni rilevanti, elaborare…” Peggio ancora: “Non sono abituati a chiedere spiegazioni su quello che non hanno capito.” E a me viene tanto da chiedermi che cosa di preciso siano abituati a fare…

5) Certe cose non cambiano mai: è sempre stato ed è ancora del tutto inutile domandare “avete capito?” Invariabilmente i fanciulli annuiscono come un sol fanciullo e guai ad assumere che sia vero. “Voi (III Media) studiate Inglese, vero? siete capaci di leggere le didascalie in inglese o avete bisogno di traduzione?” “Capacissimi, prof.” Fermo il film sulla prima didascalia e di nuovo chiedo se hanno capito. Venticinque teste annuiscono simultaneamente – ma non è che mi fidi tantissimo. “Ottimo. Traducete.” Silenzio siderale. “Non avete detto di avere capito?” Un ragazzino alza la mano e m’informa che il titolo della didascalia, A Curious Case, significa “Un caso curioso.” “Ottimo,” dico io. “E di che si tratta?” È il turno di una ragazzina reiterare il concetto che si tratta proprio di un caso curioso. “E fin qui ci siamo. Che genere di caso curioso?” Terzo ragazzino: “chiaramente qualcosa che ha a che fare con un caso curioso, prof – ma mi sfuggono i dettagli.” Già… 

6) Con omologhi di altra provenienza si discuteva qualche giorno fa sul cinismo dei fanciulli, e dicevo che dalle mie parti sono abbastanza candidi perché l’occasionale piccolo cinico strappi ancora una risata, come la volta in cui domandai a una V Elementare perché mai i romanzi di Sherlock Holmes fossero narrati dal Dr. Watson e non da Holmes stesso. “Perché così, se si sbaglia, Holmes può dire che non è colpa sua e non lo denunciano,” rispose un pargoletto… Ripeto: non è la norma – anche se ci sono insegnanti che fanno del loro meglio. “Ascolta, Diego, che la signora spiega come si scrivono i libri – così da grande puoi farlo anche tu e guadagnare un sacco di soldi.” Oppure: “No, nessuno di voi farà l’archeologo da grande: non vi ricordate che cosa vi ha detto la signora del Gruppo Archeologico? Che gli archeologi guadagnano poco o niente.” Perle raccolte in altrettante V Elementari…

7) Certe volte invece è proprio colpa mia. “Avanti, ragazzi: ho detto di dividere il foglio in quattro colonne. Non è fisica dei quanti!” E un fanciullo: “Ma quanti cosa, prof?” Non sono certa di poter sperare che stesse scherzando, ma non ha tutti i torti neanche mia madre, quando mi chiede se mi venivano i crampi a dire che non era fisica nucleare. E questo è un piccolo episodio pittoresco, ma in realtà ho fatto anche di peggio. Per esempio, ho scelto per il mio laboratorio dickensiano Oliver Twist e Le Due Città. E sì, l’ho fatto perché volevo trovarci un pochino di gusto anch’io – ma mi rendo conto che sono una delinquente. Le Due Città? Come, come, come ho potuto pensare che dei quattordicenni potessero simpatizzare con Sydney Carton? E infatti sono punita, e i fanciulli non capiscono nemmeno che è lui il protagonista del libro… Serves me right.**

8) Quando l’insegnante, nel presentarmi alla classe, dice che scrivo, le cose cominciano – e spesso proseguono – meglio. L’idea piace ai fanciulli e, presto o tardi, arriva il momento in cui accantonano il progetto in corso per far domande sui miei libri. Ce n’è una che ritorna sempre – in due forme diverse a seconda della fascia di età. Alle elementari “Come ti è venuto in mente di scrivere un libro?” Alle medie hanno già assorbito dagli adulti la formula “Come è nata questa passione per la scrittura?” E io credevo che la seconda fosse a conversation piece, il genere di domanda che fa la vicina di tavola occasionale cui gli amici comuni hanno detto che scrivi – oppure quella infallibile della signora seduta in prima fila alle presentazioni… Invece la forma infantile mi fa pensare che sia una naturale curiosità: com’è che uno prende su e si mette a scrivere?

8bis) Che cosa leggono i ragazzini adesso? Harry Potter e Geronimo Stilton, lo so. Ma a parte quello? Proprio più nemmeno un classico? Mai? Su settanta e rotti quattordicenni, una soltanto ha mai aperto un libro di Dickens – e solo perché ha iniziato Oliver Twist in vista del laboratorio. E so di aver recentemente lamentato la ghettizzazione di Dickens come autore per l’infanzia – but still. Non c’è nulla che io citi e loro riconoscano. Mai. Da un lato, mi sento molto vecchia, dall’altro devo proprio chiedermelo: che cosa diamine leggono?

9) Un’altra cosa che credevo era che questa generazione fosse molto informatizzata e capace di usare un computer nel sonno. Invece, informata che la scuola non ha i mezzi per distribuire fotocopie, mando il materiale con una settimana di anticipo – e l’insegnante mi rassicura sull’esistenza di un sistema di distribuzione a base di posta elettronica e chiavette. Invece, otto giorni più tardi, la posta non è arrivata, le chiavette non hanno funzionato e solo il 4% dei pargoli ha letto quel che doveva leggere. Può darsi che sia soltanto ilcanemihamangiatoilcompito 2.0, oppure in queste ridenti plaghe i nativi digitali non sono poi così digitali.

10) Nonostante tutto, fare laboratori didattici mi piace da matti. Constatare la personalità distinta di ogni classe come gruppo – nonché la relazione tra insegnante e personalità della classe – vedere come la gente sveglia e interessata prima o poi venga a gravitare attorno all’attività, cogliere il momento in cui cominciano a fidarsi, cominciano a voler impressionare l’aunteacher, vedere come finiscano con l’entusiasmarsi e mettercisi d’impegno è sempre una soddisfazione.

Non credo che potrei insegnare sul serio. Non ho la pazienza e la metodicità per farlo e finirei molto presto in carcere per omicidio plurimo aggravato dai futili motivi. Ma L’occasionale laboratorio è un genere di varia, istruttiva, a tratti frustrante, always challenging esperienza cui mi dispiacerebbe rinunciare.

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* La risposta “probabilmente nessuna delle due cose – ha solo perduto la vista da un occhio”  li ha delusi molto.

** E quindi, quando ieri mattina, dopo quattro settimane de Le Due Città, e dopo avere appena finito di vedere il film, una fanciullina ha chiesto al suo compagno di banco chi fosse quella Mme Defarge che continuavo a nominare, non avrei dovuto farmi venire un travaso di bile, vero?

Mar 30, 2011 - Spigolando nella rete    Commenti disabilitati su Domande e Risposte

Domande e Risposte

Mesi fa, cercando immagini per illustrare il post a proposito del pellegrinaggio manzoniano al seguito della UTE, ho scoperto l’esistenza di un arnese chiamato Yahoo Answers. L’arnese consiste nel fatto che chiunque può postare una domanda sugli argomenti più svariati, e chiunque altro può rispondere. Wish you joy of it. “Ricevi risposte reali da persone reali”, dice lo slogan, e a quanto pare un sacco di gente ne usufruisce.

C’è chi chiede consigli per la cucina, il giardinaggio e gli investimenti in borsa, chi cerca aiuto per scegliere l’automobile o reperire schnauzer nani e chi vuole dritte sul prossimo romanzo da leggere, sul codice html o sugli alberghi di Oslo. C’è poi un sistema di punteggi e valutazioni, e l’attendibilità di ciascun “risponditore” sembra misurarsi in punti e livelli – come nei giochi di ruolo! Mi par di capire che tanto il destinatario della risposta quanto chi passa di lì possa valutare le singole risposte, ma mi restano due seri dubbi. 1) Supponiamo che io sappia tutto di pianeti transnettuniani* e risponda con dettagliata efficienza a tutte le domande in materia, guadagnandomi carrettate di punti e passando di livello in livello con la rapidità di uno shuttle in fase di decollo: questo non mi rende affatto affidabile in materia di storia delle società segrete nello stato di Santa Catalina, ma come può l’ignaro domandatore sapere che sul secondo argomento non è il caso di prendermi sul serio? 2) Ho appena constatato che il solo fatto di entrare nel sito mi è valso un punto (“grazie della visita! Un Punto”), e che di punti ne possiedo 199, pur non avendo mai risposto a nessuna domanda… Che dire?

Tuttavia può darsi che qualcosa mi sfugga e che il sistema di valutazione funzioni davvero. Ciò che mi sconcerta di più è scoprire che YA sembra essere un metodo piuttosto utilizzato dai ragazzini per fare i compiti. Non di straforo, sia chiaro: tra le categorie del sito ce n’è una chiamata “compiti”, ed è piena di implumi che (in prosa desolantemente sgrammaticata) chiedono di individuare il nominativo in una frase latina, soluzioni di esercizi di matematica, riassunti di libri, dritte su come fare uno schema a blocchi sulla Nigeria**…

Ma la cosa che mi ha davvero provocato il travaso di bile è una richiesta così concepita: ragazzi, aiutoooooo! urgentissimooooo! devo descrivere il palazzotto di don rodrigo help!!!!!!!!!!! Sto riportando a memoria, ma lo spirito, lo stile e la mancanza di maiuscole erano quelli. Sospetto che ci fosse qualche errore di battitura in più, ma fa lo stesso. Resta che questo/a quindicenne non arriva nemmeno a sospettare che la descrizione in questione si trovi proprio nel dannato capitolo che (molto presumibilmente) stanno leggendo a scuola. O, se ci arriva, non è disposto/a a fare nemmeno lo sforzo di aprire il libro alla pagina giusta e cercare la dannata descrizione. E qualche altra volpe, invece di suggerirgli il corso d’azione ovvio, gli/le fornisce il pezzetto rilevante… Neuroni lessati in brodo di cavoli amari.

Essì, lo so, mi sento molto vecchia quando faccio di questi discorsi, but really!

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* No, non me lo sono inventato: è una delle domande che ho trovato aprendo il sito per scrivere questo post. Accanto a “come affrontate un invito in cui dovete andare per forza ma non conoscete nessuno?” e “Mi consigliate un bel film adolescenziale romantiko belloo?” Sic. Poi c’è anche “Mi gira la testa, da cosa dipende?” che, sotto la categoria “Vino, birra e alcolici” mi pare un nonnulla allarmante…

** Nemmeno questo è inventato: la prof. di geo ha detto loro di fare questo schema a blocchi, dove c’è scritto “ambiente” e loro devono scrivere due definizioni, poi “popolazione” ecc… Come deve fare? Pigola disperato il ragazzino. E il bello è che un risponditore gli suggerisce di cercare le definizioni sul dizionario e poi fare degli approfondimenti su Google…

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