Tagged with " stevenson"
Dic 16, 2011 - libri, libri e libri    2 Comments

Cave Avunculum

Ora, non dico che tutti gli zii letterari siano pessimi, perché ci sono anche zii come il Principe di Salina, Zia Ellen (Kipling), Zia Bee (Tey) o il Conte Zio – che simpaticissimo non è, ma di certo è indulgente coi nipoti – però dovete ammettere che quando compare uno zio di carta la tentazione di essere cauti c’è.

C’è perché siamo ammaestrati da gente come Re Claudio, che re di Danimarca ci è diventato assassinando il fratello e non vede l’ora di fare altrettanto con il nipote Amleto. Poi la faccenda è reciproca e, in capo a tre ore di tragedia, i due riusciranno ad assassinarsi indirettamente a vicenda, ma intanto noi groundlings abbiamo capito chi porta il cappello bianco e chi il cappello nero.

Per non parlare poi di Riccardo III, zio usurpatore che spedisce alla Torre i nipoti fanciullini e poi non ordina a Buckingham di mandare un paio di sicari a completare l’opera… verrebbe da chiedersi se John Shakespeare avesse fratelli antipatici – non fosse che si tratta di una combinazione di due fattori: da un lato Shakespeare era ansioso di sposare il punto di vista Tudor/Lancaster, e dall’altra è una verità universalmente riconosciuta che un uomo provvisto di un fratello coronato (e fornito di eredi maschi) dev’essere in cerca di un trono…

Per dire, vi ricordate la Principessa Zaffiro di animesca memoria – quella che era ai ferri corti col perfido zio? O il Principe Caspian delle Cronache di Narnia? Ecco, appunto.

E non c’è nemmeno tutto questo bisogno di una corona in ballo: pensate a Ebenezer Balfour, fratello minore che usurpa patrimonio e titolo e, al ricomparire del nipote dopo diciotto anni, prima tenta di mandarlo a sfracellarsi giù da una scala buia, poi lo fa rapire da un capitano di mare con l’incarico di venderlo schiavo nelle Caroline. E in fondo i Balfour sono soltanto landed gentry con un palazzotto in rovina e un sacco di debiti.

D’altro canto, la gelosia fraterna è un tema molto più  vecchio delle colline, e il trasferimento di ostilità nei confronti della progenie del fratello è estremamente logica. Talmente logica che a volte viene presa e passata al lettore così com’è – come nel caso di Ralph Nickleby, che non ha nessun buon motivo per averla a morte con suo nipote Nicholas, se non il fatto che si tratta del figlio del fratello che non poteva sopportare. Dickens faceva questo genere di cose, e anche lui non scherzava in fatto di zii, considerando Ebenezer Scrooge, cui il gaio e spensierato nipote Fred fa rabbia al solo vederlo, proprio perché è gaio, spensierato e generoso. That is, prima che arrivino Marley e gli Spiriti a far prendere a Scrooge lo spavento della sua vita – ma questa è un’altra faccenda. E considerando anche John Jasper, lo zio di Edwin Drood. Vero, il romanzo è incompiuto e non sappiamo se sia stato proprio Jasper a uccidere Edwin (o, se è per questo, se Edwin sia davvero morto…), ma di sicuro lo zio non è una cara persona.

I prozii sono merce più rara e non sono sicura che contino davvero. L’unico che mi viene in mente al momento è Lantenac di Quatrevingt-Treize, che però ha un buon motivo di ostilità nei confronti del pronipote Gauvain – un motivo che non ha necessariamente a che fare con i vincoli famigliari, considerando il giovane è un ardente rivoluzionario e il vecchio un difensore dell’ancien régime. Certo, a Lantenac secca che il sangue del suo sangue sia diventato sanculotto, ma ce l’ha altrettanto con il semi-estraneo e non imparentato Cimourdain, per cui…

Per contro la prozia March, bisbetica benefattrice delle Piccole Donne, s’inserisce senza scosse nel genere femminile della specie, che è decisamente meno letale. E penso ad esempio alla Zia Dete di Heidi, alla zia Barbary di Esther Summerson in Bleak House o alla zia Polly di Pollyanna, assai men cattive che acide, in genere per zitellaggio e maternità mancata – e a questo può provvedere la tenera eroina – oppure no. Poi ci sono anche le zie veramente malvagie, come la zia Reed, prima tra i molti guai di Jane Eyre, o Lady Minerva Broome che in Cousin Kate, di Georgette Heyer, tenta disperatamente di affibbiare alla nipote eponima e indifesa il proprio figlio bellissimo e squilibrato – ma squilibrato nel senso più omicida del termine. In genere la zia con figli è più pericolosa, perché non ha scrupoli nel detestare/danneggiare/eliminare/sacrificare il nipote a favore della propria prole.

E dite la verità, non è divertente vedere come l’idea abbia attraversato pressoché intatta secoli, generi e generazioni, conservandosi soprattutto nella letteratura per fanciulli? Quanti sono gli orfani letterari affidati a zii dall’insopportabile/rancoroso (i Dursley per Harry Potter) al francamente pericoloso (il conte Olaf per i fratelli Baudelaire), passando per l’indurito grave (Mrs. Timm per Serena Pepper)?

È quasi rassicurante vedere che certe cose non cambiano e che – almeno in parte – si possono conservare queste secolari certezze: quando in un libro compaiono degli zii, può non essere una cattiva idea diffidare.

Set 17, 2010 - libri, libri e libri    2 Comments

La Forza dell’Incompiuto

Credo che fosse Paul Taylor, il coreografo, a dire che non esistono opere incompiute, solo lavori in corso.

Sarà, ma quando l’autore è defunto e il libro non è finito, è un pochino difficile continuare a considerarlo work in progress… Poche cose sono frustranti come un romanzo che s’interrompe senza che la storia sia terminata, con la certezza che nessuno la terminerà mai più. Oddìo, qualche volta qualcuno la termina, ma chi ha mai letto Il Silmarillion completato da Guy Gavriel Kay senza domandarsi come lo avrebbe davvero voluto Tolkien?

La stessa cosa vale per Hero and Leander di Marlowe: checché ne dicano legioni di cospirazionisti, dubito che Kit si aspettasse davvero di morire a Deptford, lasciando incompiuto il suo luminoso e stravagante* poema narrativo. George Chapman lo terminò, ma Chapman era un poeta d’altra lega e tutt’altro genere di personaggio, un uomo di mezza età oppresso dai debiti e dalle cause, disperatamente ansioso di patrocinio e con un talento disastroso nello scegliersi mecenati destinati al disastro politico o a una morte prematura… Sono seriamente tentata di pensare che, nonostante Museo e Ovidio fossero le fonti di entrambi, il risultato sarebbe stato molto diverso senza la fatale coltellata.

Molto più frustrante è Il Mistero di Edwin Drood, l’ultimo e incompiuto romanzo di Dickens, che è anche un giallo – o quanto meno il protagonista eponimo sparisce (presumibilmente assassinato) e non c’è il minimo indizio di come dovesse risolversi la vicenda. Invecchiando, Dickens aveva cominciato a progettare i suoi romanzi con più cura, annotandosi gli sviluppi effettivi o possibili con vari capitoli di anticipo, ma non nel caso di Edwin Drood, accipicchia! Vero è che John Jasper promette male assai e sembra un candidato perfetto al ruolo di assassino, ma con Dickens non si poteva mai dire per certo, e chi lo sa? La cosa buffa è che dal mezzo libro è stato tratto un musical nel quale, a un certo punto, si fa votare il pubblico in sala per scegliere il finale. Anche quello è un modo, immagino.

Conrad, per fortuna, non lasciò incompiuto nulla di particolarmente memorabile: The Sisters riprende l’eroina del (bruttino) The Arrow of Gold, e benché Stephen sia un protagonista promettente, non si ha la sensazione di essersi persi un capolavoro. Non sapere come finisce Suspense forse è un po’ peggio, ma potrebbe essere una mia impressione, perché ho un debole per le storie ambientate in epoca napoleonica. Ad ogni modo sono frustrazioni puramente narrative, perché i capolavori erano già saldamente terminati da anni.

Lo stesso si potrebbe dire di Jane Austen, ma non nego che mi sarebbe piaciuto leggere fino in fondo Sanditon e, soprattutto, The Watsons. L’edizione critica che ho letto avanzava due tipi di dubbio sul secondo: forse la zia Jane aveva l’impressione di ripercorrere terreno già coperto in Orgoglio e Pregiudizio, o forse si era stancata della genteel poverty delle sorelle Watson, la cui posizione sociale sembra abbastanza simile a quella di una Jane Fairfax in Emma… Sia come sia, è un peccato. Meno gravi sono i numerosi lavori giovanili lasciati a mezzo – esercizi di stile ed esplorazione di temi che poi torneranno nei romanzi. Semmai, mi spiace di non sapere come finisce The Three Sisters, delizioso abbozzo di romanzo epistolare. Confesso di averne iniziato, qualche anno fa, una riduzione teatrale. Magari un giorno la finirò, non fosse altro che per portare a una conclusione la vicenda di Mary, Sophy e Georgiana.

Stendhal è tutta un’altra questione. Lucien Leuwen avrebbe potuto essere un altro Le Rouge et le Noir. C’è di nuovo la provincia francese descritta in chirurgico dettaglio, c’è un protagonista più ingenuo di Julien e più ragionatore di Fabrice, c’è un’innamorata di famiglia ultra-realista – il che promette guai a venire… Dover lasciare tutto a metà è veramente un’enorme delusione.

Stevenson di incompiuti ne ha lasciati due: The Weir of Herminston e St. Ives – quest’ultimo terminato da un altro romanziere, e siamo sempre al dubbio di cui si diceva: la storia è finita, grazie, ma è come l’avrebbe finita Stevenson? Una di quelle cose che non sapremo mai, nel bene e nel male. Il rovello resta, ma resta anche spazio per la speculazione. Si può leggere tutto Stevenson e farsi la propria idea su come sarebbe dovuta finire la vicenda di Jacques. E già che si è lì, ci si può domandare anche perché mai in ciò che resta di The Weir, debbano esserci due differenti personaggi chiamati Christina.

Perché bisogna anche considerare questo: se un romanzo sussiste incompleto, di sicuro non è come il suo autore avrebbe voluto presentarlo ai lettori. Non solo ne manca un pezzo, ma è anche una prima stesura, materia grezza che avrebbe richiesto ancora molto lavoro e – in tutta probabilità – anche cambiamenti sostanziali. Forse non è nemmeno del tutto giusto pubblicarlo… non è difficile immaginare Stevenson che si rivolta nella tomba all’idea del suo abbozzo incompiuto, della sua prosa non rifinita, delle sue due Christine, del suo Archie ancora approssimativo esposti alla lettura per cui non erano pronti.

In considerazione di questo, e di quanto mi irriti una storia lasciata a metà, ogni volta mi ripropongo di non leggere più incompiuti. E ogni volta cedo e leggo lo stesso, pur sapendo che detesterò arrivare al punto in cui lo scrittore si è fermato per cause di forza maggiore o per noia. In parte è il desiderio di vedere lo stadio intermedio, dare un’occhiata al dietro le quinte, cogliere un ombra del metodo creativo che sta dietro i romanzi finiti; in parte è qualcosa d’altro.

Una volta, a Edimburgo, ho visto una scultura che consisteva in tre punte che sembravano doversi toccare e non arrivavano a farlo. Non ricordo l’autore e nemmeno il titolo, ma ricordo di essere rimasta a lungo a fissare le tre punte, affascinata dal movimento incompiuto, dal contatto sfiorato ma non raggiunto. Quel non-finito sembrava pieno di forza e di possibilità. La stessa forza e la stessa abbondanza di possibilità, credo, che continuo a cercare – against my better judgement – in ogni romanzo incompiuto che prendo in mano.

______________________________________________________________________

* Basti per tutto il resto la descrizione del velo di Hero, ricamato a fiori talmente realistici che la fanciulla passa il suo tempo a cacciare via le api…

 

Gen 12, 2010 - Genius Loci    Commenti disabilitati su Genius Loci

Genius Loci

Bene, è giunto il momento di riscuotersi dall’accidia post-vacanziera, dalla tendenza al lamento da Lunedì Mattina Cosmico, dal salterellar di palo in frasca. E’ giunto il momento di concentrarsi su una nuova serie di post a tema.

Perciò, dalla settimana prossima, avrà inizio – rullo di tamburi… – Genius Loci, ovvero scrittori e città.

Questo nasce da una serie di lezioni tenute, nel quadro di un corso in collaborazione, presso la UTE di Mantova, e prevede cinque puntate con un’abbondanza di illustrazioni, letture, aneddoti, storia e letteratura, senza trascurare il minimo indispensabile di geografia. Nell’ordine (o forse no) avremo:

* Londra e Dickens

* Parigi e Dumas père

* Vienna e Joseph (non Philip) Roth

* Londra (di nuovo, sì…) e Virginia Woolf

* Edimburgo e Stevenson.

Considerando un’introduzione generale a mistica e realtà del rapporto scrittori/città, e un congedo per tirare le conclusioni a cose fatte, ciò significa che per sette settimane ci occuperemo di genio dei luoghi, luoghi del genio, luoghi e genio. Sette settimane a partire dalla prossima ci dovrebbero portare, se la matematica e il calendario non sono un’opinione (debatable matters, both of them), agl’inizi di marzo, quando nei prati fioriranno le violette e sbocceranno le margherite. E per allora si vedrà.

E sì, lo so: tre su cinque sono autori britannici… Ma d’altra parte non è una novità: io sono un’anglomane malata e convinta e voi, alla fin fine, ve lo aspettavate, nevvero?

Dic 1, 2009 - fenomenologia dello sbregaverze    Commenti disabilitati su Lo Sbregaverze: congedo con coda musicale

Lo Sbregaverze: congedo con coda musicale

E così siamo giunti alla fine: cala il sipario sulla Fenomenologia dello Sbregaverze. Chiudiamo, abbiate pazienza, pindareggiando un pochino.

Immaginateli, tutti in fila, ombre scure nella luce di taglio, che s’inchinano con un gran fiorire di cappelli piumati… E dietro di loro, nell’ombra tra le quinte, i loro autori.

Di sicuro non è un caso che diversi di loro abbiano compiuto le loro più o meno memorabili gesta nel XVII Secolo: D’Artagnan, Cyrano, Morgan… Il Seicento, questo secolo pittoresco e tumultuoso, si presta bene. Tutti ne abbiamo quest’idea, non è vero? Intrighi, congiure, galeoni, duelli per uno sguardo storto e via dicendo: il terreno di coltura ideale per gli Sbregaverze.

Gli altri, le orbite eccentriche di questa piccola galassia, in definitiva non si scostano troppo: Crichton alla fine del ‘500, Alan attorno alla metà del Settecento, e Madame Sans-Gène, la più atipica, a cavallo tra Sette e Otto… ma possiamo capire sia lei che Sardou: c’erano una rivoluzione e un impero in corso, parbleu!

Gente di passione triste, figurine ripescate dalla storia per essere cavalieri dell’aspirazione inappagata, campioni di un romanticismo amarognolo, non è strano che non abbiano ispirato più opere? Opere liriche, intendo. Ce ne sono soltanto due, ed eccole qui, a titolo di congedo.

Una è la Madame Sans-Gène di Umberto Giordano, da cui vediamo Catherine intenta a cantarne quattro alle sorelle dell’Imperatore:

 

E poi il Cyrano de Bergerac di Alfano, in un videino bizzarro che cuce insieme un pezzetto di ouverture, un pezzetto di I Atto e la fine del finale… La regia è un po’ stramba, ma Cyrano è Placido Domingo.

 

Ecco qui. Finito. Gente che troverebbe posto a mala pena nelle note a pie’ di pagina della Storia, se la Letteratura non ne avesse fatto dei simboli indimenticabili. Chissà che cosa penserebbero il vero Alan, l’autentico Cyrano, il D’Artagnan storico, e Catherine, e il Critonio, e Morgan di queste loro lunghe ombre, silhouettes nere stagliate contro la luce d’oro, come simboli araldici, chi più chi meno perfetto, della sublime incapacità dell’uomo di riconciliarsi alle cose vere?

Ott 15, 2009 - cinema e tv, considerazioni sparse, fenomenologia dello sbregaverze    Commenti disabilitati su Noterella

Noterella

Dunque, mi si chiedono notizie della trasposizione televisiva di Kidnapped citata nel post su Alan.kilt2.jpg

Personalmente sono certa, più che certa, certissima che lo sceneggiato (allora si chiamavano così) sia stato trasmesso anche in Italia. Dalla RAI, ovviamente, nei primissimi anni Ottanta. Andava in onda all’ora di cena. O forse, date le abitudini di casa mia, a un’ora che potrebbe essere considerata “subito dopo cena”. Solo che, a quanto pare, me ne ricordo soltanto io. Lo sceneggiato fantasma: io sola l’ho visto, e persino la RAI, interpellata in proposito, nega che sia mai avvenuto alcunché di simile. Però io me ne ricordo benissimo, e non posso essermi sognata delle scene intere, inquadratura per inquadratura, giusto? Per non parlare della colonna sonora… Se qualcun altro ne ha memoria, please, fatemelo sapere. Mi sarebbe di grande consolazione.

Ad ogni modo, di adattamenti cinematografici e televisivi di Kidnapped se ne contano a decine… be’, no, non esageriamo: se IMDb è degno di fiducia, se ne contano 13 fra il 1917 e il 2005. Di questi 13 ne ho visti (in parte o totalmente) 6, e lo sceneggiato di cui parlo, produzione anglo-tedesca del 1978, pur avendo quell’inevitabile Seventish feel, è piuttosto fedele e piuttosto curato. I punti di forza sono la fotografia, la colonna sonora e David McCallum nel ruolo di Alan. Concesso: McCallum è troppo “carino” per il ruolo (altra caratteristica dello Sbregaverze: non è mai bello in senso convenzionale), ma oltre ad avere il vantaggio di un accento scozzese autentico, trovo che catturi molto bene l’irascibilità, la volubilità e lo spirito sardonico di Alan. Può darsi che sia un pochino carente nel dipartimento “dancing madness”, ma che vogliamo fare? E comunque, ha quell’aria da bantam da combattimento che associo ad Alan, senza diventare caricaturale. E’ un rischio che chiunque interpreti uno sbregaverze corre, e non sempre il risultato è ideale. Per esempio, Iain Glen nei panni di Alan è, per usare la definizione della mia amica Victoria, “più Jack Sparrow che Stevenson.” Ugh. Delusione nera: mi aspettavo di meglio da Glen. Ma d’altro canto, benché Michael Caine sia uno dei miei attori preferiti, non l’ho mai visto tanto fuori parte come nell’interpretare Alan. Caine magari erra nell’altro senso: talmente rigido ed inespressivo! E anche Peter Finch… no, no, no.

Un’altra cosa che mi piace di questa produzione, è che fa uno sforzo per definire il background di Alan, anche se per farlo deve discostarsi dal romanzo.* Per esempio, il Nostro ci viene mostrato alla battaglia di Culloden, forse in un ruolo un po’ più centrale di quello che sarebbe toccato persino all’Alan fittizio, ma efficacemente brusco e combattivo. Più tardi, lo vediamo alla non-corte francese di Bonnie Prince Charlie (che non esce troppo bene da questa sceneggiatura), mentre legge invece di partecipare a una partita di qualche sport. Anche questa è una scena che non esiste nel libro, ma fa riferimento alla pagina in cui Stevenson, attraverso David, parla delle molteplici perfezioni artistiche e intellettuali di Alan. Tutto ciò nel romanzo è detto e non mostrato, con l’eccezione dell’abilità nel suonare la cornamusa; lo sceneggiatore fa uno sforzo per mostrarlo, anziché dirlo. Nello stesso contesto, ci viene mostrato anche che Alan non è un buon cortigiano, che ha poca pazienza per le esitazioni del principe, e non ne ha affatto per le frivolezze dell’entourage. Se ne può dedurre che la Causa non abbia soverchie speranze, e che Alan lo sappia fin troppo bene. Ma tutti sappiamo, nevvero? che la Causa Persa è per lo Sbregaverze come il miele per l’ape.

Ad ogni modo, dubito molto che lo sceneggiato sia reperibile, men che meno in Italiano. Se qualcuno avesse voglia di dare un’occhiata comunque (non fosse altro che per sentire la bella colonna sonora), se ne può avere un assaggio su YouTube. Digitando “Kidnapped Stevenson” nella search box, si arriva a questa pagina, dove si trovano varie cose, tra cui un po’ di clip di questa versione** qualche pezzetto di una versione del 1938 (in bianco e nero, terribilmente holliwoodiana e solo vagamente imparentata con il libro), il video di un blogger che ha sgambato per tutte le Highlands ricostruendo il viaggio di Alan e David*** e anche, credo, qualche scena dalla versione con Michael Caine.

___________________________________________________

* So perfettamente che cosa avete pensato, là dove c’era l’asterisco. Avete levato gli occhi al cielo, e vi siete detti: figurarsi se, trattandosi di Alan, la Clarina non perdona l’infedeltà al testo! Fosse stato qualunque altro personaggio, fosse stato il povero David (Idiota Ottuso), figurarsi gli alti lai! Vero che l’avete pensato? 🙂 

** Sotto il nome di “Kidnapped, aka David Balfour”, oppure “Fo Bhruid”, che è Gaelico per “Rapito”.

*** Sì: c’è gente strana, a questo mondo…

 

Alan Breck Stewart: Lo Sbregaverze Quintessenziale

Cominciamo da Alan, con il quale sarebbe forse più logico finire, perché Alan è la pietra di paragone su cui ho modellato l’intera categoria, ma fa lo stesso. Quando ho scoperto che Henry James ha definito Alan “il personaggio più perfetto della letteratura inglese” mi si è allargato il cuore. Perché adoro Alan.

statuevert.jpgAlan entra in scena a pagina 83* di “Rapito”, di R.L. Stevenson, balzando a bordo di un brigantino da una barca speronata nella nebbia e, da quel momento in poi, ruba la scena a tutti gli altri, compreso il protagonista nominale. Sgombriamo subito il campo, qui: il protagonista semi-eponimo e narratore è David Balfour, ma David, ci viene fatto capire, è un ragazzino singolarmente ottuso, il cui ruolo effettivo è quello di sidekick. Non c’è rischio che David (o chiunque altro nel libro, se è per questo), possa competere con Alan, che ripete a chiunque voglia o non voglia sentire che lui porta “un nome regale”, che si compone da sé una ballata per celebrare un duello ben riuscito, e che ha occhi nei quali brilla “una specie di luce danzante un po’ folle che attirava e allarmava nello stesso tempo.”**

Ora, questo Alan è largamente una creatura dell’immaginazione di Stevenson, perché l’originale storico era meno attraente.  

Ailean Breic Stuibhairt, per citare la versione gaelica del nome, era il nipote orfano di un capo di seconda schiera all’interno del clan Stewart di Appin, nelle Higlands scozzesi. Per qualche motivo si arruolò nell’esercito inglese (non oso immaginare cosa avranno pensato di lui i suoi parenti…), da cui disertò nel 1745, alla battaglia di Prestonpan, per unirsi ai Giacobiti scozzesi. I Giacobiti erano Scozzesi cattolici, per lo più delle Highlands, che sostenevano le rivendicazioni al trono di Scozia (e già che c’erano, anche d’Inghilterra) da parte degli Stewart esiliati dopo la Glorious Revolution. Nel 1745, appunto, il principe Charles Edward Stewart sbarcò in Scozia per guidare una sollevazione. Non andò a finire bene. Sconfitto a Culloden, Bonnie Prince Charlie dovette tornarsene in Francia armi e bagagli, con un vasto seguito di ex insorti, tra cui Alan. Una volta in Francia, Alan si arruolò in un reggimento scozzese del Re di Francia, tornandosene in Scozia in incognito, di quando in quando, a raccogliere/estorcere il tributo dei clan per il sovrano in esilio. Fatto si è che, durante uno di questi suoi passaggi in patria, nel 1752, un agente scozzese del Re d’Inghilterra venne assassinato ad Appin. Alan non godeva di buona fama: era violento, collerico e imprudente, e persino il suo padre adottivo lo descriveva come “uno sciocco furioso”. Per di più, aveva dichiarato in pubblico sentimenti poco affettuosi nei confronti della vittima… Per farla breve, Alan fu accusato di omicidio, ma riuscì a scappare, e al suo posto venne impiccato il padre adottivo, come mandante. Fine.

O meglio, “fine” se non fosse per R.L.Stevenson, che ebbe modo di leggere le carte del processo e si appassionò alla vicenda, tanto da costruire il suo “Kidnapped” attorno all’omicidio di Appin, e all’innocenza di Alan. Peccato che l’Alan storico non andasse molto bene. Insomma, siamo onesti: chi è che vuole uno sciocco furioso per eroe?

Ed ecco allora entrare in campo la sbregaverzizzazione.

Alan è l’opposto di tutto ciò che è stato inculcato al nostro narratore ottuso. Mentre David è un buon protestante e un buon suddito, allevato nella massima sobrietà morale e materiale, Alan è un cattolico, un fuorilegge, allegramente spavaldo nei suoi abiti sgargianti, pronto di lingua e di spada, pronto a mentire, rubare, truffare e uccidere per il suo re in esilio – a patto che il suo onore non debba soffrirne. Però, quando il capitano del brigantino (buon protestante e whig, lui, ma non proprio di specchiata onestà) decide di assassinare il nuovo venuto per impadronirsi dell’oro che porta, David non impiega molto a decidere da che parte stare. E noi lettori impieghiamo ancor meno.

Questo è il primo di molti episodi in cui David è costretto a rivedere le sue convinzioni (e noi siamo costretti ad ammettere che anche le migliori %7B8C264151-BB67-4059-85CF-F841B174DFB1%7DImg100.jpgconvinzioni possono essere riviste). Per diciotto anni si è sentito ripetere che i Giacobiti sono gente pericolosa, eretica e immorale, e certo Alan non è molto rassicurante, con la sua enorme spada, il carattere irascibile e la luce un po’ folle negli occhi… ma si rivela onorevole, leale e generoso, ed è uno contro nove!

Segue scena di battaglia nel castello di poppa, che forgia questa bizzarra amicizia tra due uomini che non potrebbero essere più diversi. D’altra parte, si può capire David: chi potrebbe resistere a un nuovo amico che, appena ricacciati indietro i nemici in schiacciante superiorità numerica, vuole subito sapere se è o non è uno spadaccino tosto?*** Ed è qui che Alan si compone la ballata… scena meravigliosa. Perché Alan, dice David, “se apprezzava il coraggio negli altri uomini, lo ammirava soprattutto in Alan Breck.”

Poi, sia chiaro: Stevenson sa il suo mestiere, per cui non c’è nulla di manicheo. David rimane riluttante, e Alan è tutt’altro che immune da difetti: vanesio, irascibile, occasionalmente irresponsabile, insopportabilmente orgoglioso, e con un codice morale un tantino tortuoso, che a noi non fa troppo effetto, ma doveva sconcertare non poco i contemporanei di Stevenson. Eppure, il successo di “Kidnapped” fu enorme fin dal principio, a riprova del fatto che Stevenson sapeva far amare e ammirare Alan con tutti i suoi difetti, prima tra tutti la tendenza a vedere offese ovunque. Notatelo bene, questo tratto, perché lo ritroveremo. Oh, se lo ritroveremo…

Ma non c’è nulla di caricaturale, in Alan. Stevenson, attraverso David, ci informa che Alan non è affatto un soldataccio zotico o un avventuriero da quattro soldi: oltre ad essere un buon tiratore e l’eccellente spadaccino che sappiamo, ha viaggiato molto, parla diverse lingue, ha letto molti libri in Inglese e Francese, suona diversi strumenti ed è un buon poeta. Un uomo colto e un artista.

Stevenson non si è limitato a cucire una personalità completamente fittizia su un nome trovato in un vecchio atto processuale, e non ha tentato di farne un “bravo ragazzo” a tutti i costi. Invece, ha preso le caratteristiche negative dell’Alan storico, ci ha mescolato una manciata di buone qualità del tutto fittizie, e le ha modellate in un insieme a tutto tondo. La facilità alla collera, la mancanza di buon senso, la diserzione a Prestonpan, gli abiti sgargianti, l’arroganza, la propensione alla violenza dell’originale (e francamente, chi non pensa che fosse un individuo sgradevole, alzi la mano), vengono rivoltati come guanti in altrettanti tratti di caratterizzazione, la cui somma è ben diversa dall’intero da cui eravamo partiti: un Alan Breck Stewart talmente affascinante, che vogliamo a tutti i costi credergli, quando sostiene di essere innocente. Vogliamo credergli perché si affeziona a David non superando le differenze, ma nonostante le differenze; e perché è così ostinatamente, irragionevolmente fedele al suo Re Oltre il Mare; e perché regala a David uno dei suoi bottoni d’argento come salvacondotto per Appin (“come se fosse stato un principe, con un esercito ai suoi ordini”), e il bottone funziona; e perché dopo avere perduto in una notte di vino e di carte tutto il denaro proprio e di David è terribilmente contrito, ma troppo orgoglioso per ammetterlo; e perché non avrebbe nessun bisogno di David, ma lo aiuta per buon cuore… e per un’infinità di altre ragioni.

Stevenson credeva nell’innocenza dell’Alan storico. Ci credeva tanto da creare un Alan fittizio che ha trascinato generazioni di lettori a condividere la sua certezza. Studi recenti sembrano dargli ragione, ma onestamente, non credo che abbia molta importanza. Quello che conta è l’Alan di Stevenson, che fugge attraverso le Highlands trascinandosi dietro David, che si cruccia di non essere un po’ più alto, che si costringe a perdere con buona grazia una tenzone di cornamusa, che porta un nome regale, musicista, poeta occasionale, spadaccino, soldato di una causa persa e buon amico: il più perfetto degli Sbregaverze.

__________________________________________________

* Edizione BUR del 1982, traduzione di Piero Gadda Conti (non da morirci sopra, ma con più meriti che colpe)

** Nell’originale: [His eyes had] a dancing madness in them, that was both engaging and alarming.

*** Nell’originale: “Am I no a bonnie fighter?”, frase che trovo intraducibile nel suo senso più sbregaverzesco e più scozzese. Ok, giuro che mi tratterrò da ulteriori citazioni dall’originale.

In compenso, ecco qui un filmatino da una trasposizione televisiva di Kidnapped della fine degli Anni Settanta. E’ piuttosto accurata e fedele, e secondo me David McCallum è il migliore Alan dello schermo. Notare: a 2.25: “Oh David, I love you like a brother!” e subito dopo, a 2.28: “Am I no a bonnie fighter?” [E credete che quell’idiota di David gli dica di sì? Andiamo, o stoccafisso! Ti ha appena salvato la vita…]

 

Dello Sbregaverze in Generale: Brevi Cenni

Alcuni caratteri fondamentali della specie in esame, prima di passare ad analizzarne le varietà.

* Lo Sbregaverze svolge una professione di tipo guerresco. Non dico militare, perché non sempre indossa un’uniforme, ma di certo tende a portare una spada. I duelli tendono ad essere una componente rilevante della sua esistenza.

* Lo Sbregaverze prospera in tempo di guerra, rivoluzione, rivolta, instabilità sociale. Più fluida e pericolosa è la situazione, più lo sbregaverze vi nuota come un pesce.

* Lo Sbregaverze è realmente esistito, e di solito ha giocato ruoli marginali nella storia del suo tempo. Il suo autore, nell’adottarlo, modifica il suo carattere e la sua importanza relativa, facendone in genere un personaggio più rilevante, spesso anche molto più gradevole dell’originale. Se per ottenere questo deve tradire un poco la realtà dei fatti, l’autore non se ne preoccupa soverchiamente.

* Lo Sbregaverze è abbastanza competente nel badare a se stesso e ad eventuali altri, ma mostra una spiccata tendenza a cacciarsi in guai della più diversa natura.

* Lo Sbregaverze mostra un carattere complesso. A una vanità, una spavalderia e un orgoglio fiammeggianti, unisce squarci di profondità inattesa, molta umanità e quasi sempre un po’ di malinconia. E’ pieno di risorse e ingenuo al tempo stesso, ama i bei gesti, è generoso e onorevole (o, nei casi peggiori, si crede tale pur non essendolo troppo).

* Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, lo Sbregaverze non è predestinato a una fine precoce. Gli dei non amano abbastanza gli Sbregaverze per prenderli con sé quando sono giovani? Piuttosto, l’autore dello Sbregaverze è di solito abbastanza smaliziato da dargli una vecchiaia più o meno triste, in cui rimpiangere il fuoco degli anni giovanili, le promesse tradite, le occasioni perdute, le cause finite in nulla…

* Se c’è qualcosa a cui uno Sbregaverze non può resistere, è una causa perduta. Anche una donna in difficoltà, un amore impossibile, la parola data e la fedeltà a un amico conducono lo Sbregaverze ad imprese dissennate e sforzi eroici.

* Lo Sbregaverze è sempre un outsider, in un modo o nell’altro. Per mancanza di buon senso, per allergia al compromesso, per appartenenza alla categoria sociale o religiosa sbagliata, per pura incapacità rispetto alle normali interazioni umane, per intervento dell’autore, e talvolta per una combinazione di tutto ciò, lo Sbregaverze è sempre in conflitto con l’ambiente che lo circonda.

* Lo Sbregaverze si offende con estrema facilità, vede insulti in ogni dove ed è pericolosamente pronto ad esigere riparazione. Pericolosamente per l’offensore (vero o supposto), mai per lo Sbregaverze stesso.

* Con rarissime eccezioni, lo Sbregaverze ha un amico/assistente/compagno di qualche tipo, quello che in Inglese si chiamerebbe sidekick. Come Don Chisciotte (che sarebbe in cima al mio elenco, se non avessi ristretto il campo ai personaggi realmente esistiti) ha il suo Sancho, così Cyrano ha Le Bret, Alan ha David, Morgan ha Coeur-de-Gris e così via. Il Sidekick è talvolta la voce della ragione, talvolta il narratore, talvolta la finestra dello Sbregaverze sul mondo normale, talvolta tutte e tre le cose. Lo Sbregaverze vive nella poco confortevole incertezza se il Sidekick non lo capisca abbastanza o lo capisca fin troppo bene. Tra i due, ad ogni modo, esiste un forte legame di amicizia, affetto, comprensione e lealtà, e i salvataggi reciproci non sono infrequenti.

* Lo Sbregaverze trabocca di fascino. Non è necessariamente simpatico in senso stretto, e talvolta si crea molti nemici con i suoi eccessi, il suo pessimo carattere, la sua facilità ad offendersi… E tuttavia, è un conquistatore di amici, seguaci, ammiratori. Se l’autore sa quel che fa, il suo Sbregaverze sarà anche un conquistatore di lettori. In caso contrario, l’autore sarà molto impegnato a ripetere il concetto all’infinito, e il lettore dovrà credergli sulla parola. Oppure cercarsi un altro libro.

Abbiamo trasmesso: lo Sbregaverze in Dieci Punti. Nella prossima puntata, Alan Breck Stewart.

Ott 8, 2009 - grilloleggente    3 Comments

Fenomenologia dello Sbregaverze

300px-Merton_College_library_hall.jpgUna delle meraviglie dello scrivere narrativa a sfondo storico, è andarsi a pescare un personaggio minore, minorissimo, e farne il nostro protagonista. Si può fare tutt’altro, si può incentrare tutto sulla figura di primo piano (Idi di Marzo di Thornton Wilder ha per eroe Giulio Cesare, Memorie di Adriano della Yourcenar e Io, Claudio di Robert Graves hanno titoli autoevidenti, come pure La Regina Margot di Dumas); oppure si può scegliere un personaggio fittizio e piazzarlo in mezzo a eventi e/o personaggi storici (I Promessi Sposi, per citare un esempio eclatante, ma anche Barnaby Rudge di Dickens, Guerra e Pace di Tolstoj, La Guardia Bianca di Bulgakov…). Entrambe le possibilità hanno dato origine a capolavori ed orroretti, entrambe si prestano a variazioni interessanti, ma non divaghiamo.

La terza via è quella di cui si diceva prima: personaggio minore. Il personaggio minore ha tutta una serie di pregi, in genere. Si sa che è esistito, si sa che ha avuto un ruolo preciso, magari si sa qualcosa dei suoi spostamenti, contatti, vita, morte e miracoli. Molto più facile da situare di un personaggio fittizio… Perché diciamocelo: mettere un segretario/amico/scudiero/seguace/confessore/domestico/fratello illegittimo fittizio al fianco, diciamo, di Lorenzo de’ Medici, offre senz’altro all’autore un favoloso punto di vista sulla congiura dei Pazzi, ma al tempo stesso stiracchia non poco la sospensione dell’incredulità del lettore. Ma se invece il nostro segretario/amico/scudiero/seguace/confessore/domestico fosse esistito veramente, magari citato di straforo in una fonte o due, se sapessimo di lui soltanto che era al posto giusto in una o due occasioni e che aveva un braccio offeso da una caduta da cavallo, avremmo il nostro personaggio, un abbozzo di carattere e tutto lo spazio di manovra che si può desiderare…

E’ così che sono nati parecchi memorabili personaggi letterari. Sto pensando agli esempi da elencare e, per qualche motivo, tutti quelli che mi vengono in mente ricadono sotto una categoria particolare, una categoria del tutto personale, quella dello Sbregaverze.

Piccola precisazione semantica: sbregaverze, purtroppo, non è Italiano. E’ l’italianizzazione di una parola mantovana, composto del verbo sbregare (dialettale per lacerare, rompere, di origine germanica, dice il Dizionario Treccani) e di… be’, tutti sappiamo cosa sia una verza, credo. Dico “purtroppo” perché trovo che sia una parola meravigliosamente espressiva. Se il senso è affine a “rodomonte”, “spaccamonti”, “sbruffone”, “fanfarone”, o “gradasso”, bisogna però ammettere che l’immagine di qualcuno che, per tutta dimostrazione di possanza, spacca delle verze, è meravigliosa.

Non so se abbiate mai provato ad accoltellare una verza… Io sì: certe volte è più facile, certe volte meno, ma in tutti i casi fa un gran rumore.

Ecco, a casa mia il termine Sbregaverze (con la S rigorosamente maiuscola) è scivolato a indicare una certa categoria di personaggi letterari caratterizzati appena sopra le righe, fiammeggianti, barocchi nella costruzione, nelle avventure, nel modo in cui si presentano e parlano di sé. Di sicuro non è dispregiativo e non implica nulla di male sull’efficacia, sull’appeal o sul carattere morale dei personaggi stessi…

Ne ho in mente un certo numero: D’Artagnan e i suoi amici, Cyrano de Bergerac, Alan Breck Stewart, l’Ammirabile Critonio, Madame Sans-Gène, Henry Morgan… tutti esistiti realmente, tutti figure minori del loro tempo, tutti abbondantemente ritoccati dai loro autori a fini narrativi, tutti flamboyants, almeno nella loro versione letteraria. E ciascuno di loro rappresenta una sfaccettatura particolare del genere Sbregaverze.

Sono personaggini, è vero, gente di non troppo conto al loro tempo, cui qualcuno in un altro secolo ha tentato di regalare, con esiti di varia natura, una fettina d’immortalità per iscritto. Comincio a credere che dedicherò un post a ciascuno di loro… Oh, sì! Una galleria di Sbregaverze a seguire…

Pagine:«12