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Ott 5, 2018 - Poesia    Commenti disabilitati su Autunno Poetico

Autunno Poetico

Gainsborough

Gainsborough

Questo post è per M.

Parlavasi di poesie d’autunno, stagione che ha sempre ispirato grandemente i poeti. Non dico che i prosatori non si siano mai dati da fare, perché foglie cadenti, giorni sempre più corti e quant’altro si prestano ad ogni genere di trattamento metaforico, simbolico o semplicemente decorativo, e pochi romanzi sono completi senza una buona scena autunnale, ma senza dubbio le citazioni che saltano alla mente per prime sono poetiche.

Prima di tutto, credo, Ungaretti, col suo Soldati: si sta come d’autunno sugli alberi le foglie…

Ma subito dopo la povera foglia frale dell’Imitazione di Leopardi, Settembre, andiamo, è tempo di migrare con I Pastori di D’Annunzio, San Martino di Carducci, con la sua nebbia che sale piovviginando agl’irti colli (e pensandoci, dev’esserci anche Alla Stazione Una Mattina d’Autunno, di cui confesso di ricordare solo la caduta di foglie), e la fredda estate dei morti di Pascoli, anche se  Novembre forse oggi è ancora un nonnulla prematura.

Autumn-GoldGrimshaw

Grimshaw

In qualche modo sarebbe stato innaturale che Gozzano non si occupasse di autunno, e infatti lo ha fatto più di una volta: per i vetri Autunno inonda la bella stanza delle luci estreme ne La Falce, Sire Autunno vuota munifico la sua cornucopia ne Il Frutteto, mentre La Signorina Felicita pensa i bei giorni di un autunno addietro, e l’elenco sarebbe lungo, se si volesse.

Fuori d’Italia, tutti ricordiamo i lunghi singhiozzi dei violini d’autunno di Verlaine forse più per il celebre messaggio in codice del D-Day che per la Chanson d’Automne in sé, e poi ci sono le gelide tenebre e i colpi funerei della legna spaccata nel Chant d’Automne di Baudelaire, e Mallarmé che chiama le nebbie sulle paludi livide – e in compenso Camus dice che l’autunno è una seconda primavera in cui ogni foglia è un fiore: lo so, è prosa, ma ci voleva proprio. Chi avrebbe mai pensato di dover ricorrere a Camus per allietare un po’ l’atmosfera?

arcimboldoautumn

Arcimboldo

E poi veniamo al mondo anglosassone, cominciando con Emily Dickinson, che in Autumn indossa un gioiello per essere in tono con i vestiti scarlatti dei campi, le gaie sciarpe degli aceri e le guance rubiconde delle bacche – e con Stevenson e i suoi Fuochi d’Autunno, che fioriscono dopo l’estate a punteggiare il canto delle stagioni… Nei boschi gialli d’autunno, invece, Robert Frost esita al bivio in The Road not Taken. E anche l’autunno di Yeats, è giallo: giallo e triste come le foglie umide delle fragole selvatiche in The Falling of Leaves, mentre The Autumn di Elizabeth Barret Browning è una faccenda di vento nei boschi e torrenti gonfi. L’autunno di William Blake è un personaggio carico di frutti e dalla voce allegra che fa danzare le fanciulle, ma è macchiato del sangue dell’uva (To Autumn), e quello di Keats è un tempo di foschie, il caro amico del sole che fa maturare le mele sotto il cui peso si piega l’albero accanto al cottage. E poi (in ordine del tutto sparso) ci sono Shakespeare, che paragona gli alberi autunnali a cori in rovina, Nova Bair, con i suoi pioppi d’ottobre, torce accese per illuminare la via verso l’inverno, Kipling con le sue sere profumate di fumo e le notti profumate di pioggia, e John Donne che riconosce la bellezza alla primavera e all’estate, ma riserva la grazia all’autunno.

E infine rapido passaggio in Germania per Hoelderlin, e il suo autunno – simbolo del tempo che divora se stesso.

Passaggio e caducità, rosso, oro, crepuscolo, frutti, declino, vendemmia, nebbia, bellezza, malinconia, abbondanza e finalità: se c’è una stagione da poeti, forse è davvero l’autunno.

 

Giu 8, 2018 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Romantica Mondiale Sonzogno

Romantica Mondiale Sonzogno

BooksaL’estate s’avvicina, le scuole chiudono, e s’appropinqua quel periodo dell’anno in cui un tempo, quando ero più brava, facevo un post di consigli per le letture estive… Poi l’anno scorso ho smesso di essere brava – e invece ho postato una lista di titoli Mondadori degli anni Trenta, la collana Romanzi di Cappa e Spada.

Ebbene, quest’anno sono altrettanto poco brava, e vi propongo un’altra vetusta collana: la Romantica Mondiale Sonzogno… no, non sghignazzate: “romantica” qui non si usa nell’accezione di “sentimentale”, ma in quella più etimologica e anglosassone di “avventurosa e pittoresca”. E in effetti la RMS raccoglie un diluvio di titoli d’avventura e di cappa e spada, pubblicati secondo il sito della casa editrice “intorno al 1935 e poi ristampati negli anni Quaranta”. E poi evidentemente anche più tardi, visto che i 150 titoli qui sotto sono copiati* dalla sovraccoperta di una ristampa de La scala Vermiglia, di Alfredo Pitta, datata 1957.

Vedrete che alcuni titoli coincidono con quelli di Mondadori, ma la gamma è più vasta: si va da Leroux a Zane Grey, dalla Baronessa Orczy a Jack London – con un’abbondanza di Sabatini… e da uno Stevenson dichiaratamente “per fanciulli” come La Freccia Nera al Conrad più cupo e angosciante di Cuore di Tenebra.

Insomma, vedete un po’:

London, J. – Martin Eden

Sabatini R. – Il capitano Blood

Baronessa Orczy – Il trionfo della Primula Rossa

Curwood J.O. – Kazan

Zane Grey – Il Fiume Abbandonato

Sabatini R. – Lo sparviero del Mare

Stacpoole (De Vere) H. – L’isola delle perle

Conrad J. – Cuore di tenebra

Zane Grey – Nevada

London J. – Zanna Bianca

Sabatini R. – Scaramouche

Baronessa Orczy – Le avventure della Primula Rossa

London J. – Il richiamo della foresta

Zane Grey – Il retaggio del deserto

Curwood J.O. – La trappola d’oro

Pemberton M. – La nave dei diamanti

Baronessa Orczy – La vendetta di Sir Percy

London J. – Radiosa Aurora

Scotti Berni N. Il diabolico commediante

Leroux G. – Il castello nero

Sabatini R. – Il cigno nero

Pignatelli p. V. – L’ultimo dei moschettieri

Sabatini R. – Le fortune del Capitano Blood

Rider Haggard H. – Nada il giglio

Zane Grey – Betty Zane

Curwood J.O. – Il fiore del nord

Sabatini R. – La maschera veneziana

Williamson C. e A. – Il topo e il leone

Zane Grey – L’anima della frontiera

Sabatini R. – Cavalleria

Baronessa Orczy – L’uomo grigio

Conrad J. – Il negro del “Narciso”

Curwood J.O. – Nomadi del Nord

Leroux G. – Le strane nozze di Rouletabille

Sabatini R. – L’uomo e il destino

London J. – Il lupo dei mari

Pignatelli p. V. – Il dragone di Buonaparte

Rider Haggard H. – La donna eterna

Zane Grey – Sotto le stelle del West

Sabatini R. – I cancelli della morte

Sabatini R. – Le cronache del capitano Blood

Pignatelli p. V. – La lettera di Barras

Zane Grey – L’ultima pista

Pignatelli p. V. – Le tre vedette

Pignatelli p. V. – Florise

Sabatini R. – Bellarion

Stacpoole (De Vere) R. – La laguna azzurra

London J. – La valle della luna (Voll. I e II)

Pignatelli p. V. – Danican-Bey

Pignatelli p. V. – Il Ventesimo Dragoni

Zane Grey – La Valle delle sorprese

Sabatini R. – I pretendenti di Yvonne

Pignatelli p. V. – Sua Maestà Don Chisciotte

Pignatelli p. V. – Doña Luz

Curwood J.O. – Saetta

Curwood J. O. – Il paese di là

Pignatelli p. V. – Il corriere dello Zar

Pignatelli p. V. – La pattuglia segreta

London J. – Smoke Bellew

Zane Grey – L’oro del deserto

Pignatelli p. V. – G.M. 44

Sabatini R. – La pelle del leone

Curwood J.O. – Il coraggio di Marge O’Doone

Zane Grey – Carovane combattenti

London J. – L’ammutinamento dell’Elsinore

Conrad J. – Nostromo

Zane Grey – L’ultimo dei “Plainsmen”

Sabatini R. – L’estate di San Martino

Curwood J.O. – Il termine del fiume

Stacpoole (De Vere) H. – La spiaggia dei sogni

London J. – Il vagabondo delle stelle

Sabatini R. – Il vessillo del Toro

Conrad J. – L’agente segreto

Zane Grey – La selva del Tonto Rim

Sabatini R. – La giustizia del Duca

Curwoed J.O. – La valle degli uomini silenziosi

London J. – La figlia delle nevi

Sabatini R. – Il giocatore

Leroux G. – Il delitto di Rouletabille

Conrad J. – Vittoria

London J. – La legge della vita

Sabatini R. – Racconti turbolenti

Curwood J.O. – La foresta in fiamme

Baronessa Orczy – Il nido dello Sparviero

Blasco Ibañez V. – La Maja Nuda

Curwood J.O – L’ultima frontiera

Leroux G. – Rouletabille in Russia

London J. – Prima di Adamo

Pemberton M. – Il capitano Nero

Rider Haggard H. – Il ritorno di Ayesha

Sabatini R. – Amori ed Armi

Stacpoole (De Vere) – Satana

Zane Grey – Il Ranger del Texas

Sabatini R.  – I ribelli della Carolina (Voll. I e II)

Leroux G. – Sangue sulla Neva

Curwood J.O – Il figlo di Kazan

Zane Grey – Il Ponte dell’Arcobaleno

Sabatini R. – Maestro d’Armi (Voll. I e II)

Curwood J.O – I Cacciatori di lupi

Pitta A. – Santajusta

Bazin R. – Gingolph l’abbandonato

Curwood J.O – I cacciatori d’oro

Rider Haggard H. – Le miniere del Re Salomone

Sabatini R. – Le nozze di Corbal

Zane Grey – Il cavallo selvaggio

Stevenson R.L. – La freccia nera

Kipling R. – Il libro della Giungla (Voll. I e II)

Wallace E. – Sanders del fiume

Curwood J.O – L’avventura del capitano Plum

Wallace R. – Il popolo del fiume

Kipling R. – Il Naulahka

Sabatini R. – La vergogna del buffone

Wallace E. – Bosambo

Leroux G. – L’automa insangiunati

London J. – La peste scarlatta

Wallace E. – Quattrossa

Sabatini R. – Il santo ambigui

Stacpoole (De Vere) H. – La nave di corallo

Zane Grey – Wildfire

Baronessa Orczy – L’Aquila di bronzo

Leroux G. – I Mohicani di Babele

Birmingham G. – L’oro del galeone

Conan Doyle A. – Un mondo perduto

Sabatini R. – Il fiordaliso calpestato

Curwood J.O – Isobel

Aicard J. – Morino dei Mori

Leroux G. – Le Tenebrose

Pitta A. – La scala vermiglia

Curwood J.O – L’onore delle grandi nevi

Leroux G. – La macchina per uccidere

Sabatini R. – Il Cavaliere della Taverna

Mason A.E.W. – Le quattro piume

Conan Doyle A. – La Grande Ombra

Rider Aggard H. – La signora di Blossholme

Zane Grey – Arizona Ames

London J. – In paese lontano

Conrad J. – Lord Jim

Dupuy-Mazuel H. – Il giocatore di scacchi

Curwood J.O – La Valle dell’oro

Sabatini R. – La congiura di Scaramouche

Achard A. – Cappa e Spada

Achard A. – Il vello d’oro

Sienkiewicz E. – I cavalieri della Croce

Askew A. e C. – La Sulamita

Mereskovski D. – Pietro il Grande

Boothby G. – La figlia del Rosso

sonz-Orczy-SparvieroEcco – e dite la verità: non è una meraviglia? Voglio dire – non è precisamente una lista di consigli di letture**, ma in fondo, perché no? Vale sempre il discorso che ogni estate bisognerebbe leggere almeno un libro che abbia il gusto del make-believe di quando eravamo ragazzini – e se qua sopra non trovate almeno un titolo che vi faccia ritornare dodicenni, devo proprio chiedervelo: a che cosa mai giocavate a quell’età?! E poi c’è l’aspetto caccia al tesoro, perché tutto ciò ormai si trova soltanto sulle bancarelle – o magari in qualche biblioteca dai magazzini molto grandi o dal ricambio non troppo frenetico.

Anyway, se per caso leggete qualcosa di preso da qui, poi passate a raccontarmi com’è andata?

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* Uno per uno. Le cose che faccio per SEdS…! E nel copiare ho cercato di mantenere i quirks della lista, come l’occasionale refuso e l’uso erratico delle maiuscole.

** Anche se, a dire il vero, Sabatini ve lo consiglio caldamente – così come, se siete in vena di una bizzarria storico-fantascientifico-purpurea, Il Giocatore di Scacchi.

Nov 8, 2017 - gente che scrive, grillopensante, pessima gente, Vitarelle e Rotelle    Commenti disabilitati su Perfidi, Cattivi, Malvagi E Delinquenti

Perfidi, Cattivi, Malvagi E Delinquenti

Questo sarà un post un tantino sconclusionato. Abbiate pazienza e fate conto che abbia dormito poco e che stia rimuginando per iscritto.Villains

Il fatto è che abbastanza spesso, parlando di libri e personaggi, salta fuori il discorso dei malvagi, questa essenziale popolazione letteraria, questa collezione di gente di assoluta indispensabilità narrativa e, spesso e volentieri, di notevole fascino.

Perché in realtà, se per avere una storia abbiamo bisogno di gente che vuole qualcosa e non riesce ad averla, che ne sarebbe delle storie, a chi interesserebbe degli eroi, se non ci fossero gli antagonisti a rendere tutto complicato e avventuroso?

E non so se sia una deformazione molto allarmante, ma non so fare a meno di pensare che sarebbe possibile raccontare a lungo di un Innominato non convertito – mentre Renzo&Lucia, senza l’Innominato &. C. a metter loro i bastoni tra le ruote, sarebbero interessanti come il piano di un tavolo di formica.

Per contro, quando è promosso a protagonista, il Villain tende ad occupare la scena con irresistibile prepotenza. Avanti, così al volo, ditemi chi sono i “buoni” in Riccardo III o ne L’Ebreo di Malta o nel Filippo… Nella migliore delle ipotesi dovete pensarci su – e forse non siete nemmeno certi che i “buoni” ci siano affatto.

Bisogna dire che, occupati ad essere magnanimi, candidi come ermellini e di gran cuore, per secoli i Buoni si sono trovati preclusi tutti quegli interessanti sentieri come ambizione, vendetta*, omicidio, arroganza, propensione all’intrigo, sete di potere, avidità o pura e semplice malevolenza – con tutti i tormenti annessi.

QuilpAncora a metà Ottocento, un relativamente inesperto e affannato Dickens se la cavava creando distribuzioni manichee che nemmeno all’opera, e non è che i lettori lo rincorressero nelle strade per riavere i loro soldi. Il nano Quilp è di una malvagità quasi barocca nella sua gratuità, nerezza e magniloquenza, ma ai nostri cinici occhi d’oggidì c’è un che di redeeming quality nel suo accanimento contro l’angelica, mite e moritura Little Nell. E non riusciamo biasimare del tutto Fagin e Sikes perché vogliono disfarsi dell’impenetrabilmente candido Oliver Twist, vero?

Or at least, I can’t. E quando dico queste cose alle conferenze le anziane signore in prima fila cominciano a guardarmi male, ma resta il fatto che Quilp e Fagin, pur non essendo il genere di malvagi con cui si simpatizza, sono personaggi più vividi, più interessanti e di molte spanne più divertenti dei rispettivi piccoli protagonisti. Il gusto con cui Dickens li ha scritti è evidente in ogni parola, a dispetto della semi-burattinesca bidimensionalità di un Quilp.

Nel caso di Fagin magari la faccenda è un po’ più complessa, ma di sicuro Dickens non stava facendo nessuno sforzo per rendere simpatico il personaggio – di certo non più di quanto Shakespeare volesse fare lo stesso con Riccardo III (che pure ha un suo notevole fascino), o Daphne Du Maurier con la terribile Mrs. Danvers. felipeii

Lo sforzo di comprendere il punto di vista del Villain è tutta un’altra faccenda. Mi verrebbe da citare il passaggio di Filippo II dal nigerrimo tiranno filicida e sadico di Alfieri al sovrano tormentato di Schiller, ma si potrebbe legittimamente sostenere che, se a Filippo cresce un’anima, è perché per Schiller (e ancora di più per Verdi all’opera) la vera malvagità va cercato all’indirizzo della Santa Inquisizione.

Comunque Filippo è tecnicamente un antagonista per il quale siamo autorizzati – se non addirittura invitati – a dispiacerci: un Atlante triste che porta sulle spalle il peso della Spagna tutta, un padre e marito con molte ragioni di dolersi, e guardate come va a finire la prima volta che si concede un affetto… Sarà anche un riprovevole e cieco tiranno, ma è un riprovevole e cieco tiranno in buona fede.

E c’è il fatto che narratori e lettori si smaliziano: da un lato si affermano gli eroi imperfetti e gli antieroi, al centro le distinzioni morali si fanno nebulose e dall’altro lato il Malvagio Perché Sì non basta più. Averla a morte con l’eroe e/o voler conquistare il mondo diventano manifestazioni di motivi più a monte e nuovi clichés si cristallizzano attorno all’antagonista. Trauma infantile, tragica vedovanza, guerra nel Vietnam, famiglia sterminata, rivalsa sociale, a volte anche le migliori intenzioni…

BarabasMurrayAbrahamQualche tempo fa, in un articolo sul Telegraph, Philip Hensher lamentava la scomparsa del buon vecchio Villain tradizionale, quello che trovava un gran gusto nell’essere malvagio, quello per il quale nuocere all’eroe era uno scopo sufficiente in sé stesso, quello cui la nobiltà d’animo del protagonista dava travasi di bile e/o crisi di cachinni.

Oh dove, si domandava Hensher, dove sono finiti i Richard, i Barabbas, gli Jago, i Quilp, le Mme de Merteuil? E si rispondeva che la genia è estinta, sepolta sotto valanghe di umana comprensione e political correctness…

Mah, non saprei.

Dopo tutto, il really villain Villain resiste e prospera nella narrativa per ragazzi e in svariati generi. E considerando i torti che subiscono Barabbas e Shylock, considerando la lealtà feroce e mal ripagata di Redgauntlet, o considerando il fratello e la sorella di Mme Defarge, mi sembra difficile vedere nel Malvagio Con Un Buon Motivo qualcosa di diverso dal discendente di una lunga stirpe.

E comunque state leggendo il blog della donna che ha un debole per Richard, per Jago, per Rupert von Hentzau, per il Conte di Luna, per Steerforth, per Silver, per il Satana di Milton – e ha sempre trovato che avessero tutti delle ottime ragioni per quel che facevano. O quanto meno, del tutto plausibili. O, se non sono del tutto plausibili, fa lo stesso. Che diamine, stiamo parlando di letteratura, e i Malvagi, diciamocelo, si dividono in due categorie: gli altri, e quelli con tanto fascino da chiuderci il buco nell’ozono.

E talvolta dirottarci un libro.

E voi? Come vi ritrovate, in fatto di Villains?

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* Be’, quella magari non sempre – ma per secoli i vendicatori non sono andati a finire particolarmente bene, nemmeno quando si supponeva che avessero tutte le ragioni. Amleto, per dire…

Lug 5, 2017 - grilloleggente, posti    2 Comments

10 Viaggi Storico-Letterari

LLTCRicordate la Literary London Touring Company? Nel corso di una drammatica riunione, i vertici di LLTC hanno deciso che il mercato, la congiuntura e la naturale evoluzione aziendale impongono di allargare il campo d’azione dell’agenzia da Londra all’Europa tutta, aggiungendo alle passeggiate londinesi una serie di itinerari sulle tracce di romanzi, autori e storia varia. Considerateci un incrocio tra Thomas Cook e Waterstone’s.

E siccome l’estate è giunta, ed è tempo di meditar di vacanze e viaggi, ecco una prima selezione di idee – qualcuna sperimentata, qualcuna della materia di cui son fatti i sogni:
DonQ1) Esquivias, Toledo, Almagro, Puerto Lapice, El Toboso, Mota del Cuervo e Belmonte… un sacco di Spagna rossiccia e bruciata dal sole, mulini a vento, case bianche, città medievali e laghetti incantati sulle tracce del Don Quixote, con puntata ad Alcalà de Hénares (in onore di Cervantes).

2) To(s)tes, Ry e Rouen: campagna profonda, burro, nebbia e cattedrali gotiche nella Haute Normandie di Madame Bovary. Con serata all’opera – possibilmente Lucia di Lammermoor.

3) Puntata extraeuropea: Yenbo, Weih, Aqaba, Maan, Amman, Deraa, Damasco – ripercorrendo le tappe di Lawrence e dei suoi guerriglieri arabi, su su lungo la ferrovia dell’Hijaz, in Giordania e in Siria… Con escursioni facoltative a Suez e Bersheeba. Non necessariamente tutto a dorso di cammello, però. AlanTrek

4) Per gente dai forti garretti, la sgambata di David Balfour e Alan Breck Stewart su e giù per le Highlands scozzesi, tra l’erica, le pecore e gli haggis dalla sperduta isola di Iona fino a Balquhidder, Stirling e infine Edinburgo – comprensivo di partita a carte in nascondiglio di montagna e concerto di cornamusa.

5) Una crociera da Lisbona a Cadice ad Arzila in Marocco – e da lì a cavallo ad Alcacér Quibir, il luogo della Battaglia dei Tre Re, sulle orme della tragica crociata di Don Sebastiano del Portogallo nel 1578. Ritorno garantito – senza versamento di riscatto.

6) Mosca-San Pietroburgo in treno, come Anna Karenina – lungo tragitto diritto tra boschi di betulle e piane nebbiose, allietato dai mercatini improvvisati sui marciapiedi nelle fermate, dove le babushke insciallate vendono frutti di bosco, funghi, semi caramellati e centrini. È vivamente consigliato avere al seguito musica di Tchaikowskij e qualche voluminoso romanzo russo (o francese), dalle pagine intonse. Il tagliacarte d’argento è de rigueur. Vietato attraversare i binari – servirsi del sottopasso.

ElephantCruise7) Cartagena, Sagunto, i Pirenei, il Reno (crociera fluvialelefantina), un passo alpino a scelta, Torino, la Trebbia, il lago Trasimeno, Canne, Capua, breve puntata su Roma, Taranto, traversata in Africa, Adrumeto, Cartagine, Zama. Un viaggio impegnativo: durata consigliata – una  ventina d’anni.

8) Ancora Spagna: Madrid, Alcalà, San Lorenzo del Escorial, San Yuste (che pure è più fuori mano di quanto Schiller credesse), sulle tracce di Don Carlos.

9) 12 giorni nella Francia centro-occidentale, a piedi tra Le Monastier e Saint-Jean-du-Garde, come Stevenson e la sua asina. Gli abitanti di Le Monastier allevano scuderie piene di asinelle astute e cocciutissime chiamate Modestine, e le addestrano alla nobile arte del ricatto morale prima di noleggiarle ai camminatori stevensoniani.Soliman

10) Viaggio complicato: da Lisbona a Barcellona per via di terra, poi per nave fino a Genova. Ancora per terra Milano, Cremona, Mantova, il Brennero, Innsbruck e da lì una lunga crociera fluviale via Inn e Danubio fino a Vienna. La bellezza del viaggio consiste nel compierlo a dorso d’elefante – come avvenne per il pachiderma Solimano alla metà del Cinquecento. Si tende a pensare che l’unico a scriverne sia stato Saramago, ma in realtà Solimano vanta a suo credito tutta una letteratura, dai poemi coevi, alle storie per bambini, alla saggistica, a un trattato sulla diplomazia elefantina…

Ecco. Per una volta, dieci ne avevamo promessi e dieci sono. In alternativa, potete considerarla una lista di suggerimenti per le letture estive. E si capisce che The LLTC sarà lieta di prendere in considerazione suggerimenti, idee ed ispirazioni.

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Elogio Dell’Espressiva Imperfezione

Questo post, a suo tempo, prendeva le mosse da un sacco di cose: parte di un articolo di Massimo Firpo sull’inserto domenicale de Il Sole 24 Ore, una chiacchierata in proposito con G.S., una vecchia discussione con A., uno sconsolato commento dell’ex-Renzo e, per finire, uno scambio di vedute sulle scelte metriche in un paio di edizioni recenti del Boiardo.

Ingredienti eterogenei, ma vediamo un po’.

Con G.S. si parla spesso di lingue e linguaggi, perché l’argomento piace a entrambi, e così si commentava l’articolo di Firpo che (in risposta a un altro articolo di Sergio Luzzatto), tra l’altro distingueva fra la necessità di un Italiano accademico/scientifico più chiaro e la colpevole esterofilia congiuntivicida; tra la deliberata (e colpevole) nebbia verbale e l’eleganza della consecutio temporum.

Credo che l’ex-Renzo simpatizzasse con Firpo, mentre badava al laureando che, nella sua tesi, usava sistematicamente “è risultato essere” al posto del buon vecchio e semplice “è”… E ho ancora vivido in mente il ricordo del tutor gallese che mi dice come gli studenti italiani battano tutti nel farcire le tesine di costruzioni convolute ed espressioni idiomatiche inutili per raggiungere il wordcount prescritto.

Tuttavia, sospirava G.S., citando Firpo, “sarebbe stato meglio se non avessi detto” non è tanto più bello di “era meglio se non dicevi”?

Temo di avere risposto “secondo le circostanze,” cominciando col distinguere non solo tra lingua parlata e lingua scritta, ma anche tra lingua scritta accademica (nella quale corretezza grammaticale e chiarezza dovrebbero essere priorità gemelle) e lingua scritta narrativa, che sullo stesso gradino della chiarezza mette l’efficacia espressiva. E questo mi ha riportato in mente una discussione vecchia di lustri, in cui A. sosteneva una versione estrema del sospiro qui sopra: “era meglio se non dicevi” è un crimine linguistico che andrebbe punito con impiccagione, annegamento e squartamento. La faccenda era resa ancor più drastica dal fatto che ero stata io a usare un certo numero di orrori del genere in un dialogo all’interno di un romanzo. A. era un purista molto tosto, e disapprovava con foga, incurante del fatto che la mia intenzione fosse quella di riprodure la lingua parlata di un gruppo di contadini vandeani.

“Neanche il parlato dovrebbe essere così,” tuonava A. back in the day, e anche lui aveva in mente l’eleganza della consecutio temporum.

Ma il fatto è che la lingua si evolve continuamente, che la lingua parlata si evolve più in fretta di quella scritta, che la tendenza è verso la semplificazione, che esistono arnesi come i registri linguistici, e che i registri bassi e informali semplificano più degli altri.

Nessuno tiene il discorso sullo stato della nazione nello stesso registro che impiega durante una partita a briscola* – per fortuna. E quando si scrive narrativa, la diversificazione dei registri, delle inflessioni e degli accenti è un mezzo espressivo potente. Queste variazioni servono a rendere il tono alla narrazione, a caratterizzare la voce narrante e i singoli personaggi nel dialogo, a ricreare un luogo o un’epoca, a sfondare la quarta parete, a richiamare una fonte, una convenzione o un genere… e mi viene in mente almeno un caso in cui costituisce il meccanismo della trama – Pygmalion, di G.B. Shaw, incentrato sulla trasformazione fonetica, grammaticale e sintattica di Eliza da fioraia Cockney a plausibile principessa morganatica.

Mi viene in mente anche Stevenson, che creò scalpore dando a Kidnapped un protagonista narrante che parlava Scots English invece dell’Inglese standard. La sua deliberata infrazione a una regola non scritta delle convenzioni letterarie e a un certo numero di regole grammaticali, sintattiche e fonetiche, costituì una svolta epocale rispetto a molti secoli di tradizione che confinavano l’uso letterario delle imperfezioni linguistiche a personaggi minori – spesso con funzioni di comic relief – e aprì molte strade espressive**, alcune delle quali ancora adesso non piacciono troppo agl’irriducibili del Regsitro Unico.

O lei, Barbuto Spettatore che, dopo una rappresentazione di Bibi E Il Re Degli Elefanti, cercò l’autrice e, avendola trovata, la invitò in tutta serietà a stare più attenta ai suoi congiuntivi***, mi creda: l’avevo fatto apposta. La mia esperienza di bambine di otto anni può essere limitata, ma credevo e credo ancora che una di loro, sul punto di piangere e frenetica nel tentativo di non lasciar andare il suo elefante immaginario, non si preoccupi molto della consecutio. Credevo e credo ancora che la bimba dica “Hai detto che non mi lasciavi sola,” e non “hai detto che non mi avresti lasciata sola.”

Col che non voglio dire che la sciatteria linguistica sia una bella cosa, naturalmente – cosa di cui pure mi accusò il Barbuto Spettatore, e per questo sento l’ansia di precisarlo: si spera sempre che sia possibile distinguere tra l’uso approssimativo dell’idioma e l’imperfezione deliberata.

L’imperfezione deliberata è espressiva, è significativa, serve a qualcosa, sta bene dov’è, perché c’è stata messa con uno scopo. Anche se sembra che a volte, quando passano i secoli, non sia più ben chiaro quale fosse questo scopo. E sto pensando a un’imperfezione metrica in particolare, certi endecasillabi dubbi nell’Orlando Innamorato che, a quanto pare, endecasillabi non sono. Qualche anno fa Cristina sentii Montagnani, dell’Università di Ferrara, proporre una soluzione che trovo ancora affascinantissima: con la “sillaba vuota” infilata qua e là per il poema, Boiardo avrebbe voluto richiamare la tradizione canterina, ovvero quei Libri di Battaglia – diciamo una versione pop dei romanzi cavallereschi – che del poema costituivano in parte i precedenti. Nei versi di questi poemi era comune la presenza di sillabe vuote che, come ancora fanno i pupari siciliani, i narratori riempivano battendo le mani o il piede, in una specie di accento non verbale.

A quanto pare, quando lo suggerì nella sua edizione critica nel 1999, la Montagnani fu metaforicamente lapidata da un buon numero di italianisti, che giudicarono l’idea dissennata. Che devo dire? A me piace immaginare un poeta quattrocentesco occupato a lardellare i suoi versi d’imperfezioni metriche nella metaletteraria intenzione di strizzare l’occhio a un genere minore, proponendo la versione colta della versione popolare dei poemi cavallereschi.

Perché la sillaba vuota non può essere ur-metaletteratura? Basterebbe a canonizzare San Matteo Maria Boiardo come patrono degl’infrangitori volontari di regole a fini espressivi.

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* Anche se mi si narra di un anziano avvocato che, in un momento di selvaggio abbandono in una tribuna di stadio, si unì ai tifosi che insultavano cordialmente un attaccante e gridò “Ma perdio, gliela passi, quella palla!” E d’altronde, un’anziana suora del mio collegio universitario, quando perdeva veramente le staffe, ululava “Furore tremendo!” come l’eroina di una tragedia greca…

** A dire il vero, aprì anche la strada a una quantità di irritanti eccessi: non vi mette una certa furia penare su pagine intere di trascrizione fonetica di chissà quale dialetto? Non che sia colpa di Stevenson…

*** Giuro: “Sa, il testo potrebbe essere anche carino, ma non ci s’improvvisa scrittori. Se non ci riesce da sola, può farsi aiutare da qualcuno che le controlli i testi, prima di darli a una compagnia.” Giuro.

Lost in Translation

Parliamo un po’ di traduzioni, oggi, e prendiamola da lontano.

Stevenson.

Vi ho già raccontato (forse anche più di una volta, ma abbiate pazienza) del punto di Kidnapped in cui, dopo la battaglia nel castello di poppa del Covenanter, Alan abbraccia David e gli chiede: “Am I no a bonnie fighter?”

Ecco, quel “bonnie”…

Bonnie (o anche bonny) è un aggettivo molto scozzese che significa “bello, grazioso, carino, attraente, vivace, adorabile” ma anche “amato, beneamato, prediletto”, talvolta persino “pasciuto ed allegro”, ed è usato spesso come vezzeggiativo.

891753_f260.jpgPer capirci, la figlia di Rossella O’Hara e Rhett Butler, quella che nella versione italiana di Via col Vento ha nome Diletta, si chiama in realtà Bonnie – e non è un caso che il nome salti fuori da un’osservazione di Melania (che di cognome fa Hamilton, molto scozzese), secondo la quale la bambina ha gli occhi azzurri “come la nostra diletta bandiera” (Our bonny flag). Per tornare in Scozia, il principe Charles Edward Stewart, il Re in Esilio di Alan, era chiamato popolarmente e affettuosamente Bonnie Prince Charlie: il bel principe Charlie, o il caro principe Charlie, o ancor più probabilmente una commistione delle due cose. My Bonnie lies over the ocean, canzone popolare scozzese, forse fa riferimento a lui, forse no, ma il senso è di nuovo quello: chiunque sia che se ne sta oltre l’oceano, è qualcuno di amato e caro. In Old Mortality di Walter Scott c’è una nonna che chiama la nipotina “Margaret, my bonny bird”, cioè “Margaret, uccellino caro.” Nello stesso romanzo incontriamo John Graham, visconte di Dundee, eroe della Prima Sollevazione Giacobita (qui c’entra il babbo di BPC) e bell’uomo, popolarmente conosciuto come Bonnie Dundee. Fuori di Scozia lo ritroviamo in Shakespeare (“Be you blythe and bonnie” in Molto Rumor per Nulla, nel senso di gaio) e in Charlotte Bronte (in Shirley, Caroline Helstone, parlando con sé stessa, chiama suo cugino “Bonny Robert”. Robert è bello, e Caroline è segretamente innamorata di lui: fate i vostri conti).

Penso di avere reso l’idea, e di avere indotto la formulazione della seguente domanda: che ci fa un aggettivo simile applicato all’abilità di un Flora_MacDonalds_Farewell_to_Bonnie_Prince_Charlie.jpgduellatore? Ecco, il fatto è che nell’Inglese di Stevenson, che è uno Scozzese inglesizzato, la faccenda ha perfettamente senso: rende fino in fondo l’idea della spudorata, ingenua delizia che Alan prova nei confronti delle proprie capacità di spadaccino. Capacità altamente letali, come David ha appena avuto modo di notare. C’è tutto Alan, lì: una battuta di dialogo geniale, che caratterizza il personaggio, il luogo, l’epoca e la situazione in sei piccole parole. *ecstatic sigh!*

Ma se noi traduciamo, più letteralmente, come “Non sono un amore di spadaccino?” o “Non sono una delizia di spadaccino?”, la domanda di Alan assume una connotazione leziosa ed affettata che travisa il carattere del personaggio, e non esiste affatto nell’originale. Pietro Gadda Conti, traduttore per la BUR, se la cava con “Non sono un buon spadaccino?”, evitando i rischi, ma perdendo un sacco di Alan nel passaggio…

Insomma, lo so: è la quadratura del cerchio. E il motivo principale per cui nessuna traduzione è definitiva, e ogni traduzione rispecchia tanto il traduttore quanto l’autore, e vale sempre la pena, quando è possibile, di leggere anche l’originale.

Dopodiché, come dice lo header qua sopra, sono una traduttrice occasionale, e non mi sono mai cimentata davvero con la traduzione letteraria, però ho una passione per le espressioni apparentemente intraducibili a cui strologare una versione convincente. E’ un giochino utile e dilettevole per le lunghe attese, quando si sia dimenticato di portarsi un libro, e può durare anni, perché leggendo altro si trovano sempre altre sfumature, altri contesti, altre connotazioni, altre possibili corrispondenze, altri colori…

E posso dire che, col tempo, con la paglia e con le code alla posta, mi è maturata una nespola stevensoniana di cui non sono del tutto insoddisfatta:

“E dimmi: non sono un fior di spadaccino?”

Din, don, dan. Siccome non conosco tutte le traduzioni italiane di Kidnapped, non è impossibile che altri ci siano arrivati – magari decenni prima di me. E se devo dirla tutta, nemmeno spadaccino mi convince fino in fondo: ha la giusta intonazione guasconcella, ma forse non è come Alan definirebbe sé stesso… Magari “un fior di duellatore”?

Ci penserò. In quasi vent’anni ho sistemato a mio piacimento bonny – adesso posso procedere con fighter. Ne riparliamo attorno al 2030.


Set 12, 2012 - gente che scrive    3 Comments

Il Gomito Di Tolstoj

tolstoj, stevenson, stephenie meyerNon è che agli scrittori si debba credere troppo. Gli scrittori ricamano, modificano, tirano a lucido, spostano, tirano e inclinano finché quel che raccontano non ha la giusta inclinazione e il giusto colore.

Per cui, quando Tolstoj raccontava di essersi appisolato sul divano un bel giorno, e di avere visto un gomito, e di avere immaginato attorno al gomito una bella donna triste in abito da ballo, e di aver finito col cavarne Anna Karenina, forse faremmo bene a prendere la storia con un granellin di sale? 

ma perché, poi?

Di sicuro la storia suona bene. C’è un che di russo e, al tempo stesso, un che di pittorico, non trovate? Il gomito, la posa malinconica, l’abito da ballo – tutto così adatto ad AK, forse persino un po’ troppo adatto, ed è per questo che siamo tentati di essere cinici… e comunque per quanto mi riguarda è una lotta perduta in partenza. Il fatto è che non voglio essere cinica. Voglio credere alla storia del gomito, thank you very much.

Così come voglio credere a Stevenson che disegna mappe per ingannare il tempo in un’estate scozzese particolarmente piovosa e a un certo punto, folgorato dalla mappa di un’isola, scrive Treasure Island in due settimane.

Il fatto che invece sia capacissima di essere cinica quando leggo di Stephenie Meyer che si sveglia dall’aver sognato Edward&Bella sdraiati in un prato a discutere d’amore – lei tutta ordinaria e lui tutto luccicante e vampiresco – probabilmente è una prova ulteriore della mia genre-snobbishness

Ma forse no, aspettate. Forse per questa volta mi salvo.

Perché la faccenda funziona così: c’è una grazia sottile nella storia di Tolstoj, che manca alla Meyer. La linea di un gomito – tutto qui. Il resto è farina del sacco dello scrittore, che ha intravisto una donna in sogno e le intreccia attorno tutto un romanzo. E lo stesso vale per Stevenson, con i suoi pirati che germogliano dalle linee di una mappa immaginaria. C’è un piccolo seme caduto da chissà dove – e poi interviene l’immaginazione dello scrittore.

E se l’intenzione della Meyer era di raccontare una storia simile, ha calcolato male i suoi effetti. Perché magari è anche vero – anzi guardate: in tutta probabilità lo è. Capita. Si sognano le scene, si sognano i personaggi. Scommetto che tutti abbiamo il nostro aneddoto in proposito*. Ma il fatto che sia vero non ha nulla a che vedere con la bontà della storia. Ms. Meyer ga schiacciato un pisolo post-prandiale, ha sognato un vampiro e una ragazzotta che si dolevano della difficoltà del loro amore, si è svegliata e a scritto Twilight, che parla di un vampiro e una ragazzotta eccetera eccetera.

Piatto. Banale. Ovvio. Non dico Twilight – sì, ok, anche Twilight, ma sto parlando della storia del sogno. Un po’ di grazia, perbacco. Un po’ di mistero. Un po’ di magia della creazione – e magari vorremo essere cinici, ma poi decideremo di non esserlo, perché da qualcuno che ci offre storie, è proprio questo che vogliamo: storie. Belle storie. Buone storie. Storie ben raccontate.

Per la realtà c’è il telegiornale.

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* Qui c’è il mio: Il Giglio e la Falce l’ho concepito nel passagio pseudosotterraneo di un parco a tema (don’t ask) in Vandea.

* Qui c’è il mio: viaggiavo su un trenino locale nell’ovest della Francia. Mi sono addormentata e ho sognato questa gente che danzava in cerchio attorno a un falò. E da quel ballo all’aperto è nato Il Giglio e la Falce.

* Qui c’è il mio: durante una nottata afosissima e insonne in un piccolo albergo francese, ho cominciato a strologare sulla storia locale, e sono emersi dal nulla i quattro fratell d’Aubray, i protagonisti de Il Giglio e la Falce.

Scrivendo Scrivendo…

“Tu scrivi? Che bello. Anche a me piacerebbe tanto scrivere…”

“E allora scrivi.”

“Come? Cosa? Qui? Adesso?”

“Adesso. Qui. La storia che hai in mente da sempre – oppure la lista del droghiere. A mano o al computer, o con un chiodo intinto nel tuo sangue…”

“Ah, no, sai…” (risatina) “Non ho tempo, non sono capace, devo spazzolare il mio pastore alsaziano, non so da dove iniziare, ci vuole un sacco di tempo libero, mica a tutti riesce facile come a te…”

“Sssssssì, se ne potrebbe parlare. Ma resta il fatto che l’unico modo per scrivere è cominciare a scrivere. E leggere un sacco – cosa che avresti dovuto fare prima. E studiare la teoria – cosa che puoi cominciare a fare dopo avere provato a scrivere.”

“Eh, ma ci vuole il tempo. E soprattutto ci vuole l’ISPIRAZIONE. Mica puoi metterti lì e dire ‘adesso scrivo,’ no?”

“E invece è proprio quel che devi fare. Scrivere tutti i giorni, almeno un po’. Costruirti una disciplina. Pensa, se scrivessi 500 parole al giorno, cinque giorni la settimana, in otto mesi avresti la prima stesura di un romanzo di 80000 parol…

“Orrore! Sacrilegio! Anatema! Vade retro! Stiamo parlando di Letteratura, di Arte, mica di lavoro a cottimo! Forse così ci puoi scrivere la robaccia commerciale, ma la Scrittura vera… giammai!!!” 

E a questo punto, se non ho ancora perso del tutto la pazienza, di solito faccio notare che Stevenson scrisse Treasure Island in due settimane. E che Dickens scrisse la maggior parte dei suoi romanzi consegnando X parole una volta alla settimana… 

E che poche cose giovano alla scrittura come la pratica costante e disciplinata – e le scadenze.

Detto ciò, non è che ci si sieda lì e si scriva un romanzo ex abrupto: si va in battaglia preparati. In un mondo ideale, si predispone una mappa di quel che si vuole fare, ci si procura il grosso della documentazione che servirà, si fa conoscenza con i personaggi – e poi si scrive. Si scrive la prima stesura senza fermarsi, seguendo i piani, tenendo conto degli sviluppi inaspettati, senza preoccuparsi eccessivamente dei particolari. Per le finezze stilistiche, lo spelling esatto del nome del fabbro di spade toledano e le rime estemporanee della protagonista ci sarà tempo dopo. È a questo che servono le revisioni.

E questo genere di sistema vale anche se si ha tutto il tempo del mondo, ma tanto più se cè (o ci s’impone) una scadenza. Che devo dire? È da quando ho scoperto la genesi di Treasure Island che voglio fare qualcosa del genere. Una volta l’ho fatto con una novella – 42000 parole in una settimana – ma mai con un romanzo.

In questi giorni – dopo un anno abbondante dedicato esclusivamente al teatro – mi è tornato un gran prurito di provarci, e il merito è in buona parte di Davide Mana. Perchè Davide l’ha fatto. In sei giorni. Con tanto di incendio. Sei giorni più la vasta preparazione di cui si diceva – ma in quei sei giorni DM ha messo insieme la prima stesura di un romanzo.

Awesome.

davide mana, romanzo, sei giorni per salvare il mondo,  Qui trovate* i post in cui si narra l’impresa, moorcockianamente nomata “Sei Giorni Per Salvare Il Mondo”.

Qui invece trovate 6GpSiM – Il Manuale, ovvero la serie di articoli, note e stralci d’intervista che costituiscono la base teorica dell’esperimento.Vedrete che Stevenson non c’entra affatto.

Esperimento, gioco, duro lavoro, esplorazione della struttura, narrazione. E, più di tutto, scrittura. Quella cosa che non si fa aspettando l’Ispirazione.

Riuscite a leggere tutto ciò senza volerci provare anche voi? Io – ma forse s’era intuito – assolutamente no.

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* O almeno dovreste trovarli – perché forse non sembra, ma sto sperimentando con un genere di link che non ho mai tentato prima. Se non ci riuscite fatemi sapere, per favore, e provvederò a qualcosa di più tradizionale…

 

 

 

 

Garibaldi Il Samurai E Il Buon Re Riccardo

Ieri ho scandalizzato un anziano signore.Garibaldi, stevenson, riccardo cuor di leone, riccardo III, giovanni senzaterra, filippo II

È un indigeno, una brava persona che conosco in via molto superficiale e che, avendo udito parlare di Aninha, mi piomba qui per discuterne, rimanendo molto deluso nel sapere che si tratta non di un romanzo, ma di un lavoro teatrale – e nemmeno pubblicato.

“Però può venire a vederlo a teatro a Ostiglia l’otto marzo,” gli dico.

Lui tentenna un po’ – non è un gran frequentatore di teatri, mi spiega. Però… “Potrei anche venire. Sa, fa piacere vedere giovani che si occupano di Garibaldi come si deve. Mica come le pubblicità squallide e vergognose dei telefonini.

E io scoppio a ridere, e gli faccio notare che la campagna TIM è una delle più spassose e ironiche degli ultimi anni… Grave errore tattico.

L’Anziano Signore mi fulmina con lo sguardo e assume un colorito lievemente apoplettico.

“Ma come? Ma no! Dov’è il rispetto? Dov’è l’Unità d’Italia? E Garibaldi è un eroe – queste sono cose su cui non si scherza! Non lo sa che i Giapponesi quando parlano di Garibaldi si alzano in piedi?” E nel dirlo mima un Giapponese che si alza in piedi. “Perché per loro è un samurai, un eroe del dovere, dedito al servizio dell’imperatore… solo che invece dell’imperatore lui aveva l’Italia!”

E io potrei starmene zitta, a questo punto – e invece no.

“Ma sa,” e – sciagurata! – scrollo anche una spalla nel modo più dismissive, “il fatto è che Garibaldi non era una brava persona.”

Apriti cielo e spalancati terra! Ma come? Sono così ingenua da credere che uno possa fare l’Italia senza essere un po’ spregiudicato?

Spiego che capisco benissimo la spregiudicatezza, tanto che in fatto di Risorgimento la mia simpatia va tutta a Cavour…Ma Garibaldi aveva cominciato la carriera come disertore e ladro di bestiame (e mogli altrui), la finì abbandonando al pubblico disprezzo amici che lo avevano seguito e servito per tutta la vita, aveva idee politche allo stato gassoso e, se era un brillante guerrigliero, la sua competenza militare si esauriva lì…

E potrei continuare, ma l’Anziano Signore, con un’ultima occhiata di disgusto, gira sui tacchi, m’informa che proprio non siamo d’accordo, e se ne va convinto che sia una revisionista della specie più bieca.

Oh, non è che non lo capisca del tutto: prima della conflagrazione, parlando dei miei libri, avevo nominato Annibale, e lui aveva reagito “Ah, gli ozi di Capua…” e la mia simpatia nei suoi confronti era franata a valle. Non è mai divertente sentir denigrare l’oggetto del proprio hero worship, vero?

Resta tuttavia il fatto che per molti Anziani Signori (e non solo) Garibaldi è ancora, e sempre sarà, in sella al cavallo bianco impennato in cima al monumento, là dove lo hanno issato decenni di oleografia risorgimentale, sussidiari scolastici e diffusa convinzione.

E non è solo questione di Garibaldi, naturalmente. La storia è piena di gente santificata o demonizzata da una combinazione di propaganda, ballate popolari, letteratura e circostanze – per non parlare dell’atavica, incoercibile umana fame di eroi e di malvagi.

Per dire, il nome di Riccardo Cuor di Leone che immagine evoca in noi tutti? Quella di un cavaliere in armatura risplendente, elmo coronato e cotta da crociato, di uno dei migliori e più amati re d’Inghilterra, di un altro cavallo bianco impennato in cima a un monumento. Una volta, nella cattedrale di Rouen, dei turisti spagnoli mi chiesero a chi appartenesse la statua coronata sul sarcofago di pietra. E quando, nel mio limitato Castigliano, ebbi spiegato che si trattava del cenotafio di Riccardo, il cui cuore si trovava nella cripta, un’onda di deliziate esclamazioni  attraversò il gruppo. “Ricardo Corazòn de Leon! Que lindo!” e mi ringraziavano, come se fosse stato merito mio…

Garibaldi, stevenson, riccardo cuor di leone, riccardo III, giovanni senzaterra, filippo IIMa in realtà, Riccardo Plantageneto passò la sua prima giovinezza a cospirare ai danni di suo padre (abbandonando i suoi fratelli al loro destino quando le cose si misero male), non imparò mai l’Inglese, passò complessivamente forse un anno della sua vita nell’isola di cui era principe e poi re – ma non per questo ebbe remore a dissanguarla per finanziare la sua ossessione: una crociata che fallì (anche a causa del suo scarso riguardo per quello che oggi chiameremmo comando congiunto) e che si concluse con la sua cattura in Austria. Pare che stesse viaggiando in ingognito e che fosse riconosciuto perché insisteva per mangiare del pollo arrosto – nulla che si trovasse con facilità sulla tavola di una locanda. Leopoldo d’Austria non aveva buoni motivi per tenerlo prigioniero se non molta bile, ma chiese un esorbitante riscatto per la sua liberazione, riscatto pagato per lo più dai suoi sudditi. Se non bastasse, pur avendo sposato Berengaria di Navarra, la più bella principessa del suo tempo, la tenne sempre lontana da sé e confinata qua o là – sempre lontana dall’Inghilterra. E questo era il Buon Re Riccardo delle ballate.

Inclino a credere che Riccardo debba in origine la sua buona fama, paradossalmente, al fatto di essere sempre stato lontano dall’Inghilterra. Altri erano lasciati indietro a raccogliere le tasse e barcamenarsi in tempi complicati, e di sicuro non mancarono mai di cercare il proprio interesse. Ergo, costoro erano malvagi, e oh, se solo il Buon Re Riccardo fosse tornato a casa dai suoi affezionati sudditi! Che a Riccardo non importasse granché dei suoi sudditi, e che le tasse e l’instabilità fossero dovute in buona parte alla sua crociata e alla sua assenza, erano considerazioni secondarie – e del tutto ininfluenti agli occhi dei trovatori contemporanei e dei romanzieri ottocenteschi – come quell’efficacissimo rovinatore di reputazioni che era Scott.

Garibaldi, stevenson, riccardo cuor di leone, riccardo III, giovanni senzaterra, filippo IIPer contro, un paio di Riccardi più in qua, Riccardo Terzo ce lo immaginiamo tutti gobbo e malvagissimo – sull’onda della forza combinata di Shakespeare e Thomas More. Potenza della propaganda Tudor! Poi in realtà, in anni più recenti questo Richard ha beneficiato di un’ondata di popolarità sentimental-letteraria, a partire da Josephine Tey, dalla Ricardian Society e da tutta una popolazione di biografi e romanzieri, fino ad arrivare all’estremo opposto. Per quanto mi piaccia Richard, non sopporto i romanzi che lo dipingono come una mite e gentile vittima delle circostanze – well on his way to sainthood. Garibaldi, stevenson, riccardo cuor di leone, riccardo III, giovanni senzaterra, filippo II

Nessuno sembra avere fatto sforzi comparabili per Giovanni Senzaterra, il fratello e successore del Cuor di Leone. O meglio: qualche biografo ha fatto notare come, checché ne dicesse il solito Walter Scott, Giovanni sia stato quanto meno un buon legislatore, un riformatore e un buon generale, penalizzato dall’aver ereditato debiti enormi, molto marasma interno e una collezione di guerre costose. Sul versante narrativo, tuttavia, nulla. Non so voi (e sarei grata di eventuali segnalazioni), ma non mi viene in mente un singolo romanzo in cui John Lackland compaia altro che meschino, arrogante, codardo e generalmente spregevole. Naturalmente c’è il teatro, ma per trovare un ritratto positivo di Giovanni bisogna tornare all’era Tudor. C’è anche, semi-dimenticato, un King John di Shakespeare – che definirei tiepido nella migliore delle ipotesi.

Pensandoci, è abbastanza strano. In fondo quasi tutti, prima o poi, trovano un riabilitatore. Pensate a Filippo II di Spagna, mostro di crudeltà per Otway, St. Réal, Alfieri e legioni di altra gente affascinata dalla Leyenda Negra. Poi arriva Schiller, e a Filippo cresce un’anima. Col risultato che adesso, per lo più, consideriamo Filippo II un vilain tormentato e con la sua dose di giustificazioni.

E se qualcuno intende obiettare che forse Giovanni non era simpaticissimo di suo, posso rispondere che è possibile – ma in genere non è il tipo di considerazioni che frena poeti e romanzieri. Per restare nell’ambito della Leyenda Negra, Don Carlos era uno psicopatico che si divertiva a frustare a morte i cavalli, eppure ha trovato parecchia gente disposta a ritrarlo come uno sventurato e attraente giovanotto – un nonnulla instabile forse, ma per eccesso di sensibilità e maltrattamenti ricevuti. Questi apologeti erano dapprima propagandisti protestanti e antispagnoli, cui serviva una vittima innocente e simpatica, martirizzata dal nigerrimo Filippo. E quando poi arrivarono playwrights e romanzieri, la storia era già solidificata e buona per il teatro, con i suoi Buoni e i suoi Malvagi – almeno fino a Schiller.

Un caso un po’ diverso è quello di Alan Breck Stewart, personaggio minore che più minore non si può, e decisamente poco simpatico. È vero che era un Giacobita – specie rappresentata in letteratura in varie sfumature dal fanatico pericoloso al vago e inefficace* – ma resta il fatto che persino i suoi compagni d’armi, correligionari e consanguinei lo descrivevano con scarso affetto. Poi arriva Stevenson e lo trasforma nell’irresistibile personaggio che sappiamo – e conosciamo e amiamo. A chi importa veramente che l’Alan storico fosse, a detta del suo padre adottivo, “uno sciocco violento e pericoloso”? Un altro caso di fama postuma e immeritata – molto più postuma ma altrettanto immeritata di quella di Riccardo Cuor di Leone, solo che le motivazioni di Stevenson erano molto più narrative che storiche.

D’altra parte credo che storia e storytelling si allaccino sempre inestricabilmente in questo genere di reputazioni. Riccardo III è stato sconfitto, Giovanni Senzaterra non può competere con l’aura di suo fratello, Filippo si è parzialmente salvato perché nessuno scrittore ha saputo rendere Carletto abbastanza interessante, e tutto ciò costituisce gioia e pascolo per i romanzieri storici presenti e futuri.

Templari: vittime o carnefici? I Cecil: pilastri della patria o arrampicatori? Roger de la Flor: cavaliere senza macchia e senza paura o perfido mercenario? John Dee: visionario o ciarlatano? Mehmed II: illuminato consquistatore o tiranno mezzo matto?…

Se lo chiedete a me, credo che il romanzo storico, come genere, abbia di che prosperare – con l’abbondanza di gente da riabilitare, gente da annerire, punti di vista da esplorare, idee acquisite da ribaltare. E c’è spazio di manovra per fare tutto ciò in più di un modo, tenendo conto delle sfumature di grigio oppure recuperando il buon vecchio manicheismo narrativo, perché sospetto che ci siano in giro un sacco di lettori come l’Anziano Signore – gente che vuole i suoi eroi saldamente in sella al cavallo bianco, e i malvagi ammantellati di nero e cachinnanti nell’ombra.

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* Una volta di più, Sir Walter Scott aveva messo mano alla faccenda…

Adozioni Giacobite

Ricordate Adotta Una Parola? Ne avevamo già parlato, ma la trovo un’iniziativa meritoria e divertente – e mi auguro che abbia anche qualche efficacia pratica.

società dante alighieri, adotta una parola, giacobita, stevenson, henry jamesAvevo già adottato qualche mese fa una famigliolina di parole, ma, trovandomi a passare di nuovo per il sito in questione, ho pensato di bene di adottare anche Giacobita, e ne vedete il risultato.

Ora, veniamo al mio nuovo figliolino adottivo.

Secondo il buon Treccani*:

giacobita (1) agg. e s.m. [dal lat. mediev. Iacobita] (pl.m. -i) – Che si riferisce alla Chiesa monofisita di Siria, fondata da Giacobbe (lat. Iacob) Baradeo alla metà del sec. 6°, la cui teologia e liturgia è essenzialmente i tipo greco-ortodosso. Come s.m., per lo più nel plur. giacobiti, denominazione dei seguaci della Chiesa giacobita, che sostenevano il monofisismo cosiddetto verbale o moderato, in contrapposizione al Concilio di Calcedonia da loro accusato di nestorianesimo, e che attualmente sopravvivono in gruppi isolati, soprattutto in Siria e in Turchia.

giacobita (2) s.m. e f. [dall’ingl. Jacobite, der. del lat. tardo Iacobus “Giacomo”] (pl. m. -i). – Nome con cui furono indicati, dopo la rivoluzione inglese del 1688-89, i fautori del re esiliato Giacomo II e i suoi discendenti, esteso poi a designare i fautori dei descendenti di Carlo I, della famiglia Stuart.

Allora, in primo luogo il significato (1) è un esempio di un motivo secondario per cui questa iniziativa è meritoria. La parola e io ci conosciamo da una ventina d’anni, ma nella mia anglomania non ero mai andata oltre il significato (2). Per cui adesso so che i giacobiti sono anche una varietà siriana di monofisiti, e questa microsemiepifania linguistica è cosa buona e giusta.

In secondo luogo, mi tremano le ginocchia a dubitare della competenza grammaticale del Treccani, ma non posso fare a meno di domandarmi se davvero il significato (2) esista solo in forma di sostantivo. Ma allora, quando traduco Jacobite Risings come “sollevazioni giacobite” sto solo aggettivando un sostantivo? E se l’Italiano si è disturbato ad assorbire il sostantivo, perché non l’aggettivo? Mah. Però questo paragrafo l’ho scritto timidamente e in corpo 12, perché il Treccani è il Treccani e – worst of all – sono del tutto intenzionata a usare l’aggettivo**.

In terzo luogo, mi confesso colpevole di qualcosa che forse è un altro peccato linguistico. Non so se questo ricada sotto la voce “uso improprio della parola”, ovvero qualcosa che mi sono impegnata a scongiurare adottandola, ma mi sto persuadendo a usare Giacobita come traduzione di Jacobean – con riferimento al regno di Giacomo VI e I… Probabilmente non è del tutto esatto, ma pebacco, non so proprio indurmi a tradurre Jacobean con Giacobino, e i dizionari non sono di grande aiuto. Persino lo Hazon, di solito così affidabile e ricco, offre in tutto e per tutto “relativo al regno di Giacomo VI e I.” Why, thanks! E allora, a Jacobean tragedy diventa una tragedia del periodo di Giacomo VI e I? Ma ditemi voi…

E poi lasciate che vi racconti della mia plurilustrale amicizia con il significato (2).

Edimburgo, agosto 1994. Per la seconda volta sono stata spedita a trascorrere un mese in famiglia nella verde Scozia, ma stavolta mi è andata così così. La padrona di casa è una signora anziana e ciarliera provvista di un King Charles Cavalier grassissimo e sbavante e di un’incoercibile passione per Doctor Quinn, Medicine Woman. Sono pienamente intenzionata a passare fuori casa più tempo che sia possibile, ma da un lato piove sempre, e dall’altro non posso fare gran conto sulla scuola. La mia amata, minuscola e ottima scuola è fallita e, mi si dice, i due fratelli che la gestivano sono fuggiti sul Continente, dove pare che lavorino come cuochi. Così sono finita in una scuola più grande, più centrale e affollata di Italiani. Nel giro di due giorni mi hanno spostata dal corso base a quello intermedio a quello avanzato, e così adesso il mio vicino di banco è un professore di Lettere delle medie impervio alla distinzione tra complemento di causa efficiente e complemento di provenienza (in Italiano). Cercherei di sfruttare al massimo il Festival, ma l’ho detto che piove sempre? E un sacco di eventi pomeridiani sono all’aperto. Morale: nel giro di due giorni ho il raffreddore del secolo, detesto la scuola e voglio tornare a casa… E allora applico il metodo abituale per i momenti di spleen: entro in una libreria e comincio a razzolare. Me ne esco con una piccola copia di Kidnapped, di R.L. Stevenson (copertina rigida blu con impressioni stevenson, giacobitavagamente dorate, pagine grigioline e caratteri concertati, ne sono certa, con l’ordine degli oculisti), mi arrampico verso la città vecchia, mi infilo in una tea-room, ordino tè con gli scones e comincio a leggere…

Vabbe’, ho parlato abbondantemente altrove della mia predilezione per Alan Breck Stewart, per cui ve la farò breve. Nel giro di una settimana avevo divorato Kidnapped e il suo seguito Catriona, nonché una storia della Scozia di Nigel Tranter, avevo visitato le mostre Stevensoniane alla National Library e al Royal Museum e avevo lottato duramente nel vano tentativo di procurarmi un biglietto per l’adattamento teatrale di Kidnapped… E intanto avevo scoperto l’esistenza dei Giacobiti e dei loro ripetuti e sfortunati tentativi di ripiazzare sul trono gli Stewart giusti…

la dante, adotta una parola, bonnie prince charlie, sollevazioni giacobiteOra, non dico che gli Stewart fossero necessariamente dei buoni sovrani e meritassero tanta irragionevole lealtà, ma se c’è qualcosa che mi scioglie sono le cause perdute e, in generale, tutta la gente che si aggrappa oltre ogni buon senso e senza speranza di successo a qualche vecchio mondo tramontato. And Jacobites fit the bill with a vengeance, con le loro malguidate sollevazioni, nel 1716 e nel 1745, annegate nel sangue, nella scarsa competenza e nelle discordie tra clan.

Una volta tornata in patria, in era pre-internet, avevo preso l’abitudine di piombare su librai e bibliotecari ignari chiedendo “qualcosa sulle sollevazioni giacobite.”

“Vuol dire giacobine…” Era la risposta standard e, inutile dirlo, non ho mai trovato nulla di più di qualche lemma stringato su qualche vecchia enciclopedia, perché i Jacobite Risings sono uno di quegli episodi di cui non importa granché a nessuno. Poi ho fatto il mio anno Erasmus a Cardiff, poi sono stata iniziata al fatto che Sir Walter Scott non ha scritto soltanto Ivanhoe***, poi ho scoperto le meraviglie di Internet, per cui adesso ho letto quanto volevo sui Giacobiti, compresi gli aspetti meno attraenti delle loro sollevazioni, dei loro metodi, dei loro sovrani oltre il mare, delle loro beghe e delle loro stupidità. So anche che l’Alan Breck Stewart storico era in realtà un pessimo soggetto senza un briciolo del fascino che Stevenson gli ha ricamato attorno.

Eppure la mia idea di giacobita resta legata all’incontro con un libro e un personaggio – un’immagine pittoresca e romantica, vagamente imparentata con la realtà, ma abbastanza vivida da farmi adottare una parola a quasi vent’anni di distanza, ed è tutta colpa di Stevenson. Ah, che cosa non riesce a fare uno scrittore, vero?

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* In realtà del Dizionario Enciclopedico Treccani ho una gran paura, e lo sfoglio sempre come se potesse attaccarmi, perché è illustrato e cosparso a tradimento di enormi fotografie e dettagliatissimi disegni di r. I r. sono le orribili creature con otto zampe che fanno le r.tele, e sono afflitta da una seria aracnofobia, per cui…

** Lettore che passa di qui e tralegge la bozza da sopra la mia spalla: “Sì, perché invece di solito sei linguisticamente timida, vero? Una glottomammoletta!” (collassa in un convulso di cachinni)

*** Se dovessi consigliare un titolo, consiglierei Waverley, ambientato nel corso della II Sollevazione.

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