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Lug 9, 2012 - libri, libri e libri    5 Comments

Storie Di Mare

storie di mare, musei della navigazione, tall ships races, patrick o'brian, c. s. forester, william golding, joseph conradPer lunghi anni ho organizzato le vacanze del mio gruppetto*. Si trattava sempre di quattro o cinque giorni in una città europea, e io cercavo voli, prenotavo alberghi, mi documentavo e strologavo il programma.

In cambio, avevo il tacito permesso di infilare infallibilmente tra i luoghi da visitarsi un museo della navigazione. I miei travelmates levavano un pochino gli occhi al cielo, ma nel complesso non obiettavano troppo a lasciarsi trascinare per un pomeriggio o una mattinata tra carte nautiche, modelli di cocche medievali e diagrammi di alberature. Incidentalmente, vi posso consigliare con calore una visita ai meravigliosi Drassanes Reials di Barcellona e un’occhiatina a una tappa qualsiasi delle Tall Ships Races** – ma non divaghiamo. 

Dovete sapere che anche ad Amsterdam dirottai le mie truppe allo Nederlands Scheepvaartmuseum, museo della navigazione allestito nel vecchio arsenale, con la riproduzione di un galeone settecentesco nella darsena. Un galeone della Compagnia delle Indie Orientali. In scala poco meno che 1:1. Non so se rendo l’idea. E così andammo, visitammo debitamente sale su sale di atlanti, dipinti, mappe, sestanti e tutto quanto, poi scendemmo alla darsena e salimmo a bordo dell’Amsterdam. Ci arrampicammo sul ponte popolato di figuranti in costume attraverso una passerella singolarmente poco solida. E anche il ponte, a dover essere sinceri, non dava una sensazione di straordinaria saldezza. Mi si disse che avevo un colorito verdognolo. Ero certa di stare bene? Risposi “sciocchezze” e feci strada con tutto l’entusiasmo di cui ero capace. Ci infilammo nel castello di poppa e negli alloggi del capitano e io feci per rivolgermi al travelmate più prossimo per chiedere “Volete suonare con me, Jack, vecchio mio?”*** Invece chiusi la bocca, infilai il boccaporto più vicino, tornai sul ponte, sbarcai e fuggii nel primo bagno disponibile – lieta di essere riuscita a non vomitare nella darsena… 

Capirete che, dopo essere stata male su un veliero ormeggiato in una darsena, il mio standing marinaro era franato un pochino a valle…

Perché la triste verità è che basta un materassino per mettermi fuori combattimento, e non potrò mai navigare altro che per sale di musei o sulla carta. Triste, vero?

La consolazione è che la navigazione sulla carta consente delle soddisfazioni, grazie a una solida tradizione narrativa di avventure di mare – soprattutto in ambito anglosassone.****E difatti, abbiate pazienza, per oggi ci occuperemo di autori inglesi.

È possibile che l’autore nautico più conosciuto dalle nostre parti sia Patrick O’Brian, con le storie di Jack Aubrey e Stephen Maturin. Probabilmente avete visto il film (che a mio timido avviso è un gran bel film), ma sappiate che alla base ci sono ventuno romanzoni ambientati tra il 1800 e il 1815, pittoreschi e avventurosi, con una voce narrante e dialoghi alquanto period, una vasta quantità di termini nautici e due protagonisti ben scritti. Jack Aubrey è un ufficiale che fa carriera nella Royal Navy, da capitano di prima nomina a reatroammiraglio, e Maturin è il suo grande amico irlandese, chirurgo di bordo, naturalista e agente segreto. Battaglie, tempeste, agguati, amori, traversate oceaniche, spionaggio, inseguimenti nella nebbia, imboscate, tradimenti, ogni possibile angolo dell’orbe terraqueo – e un affascinante senso del carattere individuale delle navi a vela e del multiforme talento necessario a capirne e condurne una. Qui trovate tutto quanto di tradotto, e qui in originale. 

Qualcosa di precedente (e in tutta probabilità un’ispirazione per O’Brian) è la non del tutto dissimile vicenda di Horatio Hornblower. Dodici romanzi, una carriera da guardiamarina a retroammiraglio e un protagonista del tutto diverso. Quanto Jack Aubrey è gioviale, socievole, rumoroso e sicuro di sé, tanto Hornblower è depressivo, complicato, rimuginatore e solitario. Per tutta la sua folgorante carriera non fa altro che dubitare delle sue (notevoli) capacità e considerarsi un codardo sleale e disonesto. Tutti adorano Hornblower tranne Hornblower. Se siete incuriositi da questa bizzarria ornitologica – l’eroe onnicompetente***** che si considera un disastro – cercate qui, in Italiano e in originale.

E poi c’è La Trilogia del Mare di William Golding, forse meno avventurosa e di certo meno conosciuta – e letterariamente superiore. Siamo di nuovo ai primi dell’Ottocento, ma la marina napoleonica se ne resta ben lontana dalla rotta del Britannia, un vecchio vascello da guerra diretto in Australia con un carico di passeggeri destinati alla colonia. Il narratore è il giovane Edmund Talbot, diretto a un promettente incarico di civil servant, e incaricato dall’aristocratico parente che lo ha raccomandato di tenere un diario della traversata. La forma dunque è diaristica, la narrazione in prima persona e la voce period – e però non lasciatevi ingannare dal carattere quasi austenesco della prima cinquantina di pagine del primo volume Riti di Passaggio: Golding è Golding, e il Britannia è il malandato guscio di un microcosmo sociale alla deriva. Non in senso letterale, si capisce, ma questa Inghilterra in miniatura che galleggia sulla via degli Antipodi ha le sue classi sociali e le sue ingiustizie, e un carico di ferocia che l’isolamento finirà col rendere esplosivo – mentre Edmund matura. Può non significare molto, ma a suo tempo ho letto i tre volumi in tre giorni e tre notti successive. Sia che vogliate ripetere l’esperimento, sia che vogliate tenere ritmi più sani, qui trovate la traduzione e qui una varietà di edizioni in originale.

E per finire Conrad. Lo sapevate che ci saremmo arrivati, ma per una volta (gasp!) non parliamo di Lord Jim. Parliamo invece di tre romanzi decisamente marittimi: la società in miniatura in circostanze eccezionali de Il Negro del Narcissus, l’eccitante battaglia tra l’uomo e la natura di Tifone e il coming-of-age tra l’autobiografico e il simbolico de La Linea d’Ombra. E a dire il vero, anche solo leggendo questo piccolo elenco tematico, viene da pensare che Golding abbia avuto in mente questi tre titoli conradiani nell’ideare la sua trilogia. Dopodiché, trattandosi di Conrad, si sa che cosa aspettarsi in fatto di scavo psicologico, complessità generale e mare ostile, magnifico e terrificante. Trovate le traduzioni rispettivamente qui, qui e qui. Gli originali invece li trovate nella pagina conradiana del Project Gutenberg.

Ecco qui. Non è che non ci sia altro – anzi. Ma qui c’è di che cominciare. Di che farsi, come dicono nei romanzi qui sopra, one’s sea legs.

Felice navigazione.

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* Il tono leggermente nostalgico di questo incipit deriva dal fatto che erano bei tempi, e che da tre anni non faccio un giorno di vacanza…

** Elenco delle tappe 2012, casomai vi trovaste nei paraggi:

Race One starts in Saint Malo (France) (Thursday 5 July to Sunday 8 July) to Lisbon (Portugal) (Saturday 19 July to Sun 22 July).

Race Two is from Lisbon to Cadiz (Spain) (Thursday 26 July to Sunday 29 July).

Cruise in company to La Coruña (Spain) (Friday 10 August to Monday 13 August).

Race Three from A Coruña to Dublin (Ireland) (Thursday 23 August to Sunday 26

The multi-national fleet will race from Dublin across the Irish Sea and dock in Liverpool from Thursday August 30 for a four-day event running until Sunday September 2.

*** Sì, lo so: nave sbagliata, flotta sbagliata, gente sbagliata, lato della Manica sbagliato, secolo sbagliato… non sottilizzate. Oltretutto, sono stata punita.

**** Sorpresa!!!

***** È il migliore del suo corso, ha una buona educazione classica, è un poliglotta astuto, pieno di talento militare e navale, un leader nato, un ottimo matematico e vince sempre a whist perché ricorda tutte le carte. Però è stonato come una campana e privo di qualsiasi grazia sociale.

Non Negoziabile

Qualche giorno fa leggo questo post di Marta Manfioletti a proposito de L’inconfondibile tristezza della torta al limone, di Aimee Bender. Ho fiducia nel giudizio di Marta e la sua non-recensione mi attira parecchio, e l’idea del libro (l’esistenza di individui capaci di “sentire” in un dolce o in un arrosto lo stato d’animo di chi li ha cucinati) mi piace molto.

Così apro Amazon nell’intento di procurarmi l’ebook e, per abitudine, butto un’occhiata alle recensioni .

E quello che scopro sgonfia un nonnulla il mio entusiasmo. Le recensioni positive concordano tutte con Marta sulla delicatezza e originalità della storia, mentre le (non poche) recensioni negative sono costanti nell’elencare una collezione di doléances: una trama inconsistente e prona a partire per dubbie tangenti, personaggi poco sviluppati, un finale che non risolve nulla e una generale bizzarria a costante rischio di scadere nel gratuito. Più la mancanza di segni grafici per i dialoghi e costruzioni grammaticali, di nuovo, bizzarre.

Si fosse trattato di lamentele isolate, probabilmente non mi sarei lasciata impressionare, ma sono costanti e diffuse. E mi hanno dato da pensare, perché almeno un paio ricadono nell’elenco delle mie Irrinunciabilità, vale a dire faccende in assenza delle quali non riesco a considerare  una storia una storia.

Non parlo di irritazioni generiche – categoria in cui potrei infilare vezzi stilistici come i dialoghi “non segnati” e la grammatica fanciullesca. Non amo alla follia questo genere di quirks, ma sono aperta alle possibilità: avanti, raccontami una storia. Vuoi farlo senza virgolette e con una grammatica tutta tua? Ok, proviamoci. Vediamo se funziona, se mi ci fai sentire una voce, se crei un passo, se mi manipoli tanto bene da farmi dimenticare che lo stai facendo…

E non parlo nemmeno di peccati più gravi, come i finali laschi. È ovvio che preferisco un bel finale soddisfacente, teso e significativo, ma mi sono scoperta un margine di tolleranza largo come il Rio delle Amazzoni, se il resto del libro mi è piaciuto davvero. Magari mi rendono un tantino idrofoba i finali dei primi volumi delle qualcosalogie, quelli che non fingono nemmeno di offrire un’ombra di conclusione e appendono il lettore senza complimenti alla costa hardback del volume successivo – ma è un difetto che pur irritante, da solo non basta a farmi cancellare la qualcosalogia dalla ToReadList.

Un po’ peggio è la questione dei personaggi caratterizzati approssimativamente. In un mondo ideale, tutti i personaggi dovrebbero essere complessi, tridimensionali, pieni di ombre e capaci di evoluzione e di imprevedibilità… poi in realtà ci sono casi in cui il genere o la funzione richiedono figure facilmente individuabili, gente che faccia quel che deve fare e da cui sapere che cosa aspettarsi. Quindi anche qui, seppur con molta più cautela, ammetto la possibilità di eccezioni.

Anche in fatto di bizzarria I’m of two minds. Se parliamo di nonsense, per me non è mai troppo. Se parliamo di realismo magico (coperta molto ampia), dipende assai. Tutto dipende da quanto l’autore sa essere coerente all’interno della sua bizzarria… E temo che a questo punto un peccato capitale abbia l’aria di trasparire dalle recensioni della Torta al limone: una certa dose di gratuità e incoerenza. E invece proprio una salda logica interna è una delle mie Irrinunciabilità. Posso ingoiare intere molte eccentricità, a patto che siano coerenti tra di loro. Che non siano gratuite o puramente decorative. Che lavorino in una direzione – fosse pure quella di farmi credere che non ci sia nessuna direzione particolare.

Anche se poi una direzione ci dev’essere – e qui giungiamo all’Irrinunciabilità n° 2. Perché, come ognun sa, sono ossessionata dalla fabula. Non solo le storie mi piacciono con un arco provvisto di inizio, mezzo e fine, in cui le cose succedono, gli equilibri cambiano e i personaggi imparano la lezione, o pagano il prezzo per non averla saputa imparare – ma non sono del tutto capace di considerare storie gli arnesi che non contengono questa serie di elementi. Narrow-minded of me, può darsi, ma tant’è. E Marta stessa, pur nel suo entusiasmo, parla della Torta al limone in termini di “pacatssimo ritmo degli eventi” e di “libro in cui non sembra succedere niente”. Hm… 

Il fatto è che devo, devo, devo avere l’impressione che l’autore sappia quello che sta facendo – e forse questa, più che una Irrinunciabilità distinta, è la terrina color ocra in cui tutte (tranne una) sono contenute. Perché è ovvio che sono disposta a sospendere la mia incredulità tanto in alto quanto è possibile, ed è ovvio che sono più che disposta a lasciarmi condurre attorno – se non lo fossi, non leggerei romanzi – ma, per quanti principi infranga, per quante stranezze inanelli, per quante delle mie allergie solletichi, un autore può tenermi a bordo finché mi dà l’impressione di farlo deliberatamente. Nel momento in cui mi pare che non abbia controllo e discernimento di quel che fa, voglio scendere subito, thank you very much.

Col che è possibile che siamo passati oltre la Torta al limone – magari Aimee Bender fa tutto tanto deliberatamente quanto è possibile e non ci si sente  mai in balia della vaghezza narrativa. E di sicuro – non foss’altro che per impossibilità di genere – non è colpevole agli effetti della Quarta Irrinunciabilità. Sapete già di che si tratta, perché ne parlo con ricorrenza ossessiva: l’anacronismo psicologico, ovvero personaggio nominalmente d’altri secoli che pensa, agisce, sente e giudica come un contemporaneo. È una patologia che conosce i suoi estremi nella Sindrome della Bambinaia Francese: i Buoni sono tutti anacronismi psicologici, incompresi, osteggiati e perseguitati dagli stupidi, malvagi e retrivi personaggi coerenti con la mentalità period. E qui davvero non c’è salvezza: delitto capitale quando è involontario, piucchecapitale se è praticato deliberatamente.

Nondimeno, come dicevo, ho fiducia nel giudizio di Marta, per cui l’ebook l’ho comprato lo stesso e lo leggerò – e magari avrò modo di ricredermi, nonostante le recensioni su Amazon – perché in fatto di letture il livello di non-negoziabilità è personalissimo.

Qual è il vostro, per esempio? Su che cosa non sapete transigere in fatto di letture? Per quali libri avete fatto eccezioni di cui non vi credevate capaci? E cosa vi ha spinto a farle?

Il Figlio Del Fattore

Una decina di anni fa, dopo avere letto il primo volume della mia inedita trilogia sulle guerre di Vandea, P. mi fece una lunga e dettagliata disamina del tomo, nel bene e nel male. “Oh,” mi disse a un certo punto, “e non sai quanto mi è dispiaciuto per il figlio del fattore.”

 Se aveva voluto basirmi, c’era riuscita. Il romanzo sfiora le duecentocinquantamila parole e l’elenco dei suoi personaggi somiglia all’anagrafe di un piccolo comune. Francamente, pur avendo finito di scrivere il tutto da pochi mesi, non mi ricordavo nemmeno io chi fosse il figlio del fattore, e che cosa gli succedesse per far dispiacere P. Presumibilmente ci lasciava le penne, dato il tipo di storia e di ambientazione, ma non ne ero per niente sicura, e lo dissi.

 P. scrollò le spalle. Non sapeva che cosa farci se ero un essere senza cuore che creava gente e la mandava al macello senza nemmeno ricordarsene: a lei il figlio del fattore piaceva, e aveva anche versato una lacrimuccia o due sulla sua sorte.

 “Non si può negare che tu l’abbia letto approfonditamente,” dissi, e la cosa finì lì. Tuttavia, ogni tanto ancora mi chiedo che cosa avesse il figlio del fattore per imprimersi così nella mente di P., che ancora si ricorda di lui.

 E d’altra parte, chi ero io per protestare, considerando la collezione di personaggi minori – minorissimi a cui mi capita di affezionarmi al di là delle intenzioni dell’autore? Non posso nemmeno dire che siano casi isolati: lo faccio tutto il tempo, tanto da poter individuare alcune categorie del fenomeno:

 1) Felice Cammeo: ne Il Discepolo del Diavolo, di George Bernard Shaw, il Maggiore Swindon (credo che ne abbiamo parlato di recente) è quel che si dice un bit-parter. Credo che abbia una ventina di battute, nessuna delle quali troppo notevole. Swindon è un magistrato militare coscienzioso e non brillantissimo, che cerca di restare inglesemente inglese mentre le colonie delle Indie Occidentali gli crollano attorno. Non è importante, non è nemmeno molto simpatico, ma è così ben caratterizzato che è difficile non dispiacersi un pochino per lui mentre gli altri personaggi fanno dello spirito ai suoi danni e su tutto quello che per lui è sacrosanto. Pennellata minore e ben riuscita.

 2) Sidekick Sottoutilizzato: ho difficoltà a identificarmi con i protagonisti senza macchia e senza paura, che ci posso fare? Non ricordo chi fosse l’autore delle Avventure di Robin Hood che ho letto da ragazzina, ma l’allegro brigante era così longanime, saggio, pio, nobile e retto che lo Sceriffo di Nottingham non aveva tutti i torti nel volerlo eliminare. In compenso c’era Guglielmo il Rosso, SIC dai tratti promettenti, intelligente ma avventato, leale ma riluttante a morire impiccato. Poteva essere più complesso del suo capo, ma no: l’autore era così intento a cantare le lodi del buon Robin che Guglielmo era relegato a praticamente nulla… Venticinque anni dopo, la faccenda mi rode ancora.

 3) What’s In A Name: questa non mi aspetto che la prendiate come una prova di salute mentale, ma tant’è. Credo di essermi già dilungata sul fascino che i nomi esercitano su di me, e a volte un nome che mi piace è sufficiente a farmi sviluppare una predilezione per un personaggio. È il caso (non ridete!) di Jean de Satigny ne La Casa Degli Spiriti. Ero molto decisa a simpatizzare con lui per l’ottimo e profondo motivo che si chiamava Jean, capite? Va detto che questo è un caso estremo, perché non c’era un’anima che mi piacesse in tutto il libro, e perché la predilezione era singolarmente ingiustificata.

 4) Questione Di Tema: ne La Pazzia di Re Giorgio, di Alan Bennet, il giovane Greville è l’unico tra gli scudieri reali a mostrare compassione per il vecchio re malato e, di conseguenza, è l’unico che viene licenziato a guarigione avvenuta, perché non c’è nulla di grave come avere pietà dei re. LPdRG è una faccenda popolata di personaggi scritti divinamente, ma l’idea che la gratitudine dei re funzioni in modo diverso da quella dei comuni mortali e la lealtà mal ricompensata sono temi che mi affascinano, hence la mia perdurante predilezione per il povero Greville.

 5) Carne Da Cannone: è vero che sono passati più di vent’anni, ma di tutta la multilogia di Shannara mi ricordo vividamente solo un capitano della guardia elfica che cadeva da un ponte (per non ricomparire più) all’inizio di non so più quale volume. Dite che sia molto grave? Forse Brooks lo aveva caratterizzato un pochino troppo, visto che era così spendibile… Ripensandoci, ricordo anche di essermi lamentata in proposito con la compagna di banco che mi aveva prestato il libro, ottenendone in cambio uno scrollar di spalle e un levar di sopracciglia simili ai miei di fronte a P. e al suo figlio del fattore.

6) Carne Da Cannone II (o The Early Victim): la situazione non è sempre infelice come al n° 5. In Se Morisse Mio Marito di Agatha Christie, Donald Ross è un giovane attore scozzese, abbastanza sveglio da notare cose che non dovrebbe notare – mettendo in pericolo l’assassino. Si capisce che non vive abbastanza a lungo per mettere Poirot a parte dei suoi dubbi, ma fa in tempo ad allertarlo sul fatto che qualcosa non va. È solo un bit parter in mezzo a una congerie di ottimi personaggi, ma resta il fatto che, tecnicamente, è lui a capire tutto – la prende nelle costole. È concesso simpatizzare, non credete?

 Esperienze simili, anyone? Altre categorie da suggerire? E, già che ci siamo, P., dimmi la verità: in quale categoria piazzi il figlio del fattore?

Avventure Estive

“Che cosa leggo quest’estate?” domanda G. “Perché giovedì è estate, non so se l’hai notato. E sono in cerca di letture… boh, non so: estive.”

Estate, sì. E letture estive. Ora, che cosas intendereste voi per letture estive? Per me la categoria indica non tanto il genere di libro che ci si porta in vacanza, quanto quello che, in qualche modo, costituisce una specie di vacanza di per sé. Cose gaiamente avventurose, improbabili e divertenti che paiono narrate in technicolor.

O almeno, questa è la mia idea di “letture estive”, e mentre G. formulava la sua richiesta, avevo già in mente una manciatina di autori e titoli: vecchie e allegre avventure historical – perché sapete che da queste parti è così che siamo malati.

Solo che poi mi è venuto l’uzzolo di farci un post, e di controllare come, dove e in che misura le mie vecchie e allegre avventure fossero reperibili. E la malinconica realtà è che in italia delle mie vecchie e allegre avventure non si trova granché… Per cui questo post sarà un esercizio un po’ così, un peana sciolto al Project Gutenberg e al prestito interbibliotecario – oltre che alla lettura in lingua originale.

rafael sabatini, bardelys, letture estive, project gutenbergE allora per esempio cominciamo con Rafael Sabatini, un autore italo-inglese, figlio di cantanti d’opera, poliglotta e prolifico. Nel corso della prima metà del Novecento scrisse una trentina di romanzi i cui protagonisti, tra la Francia rivoluzionaria, i Caraibi, l’Italia del Rinascimento e altri posti tanto pittoreschi quanto pericolosi, navigano, duellano, cercano vendetta, conquistano fanciulle, corrono pericoli tremendi e se la cavano sempre per il rotto della cuffia grazie a una combinazione di audacia, wit, spudoratezza e fascino. Swashbucklers per eccellenza. È probabile che abbiate sentito parlare almeno di Captain Blood e Scaramouche dai quali sono stati tratti film con un certo entusiasmo fino agli Anni Cinquanta. Ma anche l’elisabettian-navale The Sea Hawk, il secentesco Bardelys francese, o l’astuto Bellarion che se la cava nel turbolento Cinquecento italiano… rafael sabatini, captain blood, letture estive, project gutenberg

E volendo ci sono anche le Notti Storiche – Historical Nights’ Entertainment – storie non particolarmente romanzate di delitti e tradimenti, dall’assassinio di David Riccio/Rizzio alle vicende di Antonio Perez, più una biografia di Cesare Borgia e una di Torquemada.

Se voleste leggere un po’ di Sabatini, dovreste armarvi di pazienza. In Italiano potete trovare un po’ di vecchie edizioni – Sonzogno, Salani e poco di più – ma, per quel che ne so, nulla di più recente degli Anni Settanta. Qualche biblioteca* le tiene ancora. Potete cercare qui e poi dedicarvi alle gioie del prestito interbibliotecario – strumento che tende a ragionare con ragionevole efficienza e ad essere trascurato. In alternativa, potete provare con l’originale**, e allora trovate un bel po’ di titoli nella pagina rilevante del Project Gutenberg. Se poi foste curiosi, su Internet Archive trovate un sacco di vecchie edizioni scannerizzate – alcune delle quali illustrate.

emmuska orczy, la primula rossa, letture estive, project gutenbergPoi (o meglio, prima) c’è la Baronessa Orczy, quella della Primula Rossa. La signora è romanzesca di suo – nobildonna ungherese di molti talenti, emigrée a Londra, sposa uno squattrinato illustratore e traduttore indigeno e, per contribuire al bilancio famigliare, comincia a scrivere teatro e avventurone, si arrampica laboriosamente al successo e ci riesce così bene che il nome del suo personaggio più celebre diventa un modo di dire. In realtà Emmuska scrisse una cinquantina di romanzi, varie raccolte di racconti e una manciata di commedie, ambientate in qualsiasi periodo storico le sembrasse attraente, ma è conosciuta più di tutto per Sir Percy Blakeney, sorta di ur-Zorro o ur-Batman: un vacuo dandy Reggenza che in gran segreto si trasforma in audace salvatore di ghigliottinandi. Magari avete visto il vecchio film con Leslie Howard che spiazza i malvagi componendo inane doggerel a proposito del suo doppio mascherato… 

E se voleste leggere? Tutto come sopra, ahimé. Potete navigare un po’ per biblioteche a caccia delle vecchie edizioni Salani o Sonzogno (con l’occasionale ristampa più recente), oppure potete andare direttamente al Project Gutenberg senza passare dal Via. E a parte la Primula, posso confessarmi attratta dal Puritani-Cavaliers The nest Of The Sparrohawk, e dal post-giacobita Beau Brocade?***arthur conan doyle, le avventure di gerard, letture estive, project gutenberg

E per finire, lo sapevate che Arthur Conan Doyle, quando le faccende di Holmes gliene lasciavano il tempo e quando non era impegnato a fotografare le fate, scriveva anche romanzi storici? Magari non erano tutte meraviglie, ma Gerard… ah, Gerard! Un ussaro napoleonico che fa carriera tra Saragozza e la Russia e, una volta invecchiato, racconta le sue notevoli avventure in un Inglese spolverato di modi idiomatici francesi e irlandesitudini assortite. Fiammeggiante, inaffidabile, iperbolico e con un’ottima opinione di se stesso, Gerard è una voce narrante irresistibile.

Leggere le sue storie è un po’ più facile, visto che Rizzoli, Fabbri, Mondadori e Donzelli ogni tanto le ripubblicano – talvolta nelle collane per fanciulli, ma fa nulla. Con un po’ di fortuna, l’edizione Donzelli del 2009 o fors’anche la Fabbri del 2002 potreste trovarle ancora in catalogo, e sennò ci sono le biblioteche. In fatto di originali, al PG trovate The Exploits of Brigadier Gerard, The Adventures of Gerard e il romanzo breve Uncle Bernac. E vi dirò di più: Gerard non ha nulla a che fare con il suo omonimo storico, quell’Etienne Gérard che fu Maresciallo di Francia, ma in compenso è parzialmente ispirato a Jean Baptiste de Marbot, cavalleggero, fido aiutante di campo di Lannes e acuto memorialista delle guerre napoleoniche****. E i suoi Mémoirs sono una gradevolissima lettura a loro volta. Qui li trovate nel corposo originale francese e in una versione ridotta inglese.

Ecco qui. Letture estive. Spensierate avventurone concepite, tutto sommato, come un lungo pomeriggio di make-believe. Non facilissime da trovare, riconosco, ma mettiamola così: lungi dal limitarsi ai nudi consigli di lettura, questo post incorpora una caccia al tesoro tra biblioteche e bancarelle di libri usati. E anche questo è molto estivo, don’t you think?

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* Per qualche ragione, in quel di Campobasso son più forniti che altrove.

** E, detto fra noi, ci sono modi peggiori per rinfrescare un po’ l’Inglese: lingua del tutto abbordabile, nessuna complicazione eccessivamente letteraria… Magari vi procurerete una collezione di modi idiomatici un po’ vecchia maniera, ma non è grave.

*** Sì, lo so, lo so, lo so…

**** Napoleone lesse le sue memorie quando era già a Sant’Elena – e le apprezzò tanto da lasciare per testamente centomila franchi all’autore. 

 

Alas, Poor Mercutio…

Spoilers Ahead: finali rivelati e cose del genere. Lettore avvertito – con quel che segue.

Mercutio'sDeath.jpgChi è il vostro personaggio preferito in Romeo e Giulietta? Se, come la Clarina, avete un debole per Mercuzio, sappiate che siamo in buona e numerosa compagnia. Il poeta John Dryden scrisse nel 1672: “Shakespeare aveva profuso tutta la sua abilità nel creare il suo Mercuzio, e diceva che, al terzo atto, era questione di ucciderlo o esserne ucciso.” Non abbiamo idea di quanto sia plausibile o spuria l’affermazione riportata, ma stando a Dryden, Mercuzio aveva un tantino preso la mano al suo autore, che lo aveva eliminato per l’equilibrio della tragedia e il bene di Romeo. Siamo sinceri: Romeo sospira, Romeo lamenta, Romeo mormora teneri nonnulla alla ragazzina del suo cuore – e appare generalmente stupido ogni volta che il suo amico è nei paraggi. Mercuzio fa battute ciniche, capisce la politica di Verona, duella verbalmente e alla spada, discetta di linguistica e di fate. E quando le cose si mettono male, Romeo non trova di meglio che mettersi di mezzo, dando a Tebaldo il destro di ferire a morte Mercuzio. Oh certo, la morte di Mercuzio è un punto cardine, segna la promozione di R&G da commedia a tragedia, e scuote Romeo dalla sua estasi amorosa, mostrandogli come funziona il rapporto di causa ed effetto e spingendolo a uccidere Tebaldo. Non si può negare che la faccenda copra una serie di valide ed oggettive funzioni narrative. E però… Bisogna considerare che Mercuzio è largamente una creazione di Shakespeare: nelle fonti è poco più che un nome, e non ha nulla a che fare con Tebaldo, che riesce benissimo a farsi spacciare da solo. Shakespeare lo prende e gli dà una personalità ben definita e attraente – forse persino più attraente di quella del coprotagonista eponimo. Perché Romeo, pur scritto con tutta la finezza, è creato come un Primo Amoroso da commedia italiana, standard fare, mentre Mercuzio, volatile, attaccabrighe, sognatore, irriverente e filatore di parole, è un perfetto poeta elisabettiano. Diciamo, addirittura, il tipo di poeta elisabettiano che Shakespeare avrebbe tanto voluto essere? Salvo poi assassinarlo al terz’atto. Ora, se Dryden ha torto o troppa fantasia, va bene lo stesso: quando Mercuzio muore, tutti siamo abbastanza affascinati da/affezionati a lui per simpatizzare con l’ira funesta e vindice di Romeo. Ma se Dryden ha ragione, allora Shakespeare si è accorto che Mercuzio stava rubando la scena a Romeo e lo ha dovuto eliminare, perché non sta bene che un comprimario sia sempre più brillante, più attraente e più affascinante del protagonista. Se dovessi pronunciarmi, però, azzarderei una combinazione delle due motivazioni: da un lato, è vero che Mercuzio ruba tutte le scene in cui compare, e dall’altro, la morte dell’amico, meglio se cum sensi di colpa, è una motivazione vecchia come le colline* e sempre efficace: perché non prendere due piccioni con una fava?

Gli scrittori sono gente fatta così, d’altra parte. Non si butta mai via l’occasione di far pittorescamente morire qualcuno, e se quel qualcuno poi intralcia il lieto fine o occupa più luce di quella che gli spetta, lo si può considerare storia passata. È il caso del povero Lord Evandale in Old Mortality, di Sir Walter Scott. Old Mortality è una storiellona secentesca** con un giovane protagonista di nome Henry Morton, leader fittizio e riluttante di una sollevazione presbiteriana. Naturalmente Henry è innamorato di una nobile fanciulla di famiglia molto, molto cattolica, e il suo rivale per il cuore della bionda Edith è il cavalier cattolico Lord Evandale. Solo che Lord Evandale non ha trent’anni più di Edith, non è spregevole, cinico o malvagio: è un bravo, leale, coraggioso ragazzo, un buon comandante e un ammirevole avversario, con debolezze molto umane e le migliori intenzioni. Mrs. Oliphant, romanziera e critica letteraria contemporanea di Scott, racconta che le ragazze che leggevano il romanzo tendevano a dividere le loro simpatie tra Morton ed Evandale, e non c’è da sorprendersi. Quando alla fine ritroviamo Edith findanzata a Lord Evandale, è difficile dispiacersi troppo: Scott ha fatto un buon lavoro con lui, lo ha reso quasi più simpatico di Henry. Ma naturalmente non può finire così: nell’ultimo capitolo, Henry rientra dall’esilio appena prima del matrimonio… e se pensate che sarebbe meschino da parte sua interferire nell’imminente imene, never fear, ci pensa Sir Walter! Lord Evandale riesce a farsi sparare da un malvagio capitato apposta per l’occasione, e muore tra le braccia di Edith e Morton, non prima di averli ricongiunti. Si capisce, tutti sono molto, molto addolorati – e tuttavia, come diceva la mia guida russa a Mosca, molto dispiacie, sì, ma insomma, così è la viiiiiita.

Insomma, non si può interferire con il lieto fine e, siccome Lord Evandale non era malvagio, stappargli la sposa per restituirla a Morton sarebbe RupertVSRassendyll.jpgparso brutto. Meglio sparargli, no?

Un caso un po’ diverso è quello di Rupert von Hentzau, l’affascinante malvagio de Il Prigioniero di Zenda, nonché del seguito di cui è addirittura villain eponimo. Ecco, Rupert mi sembra un caso eclatante di personaggio  felicemente sfuggito di mano all’autore. Sono certa che Hope si sia accorto del deragliamento e abbia deciso di lasciar andare il treno per la sua strada: Rupert e la Ruritania sono le due maggiori attrattive della storia, e sarebbe stato suicida potarne una. D’altro canto, stile a parte, Hope non era uno scrittore del tutto convenzionale: aveva creato un genere, e all’interno del suo genere era molto rigoroso. Dopo aver fatto predicare*** i suoi protagonisti di onore e lealtà per due volumi, non aveva la minima intenzione di ricompensare le loro deroghe alle regole. Defunto il vero Re, non sarebbe affatto inglese da parte di Rudolf Rassendyll godersi la corona e la moglie di un altro uomo, e così (mentre i suoi fidi amici mitteleuropei cercano di convincerlo a restare per il bene della Ruritania), il nostro gentiluomo britannico la prende nelle costole. Però non sarebbe stato bello nemmeno che fossero i malvagi a trionfare, e quindi a questo punto Rupert è morto già da un capitolo o due, ucciso più o meno in duello da Rassendyll. Nonostante abbia barato (peccato imperdonabile) Rupert esce di scena in una maniera che oscilla tra il semitragico e l’eroico. Smiling to the end, he never bent his proud head, eccetera eccetera. Persino il Fritz narrante, guardando il giovane cugino di Rupert che singhiozza disperato sul cadavere, si commuove alquanto, e ritiene di doverci informare che, even in death, he [Rupert] was the handsomest fellow in Ruritania.**** Insomma, per ragioni di simmetria e di morale, l’affascinante, bellissimo, allegramente immorale Rupert andava proprio fatto fuori, e non poteva che essere in duello. Ma che peccato, ha l’aria di dirci Hope. E non è un caso che la morte di Rassendyll sia opera postuma di Rupert, tramite leale servitore in cerca di vendetta per la morte del suo adorato padrone.

Morale, ci sono comprimari, antagonisti o malvagi che sfuggono di penna, germogliano a loro piacere e rubano la scena al supposto protagonista. Presto o tardi, se non si vuole che scappino via con tutta la storia, vanno eliminati. Mercuzio muore perché fa ombra a Romeo, Lord Evandale muore per permettere a Morton di sposare Edith, e Rupert muore perché muore Rassendyll – con qualche chagrin dei rispettivi autori, si direbbe. In un certo senso, è un’altra versione di Muore Giovane Chi È Caro Al Suo Creatore. Se fossi un comprimario, un antagonista o un villain, cercherei di non catturare troppo la simpatia di chi mi scrive…

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* Achille e Patroclo, anyone?

** Per i melomani, I Puritani di Bellini è ispirata a questo romanzo, passando però per il dramma francese Tètes Rondes Et Cavaliers, di Ancelot e Saintine. Il dramma non lo conosco, ma nell’opera ho sempre simpatizzato per il povero Riccardo, la cui unica colpa in definitiva è quella di essere un baritono – e il baritono, si sa, deve sempre farsi da parte per il tenore, e considerarsi fortunato se è ancora vivo al calare del sipario.

*** Predicare pittorescamente, never fear.

**** Ssssì, e non è solo Fritz. Si può dire che in due volumi non ci sia personaggio, uomo o donna, che non abbia a thing per Rupert, in qualche grado.

Ei Corregge Ogni Difetto – Ogni Vizio Di Lettura…

Siccome, per qualche motivo che non so divinare del tutto, qui a SEdS metà della comunicazione avviene via mail anziché via commenti, mi giunge questa missiva:

Quando ieri hai citato “Per l’Onore di Roccabruna” mi si è mosso un lobo del cervello: possibile che io questa cosa l’abbia letta in gioventù? Allora ho fatto una ricerca su Google, e quello che ho trovato devo proprio dirtelo…

E quello che B. ha trovato sono I Riassunti di Farfadette, una serie di ebook in pdf pubblicati da Simonelli Editore. La filosofia della faccenda è abbastanza semplice – e ricorda da vicino i vecchi Bignami:

Vi sono dei libri fondamentali che dovreste assolutamente conoscere per evitare di fare brutte figure durante una conversazione sul lavoro, in società oppure a scuola e non avete ancora avuto “il tempo di leggere”?
Ecco il “Pronto Intervento” per tappare velocemente le vostre falle culturali, i Riassunti di Farfadette vi offrono per ogni libro, in poche chiare paginette, tutto quello che dovete sapere.

E il pronto intervento, dovete sapere, è vasto e vario. Ho contato circa centoventi titoli di natura notevolmente disparata – but more on that later. In più c’è una decina di raccolte disponibili anche in ePub:

In un unico libro elettronico i Riassunti di 10 opere che si DEVONO assolutamente conoscere.
Nei Riassunti vengono indicati tutti i particolari importanti della trama, si sottolineano le curiosità, si offrono le citazioni delle parole di inizio come di passi significativi delle opere.
Vengono naturalmente fornite le notizie essenziali sugli autori, indicando l’epoca e dove si svolgono le storie narrate oltre alla data di prima pubblicazione e la lingua originale in cui sono state scritte.

Le raccolte sembrano un’idea ragionevole, qualora vi trovaste a dover colmare parecchie lacune – o qualora voleste provvedervi di maggiori possibilità di conversazione, perché il singolo volume costa due euri e novantanove, ma una raccolta vi offre dieci titoli a… cento scudi? Trenta? Venti? No, nessuno si sgomenti: soltanto otto euri e quarantanove.

Siete affascinati quanto lo sono io? E questo non è ancor nulla. Andiamo avanti e leggiamo l’introduzione di un volume singolo – il Mastro Don Gesualdo offerto in omaggio per verificare la qualità del prodotto:

Questa collana di Riassunti in formato elettronico è come un Pronto Intervento per colmare velocemente, in appena 10 pagine per ogni libro, tante “falle” culturali.
Ma non si tratta di dieci paginette buttate là – come spesso capita di trovare anche online – sono veri Riassunti, ovvero pagine che attraverso una scrittura piana, davvero divulgativa, offrono la possibilità di conoscere tutto quello che è essenziale sapere sul libro o sui libri presi in considerazione. Riassunti scritti da Farfadette, uno pseudonimo dietro il quale si nasconde un personaggio che conosce a menadito i libri di cui scrive e che regala sintesi davvero a prova di docenti e dei spiù smaliziati intellettuali. […]

Right. Veri Riassunti – con la maiuscola. Comprate il mio specfico, per poco io ve lo do. Che poi, mi si potrebbe obiettare, è solo una variante sul Bignami, e a volte non c’è nulla di male nel tagliare qualche angolo quando mancano tre giorni all’esame di Letteratura o alla Maturità e proprio non c’è il tempo materiale per leggere tutto quel che si dovrebbe leggere… Vero anche questo – o forse è lievemente riprovevole, ma è una time-honoured practice, e chi sono io per scandalizzarmi, che ho fatto l’esame di Economia Politica con le formule scritte sui rotolini? 

E non so, sarà il tono generale. Sarà il fatto che Farfadette sia…

…lo pseudonimo dietro il quale si nasconde un autentico divulgatore, specialista nelle letterature di tutto il mondo.*

No less. Sarà il principio che i Riassunti siano in vendita come metodo spiccio per autopromuoversi lettori. Perché il volume singolo ammette l’ipotesi Maturando Nervoso – ma le raccolte a prova dei più smaliziati intellettuali?

E comunque supponiamoci Nemorini. Supponiamo di volerci imbastire una cultura letteraria e di avvicinarci al carro dorato in cerca di Tocca e sana. Quali libri potremo fingere di avere letto?

Ebbene, prepariamoci a delle sorprese, perché accanto ad arnesi tutto sommato plausibili come I Fratelli Karamazov, I Buddenbrook o il Don Chisciotte, accanto a gente come O’Neill, Salinger, Yourcenar, Kafka e d’Annunzio, troveremo estremi come la Mirra alfieriana da un lato (che in effetti potremmo non avere gran voglia di leggere, ma chi ci biasimerebbe per questo – a parte il professore di Letteratura che ce l’ha piazzata in programma?) e Il Piccolo Principe dall’altro (siamo seri: quanto tempo e quanti neuroni possono servire per leggerlo integrale?). E poi troveremo faccende più sconcertanti, come Agatha Christie, Ellery Queen e Rex Stout – e anche Liala, for that matter. Ma davvero potremmo voler leggere un giallo in riassunto? E davvero potremmo voler fare sfoggio in conversazione della nostra conoscenza di Un abisso chiamato amore? Ma d’altra parte, troveremo anche la prima stagione dello Star Trek originale riassunta in sedici (16) tomi – che magari, a ben pensarci, può sembrare un modo di far colpo sulla graziosa compagna di scuola trekkie.** E, a mo’ di ciliegina, troveremo anche il titolo che ci ha condotti qui: Per l’onore di Roccabruna, che a dirla tutta è un brutto romanzino per bambine del 1925, hardly il genere di lettura da vantare in conversazione, direi. Ma noi questo non lo sappiamo, giusto? Se siamo venuti in cerca d’aiuto dal Dottor Dulcamara è perché non abbiamo mai letto granché, né abbiamo molta intenzione di farlo.

E quindi, dopo avere inalato – say – la Raccolta n° 7, che contiene Irving, Kafka e Bassani, Mailer, Ellery Queen, Liala e Per l’onor di Roccabruna, forse non ci renderemo nemmeno conto di essere diventati un bizzarro tipo di lettore.

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* Però poi si scopre che Farfadette è anche “lo pseudonimo di una nota scrittrice che ha scelto di celarsi dietro questo nome da folletto dei boschi. Italianista, è anche esperta di letterature europee.” Blanket name?

** Può sembrare – ma non lo consiglierei. Forse si possono ingannare gli intellettuali più smaliziati, ma un vero trekkie vi coglierà in castagna appena v’imbrogliate tra Qo’noS e Klinzhai…

E Fa Anche Un Ottimo Caffè

È accaduto che in un blog contiguo si venisse, per una combinazione di serendipità e intento, a parlare di Tarzan. Tarzan, Orzowei, Sheena, Rima, Mowgli, Pocahontas e tutta quella gente che, succintamente abbigliata e supremamente abile, si aggira per jungle, savane e foreste più o meno pluviali, sempre up to every and anything, e fornita di una saggezza che definirei preternaturale – se non fosse che invece la si suppone derivata dal diretto contatto con e profonda conoscenza della Natura. Con la N maiuscola.

Ad essere del tutto sinceri, non è il mio tipo di personaggio prediletto: da un lato, la mia fiducia nell’umana natura essendo quel che si sa, non nutro soverchia simpatia per le teorie del Buon Selvaggio e del Nobile Selvaggio eccetera; dall’altro… voi lo sapevate che Tarzan pilota aerei?

Lo sapreste, mi si dice, solo se aveste letto i (numerosi) romanzi originali di Edgar Rice Burroughs, cosa che io non ho mai fatto a parte le prime venti pagine o giù di lì di Tarzan delle Scimmie. E siccome nell’estate in cui ciò accadde avevo dieci anni, non ero ancora cinica e non avevo ancora avuto modo d’inciampare in Rousseau e Chateaubriand, bisogna dire che fosse qualche altra cosa a farmi piantare il libro a men che mezzo.

Perché, vedete, a dieci anni quel che cominciavo lo finivo. Avevo finito con ogni cura Il Libro della Jungla, benché non mi piacesse, ma Tarzan era davvero troppo per me. E a distanza di tanti anni credo che, a rendermelo più indigesto di altri, fosse la somma delle sue abilità. Coraggiosissimo, e agilissimo e intelligentissimo, e astutissimo, e abilissimo con qualsiasi genere di arma gli capiti di trovarsi in mano, e velocissimo… sì, d’accordo, mi par di ricordare che le scimmie lo trattassero come un’anomalia bianchiccia e glabra, ma persino le scimmie più ostili lo erano perché si sentivano un nonnulla oppresse dalla sua collezione di superlativi.

Ecco, anch’io, lettrice decenne, mi sentivo oppressa dalla collezione di superlativi di Tarzan – e ancora non sapevo che pilotava anche gli aerei. 

Ma l’onnicompetenza, mi si dice, fa parte del pacchetto. L’onnicompetenza è irrinunciabile dotazione dell’eroe avventuroso in un tutta una serie di generi e sottogeneri fin dalla notte dei tempi: come può l’eroe cavarsela in ogni genere di rocambolesche avventure, se non sa fare tutto – dal combattimento a mani nude alla lettura dei geroglifici, passando per la medicina spicciola, la risoluzione di enigmi e la tarte tatin?

E qui potrei chiamare in causa la mia scarsa ed erratica frequentazione di molti generi pulp per spiegare la natura della mia esposizione all’onnicompetenza. Perché ammetto che l’onnicompetenza ha la sua buona dose di senso narrativo, l’onnicompetenza è quasi indispensabile per raccontare un certo tipo di storia. L’onnicompetenza ha il suo perché. Capisco che Indiana Jones, per cercare l’Arca Perduta, sopravvivere al Tempio Maledetto e tornare a casa dall’Ultima Crociata deve possedere un repertorio di conoscenze e competenze buono per una decina di persone.

E tuttavia, passiamo in rassegna un po’ di gente onnicompetente attraverso vari generi.

Ricordo con somma irritazione una lettura d’infanzia intitolata Per l’Onore di Roccabruna, la cui protagonista, la dodicenne e aristocraticissima Maria Rosa, non solo era bellabuonaebrava, ma era più saggia dei suoi anni e più intelligente di tutte le sue sorelle maggiori e cugine, danzava con grazia suprema, suonava il pianoforte e cantava cantava come un angelo, cavalcava con audacia sopraffina, disegnava divinamente, recitava bene, aveva un gusto squisito, un coraggio a tutta prova e lunghi boccoli biondi. Si capisce che la piccola Maria Rosa* salvava il bel cugino, la famiglia intera, la magione avita e la patria in un sol colpo – provando al di là di ogni possibile dubbio che l’onnicompetenza non era appannaggio esclusivo degli eroi pulp maschi.

Esiste, molto evidentemente, anche la fanciullina onnicompetente per i fanciulli – come la Péline di In Famiglia, bilingue, autosufficiente, impavida e capace di costruirsi da sé calzature, posate e piccola mobilia…

Alan Breck Stewart, il protagonista de facto di Kidnapped, va tenuto lontano dalle carte da gioco per il suo bene e quello generale, ma a parte questo…

…era bravissimo in ogni genere di musica, ma specialmente nella cornamusa; era un buon poeta nella sua lingua, aveva letto molti libri in inglese e in francese, era un ottimo tiratore, un buon pescatore con la lenza e un eccellente spadaccino sia con la spada corta che con la sua arma particolare.

L’arma particolare è una specie di sciabola, con cui Alan fa miracoli – e naturalmente è coraggioso, risoluto, intelligente, leale, astuto, pieno di risorse – e se non fosse per lui, lo stolido e benpensante David non arriverebbe ad avere una storia da raccontare.

James Crichton of Cluny, l’Ammirabile Critonio, è onnicompetente in due versioni – anzi in tre, se contiamo la lettera di presentazione al Duca di Mantova scritta da Aldo Manuzio il Giovane per l’originale storico. Ma a parte Manuzio, sia il polemista secentesco Thomas Urquhart che il romanziere vittoriano William Ainsworth ci descrivono un giovanotto senza pari: poliglotta, filosofo, poeta, oratore, musicista, matematico, danzatore, duellatore in ogni forma, fine politico, conversatore inarrivabile, e per di più bellissimo e nobile d’animo.

I protagonisti di Edward Marston – che si tratti dell’attore elisabettiano Nicholas Bracewell, dell’architetto secentesco Christopher Redmayne, del settecentesco capitano Rawson o del vittoriano ispettore Colbeck – sono tutti uguali: supremamente abili nella loro professione, coraggiosi oltre ogni dire, intuitivi e tenaci nell’investigare, attissimi al comando e provvisti delle più svariate e utili capacità pratiche acquisite in circostanze straordinarie.

Anna, la Countess Below Stairs di Eva Ibbotson, danza squisitamente, canta, cavalca, suona il pianoforte e, nel momento della necessità, diventa un’incomparabile cameriera, abilissima e zelante in ogni genere di lavoro domestico.

Ilya Kuryakin, il coprotagonista di The Man from UNCLE**, che era una serie televisiva americana Anni Sessanta, non contento di essere un superaddestratissimo agente segreto, parla un’improbabile quantità di lingue, si è addottorato in fisica a Cambridge, suona almeno tre strumenti, è un esperto di esplosivi, pilota qualsiasi cosa voli e, in generale, sa quasi tutto di quasi tutto.

La Pocahontas disneyana salta, corre, porta la canoa, si tuffa, nuota e s’arrampica meglio di chiunque altro, sa come usare l’acido salicilico, impara l’Inglese in cinque minuti, ha una certa quantità di political savviness e parla con gli spiriti.

E potrei continuare a lungo, ma fermiamoci qui e analizziamo lo schema. Tutta questa gente onnicompentente (o quanto meno ipercompetente) ricade in due categorie: Maria Rosa, l’Ammirabile Critonio, la gente di Marston, Pocahontas e Péline vengono trattati dai rispettivi autori in tutta serietà. Sono offerti alla nostra ammirazione con tutta la loro straordinaria competenza. Invece le molteplici perfezioni di Alan Breck, Anna, Ilya Kuryakin e Indiana Jones ci vengono raccontate tongue-in-cheek, bilanciate da una vasta quantità di difetti e/o accompagnate da una strizzatina d’occhio da parte dell’autore: bada, o Lettore/Spettatore, che questa è una storia – e non prendiamoci troppo sul serio.

Potrei ricordarmi male, ma ho tanto idea che l’onnicompetenza di Tarzan sia played straight. E si vede che, quando avevo dieci anni e una capacità di prospettiva storica del tutto acerba, davanti agli onnicompetenti da prendersi sul serio la mia sospensione dell’incredulità franava a valle molto presto. 

Perché si capisce, occorre tener conto della differenza d’epoca, delle convenzioni di genere, del pubblico per cui ciascuno di questi personaggi è stato scritto. Sir Thomas, nella sua veemenza pro-Scozia e nel XVII Secolo, è del tutto convinto di tracciare un ritratto storicamente accurato del suo eroe. E Marguerite Bourcet, che scrive per le bambine negli Anni Venti, è ansiosa di offrire alle sue piccole lettrici dei modelli di perfezione: la bimba che tutte dovete voler essere.

Dopodiché, la maggior parte degli esempi che coniugano l’onnicompetenza con un sense of humour sono più recenti, e verrebbe da pensare che, come categoria di personaggio, l’onnicompetente tout court debba essere passato di moda. Ma in realtà non ne sono poi così sicura, considerando il notevole successo di un Edward Marston, i cui eroi onnicompetenti (e privi di difetti) si vendono come noccioline.

E pensando poi a un Fratello Cadfael, a un Owen Archer o a una Fidelma, bisogna dedurre che, almeno nel giallo storico, l’onnicompetenza è tutt’altro che tramontata.

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* Non vi viene in mente la sua omonima del vetusto carosello del Lievito Bertolini? “Brava, brava, Maria Rosa, ogni cosa sai far tu! Qui la vita è sempre rosa solo quando ci sei tu!” A meno che non siate troppo giovani per ricordarvene… E, a ben pensarci, questa perfezione delle Marie Rose sembra esere un tema costante, perché c’è un altro carosello che non ho mai visto (per questo sono troppo giovane io), ma mi si dice che vi figurasse una Olivella gelosa di una Maria Rosa che sapeva fare tutto: una massaia onnicompetente.

** Incidentalmente, TMfU ha un episodio che parodizza Tarzan e compagnia, con una ragazza di buona famiglia allevata dalle scimmie, la spedizione di ricerca, gl’indigeni affidabili e gl’indigeni inaffidabili, gli animali selvaggi e tutti i props&trappings del caso.

Josephine Tey Alla Riscossa

josephine tey, mondadori, la figlia del tempo, gialliSono o non sono anni che vi dò il tormento a proposito di Josephine Tey?

Perché quando pensiamo al giallo classico inglese tutti abbiamo in mente Agatha Christie, ma c’è anche altra gente – come Ngaio Marsh, come Dorothy L. Sayers e come Josephine Tey.

Josephine Tey in realtà si chiamava Elizabeth Mackintosh, era un’insegnante scozzese – un’insegnante di ginnastica col dono delle storie. Cominciò con il teatro: sotto lo pseudonimo di Gordon Daviot* scrisse numerosi plays di argomento storico e meno storico, in particolare Richard of Bordeaux, che adesso è piuttosto dimenticato, ma all’epoca fu un enorme successo e fece del giovane (e non ancora Sir) John Gielgud una stella delle scene inglesi. josephine tey, john gielgud, richard of bordeaux

E poi al teatro si aggiunsero, sotto il nome di Josephine Tey, una biografia** e i romanzi. Gialli, per lo più, e in particolare le indagini dell’Ispettore Alan Grant. Grant appartiene al genere dell’ufficiale di polizia di buona famiglia: un gentiluomo educato in una public school, dotato di ottime maniere e interessi letterari, amicizie e utili conoscenze in tutto lo spettro sociale – ma non per questo meno tosto. 

josephine tey, mondadori, mike wigginsE naturalmente indaga in quell’Inghilterra che non c’è più – e chissà se ci sia mai stata fino in fondo, ma mi piace pensare di sì – in cui si prende il tè alle cinque, i landruncoli cockney chiamano tutti guv’nor e le celebri attrici portano guanti al gomito e cappelli a tesa larga, un’Inghilterra fatta di paesini di campagna e strade londinesi, teatri shakespeariani e magioni della buona, vecchia e solida gentry. Un’altra celebre giallista, P.D. James, dice che tutto ciò fa dei gialli teyiani quasi dei romanzi storici, con la loro “rievocazione di un’epoca gentile, pacifica e rispettosa delle gerarchie.***” E P.D. James, dopo tutto, quel mondo lo ha conosciuto… quindi forse, almeno in parte è esistito. josephine tey, mondadori, mike wiggins

Ma non divaghiamo. Se torno a parlare di Josephine Tey è perché Mondadori ripubblica alcuni dei suoi romanzi. Li ripubblica negli Oscar – i buoni vecchi Gialli Mondadori, che gialli non sono più, ma fa lo stesso, perché arrivano con delle belle copertine vecchia maniera di Mike Wiggins, illustratore Penguin. Non so dirvi nulla delle traduzioni – opera di gente diversa. Se qualcuno ha commenti da fare in proposito, però, è il benvenuto.

E i libri sono quattro: ci sono tre avventure di Grant – a partire da È caduta una stella (Shillings for candles****, 1933), passando per La strana scomparsa di Leslie (To love and be wise, 1950), fino a La figlia del tempo (The daughter of time, 1951); e poi c’è Il ritorno dell’erede (Brat Farrar, 1949), giallo atipico con un mistero vecchio di otto anni che torna a galla nella maniera più inaspettata. Li trovate tutti qui.

josephine tey, mondadori, mike wigginsE chissà se il vecchio mistero irrisolto di Brat Farrar sia stato una specie di prova generale in vista de La figlia del tempo… Perché ecco, se volete leggere un solo libro de Tey, badate che sia quello. E in realtà, anche se non volete leggere libri di Tey, anche se non v’interessa un bottone della Vecchia Inghilterra, anche se i cozies non sono la vostra tazza di tè – La figlia del tempo vale davvero la pena. Il fatto che nel 1990 la Crime Writers’ Association lo abbia eletto il miglior giallo di sempre può anche non significare molto, ma parliamo piuttosto del fatto che si tratta di libro estremamente singolare, intelligente e ben scritto. Parliamo di come Tey abbia inaugurato il genere del cosiddetto armchair mystery, confinando il povero Grant in ospedale e facendogli dirigere da lì una sorta d’indagine a distanza di secoli sull’omicidio dei Principi nella Torre, i nipoti di Riccardo III. Parliamo di come ciò renda Tey la zia dei gialli storici e la fata madrina di tutti i Riccardiani del vasto mondo anglosassone. Parliamo dell’aguzza analisi della leggenda nera di Riccardo – e di tante reputazioni storiche costruite alla stessa maniera. E se vi pare che tutto ciò suoni noioso, credetemi: non lo è. Già il fatto di dare ritmo a un giallo in cui l’investigatore è a letto con una vertebra fratturata non è impresa da poco. Qualora non bastasse, il giallo diventa una meravigliosa riflessione sulla storia e sulla verità, ed è anche condito di dialoghi scintillanti. Molto vicino alla mia idea di perfezione, grazie.

Semmai vi fosse venuta voglia di leggere La figlia del tempo (e dovreste, se nutrite anche il più pallido interesse per la storia e il modo in cui si costruisce e racconta), qui trovate qualche link: in Italiano e in Inglese, di carta e Kindle…

     

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* Pseudonimo maschile, sì. Si supponeva che il teatro prendesse più sul serio un autore maschio – almeno agli esordi. Singolare come, sotto certi aspetti, gli Anni Trenta fossero ancora Brontë Country, vero?

** Claverhouse, ovvero la vita del pittoresco generale seicentesco John Graham, conosciuto come Bonnie Dundee. Se avete letto Old Mortality di Scott vi sarete imbattuti in lui.

*** Dall’introduzione ai romanzi di Tey pubblicati negli Oscar Mondadori.

**** Nel 1937 uno Hitchcock pre-Hollywood ne trasse (molto liberamente) un film: The girl was young, giunto in Italia come Giovane e innocente.

Pecore Nere Reggenza

Oggi parliamo di epoca Regency, ma dimenticatevi di Jane Austen, delle quadriglie nei salotti e delle buone maniere. Oggi parliamo dei giorni in cui scrivere un romanzo gotico voleva dire stravendere e rovinarsi socialmente in un sol colpo. Oggi parliamo di scandali, vendette e cose truci.

Sapete che, nel secondo Settecento, sull’Isoletta esplode un’epidemia di passione gotica. Se non son rovine medievali, non le vogliamo – e che siano diroccate, coperte d’edera, isolate in mezzo alle brughiere ventose e infestate da fantasmi di assassini e vittime, thank you very much.

Però diventò presto chiaro che di romanzi gotici ce n’erano due tipi: quelli rispettabili e gli altri. 

lady caroline lamb, glenarvon, byron, the monk, matthew gregory lewisDa un lato c’era gente come Walpole – babbo ideale del genere con il suo Castle of Otranto e talmente preso dalle medievalitudini da ristrutturarsi la magione in uno stile pseudogotico di rara bruttezza; o come Mrs. Radcliffe, col suo soprannaturale razionalizzato e con le sue eroine impossibilmente virtuose e belle. Un conte di Oxford e una placida signora borghese – gente  raccomandabile, a parte questo eccentrico penchant per le storiellone ambientate nei manieri: i loro romanzi si leggevano con colpevole piacere, con affettazione di divertita superiorità oppure, nel caso degli animi eccitabili, si divoravano con fanatico ardore.

Diciamo che Mrs. Radcliffe era una specie di Stephenie Meyer in versione Reggenza… Con tanto di parodie al seguito, se considerate Northanger Abbey di Jane Austen – e i guai che l’ossessione udolphiana di Catherine non provoca per miracolo.

lady caroline lamb, glenarvon, byron, the monk, matthew gregory lewisMa nel 1796, ecco salire alla ribalta Mattew Gregory “Monk” Lewis, diplomatico diciannovenne che, per vincere la noia della sua prima posizione di attaché dell’ambasciate inglese all’Aja, scrisse in dieci settimane Ambrosio, or The Monk. Trattasi di un truce romanzone pieno di monaci traviati, agnizioni, stupri, badesse assassine, tanto pregiudizio anticattolico da verniciarci il ponte di Verrazzano in tre mani, streghe travestite da novizi, avvelenamenti, incesti, passaggi segreti, infanticidi, fantasmi veri o presunti, carrozze guaste, diavoli, tortura, la Santa Inquisizione – e di sicuro dimentico qualcosa – il tutto narrato assai sopra le righe, in tanto grafico e morboso dettaglio quanto se ne poteva volere all’epoca – and then some.

Probabilmente tutto ciò non depone granché a favore delle attrattive dell’Aja, ma non è difficile immaginare che cosa accadde in Inghilterra. Sensazione, vendite stellari, scandalo, rapido esaurimento di numerose ristampe…

lady caroline lamb, glenarvon, byron, the monk, matthew gregory lewisIl romanzo era uscito in forma anonima – Lewis aveva avuto tanto buon senso da sospettare che una notorietà letteraria di quel tipo non fosse quel che ci voleva per promuovere una carriera come civil servant, ma dopo il successo gettò ogni cautela al vento e, nel ’97, firmò la seconda e la terza edizione con il suo nome: Matthew Gregory Lewis, M.P. – perché nel frattempo aveva fatto carriera fino alla Camera dei Comuni. E tuttavia aveva fatto male i suoi conti, perché un conto erano le scandalose fantasie di un oscuro romanziere anonimo, ma le cose cambiavano quando le stesse scandalose fantasie si rivelavano partorite da un giovanotto di buona (seppur non del tutto convenzionale) famiglia* e membro del Parlamento. Le vendite, inutile dirlo, aumentarono ancora, ma accuse di immoralità, plagio e selvaggia stravaganza sostituirono le recensioni fino ad allora favorevoli, “Monk” Lewis si ritrovò guardato di storto dalla buona società, Lewis padre rischiò l’infarto e un’azione legale si concluse con un’ingiunzione di cessare e desistere dal ripubblicare ulteriormente il romanzo – a meno di rimuovere tutto ciò che poteva creare scandalo. 

Ops.

E allora il giovane Lewis rientrò nei ranghi con la coda tra le gambe, chiese perdono al babbo e nel ’98 produsse una quarta e castigata edizione di Ambrosio, in cui più che altro, il linguaggio era temperato in una sorta di bowdlerizzazione ante litteram: se il sugo degli eventi rimaneva lo stesso, il protagonista diventava da “stupratore” un “intruso” e un “traditore”, che commetteva non più “eccessi”, ma “debolezze”, motivato da “desiderio” anziché “lussuria”…

Apparentemente bastava: lo scavezzacollo non fu gettato fuori dal Parlamento, tornò nelle grazie della famiglia e della società, continuò a scrivere romanzi e teatro e a tradurre dal Tedesco.lady caroline lamb, glenarvon, byron, the monk, matthew gregory lewis

Andò peggio, una ventina d’anni più tardi, a Lady Caroline Lamb. Lady Caro era una bellezza celebre, ben nata e maritata ancor meglio, colta e brillante – di quel genere di brillantezza che a volte non lascia presagire troppo bene. Per Byron, conoscerla e cominciare a corteggiarla fu tutt’uno, ma lei dapprincipio non ne voleva sapere. Lo trovava mad, bad and dangerous to know. Poi Byron non era tipo da arrendersi, e traboccava di fascino, e forse Caro non diceva del tutto sul serio. Fatto sta che nel 1812, per qualche mese, i due condussero un appassionato affair in quel genere di discrezione secondo cui tutti sapevano, tutti sussurravano e nessuno diceva ad alta voce. La faccenda finì per ennui di Byron – ma stavolta fu Caro a non accettare no come risposta. Raccolta e consolata dal marito* nella quiete dell’Irlanda, la signora cominciò una campagna di ur-stalking. A parte le prevedibili lettere di suppliche, insulti e minacce, a parte i tentativi di introdursi in casa di lui, a parte i messaggi recapitati nei modi più improbabili, Caro rivelò un talento persecutorio fuori dal comune. Essendo perfettamente in grado di falsificare stile e grafia di Byron, riuscì a pubblicare delle poesie sotto suo nome e a farsi mandare da amici comuni un ritratto in miniatura… E se siete tentati di dispiacervi per Byron, potete farne a meno, visto che lui replicò colpo su colpo senza particolari esitazioni. Era il genere di gioco cui si gioca in due, e anche lui sapeva imitare – se non la grafia – lo stile di Caro.

E a volte non ne sentiva nemmeno il bisogno: a un “Remember me!” che lei riuscì in qualche modo a scarabocchiare su un libro che gli apparteneva, il nostro poeta rispose con questa amabile sestina:

Remember thee! Remember thee!

Till Lethe quench life’s burning stream

Remorse and shame shall cling to thee,

And haunt thee like a feverish dream!

Remember thee! Ay, doubt it not.

Thy husband too shall think of thee!

By neither shalt thou be forgot,

Thou false to him, thou fiend to me!**

E intanto i mesi e gli anni passavano, e la faccenda diventava sempre meno privata, e la buona società mormorava, e i due si scambiavano colpi bassi con ossessiva ferocia… finché, nel 1816, Caro pubblicò – e qui arriviamo al punto – un romanzo gotico intitolato Glenarvon.

lady caroline lamb, glenarvon, byron, the monk, matthew gregory lewisOra, dai tempi di “Monk” Lewis erano passati vent’anni, e l’Inquisizione Spagnola non era più di moda. Glenarvon è invece la storia di una nobile fanciulla che non può sposare il cugino che ama, vien data in moglie a un uomo che impara ad amare e poi cade vittima delle seduzioni dell’eponimo Glenarvon, un ribelle irlandese fascinoso&tormentato, nonché seduttore seriale dalle identità multiple – nessuna di esse una brava persona.

Anche qui abbondano infanticidi, intrighi, maledizioni, duelli, tradimenti, agnizioni, crepacuore di varia natura, spettri e maledizioni e Glenarvon, perseguitato dallo spettro vindice di un monaco che gli ripete in continuazione “Hell awaits its victim,” impazzisce, si suicida – e muore in due tempi, perché a una bella scena di terrificante agonia non si dice mai di no.lady caroline lamb, glenarvon, byron, the monk, matthew gregory lewis

Ora, forse tutto ciò non sarebbe stato poi troppo scandaloso, se non fosse stato per due particolari: in primo luogo, Glenarvon era un ritratto particolarmente malevolo di Byron – why, era l’atto di creazione dell’eroe byroniano fuori dall’opera di Byron, cosa che forse l’originale avrebbe anche potuto apprezzare, se non si fosse trattato di una drammatizzazione tanto crudele quanto trasparente di fatti fin troppo reali. Inutile dire che non solo Byron non ci faceva una gran figura, ma nella caratterizzazione, nella trama, nello stile – in tutto – si annusava un certo qual sentore di feroce parodia. E sospetto che l’assalto letterario fosse quel che rodeva di più, perché nel 1816 Byron non aveva più granché in fatto di reputazione da difendere – con tutta la pena che si era dato per distruggersela da sé. Glenarvon però dovette pungere a giudicare dal commento che sopravvive: “E ho letto il Glenarvon di Caro Lamb. Ma dannazione.”***

In secondo luogo, Caro non si era accontentata di sparare metaforicamente su Byron. Intelligente, aguzza e dotata di opinioni robuste, aveva colto l’occasione per fare a pezzetti molto piccoli l’alta società, la monarchia, il Reggente, un paio di governi, la repressione delle rivolte irlandesi… Donna imprudente.

È difficile per noi capire non solo la furia dell’alta società, ma la sua esitazione nel decidere quale tra i due peccati di Caro fosse il peggiore: l’imperdonabile cattivo gusto di un’adultera che scrive un romanzo kiss-and-tell**** o la sfacciataggine abissale di una nobildonna che si fa taglientissime beffe del suo ambiente. Ma in fondo, poco importava: erano entrambi peccati capitali, e Caro fu socialmente condannata. Cominciarono con l’escluderla dall’esclusivissimo circolo Almack – e bisogna avere letto Austen e Heyer per capire la gravità del gesto. Dopodiché fu la rovina. Ostracizzata e ridicolizzata, Caro si ritirò in campagna. Mai troppo stabile di suo, finì i suoi giorni tra alcol, laudano e attacchi di follia. Il solo a non abbandonarla fu il pur divorziato marito.

A differenza di “Monk” Lewis, Caro non aveva avuto il modo o la volontà di rientrare nei ranghi. E di certo l’aveva combinata più grossa. E poi era una donna – e senza voler salire sulle scatole di detersivo, Jane Austen aveva ragione nel dire che una donna pagava i suoi errori a un prezzo molto più alto di quello che si esigeva da un uomo.

E ad ogni modo, è chiaro che, a meno di prendere precauzioni di rispettabilità collaterale, un romanzo gotico rischiava di essere un serio gradino nella discesa verso la perdizione.

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* Babbo proprietario terriero nelle Indie Occidentali e civil servant di alto rango, mamma dama di compagnia della Principessa del Galles, adultera fuggita di casa col bel giardiniere e scrittrice a sua volta. Scommetto che nei ranghi del ton, scoprendo la paternità di The Monk, si commentò che certo, con una madre del genere, il ragazzo non poteva venir su bene… lady caroline lamb, glenarvon, byron, the monk, matthew gregory lewis

** Posso solo immaginare che qualcuno abbia già tratto un romanzo da questa storia, perché è così perfetta… So che c’è un film, con Vera Miles nel ruolo di Caro e Richard Chamberlain che interpreta un Byron davvero detestabile. Se ben ricordo, c’è anche Laurence Olivier, da qualche parte.

*** In originale rende di più: I’ve read Caro Lamb’s Glenarvon too. God damn.

**** Byron fu più grafico nel descrivere l’impresa come un caso di fuck-and-publish… Mi sa che non l’avesse presa tanto bene.

 

 

 

Piccoli Editori A Mantova

piccoli editori a mantova, centro baratta, mantova, editing safariSabato 26 e domenica 27 La Biblioteca e Mediateca “G. Baratta” ripropone Piccoli Editori a Mantova, la mostra della piccola editoria. Ci si occupa, come vedete dalla locandina qui accanto, di graphic novel, editoria locale, narrativa, saggistica, poesia, libri per bambini e ragazzi, libri d’artista e molto altro…

È l’occasione di vedere e toccare con mano l’opera tante piccole realtà che, anche in questi tempi complicati, lavorano con coraggio, pazienza e amore per pubblicare questi arnesi irrinunciabili – in qualsiasi forma o formato li si voglia – i libri.

E se tutto questo non bastasse, ci sono la mostra di acquerelli curata da Mario Artoni, un trekking urbano, uno spazio per i gruppi di lettura, eventi per bambini, dibattiti, conversazioni…

Domenica 27 ci sono anch’io, alle 17.00, per chiacchierare un po’ di editing – questa faccenda semi-esoterica. piccoli editori, mantova, centro baratta, mostra della piccola editoria, editing safari

Il programma lo trovate sul sito del Centro Baratta, ma potete anche scaricarlo in formato PDF, completo di elenco dei partecipanti e informazioni pratiche per raggiungere il luogo – in versione cartolina.pdf oppure depliant.pdf.

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